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VITICOLTURA TEORICO-PRATICA.
Prof. OTTAVIO OTTAVI
VITICOLTURA
TEORICO-PRATICA
CASALE
TIPOGRAFIA DI CARLO CASSONE
1885
Proprietà letteraria.
A
GIUSEPPE ANTONIO OTTAVI
MIO PADRE
MIO MAESTRO
CON AFFETTO E RICONOSCENZA.
PREFAZIONE
Columella1 nel primo secolo dell'era volgare scriveva: « Credi, o
Sii vino, a me che n'ho fatto prova: non fu mai vigna ben piantata,
di buona razza, sotto buon coltivatore, la quale non abbia dato il
contraccambio con grande usura ».
Ma oggidì le vigne ben coltivate da intelligente viticultore, ricom-
pensano esse ad usura chi vi confida i proprii capitali?
Non sono pochi coloro che si muovono una consimile domanda,
dopoché la preziosa Ampelidea venne colpita dai tanti e gravi ma-
lori, i quali da varii anni la travagliano, o devastandone i frutti
o minandone a dirittura la esistenza.
Eppure noi pensiamo che le parole di Columella nulla abbiano per-
duto del loro valore, benché da esse ci separino le centinaia d'anni.
Allora come oggi niuna pianta vi ha che ricompensi così largamente
il coltivatore delle sue fatiche e de' suoi sagrificii; niuna pianta poi
può alimentare tante industrie quante la Vite ne alimenta, né altra
si conosce più rusticana, più arrendevole, più benefica! Per tutti i
paesi dell' Europa Meridionale la Vite è la fonte precipua della ric-
chezza creata dalla terra che si coltiva: il Gelso, l'Olivo, l'Arancio
le fanno corona; essa però vi predomina di gran lunga, e la sua
benefica influenza si riflette sulla società civile, addensando la po-
polazione, suddividendo la ricchezza e provocando il benessere morale
e materiale delle popolazioni rurali. È tale la potenza colonizzatrice
della Vite, che ha potuto trasformare umili villaggi in popolose città;
la rinomata Bordeaux ce ne porge un esempio luminoso.
1 Libro IV, capo 3°.
Ma la Vite è oggi messa a dura prova; il rostro di vorace in-
setto ne tortura il sistema radicale, mentre altri nemici non meno
funesti ne estenuano il sistema aereo, vegetando a spese delle parti
verdi e dei frutti. L'America ci ha fatto un ben triste regalo, colla
fillossera e la peronospora!
Non per questo il viticultore deve scoraggiarsi, ma armato di
buoni studii e di molta tenacità di propositi conviene che lotti contro
questi fieri nemici. Oggidì il viticultore prettamente empirico non
può più essere; le nuove condizioni della Viticoltura lo esigono istrutto
e consapevole del perchè di quanto egli fa o dovrebbe fare: solo a
questi patti potrà lottare con successo.
Scopo di questo libro quello è appunto di coadiuvare il viticultore, il
quale ami esercitare V arte sua meno empiricamente che pel passato
ed agguerrirsi per far argine ai nemici del prezioso arbusto: e perchè
il libro è diretto ai viticoltori, esso è scritto nel modo il più piano
possibile, onde è forse accessibile a tutte le intelligenze. In esso
sono riassunti molti studii dei viticoltori d'ogni paese; gli antichi
scrittori di georgica hanno essi pure recato il loro contributo di
osservazioni; ma perchè la scienza era allora solo ai suoi inizii,
nulla di utile avremmo potuto dire senza il contributo degli studiosi
dell' oggi. La Viticoltura ha d' uopo di molte cognizioni ausiliarie, e
però al rispetto per gli antichi, va unito lo studio dei moderni.
Saremo ben avventurati se, con questo libro, avremo potuto re-
care qualche giovamento in modo speciale alla Viticoltura italiana,
che è tanta parte dell'Agricoltura patria e della nostra floridezza
economica: noi lo confidiamo, come confidiamo nella energia e nella
costanza dei nostri concittadini, acciò non si dica che « è colpa
nostra non naturai cosa » la decadenza della Viticultura nel bel
paese, che oltre a svariate formazioni geologiche, ha il privilegio della
postura, del clima, del vitigno, pure svariatissimi, ond' è atto ad
ogni maniera di produzioni.
Pel bene di tutti facciamo voti acciò fiorisca sempre più la Viti-
coltura italiana: per noi la Vite è la- vita.
Casale nel Monferrato 1 Giugno del 1885.
Ottavio Ottavi.
INTRODUZIONE
Importanza della Viticoltura
nella economia civile.
I. La vite. — II. Il reddito brutto della viticoltura italiana. — III. La viticoltura ita-
liana e la popolazione rurale. — IV. La viticoltura italiana, la popolazione e
Temigrazione. — V. La viticoltura, la mercede degli operai e la divisione della
proprietà. — VI. La mezzadria e la viticoltura. — VII. La viticoltura italiana
ed i tributi — Vili. La vite e le altre piante coltivate. — IX. Altri prodotti delle
viti. — X. La vite e la salute pubblica. — XI. La viticoltura e la produzione
del suolo. — Conclusione.
I. La vite può giustamente considerarsi come uno fra i princi-
pali fattori del benessere pubblico, inquantochè la sua coltivazione
prima, e poscia le molteplici ed importanti industrie a cui danno
luogo i suoi prodotti, sono fonte di guadagno per grande numero
di operai dei campi e delle città, per la proprietà rurale, per gli
industriali ed infine per lo Stato, che alla vite chiede numerosi
e gravi tributi direttamente ed indirettamente. Il principale prodotto
della vite, che è il vino, arreca dal canto suo grandi vantaggi
all' uomo, essendo la più igienica fra le bevande alcooliche, ed alla
società civile, sostituendosi ai liquori e frenando l'alcoolismo, che è
causa di tante infermità e di tanti delitti.
La coltura della vite esercita eziandio una potente e benefica
azione colonizzatrice ; per essa la popolazione aumenta, l'emigrazione
0. Ottavi, lattato di Viticoltura. 2
INTRODUZIONE
diminuisce, e ben a ragione scrisse Montesquieu (1) che « les pays
« de pàturages sont peu peuplós, parce que peu de gens y trouvent
« de l'occupation; les terre à blé occupent plus d'hommes, et les vi-
« gnobles infiniment davantage ». Infine la viticoltura permette la
divisione della proprietà, e la proprietà è uno fra i principali ele-
menti d'ordine, di rispetto alle leggi e di operosità.
Fortunati adunque quei paesi ove può coltivarsi la vite, e fortu-
nata sovratutto V Italia, che è la terra vitifera per eccellenza !
Ma studiamo con maggiori dettagli la viticoltura ne* suoi rapporti
colla economia pubblica; ne trarremo conseguenze importanti non
solo per chi si dedica alla coltivazione della vite, ma eziandio per
legislatori e per tutti coloro che si occupano di scienze sociali.
II. Il reddito brutto della viticoltura italiana. — Secondo
i dati che raccogliamo dalle statistiche governative il reddito lordo
della nostra agricoltura si può così valutare:
Prati e pascoli
Terre arabili
Viti . . .
Olivi . . .
Orti e frutteti
L. 700.000.000
» 2.500.000.000
» 800.000.000
» 400.000.000
» 400.000.000
Totale L. 4.800.000.000
Non si erra adunque computando a 4 miliardi e mezzo il nostro
reddito lordo agricolo (2) ; or bene, la viticoltura contribuendovi per
800 milioni (3) dà al paese circa un quinto di questo suo reddito agri-
colo mentre, d'altra parte, non occupa neppure la dodicesima parte
della superficie coltivabile dell'Italia. Infatti ponendo 25.000.000 di
ettari coltivabili (quelli coltivati sommano ora a 19.000.000) e la
vite occupandone soli 1.870.109 ve ne sarebbe solo Vis piantato a viti.
(1) Esprit des lois, tom. XXIII, eh. XIV.
(2) Altri crede che il nostro reddito rurale lordo ascenda soltanto a 3 miliardi
annui; ma in quei calcoli notansi varie ommissioni (latticinii, lana, carne, or-
taggi ed altri prodotti minori come ricino, robbia; ecc.).
(3) Calcoliamo 27 milioni di ettolitri di vino annui, a lire 30 caduno. Abbiamo
desunto questi dati facendo una media dei prodotti e dei prezzi del vino dal 1875
al 1883.
VITICOLTURA
In Francia vedesi in modo anche più manifesto quanta parte abbia la
viticultura nel reddito fondiario: questo raggiunge in totale la media
annua di 6.780.000.000 all' incirca; ma la sola viticoltura ne dà
1.200.000.000, anzi, secondo Guyot, 1.628.000.000, cioè circa V5 del
suddetto reddito agricolo, mentre poi la vite non occupa che la 22 ma
parte del territorio francese.
Proteggere la viticoltura, vuol dire adunque proteggere uno fra
primi cespiti della pubblica ricchezza.
III. La viticoltura italiana e la popolazione rurale. —
Prendiamo a considerare la popolazione rurale, perchè è il braccio
forte d'Italia, quella cioè che lavora il suolo, procacciandoci i generi
alimentari di prima necessità, e popola i campi di battaglia, difen-
dendoci dai nostri nemici; a quest'ultimo proposito diremo che da
varii rapporti del tenente generale Torre al Ministro della guerra,
abbiamo potuto desumere come tra proprietarii agricoltori, agricoltori
propriamente detti, bovari, pastori, ecc., si ha circa il 65 % delle
reclute d'ogni leva. Le popolazioni rurali, compresi i proprietarii del
suolo, danno adunque all'esercito abbondantemente la metà de' suoi
uomini. Secondo il censimento del 1871 (v. voi. III) questa popo-
lazione rurale (possidenti non coltivatori, e lavoratori rurali d' ogni
specie, esclusi i vecchi, i bambini e gli impotenti, ecc.) è forte di
8,500,000 teste. Ma i contadini costituiscono per la maggior parte
questo numero; ora un contadino in Italia, da quanto possiamo de-
sumere dalle statistiche governative, spende ogni anno circa 365
lire, tra vitto, alloggio, vestiario ed altre minute spese: la viticol-
tura italiana dando un reddito brutto annuo di 800.000.000 di lire,
vuol dire che provvede di che vivere a quasi 2.200.000 contadini.
Possiamo perciò ritenere dietro questi calcoli, i quali sono realmente
spassionati, che circa l/4 della popolazione rurale italiana (compresi
i proprietarii) trova di che vivere col solo reddito della viticoltura
paesana.
Se facciamo poi il calcolo computando i 28,459,451 (1) abitanti del
Regno, troviamo che la viticoltura da sola può sostentarne circa yi5.
In Francia la vite alimenta quasi 1/G della popolazione totale. Nessuna
altra pianta coltivata può vantare altrettanti beneficii all'umanità!
(1) Movimento dello Stato Civile nel 1881
INTRODUZIONE
IV. La viticoltura italiana, la popolazione e l'emigrazione.
— Abbiamo già chiamato la vite una potenza eminentemente colo-
nizzatrice; infatti le statistiche ci dicono che colà dove aumenta ra-
pidamente la produzione del vino, aumenta pure rapidamente la po-
polazione; ed oggi poi le tristi condizioni della Francia fìllosserata
ci forniscono una eloquente prova inversa, vale a dire ci provano
che nei paesi viticoli quando la viticoltura decade, scema anche la
popolazione.
In Italia, facendo un parallelo fra il censimento del 1878 e quello
del 1881, e tenendo calcolo dell' aumento della superficie vitata, si
trova che la popolazione è cresciuta in proporzione sensibilmente
maggiore nelle provincie ove si è maggiormente estesa la coltura
della vite. Ma le statistiche francesi sono le più convincenti: eccole (1)
Diminuzione della popolazione nei principali Dipartimenti fillosserati
DI FRANCIA.
Dipartimento
N GO
t |
,2 oo
o a
CU
1
N
a
e
Osservazioni
Dróme . . .
321,756
313,753
7,993
Ha perduto oltre a 30,000 ett. di viti
Gard ....
423,804
415,629
8,175
» » 120,000 »
Hérault . . .
445,053
441,527
3,527
» » 110,000 »
Varo ....
295,763
288,577
7,186
» » 60,000 »
Valchiusa . .
255,703
244,149
11,554
» » 50,000 »
La regione meridionale mediterranea
di Francia, compresa la vallata del
Rodano, ha già perduto oltre 500
mila ettari di vigna.
Sono dunque 38.400 abitanti di meno in soli cinque dipartimenti,
i quali hanno perduto 370 mila ettari vitati, e ciò nel breve tratto
(1) V. Le viti americane e la fillossera (Dr, D. Gavazza) gennaio 1883.
VITICOLTURA
di cinque anni. È una statistica sconfortante, ma che conferma pie-
namente la nostra tesi.
Riguardo alla emigrazione nei suoi rapporti colla viticoltura, pre-
metteremo che (1) in media gli agricoltori rappresentano il 59 per
cento della emigrazione propria (o a tempo indefinito) ed il 38 per
cento della emigrazione temporanea; avuto però riguardo alle professioni
degli emigranti italiani, i contadini rappresentano il per-cento mag-
giore anche nella temporanea. Li spinge ad abbandonare la patria
quasi sempre la squallida miseria in cui vivono, benché qualche volta
siano mossi dal desiderio di arricchire in breve tempo: in quest'ul-
timo caso non è a lamentarsi la emigrazione e solo è indispensabile
che il Governo la diriga e la guidi verso quei paesi ove l'emigrante
può utilmente lavorare; ma nel primo caso non si può che deplo-
rare altamente che vi siano in Italia provincie in cui il contadino si
trova in condizioni tanto compassionevoli da lasciare la patria dietro
il semplice invito di agenti interessati, che ne fanno una indegna
tratta.
Or bene, la emigrazione in genere è assai minore nelle provincie
vitifere; si può desumerlo dal seguente specchio comparativo (v. pag. 6)
da noi compilato sulle pubblicazioni del Ministero d'Agricoltura, Indu-
stria e Commercio (2); in esso abbiamo segnato anche il prodotto medio
per ettare dei vigneti, per dare un'idea della importanza della viti-
coltura nelle provinole indicate nel qua Irò stesso.
Lo contraddizioni che taluno potrebbe rilevare in questo specchio
non sono che apparenti: per esempio la provincia di Lucca, quan-
tunque abbia il 12 °/0 di terreni vitati, conta 2102 emigranti ogni
100 mila abitanti; ma conviene far notare che tale emigrazione è
per oltre i 2/3 temporanea, in Corsica, a Marsiglia, in Algeria ecc.
ove molti contadini si recano in inverno a far lavori preparatorii del
terreno per rimpatriare a primavera; e cosi nel 1881 di 6061 emi-
granti, ne ritornarono 4306. — Udine poi, mentre ha sei volte più di
viti di Belluno, conta un numero quasi uguale di emigranti; questi
però non abbandonano realmente la patria, ma partono in primavera
e ritornano in autunno; per esempio nel 1881 su 19951 emigranti,
(1) Statistica della Emigrazione Italiana nel 1881 ed anni 'precedenti. (Mini-
stero d'Agricoltura - Direzione della Statistica Generale) — Roma, 1882 — È
questo un volume ricco di notizie dettagliate ed importanti.
(2) V. Statistica citata; e Condizioni dell'Agricoltura in Italia, voi. I.
6
INTRODUZIONE
soli 468 abbandonarono il paese, mentre circa 19483 ritornarono.
Di ciò convien tenere calcolo nell' esaminare il seguente quadro :
PROVINCIE
Belluno .
Udine . .
Cuneo . .
Lucca . .
Massa . .
Como . .
Torino .
Salerno .
Bergamo .
Potenza .
Cosenza .
Parma
Genova .
Campobasso
Alessandria
Novara .
Brescia .
Verona .
Vicenza .
Treviso .
Bologna .
Forlì . .
Macerata .
Siena . .
Firenze .
Roma . .
Teramo .
Bari . .
Aquila
Lecce . .
Avellino .
Napoli
Caserta .
Reggio
Palermo
Trapani
Catania
Siracusa
Messina
Caltanissetta
Girgenti .
Cagliari .
Sassari
Calabi
Ettari
Prodotto
vitati
medio
per ogni 100
p. ettare
di superficie
Vino
ettolitri
1,19
13
6,42
11
3,15
22
12,13
14
4,11
18
3,48
13
3,05
24
3,87
18
4,63
17
4,36
13
5,16
14
9,15
12
7.57
13
5,52
12
7,39
25
3,88
20
6,21
15
11,42
15
20.09
10
20.41
8
5,50
11
8,14
13
10,03
14
10,20
13
13,16
12
3,69
19
21,43
11
9,06
14
6,05
14
2,53
14
5.40
17
16,31
19
4,91
13 1T2
6,27
17
10,61
19
12,21
21
7,28
19 1T2
7,50
20
3,45
20
7,04
201t3
3,08
21
0,91
181x3
1,10
19
Emigrazione propria e temporanea
per ogni 100,000 abitanti 0)
nel 1881
4258
3987
2265
2102
1507
1456
1316
1081
1058
941
882
874
663
618
256
712
383
124
774
291
3
12
62
1
2
57
52
154
256
165
11
75
85
(quasi tutti temporaneamente)
(2[3 temporaneamente)
(4{5 temporaneamente)
(Em. quasi nulla nei Circond. vitif.)
(2[3 temporaneamente)
(1) Questi numeri rappresentano la somma dei dati della emigrazione per gli Stati Europei con
quelli che si riferiscono alla emigrazione fuori d'Europa.
VITICOLTURA
La provincia di Lecce, benché non conti che ettari 2,50 °/0 a viti,
pure non ha che una decina di emigranti all' anno : ma bisogna ri-
flettere che è questa una fra le più vaste provincie d' Italia (1) con
una popolazione relativamente piccola; cioè 493 mila abitanti su
8500 chilometri quadrati di superficie, mentre per esempio Torino ne
conta quasi 1 milione su 10,500 chilometri quadrati, ed Alessandria
(provincia molto viticola) 700 mila abitanti circa, su soli 5 mila chilo-
metri quadrati. Questo si applica anche meglio alla provincia di Ca-
gliari che è la più vasta d'Italia (13,600 chilometri quadrati) ed ha
soli 393 mila abitanti, come pure a Sassari e ad altre provincie in-
dicate nello specchio.
La viticoltura adunque è un freno alla emigrazione propria; ciò
appare anche più evidente facendo un parallelo non già per provincie
ma per circondarii: ci limiteremo ad un solo esempio per amor di
brevità.
La provincia di Alessandria è composta di circondari più o meno
viticoli; in alcuni anzi, come Casalmonferrato, la viticoltura vi è assai
intensa: or bene la emigrazione è in ragione inversa della intensità
con cui si coltiva la vite; per esempio nel 1881 si ebbero i seguenti
dati:
Circondarli
Emigrazione
propria
Emigrazione tempor.
Casalmonferrato
25
—
Asti
40
300
Acqui
44
209
Alessandria
128
134
Novi Ligure
279
88
Tortona
529
55
Il circondario di Tortona, che è il meno viticolo, è anche quello
che dà il maggior contingente alla emigrazione propria.
V. La viticoltura, la mercede degli operai e la divisione
della proprietà. — Dove si coltiva la vite intensamente, gli operai
sono bene pagati. Per esempio in Monferrato non è raro che la mercede
(1) Dopo Cagliari, Sassari, Potenza e Torino viene Lecce.
INTRODUZIONE
giornaliera d'un oprante, anche se mediocre potatore e viticoltore, tocchi
le L. 3,50 al giorno, e pur durante un tempo non breve: — dai dati
che desumiamo dalla nostra Contabilità rurale d'un podere viticolo
risulterebbe che un bravo lavoratore può guadagnare 400 lire al-
l'anno con una spesa, pure annua, di L. 350. Noi non diciamo che
questo guadagno degli operai dei campi (sian fìssi o cosidetti gior-
nalieri) sia una grande cosa, massimamente poi se si tratta di con-
tadini ammogliati, le cui mogli non guadagnano più di 100 lire al-
l'anno se hanno figli, e 200 in caso diverso; anzi facciamo voti per-
chè crescendo la produzione per ogni ettare e crescendo la ricerca
del vino, anche i contadini possano vivere meno a disagio. Ma di-
ciamo che, dove non v'ha la vite, le condizioni loro sono assai peg-
giori; ne segue quindi la emigrazione suddetta, che è una delle pia-
ghe della nostra agricoltura. Infatti nel milanese, secondo le suddette
statistiche governative, i braccianti o giornalieri hanno un salario
annuo di appena 300 lire; non è pure di molto maggiore in
altre zone ove non havvi la vite e predomina la grande col-
tura.
La vite richiede molti, diligenti e continui lavori, quindi è impos-
sibile che in una regione viticola manchi il lavoro agli operai delle cam-
pagne. Ma non è tutto qui. Dove v'ha la vite, la proprietà può suddi-
vidersi; e per verità i latifondi, nei paesi vitiferi, scompajono grado
grado e la proprietà rurale si fraziona. Or è bello il vedere l'umile
contadino (ed in Monferrato ve ne sono parecchi esempi) comperare
il suo mezzo ettare o il suo ettare di terreno vitato e coltivarlo da
sé stesso, quasi diremmo nelle ore d'ozio, cioè non trascurando di
collocarsi a giornata nei poderi maggiori. Alcuni di questi modestis-
simi poderetti sono coltivati in modo esemplare, e producono sicura-
mente da 60 a 80 (talvolta anche più di 100) ettolitri di vino ad
ettare, che corrispondono ad un cospicuo reddito netto annuo. Da
varii anni noi acquistiamo le uve di alcuni di questi contadini, e con-
statiamo quante cure essi prodighino al loro vigneto e quanto be-
neficio ne ritraggano. Quale altra coltura potrebbe permettere altret-
tanto? La vigna è quindi realmente una pianta colonizzatrice; e per
essa la gravissima questione sociale si avvicina ad una reale solu-
zione pratica.
VI. La mezzadria e la viticoltura. — Die Socìalfrage ìst
eine Magenfrage, ha detto un socialista tedesco e cioè: « La qui-
VITICOLTURA 9
stione sociale è una quistione di stomaco. » In gran parte ciò è
vero: ma la viticoltura attutisce questa quistione di stomaco,
perchè dà al lavoratore tanto quanto gli occorre per vivere e per
vestirsi, nonché per fare qualche piccolo risparmio annuo. La questione
poi sarebbe ancor meglio risolta quando si associasse la mano d'opera
alla proprietà, perchè così non si direbbe più che quest'ultima è un
furto !
La terra vitata non rende quasi nulla se le manca una intelligente
mano d'opera; questa vale quella. Ma generalmente in Italia il pro-
prietario viticoltore vive lontano dal suo vigneto, e si affida piena-
mente al contadino; questi, essendo pagato con salario fisso, non si
cura molto del vigneto stesso, e si accontenta del suo meschino stato,
mentre al proprietario toccano esigui frutti. Invece con una ben or-
dinata mezzadria, la vigna darebbe certamente maggiori benefizii netti
ed al proprietario ed al contadino; quest'ultimo, sapendo che la sua
parte può anche raddoppiarsi se lavora bene il vigneto, vi si appli-
cherebbe con ogni cura e certamente vi riescirebbe. Esempii di que-
sta mezzadria, a metà prodotto, e per non più di due o tre ettari
vitati, ve n'hanno nella Svizzera (nel cantone di Vaud) ed in Francia
(Rhóne, Màconnais, Allier e Jura) ed anche in Italia. Ma il mezza dro
può essere un pessimo viticultore, ed allora è indispensabile che il
proprietario adoperi con fermezza e ordini diversamente la sua a-
zienda. Noi non vogliamo qui entrare nei dettagli, perchè dedi-
cheremo a questo importante soggetto un apposito capitolo: per-
ciò ci limitiamo a raccomandare la mezzadria dove la vite è ben
coltivata (o dove si può farla coltivar bene da un intelligente mez-
zadro), nonché nei paesi dove le condizioni climatologiche non abbiano
di tanto in tanto a distruggere quasi del tutto il prodotto delle viti,
che allora quel sistema di cultura sarebbe impossibile.
La vite adunque permette, meglio d'ogni altra coltivazione, che il
capitale s'associi alla mano d'opera, con reciproco vantaggio e con
vantaggio altresì della società civile.
VII. La viticoltura italiana ed i tributi. — Se ci poniamo
ad esaminare i tributi annui che l'agricoltura paga allo Stato, alle Pro-
vincie ed ai Comuni ci persuadiamo facilmente che essi raggiungono
ad un dipresso il miliardo. Limitandoci ai soli tributi generali, esclu-
dendo cioè quelli locali, noi sappiamo che in totale essi sommano a
lire 1,500,000,000 comprendendovi tutti quanti i titoli d'entrata del
10 INTRODUZIONE
nostro bilancio annuale; or bene di questa enorme somma una metà
(vale a dire 700,000,000 circa) è pagata dall'agricoltura (1). E la
viticoltura, che pure non occupa nemmeno la 12ma parte delle no-
stre terre coltivabili, col suo prodotto lordo di 800,000,000 annui,
contribuisce in grande parte a pagare quell'enorme tributo; col suo
reddito lordo poi lo pagherebbe comodamente, mentre lo paghereb-
bero meno facilmente, per esempio, i prati ed i pascoli, che pur oc-
cupano una maggior superficie di territorio, e non lo pagherebbe poi
nessun'altra cultura a parità di superficie.
Se esaminiamo i quadri delle imposte e delle sovrimposte nelle do-
dici circoscrizioni in cui è divisa l'Italia, troviamo che le provincie
vitifere sono le più gravate. La più colpita ad esempio è la pro-
vincia di Napoli, la quale tra imposte erariali provinciali e comu-
nali, paga L. 47,28 ad ettare: nel Circondario di Casalmonferrato si
pagano non di rado L. 42 all'ettare (2) benché, per difetto di pere-
quazione, vi siano terre vitate, già boschi o campi, che pagano assai
meno. Ne qui sta il tutto: oltre a questi tributi la viticultura deve
spesso sopportare gravi dazii comunali; nel 1882 il Comune di Ca-
salmonferrato votava un dazio consumo sull'uva corrispondente per
parecchi, che non possedevano cantine fuori della cinta daziaria, ad
una imposta di L. 50 per ettare.
Volendo enumerare le tasse che colpiscono la viticultura ed i suoi
prodotti, diremo che, oltre la fondiaria, vi ha la ricchezza mobile,
se la vite è affittata a danaro, vi ha la tassa sulle industrie dell'al-
cool e dell'aceto, vi sono i dazii di consumo, e vi sono le sovrim-
poste; la vite è quindi realmente quella fra le piante coltivate che
offre direttamente ed indirettamente maggiori cespiti d' entrata allo
Stato, alle Provincie e ai Comuni.
Vili. La vite e le altre piante coltivate. — Se paragoniamo il
reddito netto della vite a quello delle altre piante coltivate dell'agricol-
tura italiana, ci persuadiamo di leggieri che nessuna fra queste può ugua-
(1) La possessione rurale in Italia paga all'erario il 30 0\q del suo reddito netto
(effettivo e non censuario), mentre chi paga la sola ricchezza mobile, dà all'erario
soltanto il 13,20 0\q del suo reddito: è questa una grave ingiustizia. In Francia la
proprietà rurale paga solo il 9 0\q, in Germania il 10 Oft) ed in Inghilterra solo
il 2 1T2 OR).
(2) Chi scrive si trova appunto in questo caso.
VITICOLTURA 1 1
gliarlo. Infatti supponendo un mediocre prodotto di 40 ettolitri di
vino ad ettare vitato, venduti al prezzo medio italiano di L. 30, si
avrebbe un beneficio lordo di L. 1200: in generale poi, da quanto
abbiamo potuto dedurre da molti dati presi nelle principali regioni
vitifere del Regno, la spesa di produzione d' un ettolitro di vino è
di L. 15 tutto compreso; l'utile netto sarebbe dunque di L. 600 per
ettare vitato e per anno, cioè l'interesse del 5 0/q d'un capitale di
12,000 lire. Nel Monferrato non sono rare infatti le vendite di ter-
reni vitati a 12,000 e 15,000 lire Tettare. Ma noi abbiamo supposto
un prodotto brutto di soli 40 ettolitri ad ettare: invece abbiamo varii
esempii, dappertutto in Italia, di produzioni che hanno toccato i 100
ettolitri (e possiamo attestare che questo elevato prodotto non va
per nulla a scapito della qualità del vino); or bene in tal caso, anche
vendendo l'ettolitro di vino a sole 25 lire, il prodotto brutto sa-
rebbe di L. 2500, ed il netto di L. 1000 almeno ad ettare, pur sup-
ponendo un aumento nelle spese di concimazione e di coltura. La vite
adunque, fra le nostre piante coltivate, è quella che dà il maggior
reddito netto a parità di superficie : è perciò quella che fa più presto
agiato il coltivatore, come dice benissimo il vecchio adagio, cioè:
« chi vuol arricchire deve avvitire. »
IX. Altri prodotti delle viti. — Ma che dire poi se si consi-
derano gli altri prodotti delle viti ? Calcoliamoli brevemente sulla base
ad esempio di 25,000,000 d'ettolitri di vino sano, le cui vinaccie siano
pure sane, unitamente ai fondi o feccie: abbiamo allora, per l'intero
paese, approssimativamente quanto segue:
Acquavite a 50° Gay-Lussac .
Cremortartaro raffinato bianco
Acido tartarico (residuo raffineria cremore)
Residuo di graspi e buccie (concime o foraggio) (1)
Vinacciuoli secchi (col 15 per Ojo d'olio)
Olio, ottimo pei saponi ....
Acquavite a 50° Gay-Lussac .
Cremortartaro puro ....
Materie vegetali azotate, secche
(Il restante è costituito da acqua).
Ettol.
500,000
Chilog.
7,500,000
»
350,000
Quintali
1,250,000
»
800,000
»
120,000
Ettol.
100,000
Quintali
100,000
»
120,000
(1) Questo residuo contiene il 2 per Oxo d'azoto, il 0,5 per Oxo di potassa ed
il 0,5 per Oyo di acido fosforico, secondo le ricerche del compianto mio collega
D. Macagno. Io lo provai come foraggio sulle bovine e n'ebbi buoni risultati; come
concime poi è ottimo nei terricciati appunto per le vigne.
12 INTRODUZIONE
Or se si bada che l'acquavite vale circa 50 lire l'ettolitro, e che
il cremortartaro puro e l'acido tartarico hanno prezzi molto elevati,
è facile persuadersi che questi residui della vinificazione hanno un
grande valore.
Ma per fare un calcolo esatto bisognerebbe aggiungere poi il va-
lore: 1° del foraggio verde che la vite ci dà; 2° della legna (sar-
menti, ecc.); 3° dei prodotli secondarli cui può dar luogo per
esempio la fabbricazione dell'aceto (il verderame ecc.).
La vite adunque, oltre a produrre un rilevante benefìcio netto al
suo coltivatore, gli dà foraggio e concime, e poscia alimenta alcune
industrie di grandissima importanza, le quali possono fruttare egregie
somme allo Stato. (Ogni anno il Tesoro in Francia ha una entrata
media di L. 250,000,000 per le sole tasse ed i diritti sugli alcool!)
X. La vite e la salute pubblica. — A tutti i vantaggi che
sono la conseguenza della viticultura, deve aggiungersi quello della
salutare influenza del vino sull'uomo, vantaggio che forse avremmo
dovuto collocare pel primo. Non ci soffermeremo molto su questo
punto, perchè usciremmo dai limiti del nostro tema: diremo solo
poche cose, avuto riguardo specialmente alla pellagra ed aìYalcoo-
lismo.
Colà dove i contadini possono far uso del vino, la pellagra è sco-
nosciuta o quasi. Questo si osserva ad esempio nell'Astigiano e nel
Monferrato, benché i contadini non vi bevano molto vino: nell'Astigiano
una famiglia composta di 6 adulti e 2 bimbi consuma all'anno circa
600 litri di vino, vale a dire 75 litri per capo: nel Basso Monfer-
rato accade lo stesso, su per giù. Ma queste sono le regioni d'Italia
ove i contadini vivono alla meno peggio: che dire di quelle altre
ove è scarsissima la produzione del vino? Ivi, come in certi Co-
muni del Modenese, del Novarese, del Pavese, ecc. appunto perchè
il contadino quasi non beve vino, è assalito dalla pellagra e con-
duce una vita assai misera. Se tutti i nostri contadini potessero di-
sporre annualmente anche di soli 80 litri di vino discreto a testa,
quella grave malattia scomparirebbe, come è scomparsa da tutte le
terre ove è coltivata la preziosa ampelidea; e ciò perchè il vino è
un alimento, come hanno dimostrato Munk, Mosso e Ranke, mentre
col suo alcool costituisce una cassa di risparmio per 1' organismo,
secondo la felice espressione di Moleschott.
Anche 1' alcoolismo è quasi nullo nei paesi vitiferi, e basterebbe
VITICOLTURA 13
questo fatto perchè la preziosa pianta fosse venerata da tutti gli
umanitarii. Al Congresso fìllosserico di Losanna (1877) si parlò di
codesto, in vista della sempre crescente invasione della fillossera, e
si concluse che dove la vite scompare, le succede la miseria, ed in
certi paesi « V ' abrittissement par les alcools. » Il vino non abrutì
mai nessuno, anche se bevuto oltre misura ; esso invece dà nerbo
ai giovani, salute ai malesci, costanza al lavoro a tutti, ed è poi il
latte dei vecchi, come disse Liebig. La viticoltura adunque non deve
scomparire, e diciamo così ora che tanto si teme per la fillossera:
ma questo inesorabile pidocchio confidiamo sarà vinto; ce lo fa spe-
rare quanto ci apprende la Francia co' suoi ultimi tentativi di re-
sistenza e di distruzione ad un tempo, tentativi che ora accennano
a riescir bene.
XI. La viticoltura e la produzione del suolo. Conclusione.
— È stato detto poeticamente che « Y agricoltura è la nutrice dei
popoli », ed è questa una verità incontestabile, come è pure vero
che essa alimenta varie fra le principali industrie. Ben a ragione
Leonce de Lavergne scrisse che l'agricoltura dà ad un tempo ric-
chezza, costumi e salute, e pensatamente Gabriele Rosa la chiamò
la prima ed unica fonte del pane quotidiano.
È dunque necessario, anzi è indispensabile, che la terra ci dia i
suoi frutti, senza di che la vita umana non sarebbe possibile. Orbene,
la vite permette all'uomo di trarre partito di molte terre che altri-
menti o dovrebbero rimanere quasi incolte, o darebbero un me-
schinissimo reddito e potrebbero alimentare solo una assai scarsa
popolazione; ciò ha una importanza capitale. Permette pure la vite
di far fruttare il suolo quando l'aridità del clima vi si oppone, e sa-
rebbero indispensabili canali irrigatorii. Di ciò ci porge oggi un e-
sempio efficace il Mezzogiorno della Francia, che ha visto scompa-
rire per causa della fillossera quasi tutte le sue viti, e che, in quelle
regioni bruciate dal sole, non può sostituirvi altre culture per di-
fetto d'acqua d'irrigazione. Oggidì le terre invase non danno quasi
nessun reddito, perchè i cereali ed i foraggi, sotto quell'arido clima,
costano più di quanto rendono: i poveri proprietarii sono insomma
ridotti al punto di non potere ricavare tanto che basti a pagare la
imposta fondiaria.
La vite è adunque una pianta provvidenziale per certe regioni,
le quali senza di essa si vedrebbero ridotte alla miseria.
14 INTRODUZIONE
Conchiudendo, l'importanza della viticoltura nella economia pubblica
è grandissima; che ognuno cooperi quindi a difenderla dal flagello
che'Je sovrasta, poiché se la fìllosseronosi avesse ad estendersi in
Italia, come in certe plaghe viticole francesi, le conseguenze per il
nostro paese sarebbero tristissime!
CAPITOLO I
Origine e storia della Vite.
§ 1. Patria della vite asiatica o europea. — § 2. Disseminazione della vite. —
§ 3. Patria della vite americana, — § 4. Antichità della vite. — § 5. Storia
della viticoltura,
§ 1. Patria della vite asiatica o europea. Si ammette ge-
neralmente che la vite, che si coltiva in Europa, sia originaria del-
l'Asia Minore; ma la esistenza delle viti selvatiche nell'Algeria, nel
Marocco, in Italia, in Francia e sul Reno induce a credere che la
vite sia indigena eziandio in questi paesi, benché, secondo Y avviso
di distinti botanici, quelle viti siano piuttosto subspontanee che spon-
tanee, vale a dire viti inselvatichite fverwilderte Weinstócke, come
dicono le flore tedesche).
Ad ogni modo gli è sovratutto nell'Asia Minore, e massime nel-
l'Armenia intorno al monte Ararat, che la vite cresce spontanea-
mente ed assomiglia ad una liana selvatica i cui rami rampicanti
si dirigono su grandi faggi, che noi nel linguaggio viticolo chia-
meremmo i tutori, e quivi benché non potati mai e tuttoché il ter-
reno non venga coltivato in verun modo , danno grappoli in copia
e di grande peso (1) senza traccia di oidio: ciò osservasi special-
mente nei faggeti della Mingrelia, l'antica Colchide.
(1) Bodenstàdt trovò a Tiflis, nel 1843, un grappolo del peso di cinque chi-
logrammi.
16 CAPITOLO I
I Greci assegnavano per patria alla vite il monte indiano Nysa,
neir Hindukush o Caucaso indiano; e secondo le ricerche moderne fatte
dal botanico Kolenati, a cui si debbono accurati studii sulle viti sel-
siatiche che abbondano fra il mar Nero ed il mare Caspio (1) la
vite sarebbe realmente originaria del Mezzodì del Caucaso.
In Italia la vite cresceva selvatica sin dai tempi d'Omero; noi ab-
biamo trovato la vite selvatica in Toscana, ove è detta Abrostine
o Lambrusca, come già la chiamava Virgilio (Labrusca); queste
Lambrusche selvatiche producono la così detta uva zampina, a pic-
coli acini non del tutto spregevoli, locchè ci fa credere che si tratti
piuttosto di viti inselvatichite che non di viti selvatiche quali riscon-
transi nell'Asia Minore, dappoiché le nostre viti coltivate, se vengono
abbandonate a sé stesse, finiscono per produrre piccoli grappoli con
piccoli acini appunto come le lambrusche selvatiche: ciò a nostro
avviso è specialmente da attribuirsi al difetto della potatura.
In Francia trovasi la vite selvatica specialmente nella parte me-
ridionale ove è pure chiamata lambrusque; nel delta detto la Ca-
margue, nelle valli del Grande Rodano e del Piccolo Rodano
nonché nella Costa d'Oro (2) questa vite assume grandi proporzioni,
arrampicandosi sugli alberi più alti e mostrando una vegetazione
lussureggiante anche nei suoli aridi e pietrosi; però i grappoli sono
piccoli e con acini pure piccoli. Nella Camargue dalle uve della
Lambrusca si ottiene un vino colorato ma aspro, povero d'alcool,
senza fragranza e poco gradito; si fecero perciò parecchi tentativi
onde ingentilire queste viti, piantandone le talee, innestandole e
potandole a tralcio corto; ma non vi si riuscì, inquantochè tutti i
fiori abortivano per eccesso di succhi: infatti per ottenere uva
dalle Lambrusques conviene lasciar lcro quasi intatti i tralci,
cioè potarli leggermente o meglio non potarli affatto; ma allora si
verifica un altro inconveniente, che è quello della piccolezza delle
pigne; noi crediamo tuttavia che il problema potrebbe risolversi colla
potatura a più tralci lunghi.
Secondo il Dott. Baumes di Nìmes, il sig. H. Marès di Montpellier
ed altri studiosi della viticultura francese, la vite sarebbe indigena
(1) Y. Bullelin de la Società imperiale des naturalistes de Moscou, 1846, pa-
gina 279.
(2) Lorey et Durct: Flore de la Còte d'Or.
ORIGINE E STORIA DELLA VITE 17
nella Francia meridionale, e quindi sarebbero indigeni eziandio alcuni
suoi rinomati vitigni, benché sia fuor di dubbio che i Romani ve ne
introdussero parecchi, descritti da Catone, Varrone e Columella, e che
ne vennero pure introdotti dalla Spagna.
Anche nella Valle del Reno si trovano viti selvatiche, che furono
accuratamente studiate da Bronner, von Wiesloch e Gmelin; queste
viti furono chiamate con diversi nomi, quali vitis teutonica, vitis
traumi, vitis sylvestris, e si ritiene generalmente che il rinomato
vitigno renano Riesling sia una vite selvatica ingentilita (1). Quelle
viti selvatiche non possono menomamente considerarsi — secondo
Gmelin — come viti introdotte nel Rheingau dai Romani e poscia
inselvatichite, perchè sono nettamente distinte dalla vitis vinifera;
esse perciò si debbono ritenere come indigene della Valle del Reno.
Anche nel Nord della China si incontrano viti spontanee le quali
furono studiate da Regel (2); ma De Candolle non ammette con Regel
che la più analoga alla nostra vite, la Vitis Amurensis di Ruprecht,
appartenga alla nostra specie. « I semi disegnati nel Gartenftora,
1861, tav. 33, ne sono troppo differenti; se il frutto di queste viti
dell'Asia orientale avesse qualche valore, i Chinesi avrebbero avuto
T idea di trarne partito » (3). Al capitolo IV diremo qualche cosa
sulle viti selvatiche della China e del Giappone.
La vite europea, od asiatica, sarebbe adunque indigena dell'Asia
minore, quivi solo essendo essa realmente spontanea, mentre nell'Eu-
ropa meridionale si troverebbero viti inselvatichite, piuttostochè sel-
vatiche nello stretto senso della parola.
§ 2. Disseminazione della vite. — Si ammette generalmente
che la disseminazione della vite dal suo paese di origine, sia stata
anzitutto opera degli uccelli; questa disseminazione, dice A. De Can-
dolle, « dovette cominciare per tempissimo, dal momento che le bac-
che hanno esistito innanzi la coltivazione, prima della emigrazione
(1) H. W. Dahlen dice (die Weinbereitung , s. 3) che il Riesling « wird als
ein veredelter Wildling des Rheingaues und seiner Nebenthàler angesehen ».
(2) Acta horti imp. petrop. 1873. Regel è il Direttore del giardino botanico di
S. Pietroburgo.
(3) Origine delle piante coltiviate. (Biblioteca Scientif. Inter. — Dumolard, Mi-
lano), pag. 256.
0. Ottavi, ^Trattato di Viticoltura. 3
18 CAPITOLO I
dei più antichi popoli asiatici, forse prima che esistessero uomini in
Europa ed anche in Asia. Tuttavia la frequenza delle coltivazioni e
la moltitudine delle forme di uve coltivate, hanno potuto estendere la
naturalizzazione, ed introdurre nelle viti selvatiche delle differenze
traenti la loro origine dalla coltura. Per dire il vero, gli agenti na-
turali, come gli uccelli, il vento, le correnti, hanno esteso sempre più le
abitazioni delle specie, indipendentemente dall'uomo, fino ai limiti che
risultano, in ogni secolo, dalle condizioni geografiche e fisiche e dal-
l'azione nociva di altri vegetali e di animali. Una abitazione assolu-
tamente primitiva è più o meno un mito; ma abitazioni successiva-
mente estese o ristrette sono nella forza delle cose. Esse costituiscono
patrie più o meno antiche e reali, a condizione che la specie vi sia con-
servata selvatica, senza il trasporto incessante di nuovi semi » (1).
Così il De Candolle, e tutto porta ad ammettere che consimile disse-
minazione, prima per opera degli uccelli e poi per mezzo dell'uomo, abbia
appunto avuto luogo dal mezzodì del Caucaso verso l'India, l'Arabia,
l'Africa settentrionale e l'Europa meridionale (Grecia, Italia, Gallia ecc.)
§. 3. Patria della vite americana. — Mentre le viti euro-
pee ed asiatiche appartengono forse tutte quante alla specie botanica
Vitis vinifera di Linneo (2), le viti americane si raggruppano invece
in diverse specie, delle quali ci occuperemo parlando della fillosseronosi.
Queste specie hanno differenti patrie; e così nella valle del Missouri
crescono spontanee, secondo Swallow e Engelmann, la Vitis cestivalis
e la Vitis cordifolia con altre specie di minor importanza; la Vitis
labrusca si trova invece lungo le coste dell'Atlantico e nei monti
Alleghanv; nell'Arkansas cresce la Vitis vulpina e nell'Ovest del
Texas la Vitis rupestris. Come si vede queste notizie si riferiscono
esclusivamente all'America settentrionale, e precisamente alla zona
che partendo dal golfo del Messico va sino ai Laghi, zona che costi-
tuisce la regione della vite nel Nuovo Mondo. Nell'America Meri-
dionale la vite che vi si coltiva fu importata dall'Europa. (V. Sta-
tistica della vite, cap. III).
(1) Opera citata, 253.
(2) È bene notare, come già dicevamo, che secondo Gmelin certe viti selvatiche
europee (Valle del Reno, ecc.) costituirebbero una specie distinta dalla Vitis vini-
fera Lin., che egli chiamò Vitis sylvestrìs nella sua Flora badese.
ORIGINE E STORIA DELLA VITE 19
§ 4. Antichità della vite. — Tanto in Europa come in Asia
si hanno prove di una grandissima antichità della vite, la cui storia
risalirebbe al di là dei più antichi documenti scritti. Nei sepolcri
delle mummie dell'antico Egitto si trovarono vinacciuoli e granelli di
dimensioni discrete; ed il De Candolle riferisce (1) che furono tro-
vati semi di vite sotto le abitazioni lacustri di Castione, presso Parma,
i quali datano dall'età del bronzo (2), in una stazione preistorica del lago
di Varese (3) e nella stazione di Wangen nella Svizzera, ma in que-
st'ultimo caso ad una profondità incerta. V'ha di più: furono trovate
foglie di vite nei tufi dei contorni di Mompellieri, dove esse si sono
deposte probabilmente avanti l'epoca storica (4), ed in quelli di Mey-
rargue, nella Provenza, certamente preistorici, sebbene posteriori al-
l'epoca terziaria dei geologi (5).
La vite adunque, come il frumento, sarebbe una fra le più antiche
piante coltivate.
§ 5. Storia della Viticultura. — Quaranta secoli avanti Cristo,
Noè, scampato dal diluvio, come fu il secondo progenitore del ge-
nere umano, fu pure il padre della viticultura. Prima del grande pa-
triarca nessuno aveva pensato, secondo il Pentateuco, a coltivare la
vigna ed a preparare il vino coi suoi frutti; si raccoglieva l'uva delle
viti selvatiche e così si mangiava. Ma nel libro della Genesi al
Cap. IX, vers. 20 e 21 è detto:
Coepitque Noe in agricola exercere terram, et plantavit vineam;
Bibensque vinum inebriatus est, et nudatus in tabernaculo suo.
Cioè: « E Noè, che era agricoltore, principiò a lavorare la terra
ed spiantare una vigna, ed avendo bevuto il vino, si inebriò ecc. »
Noè piantò la prima vigna nell'Armenia, che si può quindi ritenere
come la culla così della Vite come della Viticultura.
Dal Levitico (6) e dal Deuteronomio (7) apprendiamo qualche pre-
(1) Opera citata pag. 253.
(2) Essi sono raffigurati in Heer, Die Pflanzen der Pfahlbauten, pag . 24, f. 11.
(3) Ragazzoni, Rivista Arch. della provincia di Como, 1880, fase. 17, pag. 30
e seguenti.
(4) Planehon: Etude sur les tufs de Montpellier, 1864, pag. 63.
(5) De Saporta: Flore des tufs quaternaires de Provence, 1867, p. 15 e 27.
(6) Cap. XIX, vers. 23, 24 e 25.
(7) Cap. XX, vers. 6.
20 CAPITOLO I
cetto viticolo che Mosè dava al popolo ebreo, e fra gli altri quello
di non raccogliere i frutti della vite nei primi tre anni; sapiente pre-
cetto, pel quale Mosè non vuole che si estenui la vite da principio,
quando la pianta deve formarsi robusta e feconda. Ed è pure ottimo
precetto questo che leggesi nel Deuteronomio (1):
Non seres vineam iuam altero semine, ne et sementis, quam
sevisti et quae nascuntur ex oinea, pariter sanctificentur; cioè
che conviene accontentarsi del frutto delle vigne, e non cercare di
aver dal vigneto due prodotti, perchè in questo caso, come osserva
Sant'Agostino, e la sementa e le uve vengono a patirne egualmente,
e la vigna non rende né in vino né in granelle.
I discendenti di Sem, che popolarono l'Asia, introdussero la viti-
coltura in Europa; essi chiamavano karm la vigna e da ciò venne
il nome di Carmelo al monte omonimo del profeta Elia in Palestina,
nonché il nome dell'ordine dei Carmelitani fondato nel dodicesimo se-
colo. I Caldei, popolo appunto di razza semitica, erano stimati dili-
genti viticultori; essi chiamavano l'uva anavim.
In Italia la coltura della vite venne introdotta dai Pelasgi (1600
anni avanti Cristo) e dagli Etruschi (specialmente nella parte cen-
trale) popoli questi venuti dall' Asia minore, che senza dubbio come
dicemmo fu la patria della viticultura; il mezzodì d'Italia era tanto
propizio alla vite, che i Greci gli imposero il nome di Enotria, ed
il nome di Sabini, degli antichi abitanti dell'Italia centrale o Sabina,
pare che significasse appunto viticultori.
Anche i Greci, da cui ci vennero molti precetti e vocaboli di vi-
ticoltura, ebbero a maestri i Semiti; questi noverarono valenti scrit-
tori d'agraria, fra cui l'armeno Iambusckad ed il cananeo Thamitri, ri-
cordati dall'arabo Ibn-Kaldun, i quali avevano insegnato a fecondare la
vite scalzandola e fertilizzando il terreno con concime polverulento
complesso in cui fossero state scomposte anche le foglie delle viti, e ad
eccitare le viti sterili con ceneri, aceto ed urina umana; gli stessi scrit-
tori insegnavano che se la vite imbianca e poi si fa croja (2) si deve
usare uno sciroppo di aceto fortissimo e di cenere, fregandosene la
corteccia e versandolo sulle radici allungato con acqua. Questi ed altri
precetti dimostrano quanto i Semiti fossero diligenti viticultori.
(1) Cap. XXII. vers. 9.
(2) Così Gabriele Rosa (Enciclopedia Agr. voi. Ili pag. 5.) Il Rosa adopera
que ta voce antiquata por significare una vite che si fa rozza, sterile.
ORIGINE E STORIA DELLA VITE 21
Presso i Greci ed i Romani continuò a fiorire la coltura della vite,
come ci dicono i precetti, molti dei quali ottimi, di Esiodo, di Socrate,
di Senofonte nell'Economico e sovratutto di Teofrasto (371 -f- 286
anni av. C.) che fu uu acuto osservatore dei fenomeni naturali; per
esempio egli osservò che seminando le viti non si riproduce la pianta
da cui venne il seme, ma si ha un vizzato diverso; che le viti can-
giando terreno e clima danno prodotti ben differenti, e che conviene
rinnovare la terra che sta al piede delle viti ogni dieci anni, come
si pratica tuttodì da qualche valente viticultore in Piemonte e in
Lombardia (Bergamo), del che ci intratterremo a lungo più innanzi.
Teofrasto consigliava anche, molto opportunamente di potare tardi le
viti quando il suolo è umido e freddo, onde esse lacrimando avessero
a perdere l'umore soverchio che fa abortire i fiori, locchè noi chia-
miamo ora il salasso delle viti.
Fra i romani Catone (232 -[-147 av. C.) dettò buoni precetti;
nella economia agraria, egli assegnava al vigneto il primo posto, ma
lo voleva coltivato con ogni cura, piantandolo in terreno smosso
profondamente, fecondandolo con sarmenti di vite tagliuzzati, aran-
dolo, vangandolo ecc.
Il dottissimo Terenzio Varrone (114 -f- 27 av. C.) nei suoi tre
libri di Cose rustiche scritti mentre già era ottuagenario, lasciò pure
molti precetti, fra i quali quelli di scacchiare le viti alla fine di Maggio,
e l'altro di lavorare il terreno in estate, d'onde forse il proverbio
« chi zappa la vigna in agosto, la cantina riempie di mosto. » Ed anche
il principe dei poeti latini P. M. Virgilio (70 -f- 19 av. C.) nelle sue
Georgiche ci lasciò notizie sulle viti dei suoi tempi, già tanto nume-
rose che egli stimava altrettanto diffìcile contare i grani di sabbia del
deserto della Libia sollevati dal vento, quanto le varietà delle viti
stesse (1).
Georgofìlo stimato quanto Varrone fu Lucio Giunio Moderato Co-
minella, coetaneo di Seneca (2 av. C. -f- 65 d. C), spagnuolo per
nascita (Cadice?) ma educato alla romana; egli era nipote del dotto
agronomo latino Marco Columella. Non si erra asserendo che il mi-
glior trattato sulla agricoltura, e specialmente sulla viticoltura, di
quei tempi, si deve a Columella, studiosissimo degli autori cartagi-
nesi, greci e romani che lo precedettero, ed attento visitatore dei
(1) Quem qui scire velit, libyci velit aequoris idem
Discere quam multae Zephyro turbentur arenae. {Georgica, Libro II).
22 CAPITOLO I
principali luoghi del grande impero romano ove fioriva la coltura della
vite. Dei suoi precetti ci occuperemo più innanzi in apposito capitolo,
onde studiare nei suoi dettagli la viticoltura latina qual'era nel secolo I.
Accanto a Columella conviene collocare Plinio il vecchio (23 -\- 79)
l'enciclopedico naturalista vittima della nota spaventevole eruzione
del Vesuvio; egli nacque a Como, e fu alquanto geloso di Columella
a cui mosse appunti quasi sempre male fondati; nondimeno lasciò
molti utili precetti sulla coltura della vite, descrisse il sistema di la-
sciare uno sperone (detto allora custode) per averne un tralcio a
frutto per l'anno successivo, studiò pure le viti senza sostegno (sine
pedamento) della Provenza e dell'Africa, e ne sconsigliò la coltiva-
zione perchè, come disse anche Columella, se ne aveva vino abbon-
dante ma cattivo, su di che noi facciamo ora ampie riserve, la cosa
essendo ben diversa (1); infine Plinio descrisse varie malattie della
vite, fra cui una che pare si approssimi all'oidio.
Da Plinio bisogna venire sino al dotto greco Ateneo (che visse
nel III secolo) autore del Convito dei Savi; Ateneo nacque in Egitto
e visse prima in Alessandria poi in Roma, onde ebbe campo a stu-
diare le viti ed i vini romani; le notizie che egli ci tramandò, si ri-
feriscono però specialmente ai vini.
Nel IV secolo abbiamo Palladio (Rutilio Paolo Emiliano) che ci
dà notizie sulla viticoltura romana ed ottimi precetti, fra cui quello
dello scortecciamento delle viti annose di cui si è tanto parlato, quasi
fosse cosa nuova, in questi ultimi anni; consigliò pure il soverscio
dei lupini nei vigneti in agosto, la spampinatura e via dicendo; egli
fu l'ultimo scrittore classico latino di cose agrarie.
Dall'anno 400 all' 800 la viticoltura, come l'agricoltura, è in piena
decadenza ed in molti luoghi si abbandona affatto la coltivazione del
prezioso arbusto, a cagione delle schiaccianti imposte erariali, del di-
spotismo militare e sovratutto delle invasioni barbariche; la coltura
del suolo è allora lasciata in mano agli schiavi, mentre l'agricoltura
è essenzialmente arte di uomini liberi e civili! In questo sconfortante
periodo di decadenza, pochi scrittori si occupano di viticoltura; e dal
bordolese Ausonio (Decimo Magno) morto nell'anno 394 bisogna
venire sino al calabrese Cassiodoro (460 -f- 562) da Squillace, se-
gretario e ministro del re goto Teodorico, scrittore della Cronaca
ove gli studiosi attingono tante notizie su quei tempi. Ma, per quanto
(1) V. il capitolo delle Viti ad alberello.
ORIGINE E STORIA DELLA VITE 23
concerne la viticoltura, egli poco ci dice, e solo si occupa di raffron-
tare fra loro varii vini di quei tempi, massime del veronese.
Durante il regno dei Longobardi (568-771) continuò il quasi com-
pleto abbandono della viticoltura, la quale si restrinse ai suburbii ed
alle vicinanze dei grossi centri popolati; tuttavia nel secolo VI i
Benedettini, quasi inosservati, incominciarono a ben coltivare qua e
là qualche vigna. La viticoltura ebbe poi sempre caldi protettori nei
religiosi d'ogni ordine, e sovratutto, oltre ai Benedettini, negli Ago-
stiniani, nei Basiliani, Domenicani, Francescani, Cistercensi e via di-
cendo.
Distrutto il regno dei Longobardi in Italia, il grande imperatore
Carlo Magno si diede a proteggere anche V agricoltura, massime
dall'anno 800 all' 814, ed emanò speciali regolamenti ne' quali è
fatta larga parte a quanto riguarda il vino. Costantino VII Porfì-
rogenito (911-959) che tanto si occupò di studii, vedendo che nel-
l'Oriente greco la viticoltura e l'enologia erano tuttavia fiorenti, ne
fece raccogliere i precetti nel famoso Geoponico. Il libro terzo delle
Geoponiche contiene insegnamenti veramente preziosi sulla viticol-
tura, massime riguardo alla potatura a seconda dell'età delle viti e
dell'esposizione, alla lavorazione del terreno, che doveva essere pro-
fonda onde le viti non soffrissero la siccità e non invecchiassero troppo
presto, alle rimondature estive, alla concimazione con cenere e feccie
di vino per le viti adulte, serbando il letame soltanto alle viti gio-
vani, e via dicendo. Vi si trovano anche curiose osservazioni, fra
cui questa, che immettendo triaca nel midollo della talea si ottiene
uva dotata di proprietà medicinali, di che ci occuperemo a suo luogo,
accennando agli studii moderni sulla sava della vite.
Nel XII secolo abbiamo un valente scrittore arabo Ibn-al-Awam,
che dà buoni precetti di viticoltura, scrivendo da Siviglia, fra cui
quello che non conviene seminare cavoli, rape, ecc. fra le viti.
Frattanto i religiosi continuarono a coltivare con amore la pre-
ziosa pianta, estendendola alle regioni ove recavansi ed incoraggian-
done la coltura, come fece ad esempio nel secolo XI Sigfried arci-
vescovo di Magonza, che diffuse il Riesling a Rùdesheim, da tanto
tempo famosa pel suo vino omonimo. Anche i regnanti presero
poco poco a proteggere la viticoltura, e si sa che il re ungherese
Bela IV degli Arpad, vedendo quasi priva di vigneti l'Ungheria, vi
introdusse magliuoli presi in Italia.
Dopo la pace di Costanza (1183) si incominciò a notare in Italia
24 CAPITOLO I
un leggero risveglio nell'agricoltura e quindi anche nella viticoltura;
ma i progresbi, che si andavano facendo, erano lentissimi e si deve
a Pier de' Crescenzi, nato a Bologna nel 1233, se la nostra economia
rurale potè più tardi progredire maggiormente. Il venerato autore
del Liber ruralium commodorum ci descrive la viticoltura italiana
del 1300, mostrandosi intelligente nella coltura del prezioso arbusto:
da lui sappiamo che allora si incominciavano a produrre in Italia
buoni vini, i quali vendevansi persino in Germania ed in Polonia.
Dopo il Crescenzi non si può dire che abbiano abbondato gli scrit-
tori di viticoltura, la quale vi andava facendo lenti progressi, così
in Italia come in Spagna, ma non però in Francia: si possono solo
citare Agostino Gallo, nato a Brescia nel 1499, che descrisse le viti
lombarde — G. A. Herrera (1513), che studiò la viticoltura spa-
gnuola e Giovanni Tatti da Lucca (1560). Pero in Toscana la col-
tura della vite progredì più che altrove, come ce lo provano i due
scrittori specialisti Giovanni Vittore Soderini (1526) e Bernardo Da-
vanzati (1529): il primo scrisse un Trattato della coltivazione delle
viti e del frutto che se ne può cavare, il secondo dettò l'opuscolo
Della coltivazione toscana delle viti.
Frattanto eccoci al 1600, anno in cui il patriarca dell'agricoltura
francese Olivier de Serres (nato il 1539) pubblica il suo famoso
Teatro dell' 'agricoltura dedicato al re Enrico IV, che tanto amava
l'arte dei campi : in questo libro troviamo molte notizie sulla viticol-
tura di quei tempi, nonché preziosi precetti, che furono posti in pratica
dai viticultori francesi, cosicché la viticoltura a poco a poco vi prese
un grandissimo sviluppo, al punto che verso il 1730 si limitava per
legge l'estensione dei vigneti.
La viticoltura nel frattempo si estese anche in lontani paesi per
opera degli europei che si recavano a colonizzare l'America, la Nuova
Olanda, l'Oceania e l'Africa meridionale; già nel 1602 i Gesuiti pian-
tarono vigneti nel Paraguay, neh' Uruguay e nella Bolivia, e negli
Elementi d' agricoltura (1) comparsi a Milano nel 1784 si legge
che in California già allora si producevano ottimi vini; dal 1800 in
poi si estese pure la viticoltura nel Perù, nel Chili, nella Repub-
blica Argentina e nel Messico. Nel 1851 alcuni Svizzeri introdussero
(1) Mitterpacher li pubblicò a Vienna nel 1783 e '^furono tradotti in italiano.
(G. Rosa, op. cit. 349).
ORIGINE E STORIA DELLA VITE 25
le viti in Australia, a Vittoria, ed ora la viticoltura progredisce colà
rapidamente.
In Francia la viticoltura continuò a progredire, e sul principio del
1800 il Bordeaux, il Borgogna, lo Champagne, l'Hermitage, il Fron-
tignan, ecc. ecc. erano già celebrati.
Anche in Italia la viticoltura ebbe una forte spinta, specie dopo
la unificazione del Regno e le libertà politiche, ed ora in molte Pro-
vincie paesane la viticoltura è portata ad un notevole grado di per-
fezione; a codesto contribuirono parecchi scrittori a partire da Carlo
Verri (1803, Saggio teorico-pratico sulla viticoltura) sino a De-
Blasiis (1864, Istruzioni sul modo di fare il vino e coltivazione
degli ulivi e della vigna bassa) ed a Giuseppe Antonio Ottavi
(1855-1884, Il Coltivatore, in cui è descritta la viticoltura d' ogni
parte d' Italia, e Nuovo metodo per far fruttificare abbondante-
mente le viti).
In Francia la viticoltura ebbe grande impulso dal Conte Odart
e sovratutto da Giulio Guyot (nato a Gyé-sur-Seine (Aube) nel
1807, morto il 31 marzo 1872 a Savigny); a lui si devono due o-
pere magistrali, Culture de la vigne et vinification, e Études sur
les vignobles de France: del suo sistema di viticoltura ci occupe-
remo in apposito capitolo, per studiare sino a qual punto possa con-
venirne la applicazione ai vigneti italiani.
In Germania ed in Austria- Ungheria la viticoltura e 1! enologia
progrediscono pure rapidamente, per opera specialmente di Metzger
(1827, Ber Rheinische Weinbau, la Viticoltura Renana) e dei con-
temporanei Barone di Babo (Direttore dell'Istituto Enologico di Klo-
sterneuburg presso Vienna), A. Blankenhorn a Carlsruhe ed altri.
E progredisce pure in Ispagna ed in Portogallo ove si pubblicano
buoni giornali viticoli ed ottimi trattati: (Los vinos e Cultivo de la
vid, Madrid, D. José de Hidalgo Tablada — Gazeta dos Lavra-
dores, Lisboa, A. Batalha Reis).
Così può brevemente riassumersi la storia della Vite e della Viti-
coltura, la quale ci insegna che la preziosa ampelidea fu sempre te-
nuta in gran conto, siccome produttrice della migliore fra tutte le
bevande alcooliche. Senonchè al vino fa ora concorrenza la birra,
e mentre in Europa si producono annualmente oggidì circa 140 mi-
lioni di ettolitri di vino, già si fabbricano 102 milioni di ettolitri di
birra; questo devesi attribuire in parte ai malanni che colpirono e
colpiscono la viticoltura, massime all'oidio, che anni addietro aveva
26 CAPITOLO I
fatto salire di troppo il prezzo del vino, cosicché si diffuse l'uso della
birra anche negli stessi paesi viniferi. Giova tuttavia sperare che,
mercè i progressi attuali della viticoltura e della enologia, potendosi
offrire buon vino a prezzi discreti, si diffonda sempre più V uso di
questa salutare bevanda^ onde Bacco abbia sempre a prevalere su
Gambrino !
CAPITOLO II
Geografìa della vite,
§ 2. Limiti della coltura della vite — § 3. Coltura
della vite oltre i limiti meteorologici — § 4. La regione della vite e le iso-
termiche — § 5. L'altitudine e la viticoltura — § 6. L'esposizione, la vicinanza
delle acque, le pioggie ed altre cause che influiscono sulla stazione della vite.
§. 1. La regione della vite. — Le differenti piante coltivate
occupano sulla superfìcie del globo regioni diverse, delimitate spe-
cialmente dalie condizioni meteorologiche alle quali si trovano sog-
gette le regioni stesse. I così detti limiti economici , statistici ed
agricoli delle culture hanno certamente una speciale influenza sulle
leggi che regolano la geografia agricola; e così, il prezzo di vendita
del vino, le spese di cultura della vite di fronte alla maggiore o
minor deficienza di operai rurali, la viabilità, la concorrenza di zone
vitifere meglio favorite dalla natura, la densità della popolazione, i
sistemi di conduzione dei fondi e via dicendo, possono modificare al-
quanto i limiti delle regioni agricole; ma è evidente che la loro in-
fluenza è passeggera, laddove quella delle condizioni meteorologiche
è costante, cosicché si può affermare essere oggidì la regione della
vite quella stessa dei tempi antichi, vale a dire che il clima per-
mette attualmente la cultura della vite ovunque la permetteva quando
fu coltivata per la prima volta in Europa. (V. § 6).
Gli agronomi quindi, nel descrivere le regioni culturali, si sogliono
basare essenzialmente sui limiti meteorologici; essi, facendo astrazione
dai luoghi elevati e da quelli il cui clima è modificato dalla irriga-
28 CAPITOLO II
zione, dividono l'Europa in tre parti: — al sud-est ed al sud (Italia,
Francia Meridionale e Spagna) predominano gli alberi e gli arbusti;
al nord-est ed al nord (Europa centrale) si trovano di preferenza le
culture erbacee; e più al nord ancora (Europa settentrionale) pre-
dominano le foresti o i vegetali legnosi.
Si è nella prima di queste tre grandi divisioni che noi troviamo
la regione della vite, con quella dell'olivo; quest'ultima però ha li-
miti più ristretti, mentre la prima occupa in Europa una immensa
zona compresa a poco presso fra il 30° ed il 50° grado di latitudine
settentrionale, ove il clima è temperato e perciò favorevole alla pro-
duzione di uva avente le qualità richieste per gli usi enologici ed
alimentari.
§ 2. Limiti della coltura della vite. — Non bisogna però
credere che la regione della vite in Europa sia esattamente delimi-
tata dai due paralleli boreali (vale a dire dell' emisfero nord) che
passano rispettivamente pei gradi 30° e 50° di latitudine; questo ac-
cadrebbe qualora non esistessero cause capaci di modificare il clima,
fra cui prima l'altitudine, ossia l'altezza sul livello del mare: invece
tanto la linea che segna il limite polare quanto quella che segna il
limite equatoriale, sono assai irregolari e coincidono solo per brevi
tratti coi suddetti paralleli.
Ma noi non vogliamo delimitare soltanto la regione della vite in
Europa; vogliamo invece considerare la regione stessa nella sua po-
situra sull'intera superficie della terra: in allora ognuno vede che
questa immensa regione viene ad essere attraversata dalla linea equa-
toriale. Ciò essendo, si presenta la quistione se anche sotto l'equatore
la vite possa prosperare e se, in caso negativo, la regione mondiale
della vite non consti di due grandi distretti, quasi diremmo due cinture ,
l'una neh' emisfero nord, sopra la zona torrida, l'altra nell'emisfero
sud, al mezzodì della stessa zona, lasciando sotto la linea equatoriale
un distretto intermediario ove la vite non può prosperare.
Abbiamo esaminato accuratamente la delicata quistione (1) e siamo
giunti alla conclusione che, secondo tutte le probabilità, la regione
(1) Ci rivolgemmo eziandio per aiuto e consiglio all'illustre e dotto geografo
Dr. Luigi Hugues, già nostro amato maestro, il quale ci fu largo di suggeri-
menti, mettendo a nostra disposizione la sua importante biblioteca. Gli rendiamo
qui pubbliche azioni di grazie.
GEOGRAFIA DELLA VITE 29
della vite non può essere costituita da un solo immenso distretto com-
preso fra i due limiti polari dell' emisfero nord e dell' emisfero sud,
tuttoché alcuni distinti geografi siano di contrario avviso. Meyen, ad
esempio, sta fra costoro; egli dice che per quanto si riferisce al mas-
simo calore sotto la di cui influenza l'uva può maturare, crede di poter
affermare che ciò può avvenire sotto qualunque calore tropicale,
purché esso non vada disgiunto da un certo grado di umidità. Ma
Berghaus (1) a proposito della umidità e della sua influenza sul-
l'uva, giustamente obbietta essere noto, fatta astrazione da che la
vite ama luoghi asciutti, come già nei nostri climi le piogge persi-
stenti nuociono ai grappoli; or quanto più nocevoli non dovranno
adunque essere le torrenziali piogge dei paesi tropicali? Si è intro-
dotta la vite nella Guiana, ma il tentativo non ebbe alcun risultato,
inquantochè nella stagione piovosa i grappoli marcirono, ed in quella
asciutta furono distrutti dagli insetti.
Humboldt, Buch e Schow non sono dell'avviso di Meyen, e cre-
dono con Berghaus che il distretto di diffusione della vite formi,
come dicevamo poc'anzi, due cinture sopra ambo i lati della zona
torrida. H. Wagner (2) è pure di questo avviso: « in generale,
dice egli, la viticoltura, che predilige un clima continentale con ca-
lori estivi intensi, quantunque anche solo di breve durata (3), oltre-
passa appena il 51° parallelo nord, ed anzi nella Russia Meridionale
il limite polare si abbassa sino al parallelo 48°: intimamente colle-
gata colla zona torrida, questa coltivazione giunge al suo punto più
meridionale nelle Canarie (28° N.) facendo però astrazione di certi
distretti tropicali isolati, nei quali la vite può ancora prosperare so-
lamente a considerevole altezza sui fianchi di sollevamenti monta-
gnosi »; e questa è un'altra prova della grande influenza che eser-
cita l'altitudine sul clima d'una data località.
Sin qui abbiamo accennato alle opinioni dei geografi; aggiungeremo
ora dal canto nostro, siccome viticultori, che nel distretto che di-
(1) Allgemeine Lànder und Vólcherkunde, voi. Ili, pag. 229 e 256.
(2) Gute's Lehrbuch der Geographie neu bearbeitet von H. Wagner. — Fùnfte
Aufgabe (voi. I, pag. 121).
(3) Noteremo però, a proposito di quanto qui dice Wagner, che in questo caso
l'uva non riesce di qualità pregiata come quando la somma dei gradi di calore
che le occorre, le viene somministrata durante un periodo di tempo più lungo,
però entro certi limiti (v. Meteorologia applicata alla vite).
30 CAPITOLO II
remo equatoriale, e propriamente nella zona torrida dove si verifi-
cano le calme equatoriali e tropicali con piogge quasi continue, la vite
non è possibile possa fornirsi di gemme fiorifere, né quindi fruttificare,
sempre fatta eccezione di speciali condizioni di altitudine, come or'ora
notammo con Wagner. Infatti, dietro le numerose osservazioni fatte
in Francia da Gasparin, colle quali concordano quelle decennali da
noi fatte in Italia (1), crediamo di poter stabilire che la vite richiede
un calore crescente per gradi a partire dal momento della germo-
gliazione e venendo a quello della maturazione dell' uva; un calore
soverchio e quasi diremmo subitaneo non è punto confacente alla
fruttificazione della vite, ma solo alla produzione della parte erbacea,
nella stessa guisa che l'umidità soverchia fa abortire i grappolini na-
scenti, mutandoli in cirri: le vicende di temperatura aventi per li-
miti minimi 9° o 10° C. al momento della germogliazione e 17° a 20° al
momento della fioritura (a seconda della maggiore o minore preco-
cità delle specie) sono indispensabili alla vite, ed è appunto perchè
la zona temperata (35°-47° lat. n.) offre queste condizioni di tem-
peratura che la vite trova in essa la sua principale e più conve-
niente stazione. Ora, ognuno intende facilmente come il clima tropi-
cale, colle sue pioggie non interrotte per parecchi mesi e col suo
straordinario calore, pure continuato per lunghi mesi, senza vicende,
quasi diremmo senza gradazioni, debba contrariare seriamente la
vite, favorendo se si vuole un grande sfarzo di vegetazione erbacea,
ma inceppando necessariamente la fruttificazione. Noi pensiamo quindi
che la zona torrida costituisca un distretto ove assolutamente la vite
non può fruttificare, perocché nelle regioni equatoriali le stagioni
quasi non presentano differenze riguardo alla temperatura, che d'al-
tronde vi è altissima (in media 28° C. per i punti dell'equatore), e
d'altra parte le pioggie cadono quasi senza interruzione per sei mesi,
dall'aprile all'ottobre, come accade in Africa nelle regioni fra l'equa-
tore ed il tropico del Cancro, e nell'America equatoriale al nord della
linea, ove, a detta di Humboldt, il cielo è sereno soltanto da dicembre
a febbraio, mentre dal marzo, e meglio dall' aprile al novembre, le
pioggie sono quasi continue e torrenziali, di giorno almeno, mentre
di notte il cielo si fa generalmente sereno.
Vediamo ora di segnare i due limiti polari del distretto di dif-
(1) V. Meteorologia applicata alla vite.
GEOGRAFIA DELLA VITE 31
fusione della vite (V. la Carta (1) in fine del presente volume); rima-
nendo stabilito che man mano ci avviciniamo all'equatore, il quale come
è noto attraversa per mezzo la zona torrida, la vite verosimilmente
tende sempre più ad una vegetazione puramente erbacea, senza produ-
zione fruttifera: questo distretto tropicale della vite non ci è stato
possibile di delimitarlo esattamente, ed abbiamo perciò preferito di
nulla segnare sulla Carta anziché condurre linee arbitrarie.
a) Limite polare nord. La immensa zona della vite è limitata
verso il polo artico, o boreale, da una linea la quale partendo dalla
costa dell'Atlantico presso la città di Vannes (lat. 47° 40') si svi-
luppa nella direzione di sud-est, segue la riva sinistra della Loire
inferiore da Nantes ad Angers, donde procede a nord-est sino a
Beauvais nel dipartimento della Oise (lat. 49° 30') e quindi a est-
nord-est sino a Laon nel dipartimento dell' Aisne (lat. 49° 33').
Da questo luogo il limite polare nord mantiene, sino a Thionville
sulla Mosella, una direzione che poco si allontana da quella dei pa-
ralleli; discende la valle della Mosella sino alla sua imboccatura nel
Reno a Coblenza e poi la valle del Reno sino al disotto della città
di Bonn (50° 46'). Lungo la destra del Reno, risalendo il fiume, il
limite giunge alla confluenza del Meno (quivi nel Rheingau, si hanno
i migliori vini tedeschi); esso fiancheggia poi la riva nord (destra)
del Meno passando per Asciaffenburgo e Wùrzburgo. Al di là della
Selva Turingia, e nelle regioni centrali della Germania, la coltura
della vite, come industria agricola, si presenta solo in alcuni luoghi
isolati; ciò ad esempio nella valle della Werra (ramo superiore del
Weser) alla latitudine di 51° 20'. Il limite polare nord tocca poi
l'Elba presso la città sassone di Meissen (lat. 51° 10'), discende il
corso del medesimo fiume, giunge all'Havel (affluente dell'Elba) presso
Potsdam e giunge alla sua massima latitudine presso Berlino (52° 30').
Da questo punto si volge a sud-est verso F Oder; ma più lungi,
verso oriente, si avvicina nuovamente alla linea equinoziale, di guisa
che nell'Ungheria viene ad oscillare, come nella Francia Occidentale»
tra il 48° ed il 49° lat. nord; nella Bucosina, ad oriente dei Car-
pazi, il limite è compreso tra le latitudini di 47° e 48°, e si è nella
Moldavia, presso la piccola città di Cotnar (lat. 47° Ij2) che si rac-
(1) Ringraziamo qui nuovamente il prefato Dott. L. Hugues, che ci porse
grande aiuto nelle ricerche fatte per stabilire questi limiti, nonché il suo distinto
allievo, che disegnò la Carta coi limiti polari e le isoterme,
32 CAPITOLO II
coglie uno fra i migliori vini ungheresi, tale da essere preferito al
famoso Tokay. Tutta la parte meridionale della Russia è compresa
nella zona della vite; così la Bessarabia, i governi di Kherson e di
Iekaterinoslaw, la Tauride, il paese dei Cosacchi del Don, una parte
del governo di Saratow sul Volga ed il governo di Astracan. In
queste ultime parti della Russia pare che il limite nord della vite
si avanzi nuovamente verso settentrione sino alla latitudine appros-
simativa di 50°.
Non possiamo fissare con sicurezza il limite polare nord della vite
attraverso il continente asiatico: secondo la carta 13a del nuovo a-
tlante geografico dei signori Diercke e Gaebler, esso attraversa la
parte nord-est del lago di Arai, giunge al bacino sorgentifero del
Syr-Darja, percorre V Asia centrale poco al nord del parallelo 40°,
quindi le provincie della Cina al nord del Fiume Giallo, la parte sud
della Corea e dell'isola Nippon (Giappone). Al di là dell'Oceano Pa-
cifico entra nell' America settentrionale lasciando a Mezzogiorno la
terza parte circa della California, d'onde si avanza alcun poco al
nord, lambisce le rive meridionali dei laghi Michigan ed Erie ed ab-
bandona l'America settentrionale verso la latitudine di 41°. Cosi, nella
parte nord dell'America settentrionale il limite boreale della vite o-
scilla tra le latitudini di 38° e 41°. Infine nell'Oceano atlantico il li-
mite popolare nord lascia a mezzodì l'arcipelago delle Azorre, che
è un importante centro vinicolo.
b) Limite polare sud. La linea che segna il limite meridio-
nale o australe parte dal Capo di Buona Speranza e si volge ad
est-sud-est, lascia al nord la Tasmania, 1' Australia e la Nuova Ze-
landa, attraversa il Pacifico deviando verso nord-est, entra nell'A-
merica meridionale poco al nord del 40° parallelo, e percorre questa
parte del mondo da occidente ad oriente, abbandonandola, sotto la
medesima latitudine, alquanto a mezzogiorno del Rio de la Piata.
e) Limite meridionale deU emisfero nord. Per chi desiderasse
conoscere almeno approssimativamente il limite sud della regione
della vite nell'emisfero artico o boreale, vale a dire al nord dell'e-
quatore, diremo brevemente che esso potrebbe rappresentarsi mediante
una linea che comprendesse la costa settentrionale dell'Africa, coinci-
dendo per un certo tratto col 30° di latitudine settentrionale; essa
attraverserebbe poscia l'Arabia da nord a sud e verrebbe a coinci-
dere, con una certa regolarità, col tropico del Cancro, il quale, come
è noto, segna il limite settentrionale della zona Torrida; e proseguendo
GEOGRAFIA DELLA VITE 33
così sino all'Indostan; quindi si abbasserebbe circa al 20°, per poi risa-
lire sopra Calcutta e tenere di nuovo la linea del tropico del Cancro
a traverso la Cina meridionale.
§.3. Coltura della vite oltre i limiti meteorologici. —
Lo avere segnato, nel precedente paragrafo, i limiti della viticultura,
non vuol già significare che oltre quelle linee sia assolutamente im-
possibile coltivare la vite. Nei paesi, ad esempio, situati oltre il limite
settentrionale ciò è possibile in alcune felici esposizioni a mezzogiorno,
su colline più o meno ripide, ove 1' esposizione rende il clima del
luogo più meridionale; gli è ciò che si fa ad esempio su certi
versanti meridionali delle colline, che si trovano lungo il corso
capriccioso della Mosa, ove si contano 189 ettari vitati, tutti nella
provincia di Liegi. Diremo tuttavia che colà la maturazione delle uve
vi è incerta e riesce ad un certo grado di perfezione soltanto nelle
annate molto favorevoli; la vendemmia vi si fa generalmente nella
seconda quindicina dell'ottobre, quando però il freddo invernale non
abbia distrutto totalmente od in grande parte il raccolto, assiderando
le gemme ascellari. Questi vigneti scomparirebbero di certo se fosse
resa agevole la importazione del vino nel Belgio, laddove ora è colpita
col grave diritto di accisa di L. 23 all' ettolitro : diremo anzi che
se si è tentata e si tenta tuttodì la coltivazione della vite in paesi
situati oltre i limiti della zona or ora studiata, si è principalmente
perchè una improvvida ed ostruttiva legislazione doganale vi inceppa
e spesso vi impedisce affatto l'importazione del vino con dazii che
oscillano dalle 30 lire (Inghilterra e Germania) alle 58 (Russia e
Stati Uniti d' America) per ogni 100 chilogr. di vino usuale da
pasto (1). Così si protegge la produzione della birra, ed indirettamente
si favorisce l'alcoolismo con grave detrimento della salute pubblica !
Anche in Inghilterra (a parte la coltura nelle serre o graperies)
si tentò la cultura della vite in pien campo, nella grande vallata di
Glocester; ma vi si dovette rinunciare da moltissimo tempo, special-
mente per la incertezza e la cattiva qualità del prodotto, dovute
alla deficienza di calore.
(1) Più esattamente L. 27,50 (Inghilterra) L. 30 (Germania) L. 42 (Olanda) L 62
(Russia) L. 58 (Stati Uniti) pei vini di botte. I vini in bottiglie sono colpiti
anche più duramente! (V. la nostra opera Enologia teorico-pratica, Statistica del
Comm. internazionale pag. 677).
O. Ottavi, Trattato dì. Viticoltura. 4
34 CAPITOLO II
Ma non sono unicamente le condizioni climatiche che influiscono
sulla maggiore o minore diffusione della viticultura; è innegabile che
il modificarsi e perfezionarsi dei gusti ha reso affatto deprezzati certi
vini che un tempo si ritenevano bevibili; ond'è che dai paesi che li
producevano oggi è affatto scomparsa la coltura della vite. Peschel
(Physische Erdkunde, II pag. 190 e seg.) accenna a questo fatto
considerando specialmente la viticultura nel Medio Evo. « A provare,
dice egli, una diminuzione della temperatura, si adduce il fatto che
nel Medio Evo la coltura della vite era molto più estesa verso il
nord di quanto lo sia oggidì: ma non si debbe precipitare nelle con-
clusioni, giacche la riuscita della vite dipende da molti fattori, anche
non climatici. La viticoltura potè estendersi in un vasto distretto della
Germania settentrionale, sino a tanto che si poneva maggior atten-
zione alla fragranza {bouquet) dei vini che non alla dolcezza loro.
Relazioni di antichi cronacisti dicono espressamente che in certi anni
particolarmente caldi il prodotto della vite Della provincia di Prussia
(Kònigsberg, Danzica) aveva alcun poco perduto della sua abituale
asprezza. Evidentemente questa notizia nulla dice relativamente al
clima ma solamente allude ai palati poco delicati dei tedéschi. Col
progressivo raffinamento del palato la viticoltura si limitò a quei
distretti che davano un frutto saporito. Il nessun valore dei vini
aspri fu così l'unica cagione per cui la viticoltura decadde più tardi
in molti luoghi. Anche la Picardia, la Bretagna, la Normandia e
l'Inghilterra avevano nel Medio Evo grandi piantagioni di viti; ma
quelle uve non erano sicuramente migliori delle prussiane. Con ra-
gione osserva il Martins: se nel secolo XIII si tenevano per cose
delicate le cornacchie, le cicogne, ecc. perchè mai non si dovevano
bere con soddisfazione anche i vini aspri? »
§ 4. La regione della vite e le isotermiche. — È noto che
chiamansi isoterme o isotermiche (1-) certe linee le quali, sulle carte
geografiche, si conducono per i punti della terra che hanno la me-
desima temperatura media annuale: chiamansi poi isotere o isote-
ì-iehe quelle che vengono tracciate per le località aventi la mede-
sima temperatura media estiva; isochimene o isochimeniche quelle
(1) Humboldt fu quegli che pel primo imaginava di condurre le linee isoter-
miche pei differenti punti del globo aventi la stessa temperatura media, consi-
derata però al livello del mare.
GEOGRAFIA DELLA VITE 35
le quali passano pei paesi aventi una uguale temperatura media in-
vernale; ed infine è detto equatore termico o di calore la linea
condotta per i punti che hanno la massima temperatura media an-
nuale (1).
Tutte queste linee, come si può vedere nella Carta unita a questo
libro, sono molto irregolari; e, massime nell' emisfero boreale, non
coincidono menomamente coi paralleli, in altri termini non sono pa-
rallele alla linea equatoriale. Anche le linee, che abbiamo tracciate
per segnare i limiti polari della coltura della vite, sono a loro volta
assai irregolari; ora, tutto ciò vuol dire che esistono gravi cause le
quali modificano il clima in guisa tale, che l'avere due o più loca-
lità la stessa latitudine, non vuol dire che abbiano la stessa tempe-
ratura media. Pure ammettendo infatti la grande influenza della la-
titudine, conviene anche tener calcolo dell'altitudine, di cui ci occu-
peremo or'ora in modo speciale, della esposizione, della inclinazione,
dei venti dominanti, delle correnti marine, ora fredde ora calde, delle
pioggie più o meno frequenti ed abbondanti, della vicinanze del mare,
il quale agisce come moderatore dei climi ardenti, della natura del
suolo, e via dicendo.
Se ora ci facciamo ad esaminare ed a raffrontare fra di loro quelle
fra le linee isotermiche, isotere ed isochimeniche, le quali passano pei
paesi ove prospera e fruttifica la vite, ci sarà agevole dedurre quali
siano le temperature medie annuali, invernali ed estive che sono in-
dispensabili alla medesima. Ecco riassunti nel seguente quadro al-
cuni dati a questo proposito (2):
Temp. annuale
Mese più
freddo
Mese più caldo
(media)
(temp. media)
(temp. media)
Nantes
12°,6 C.
20°,3 C.
Parigi
10°,8
1°,9
c.
18°,7
Colonia
10°,1
1°,6
18°,5
Coblenza
10°,5
2°,5
18°,4
Dresda
9°,2
— 0°,3
18°,5
Cracovia
8°,4
— 4°,5
*
19°,4
(1) Dicesi zona isotermica lo spazio compreso tra due curve isoterme: i meteo-
rologisti ne distinguono sette.
(2) Questi dati termometrici sono tratti dall'opera Allgemeine Erdkunde di Hann.
Hochstetter e Pokorny (3a ediz, pag. 77 e 78).
36
CAPITOLO II
Odessa
9°,5
— 2°,2
21°,3
Sarepta
7°,5
— 10°,6
23°,9
Pechino
11°,8
— 4°,6
26°, 1
Boston
8U,6
— 3°,9
21°,8
Città del
Capo
19°,1
14°,3
24°,4
Valparaiso
14°, 5
12°,2
17°,2
Buenos
Aires
17%2
10°,4
24°,3
Tutte queste stazioni non si trovano precisamente lungo la linea
limite della coltura della vite, ma se ne allontanano di poco, alcune
verso il nord, altre verso il sud; per esempio Valparaiso e Buenos
Àyres trovansi un po' al nord del limite polare dell'emisfero sud.
Intanto l'esame di questo quadro ci permette di conchiudere, che alla
fruttificazione della vite sono necessarie una temperatura media an-
nuale non inferiore a 7° C, ed una temperatura massima (cioè la
media temperatura nel mese più caldo) di almeno 17° a 18° C. In
quanto alla temperatura media del mese più freddo, si vede che la
vite resiste anche ad alcuni gradi sotto lo zero, senza che i suoi
tessuti subiscano una disorganizzazione e che ne periscano assiderate
le gemme fruttifere, provvidenzialmente protette da squame più o
meno cotonose; ma non bisogna scordare che soltanto alcuni vitigni
vi resistono, e che d'altra parte in alcuni luoghi, ove la media tem-
peratura invernale si abbassa di molto, si è costretti a ricoprire le
viti con terra; la qual cosa accade specialmente ove al freddo si ac-
coppia un certo grado di umidità, per cui i tessuti delle viti sono
relativamente ricchi di succhi e quindi più soggetti ai danni del gelo
e del disgelo. È un fatto però, che la vite resiste al gelo meglio di
molti altri vegetali, e che quando il terreno è coperto di neve, può
sopportare anche 10° o 12° sotto lo zero.
La temperatura media estiva bisogna raggiunga almeno i 17° C.
senza di ciò, quand'anche il clima locale fosse temperato, la vite non
potrebbe condurre a maturità i suoi frutti: gli è quanto accade ad
esempio in Irlanda e sulle coste meridionali dell'Inghilterra, ove do-
mina bensì un clima temperato, il quale permette la coltivazione in
piena terra della camelia, del mirto e della fucsia, ma non quella
della vite, del ciliegio e di altre piante da frutto. Il Devonshire, ad
esempio, ed il Rheingau hanno ad un dipresso la medesima tempera-
tura media annuale (11° C.) ma non sono tagliati dalle stesse linee
isoteriche ed isochimeniche: il mite inverno del Devonshire (6°,2 C.)
GEOGRAFIA DELLA VITE 37
permette, come dicevamo, i mirti all'aperto, laddove nel Rheingau
sarebbero soggetti a gelo; per contro la calda estate del Rheingau
conduce a maturazione i frutti della vite, pianta che nel Devonshire
per la mancanza di calore (media temp. estiva = 15° C.) non giunge
a maturazione. Anche nella Normandia e nella Bretagna succede
lo stesso (1).
Per stabilire pertanto in quali paesi possa convenevolmente vege-
tare e fruttificare la vite, è necessario sovratutto di esaminare le linee
isoteriche, che ci danno la media del calore estivo; e ciò è tanto
vero che l'isoterica passante pei punti i quali hanno la temperatura
media estiva di 17°, coincide fino ad un certo punto col limite po-
lare nord della vite.
Invece l'esame delle linee isochimeniche ci apprende che il consi-
derare esclusivamente la media temperatura invernale non costituisce
un giusto ed attendibile criterio per delimitare la regione della vite: la
isochimenica, ad esempio, la quale passa pei punti della terra segnanti
la media temperatura di 0°, temperatura che la vite può sempre
sopportare, presenta curve assai pronunciate, che uniscono paesi,
in cui la vite non potrebbe neppure vegetare, con altri ove essa può
condurre a perfetta maturazione i suoi frutti. Accade lo stesso della
isochimenica di 4° C. che taglia l'Irlanda, ove non sonovi viti, e poi,
abbassandosi rapidamente verso sud, taglia la Francia e l'Italia set-
tentrionale, ove produconsi ottimi vini.
Infine riguardo alle linee isotermiche, le quali ci guidano per le
località terrestri che hanno la stessa temperatura media annuale,
esse pure non possono fornirci che un criterio di mediocre impor-
tanza per quanto concerne la stazione della vite; infatti, vi sono
paesi che si assomigliano riguardo alla temperatura annuale, mentre
poi differiscono sensibilmente rispetto all'estate ed all'inverno, d'onde
vegetazioni assai differenti. Gli è così che vediamo, ad esempio,
prosperare le cereali in paesi aventi una temperatura media annuale
sufficiente anche alla vite, mentre questa non vi prospera, per la ra-
gione che gli inverni vi sono troppo rigidi; ma le cereali resistono
assai meglio alle basse temperature, purché in primavera non manchi
un certo grado di caldo; ed è perciò che la zona dei cereali è limi-
tata al settentrione da una linea quasi parallela alle isotere.
Riassumendo diremo, che gli è solo dall'esame simultaneo delle iso-
(1) Peschel. Physische Erdkunde II pag. 190.
38 CAPITOLO II
tere e delle isochimene che possono trarsi conclusioni attendibili sul-
l'attitudine dei varii punti della superfìcie terrestre per la viticul-
tura: si trova allora anzitutto, che i paesi tagliati dalle isotere di 17°
o 18° e da isochimene non troppo discoste da 0°, producono vini in
cui abbondano gli acidi vegetali e scarseggia l'alcool, eccezion fatta
per speciali esposizioni a solatìo; e che le regioni più rinomate per
la produzione del vino sono tagliate da isochimene di circa 4° a 8°
e da isotere di 20° a 25°: questa grande differenza fra le tempera-
ture medie invernali ed estive giova molto alla vite, la quale, durante
l'accrescimento progressivo della temperatura dai 9° o 10° ai 17° o
18°, sviluppa moderatamente la sua parte erbacea e può poscia frut-
tificare, laddove se avesse a vegetare soltanto sotto l'influenza di un
elevato calore, si coprirebbe unicamente di rami fronzuti a scapito
dei frutti, oppure presenterebbe senza interruzione fiori e frutti a dif-
ferenti stadii di maturità, come accade in alcuni paesi tropicali là
dove la temperatura oscilla intorno ai 30°; quivi, persino sullo stesso
grappolo vedonsi talvolta acini in fiore, acini acerbi ed acini maturi,
perlocchè è impossibile la vinificazione.
Infine è evidente che l'esame delle isotere e delle isochimene ci
permette di stabilire, con molta approssimazione, confronti interessanti
fra paesi anche lontanissimi per quanto riguarda non solo la pos-
sibilità di coltivarvi la vite e ricavarne il frutto, ma altresì la
qualità del vino che vi si potrebbe ottenere, essendo facile con-
frontarli coi paesi vinicoli più rinomati: e per citare un esempio,
paragonando l'Europa coli' Australia, dall' esame delle linee suddette
si conclude che la colonia di Victoria è tanto adatta alla produzione
del vino quanto Bordeaux, Bologna e Verona; e per verità già si
ottengono, da quei vigneti impiantativi da Europei, buoni vini che
vanno sempre più perfezionandosi (1).
I lettori, esaminando la carta annessa al presente volume, potranno
(1) Se noi ci limitassimo a considerare le sole isoterme, come fece Enrico Greff-
rath, uno fra i migliori conoscitori dell'Australia, vedremmo la colonia di Victoria
posta al medesimo livello di Marsiglia, Bordeaux, Bologna, Nizza., Verona e Madrid,
paesi i quali differiscono grandemente per le qualità dei vini che vi si producono,
siccome differiscono i vini del Mezzodì della Francia e della Spagna da quelli
del bordolese (Médoc) dell'Italia Centrale e del Veronese. Ciò dimostra ancora una
volta che il solo esame delle temperature medie annuali giova a poco, sotto
questo riguardo: l'alcoolicità, per esempio, dipende quasi esclusivamente dalla
temperatura media estiva.
GEOGRAFIA DELLA VITE
39
trarne parecchie altre conseguenze di questo genere, e fors'anche
modificare la produzione, quasi diremmo 1' essenza, dei loro vigneti.
§ 5. L'altitudine e la viticoltura. — Abbiamo già accennato
alla influenza esercitata dall'altitudine, o altezza sovra il livello del
mare, sul clima d'una determinata località; vogliamo ora entrare in
maggiori dettagli, considerando 1' elevazione ne' suoi rapporti colla
stazione della vite, poiché è certo che la latitudine non basta per
determinare questa stazione stessa.
Si può ritenere che per ogni 365 metri di salita sul livello del
mare, il termometro discende approssimativamente di un grado,
più o meno a seconda di differenti circostanze ; ond' è che può
benissimo accadere di trovare su alte montagne un clima polare
laddove a' loro piedi havvi un clima tropicale: Humboldt al livello
del mare sotto la zona torrida trovò -\~ 27°,5 ed a 5000 metri di
elevazione soli -f~ 1°>5; in altre esplorazioni trovò alle falde del-
l'Oceano Pacifico -\~ 25°,3 e sulla vetta del Chimborazo (metri 6421)
— 1°,6. La ragione di questa differenza sta, come è noto, in ciò,
che l'aria mano mano che ci innalziamo va facendosi sempre meno
densa, onde viene sempre meno riscaldata dai raggi solari e solo
riceve una certa quantità di calore riverberato dalla terra; il calore
del sole si rende allora in gran parte latente, e da ciò proviene la
diminuzione della temperatura.
Ma non è possibile, considerando unicamente l'altitudine, stabilire
a quanti metri sul livello del mare possa utilmente coltivarsi la vite;
è evidente che conviene anche tenere calcolo della latitudine: si trova
allora che quanto più cresce la latitudine, tanto più diminuisce l'al-
titudine conveniente alla vite. Ad esempio, confrontando fra di loro
varii paesi d'Europa, si ha:
Nord della Svizzera . .
altitudine metri 55
Ungheria
»
» 300
Alpi (versante sud)
»
» 650
Apennini (versante sud)
»
» 960
Limite della coltura utile
Sicilia
»
» 1000
i della vite nei luoghi me-
Pirenei meridionali
»
» 1000 )
glio favoriti.
Sierra Nevada (Spagna)
»
» 1000
Himalaia (India sett.)
»
» 2500
Ande dell'America merid
»
» 3500
40 CAPITOLO II
Come vedesi, nelle Ande, che si trovano nella zona torrida, la mas-
sima altitudine della coltura della vite è segnata da una orizzontale
di oltre a 3000 metri sul livello del mare, mentre in Isvizzera si toc-
cano appena i 55 metri, locchè si spiega soltanto colla grande dif-
ferenza delle latitudini.
La vite è una fra le piante il cui limite d'altitudine è più basso,
data la stessa latitudine: supponendo infatti la latitudine di 45°, ab-
biamo la seguente scala decrescente:
Coltura del mugo circa metri 2500 (limite estremo)
»
»
larice
»
»
2200
»
»
»
»
abete
»
»
2000
»
»
»
»
frassino
»
»
1800
»
»
»
»
faggio
»
»
1200
»
»
»
»
quercia
»
»
900
»
»
»
»
castagno,
segala
ed orzo
»
»
800
»
»
»
»
frumento
e gelse
» »
700
»
»
»
»
vite
»
»
500
»
»
ive
perpe
itua
»
»
2700)
Il limite delle nevi perpetue, il quale si avvicina al livello del mare
man mano che ci allontaniamo dall'equatore, influisce pertanto sul
limite della stazione della vite, poiché quanto più quello si abbassa,
tanto più quest'ultimo diminuisce; sappiamo infatti che il limite delle
nevi trovasi
presso 1' equatore ad una altezza di metri 4818 (Quito)
a 30° di latitudine
Nord
id.
4500 (Himalaia)
a 45°-47°
»
»
id.
2700 (Alpi)
a 67°
»
»
id.
1266 (Norvegia)
a 71°
»
»
id.
720 (id.)
a 16°
»
Sud
id.
4850 (Ande America Sud)
Raffrontando questo specchio con quello ove abbiamo segnato l'al-
titudine massima della coltura della vite, si vede che quando il li-
mite delle nevi perpetue è molto elevato (per esempio 4850 metri
nelle Ande della Bolivia) la viticoltura può spingersi sino a grandi
altitudini (3500 metri pure per le Ande), mentre se quello si abbassa
GEOGRAFIA DELLA VITE 41
(es. 2700 m. nelle Alpi) si abbassa pure quello della vite (650 m.
nel versante Sud delle stesse Alpi). E ciò perchè il limite delle nevi
eterne è tanto più alto quanto più caldo è il paese sottostante.
Termineremo questo paragrafo con alcuni dati, i quali si riferiscono
più particolarmente all'Italia; la massima altitudine della coltura
della vite è segnata dalla orizzontale di:
900 metri nella Valtellina
730 » nel Tirolo
380
»
nella Valle di Chiavenna
600
»
nella Valle del Gottardo
1000
»
(maximum) sul fianco orientale del Rosa
1200
»
(id.) nella Valle d'Aosta
800 a 900
»
nelle Alpi centrali
950
»
sull'Etna.
Parlando, nel paragrafo seguente, della esposizione, diremo della sua
influenza sull'altitudine della coltura della vite; nel capitolo V (Me-
teorologia) ci occuperemo poi dei punti climenologici.
§ 6. L'esposizione, la vicinanza delle acque, le pioggie ed
altre cause che influiscono sulla stazione della vite. — La e
sposizione, ossia la posizione d'un luogo più o meno elevato rispetto
ai quattro punti cardinali Nord, Sud, Est ed Ovest (1), ha una
notevole influenza sul limite della stazione della vite a parità di al-
titudine; invero, dalle osservazioni fatte nei monti dell'Italia centrale
risulta che nei terreni esposti a mezzogiorno la viticoltura può
spingersi sino agli 800 metri ed anche oltre, laddove se i terreni
sono volti a levante non si possono oltrepassare di molto i 500 m.
sul livello del mare; avvicinandosi alle Alpi queste altezze decrescono,
ma serbano sempre fra loro una differenza proporzionale. È ovvia la
spiegazione di questo fatto, poiché tutti sanno che la esposizione Sud è
colpita dai raggi solari diretti durante un tempo più lungo, oltre di
che questi raggi cadono meno obliqui che non alle altre esposizioni;
all'Est invece abbiamo i raggi solari per minor tempo ed una lunga
irradiazione notturna; al Nord il riscaldamento dura ancor meno, ed
(1) Corrispondenti' rispettivamente a settentrione o borea, mezzogiorno o austro,
levante od oriente, ponente od occidente.
42 CAPITOLO II
è infatti a questa esposizione che l'aria ed il. terreno sono più freddi;
infine la esposizione d'Ovest riscaldasi lentamente al mattino, ma
verso sera riceve i raggi solari direttamente e perciò si conserva
più calda dell'Est, e dello stesso Sud, durante la notte. Inoltre, all'e-
sposizione di Est si forma una maggior quantità di brina che non
all'Ovest, e si hanno anche brusche alternative di temperatura, ond'è
che sotto questo aspetto quest'ultima è da preferirsi per ia vite. Le
esposizioni si potrebbero quindi così disporre, in ordine alle loro con-
venienza per la vite: 1° Sud, 2° Ovest, 3° Est, 4° Nord.
Ma 1' esame della esposizione si collega con quello della inclina-
zione del terreno; sul pendìo dei monti e dei colli la vite produce
uva più ricca di glucosio, la qual cosa significa che riceve una mag-
gior quantità di calore; ond'è che la inclinazione si può dire favorisca
una maggior estensione della stazione o distretto della vite, a parità
di latitudine e di altitudine. Infatti, i raggi solari quanto più cadono
verticalmente sul terreno, tanto più sono numerosi e tanto più lo
riscaldano, ed è ciò che accade nei luoghi inclinati; invece sovra
un terreno orizzontale, vale a dire piano, i raggi del sole battono
obliquamente, si spandono quindi sovra una superficie maggiore e
perciò lo riscaldano meno. Si aggiunga a ciò che nei terreni incli-
nati l'acqua piovana penetra a poca profondità e li raffredda meno.
Anche la vicinanza delle acque, modificando il clima, influisce sui
limiti della regione della vite: è noto, ad esempio, che nei paesi più
vicini al nord, le regioni costiere e le isole sono sensibilmente meno
fredde che non l'interno dei continenti. Invece nella zona tropicale
le contrade interne sono assai più calde di quelle marittime; gli è
che una superficie d'acqua è sensibilmente meno riscaldata che non
una superficie terrestre, massime se questa è spoglia di vegetazione;
in tal caso anzi, la differenza di temperatura è rilevante. Il calore solare
vien impiegato in parte nella evaporazione dell'acqua; inoltre durante
la notte la terra irradia calore, mentre ciò non accade dalle acque;
quindi la minor temperatura dei climi marittimi o litorali a petto di
quelli continentali.
Alcune regioni costiere di paesi freddi, mercè la vicinanza dei mari
godono bensì di una temperatura annuale più elevata, ma quella estiva
non è sufficiente a certe coltivazioni, laddove nei continenti posti ad
uguali o minori latitudini ciò è possibile, benché abbiano una media tem-
peratura annuale assai meno elevata; per esempio in Islanda il frumento
e la segala non giungono a maturazione, mentre vi giungono a Jakutzk
GEOGRAFIA DELLA VITE
43
in Siberia, benché il freddo scenda a 38° C. sotto lo zero e la an-
nuale temperatura media sia di circa — 9°; ma durante il breve e caldo
estate si ha una temperatura media di 17° sopra lo zero, onde ve-
getano e fruttificano le due cereali suddette.
Sotto le alte latitudini sono quindi preferibili, per certe coltivazioni,
fra cui va annoverata la vite, le contrade interne (quando bene inteso
non siano soggette, come la Siberia, ad eccessivi freddi j emali); in
Irlanda e sulle coste meridionali dell'Inghilterra, come già dicemmo, la
vite non può prosperare appunto perchè si tratta di climi marittimi, i
quali hanno alquanto temperato il calore estivo e però non sufficiente
al nostro arbusto.
Anche le pioggie modificano il clima ed agiscono analogamente
alle masse d'acqua, cioè lo temperano. Si sa che la quantità d'acqua di
pioggia cresce andando dal polo verso l'equatore, perchè sotto la
zona tropicale è maggiore la evaporazione essendo maggiore la tempe-
ratura , e perciò si hanno più abbondanti precipitazioni ; infatti
supponiamo d' avere una temperatura di 25°, e che succeda un
abbassamento di 10°; in allora un metro cubo d'aria satura di umidità
darà grammi 10,44 di vesichette o goccioline di vapore acqueo: in-
vece mettiamo di avere una temperatura di 10° e quindi una dimi-
nuzione a 0°; allora lo stesso volume d'aria satura abbandonerà soli
grammi 4,91 di vapore acqueo. Dalle osservazioni fatte sui rapporti
che passano fra la quantità d'acqua piovana e le latitudini è risul-
tato approssimativamente quanto segue:
Millimetri
di pioggia annuale
Millimetri
di pioggia annuale
All'equatore .... 3000
Al grado 10 lat. Nord 2850
» 20 » 2410
» 30 » 1320
» 40 » 900
Al grado
»
»
»
»
50 lat. Nord 710
60 » 540
70 » 410
80 » 320
90 » 250
Ma ciò che più influisce sulla coltura utile della vite, non è già
la quantità della pioggia, bensì il numero di giorni piovosi che si
hanno dal momento della fioritura sino a quello della vendemmia; se
questo numero eccede un certo limite, che studieremo meglio al capitolo
Meteorologia applicata alla viticoltura, citando numerose osservazioni
da noi fatte, i frutti della vite vanno totalmente perduti; ed un paese
che si trovasse in simili condizioni rimarrebbe escluso dalla zona
della vite: su di che ci siamo già intrattenuti a lungo discorrendo
(pag. 30) della viticoltura nella zona delle pioggie.
44 CAPITOLO II
Sotto questo riguardo l'Italia si trova in ottime condizioni, perchè
quantunque vi cada molta pioggia, più di quanta ne cada nel
nord d' Europa, tuttavia essa conta in primavera ed in estate
assai meno giorni piovosi, il che è molto favorevole alla buona e co-
piosa fruttificazione delle viti; ecco al proposito alcuni dati:
Giorni di pioggia
Pioggia in millimetri
dall'aprile al settembre
dall' aprile al settembre
Pietroburgo
78
294
Londra
84
276
Bruxelles
79
324
Lilla
80
438
Parigi
75
335
Praga
79
258
Milano
41
372
Roma
32
247
Palermo
30
113
A Parigi quindi, nei mesi di aprile, maggio, giugno, luglio, agosto
e settembre, cadrebbe quasi tant' acqua che a Milano; solo che
mentre questa è distribuita in soli 41 giorni, quella è distribuita in
75, e cadendo con minor impeto può essere assorbita dal terreno,
laddove a Milano in grande parte scorre alla superfìcie battuta ed indu-
rita dalla pioggia stessa. Le condizioni di Milano sono perciò assai
più favorevoli alla vite che non quelle di Parigi, sotto questo riguardo.
Anche la varietà dei vitigni può influire sulla stazione della
vite; è noto che certi vizzati resistono meglio di altri al freddo inver-
nale e primaverile, onde con essi il limite polare della viticoltura può
spingersi a più alte latitudini, massimamente se vengono coltivati
bassi, perchè allora usufruttano anche il calore riverberato dalla
terra.
Influiscono pure sui limiti del distretto della vite i venti domi-
nanti, che abbassano od innalzano la temperatura secondochè pro-
vengono da luoghi freddi o caldi: ad esempio le coste occidentali dei
continenti, particolarmente nelle zone temperate, sono generalmente
più calde delle orientali. Così, per il continente americano, la tem-
peratura media annuale di 0° corrisponde, sulle coste occcidentali,
alla latitudine di 60°, sulle coste orientali a quella di 50°: per l'an-
tico continente la stessa temperatura di 0° corrisponde, sulle coste
occidentali, alla latitudine di 71° (capo nord della penisola Scandinava),
GEOGRAFIA DELLA VITE 45
e sulle coste orientali (Asia) alla latitudine di 47°. Questa differenza
tanto sensibile proviene da che, mentre i venti polari e le correnti
fredde del nord predominano in America lungo le coste del Labrador,
del Canada, e nel mondo antico lungo le coste della Siberia, le rive
opposte sono esposte liberamente alla azione dei venti caldi di sud-
ovest, ed a quella delle calde correnti dell'Atlantico e del Pacifico (1).
In quanto alle correnti marine, è noto che quella così detta del
golfo (gulfstream) innalza la temperatura della costa nord-ovest
dell' Europa. È facile intendere quindi come i venti dominanti e le
correnti marine possano influire sul limite del distretto della vite.
Infine, vi possono altresì influire la natura fisico-chimica del
suolo, la maggiore o minore frequenza delle brine e delle grandini,
nonché la ricchezza della vegetazione dominante, e specialmente
le folte piantagioni, le quali mitigano il clima, come è noto a tutti.
(1) L. Hugues Geografia generale, pag. 44.
CAPITOLO III
Statistica della vite.
§ 1. La viticoltura in Italia — § 2. La viticoltura in Francia — § 3. La viti-
coltura in Ispagna ed in Portogallo — § 4. La viticoltura nell' Austria-Ungheria
— § 5. La viticoltura in Germania — § 6. La viticoltura in Isvizzera — § 7.
La viticoltura in Grecia, in Russia ed in Oriente — § 8. La viticoltura nel-
l'America del Nord — § 9. La viticoltura nell'America del Sud — § 10. La
viticoltura in Africa — § 11. La viticoltura in Australia — § 12. La viticol-
tura in Asia — Riassunto e conclusione.
§ 1. La viticoltura in Italia. — La vite occupa in Italia una
superfìcie di circa ettari 1,870,109 dai quali ottengonsi da 27 a 30
milioni di ettolitri di vino, corrispondenti ad una media di 14,50 a
15 ettolitri di vino all' ettare (V. § II,' pag. 2). Supponendola di-
visa in dodici regioni, la nostra produzione vinicola sarebbe così
distribuita:
REGIONI
Superfìcie
coltivata a viti
(sola od associata
ad altre culture)
Ettari
Produzione
totale
Ettolitri
la Piemonte
2a Lombardia
3a Veneto
4a Liguria
5a Emilia
6a Marche ed Umbria . . .
7a Toscana
8a Lazio
9a Meridionale Adriatica . .
10a Meridionale Mediterranea
lla Sicilia
12'' Sardegna
Totale . .
117,302
140,786
242,987
44,326
168,462
145,368
219.432
43,996
267,355
244,455
211,454
24,186
1,870,109
2,706,196
1,895,302
2,604,949
598,340
1,990,161
1,917,346
2,688,346
835,924
3,534,476
3,668,304
4,246,363
450,827
27,136,534
STATISTICA DELLA VITE
47
Le provincie che più danno vino sono le seguenti:
Palermo . . Ettolitri 1,025.050
Alessandria
» 933,750
Firenze
» 927,336
Trapani
» 837,490
Teramo
» 783,750
Torino
» 770,760
Bari .
» 752,822
Catania
» 723,801
Perugia
» 606,408
Potenza
» 604,240
Siracusa
» 554,800
Aquila
» 550,200
Caltanissettc
i
» 539,212
Chieti
» 534,000
Cosenza
» 531,101
Vicenza
» 528,830
Novara
» 507,280
Siena .
» 495,360
Cuneo
» 494,406
Catanzaro
» 487,290
Verona
» 470,730
Le altre provincie scendono da 450 mila ettolitri circa sino a
50 mila, che è il minimo (Belluno).
La produzione massima per ettare si ottiene nelle seguenti pro-
vincie :
Alessandria
. Ettolitri
25,00 in
media
Torino
»
24,00
»
Cuneo . . ,
»
22,00
»
Girgenti .
»
21,00
»
Trapani .
»
20,80
»
Novara .
»
20,00
»
Messina .
»
20,00
»
Siracusa .
»
20,00
»
Caltanissetta . ■
»
20,00
»
Catania .
»
19,50
»
Palermo .
»
19,00
»
48
CAPITOLO III
Napoli
»
19,00
»
Sassari .
»
19,00
»
Cagliari .
»
18,30
»
Sondrio .
»
18,00
»
Porto Maurizio
»
18,00
»
Salerno .
»
18,00
»
Le altre provincie hanno una produzione che scende da 1 7 etto-
tolitri a 10 ettolitri. Questi dati però non hanno un valore asso-
luto, inquantochè il prodotto dei vigneti italiani è stato qui calcolato
sulla base dei terreni vitati in genere, senza fare distinzione fra vi-
gneti specializzati, o veri vigneti, e terreni a coltura promiscua della
vite con altre piante; nel qual caso, come è evidente, il prodotto per
ettare diminuisce in ragione inversa della grandezza degli spazii che
intercedono fra le viti. Infatti, nella provincia di Alessandria, ove pres-
soché tutti i vigneti sono specializzati o quasi, la media del prodotto
è la più elevata fra tutte; lo stesso deve dirsi del Piemonte in ge-
nere e della Sicilia.
Facendo le medie dei prodotti per regioni, abbiamo desunto i se-
guenti dati dalle pubblicazioni del Ministero d'Agricoltura:
pei
■ ettare
Piemonte
media
più alta
(1)
Ett.ri
23
Sicilia
id.
»
20
Lazio
id.
»
19
Sardegna
id,
»
18
Regione Mer.
medit.
id.
»
15
»
Adriatica
id.
»
13
Marche ed Umbria
id.
»
13
Lombardia
id.
»
13
Liguria
id.
»
13
Toscana
id.
»
12
Emilia
id.
»
11
Veneto
id.
»
10,70
Ma noi temiamo che in questi dati vi siano talune inesattezze, e
lo deduciamo dalla loro discordanza da quelli che ebbimo da viti-
cultori di varie fra le suddette regioni: d'altra parte certe medie
(1) S'infondo fra le vario Provincie (lolla ro<>ione aooennata.
STATISTICA DELLA VITE 49
molto basse non si possono applicare a tutti i comuni di una data
regione: per esempio in Toscana, in Lombardia, nel Veneto e Sovra-
tutto nei due versanti dell'Italia meridionale, vi sono locali ove il
prodotto medio delle viti è certamente superiore ai 15 ettolitri ad
ettare: dappertutto poi in Italia vi sono esempii di produzioni che
oltrepassano i 50 ettolitri per avvicinarsi al centinaio, ed è grande
ventura che vi siano questi brillanti esempli pratici a persuadere i
miscredenti.
In Italia produconsi vini d'ogni specie; dagli alcoolici e liquorosi
del mezzodì, a quelli da pasto scelti del centro e del settentrione ;
però anche la regione meridionale, in speciali condizioni, può produrre
ottimi vini da pasto, ed è noto d' altra parte il grande commercio
che essa fa di vini da taglio o concia. La viticoltura italiana novera
numerosissime e svariatissime varietà di vitigni, atti a produrre ogni
sorta di vino; quello da pasto scelto, quello da pasto usuale, da con-
cia, da esportarsi, il vino profumato, il vino bianco asciutto, quello
dolce, quello sciropposo, quello alcoolico, infine il vino spumante;
locchè è anche la conseguenza della estensione del nostro territorio,
che va dal 37° al 46° di latitudine e che presenta quindi grandi va-
rietà di clima, di suolo e di esposizioni. Nessun paese del mondo è
tanto favorito dalla natura quanto l'Italia, ed è perciò a sperarsi che,
proseguendosi negli studi viticoli ed enologici coll'ardore che si di-
spiega oggigiorno, essa verrà ad occupare il primo posto fra i paesi
vitiferi del mondo, quale spetta all'Avita Enotria.
§ 2. La viticoltura in Francia (1). — Nel 1869 la Francia
contava 2,441,246 ettari a vigna; alla fine del decorso 1883 ne con-
tava soli 2,095,927, perchè la fillossera aveva distrutti nel frat-
tempo ettari 345,319, locchè è enorme, se si pensa che una simile
diminuzione avvenne in soli 4 anni. La produzione del vino ha se-
guito dal 1875 al 1883 le seguenti oscillazioni, dovute in gran parte
ai danni della fillossera, ma altresì alle avverse stagioni, specie negli
ultimi quattro anni:
1875 ettolitri 83,632,000 (massima produzione del secolo)
1876 » 41,848,000
1877 » 56,405,000
(1) Si vegga anche il § II, pag. 3.
O. Ottavi, Trattato di Viticoltura.
50 CAPITOLO III
1878
»
1879
»
1880
»
1881
»
1882
»
1883
»
48,720,363
25,700,000 (condizioni climatol. pessime)
29,677,472 id. mediocri)
34,138,715 id. »
30,886,352 id. »
36,029,182 id. »
Dai dati che abbiamo sott' occhio (1869-1873) deduciamo le se-
guenti tre medie: dal 1869 al 1873 ett. 53,659,112 — dal 1874 al
1878 ettol. 58,750,236 — e dal 1879 al 1883 ettolitri 31,300,254.
Questa forte diminuzione nel prodotto annuo, dà la misura della gra-
vità dell'invasione fillosserica.
Ma, nonostante la fillosseronosi, la Francia ha però saputo mantenere
allo stesso livello di prima la sua esportazione vinicola; anzi 1' ha
accresciuta: ecco i dati che desumiamo dalle pubblicazioni ufficiali
del Governo della Repubblica:
nel 1876 esportazione di vini per L. 216,200,000
»
1877
id.
id.
» 225,500,000
»
1878
id.
id.
» 207,100,000
»
1879
id.
id.
» 264,900,000
»
1880
id.
id.
» 254,600,000
»
1881
id.
id.
» 264,200,000
In un sesennio l'esportazione si sarebbe adunque accresciuta al-
l' incirca di un quarto.
Anche la Francia, come l'Italia, produce nei suoi 44 dipartimenti
vitiferi svariate qualità di vino, dai finissimi Sauternes bianchi, ai
Bordeaux, ai Borgogna ed ai Champagne. È pregio dell'opera dare
qualche maggior notizia sui Bordeaux, del dipartimento della Gir onda.
In questo dipartimento vi sono meglio di 150 mila ettari di vi-
gneto sopra 975 mila di superficie totale: eppure non si producono,
computando una raccolta mediana, che all'incirca 3,300,000 ettolitri
di vino, tra rosso e bianco. Questo prodotto corrisponde ad una
media di 22 ettolitri ad ettare, locchè non è molto. Ma con tutto
questo il detto dipartimento ritrae dalle sue viti e da' suoi vini
tanto lucro da poter disporre per ogni abitante — e gli abitanti sono
colà 589 mila — di circa cinquecento lire all'anno, mentre i vigneti
non occupano che un sesto della superfìcie totale del dipartimento
stesso.
STATISTICA DELLA VITE 51
Fra le cinque plaghe in cui può dividersi la Gironda, una ve n'ha
— il Médoc — che produce vini rossi di qualità superiore, i quali sono
pagati ad assai cari prezzi dai buongustai di Francia e di fuoravia:
in questa plaga vi sono su per giù 20 mila ettari vignati, ed anche
qui non si ricavano che ad un dipresso 364,800 ettolitri di vino, vale
a dire poco più di 18 ettolitri ad ettare. Questo prodotto non è una
grande cosa; eppure frutta, secondo i nostri calcoli, oltre i sessanta
milioni di lire ogni anno.
Il Médoc, dei 364,800 ettolitri di vino che produce, ne conta 41
mila che sono vini superiori, e che si vendono, secondo la media che
abbiamo potuto fare dei prezzi di varii anni, a circa 400 lire l'etto-
litro. In media quindi fruttano più di 16 milioni di lire, le quali in
grande parte vengono dall'estero. Ma nel Médoc sonovi ancora altri
40 mila ettolitri di vini fini, se non superiori, che rendono circa un 12
milioni di lire, ben inteso reddito brutto. E poi rimangono i vini ordi-
nami, che rappresentano un provento brutto di circa 36 milioni di lire,
e ciò senza contare les petits paysans del Basso Médoc e via dicendo.
Il Médoc è una terra fortunata, e lo è grazie alla vigna, ma più ancora
grazie alla perizia di quelli fra i suoi abitatori, che fabbricano il vino.
Lo stesso devesi dire di tutta la Gironda, dove dalla piccola su-
perficie a vigne si ricavano brutti 225 milioni di lire, netti 150 mi-
lioni; dove una sesta parte del dipartimento produce tanto da ali-
mentare una popolazione doppia di quella che esiste nell'intero di-
partimento stesso; dove infine la vigna rende tre volte di più del
prato, del bosco e del campo.
Il reddito in vino per ogni ettare di vigneto varia assai in Francia :
ove produconsi vini usuali, quasi diremmo da distillare (il che face-
vasi su vasta scala nel Mezzogiorno prima della invasione fillosserica)
il prodotto per ettare tocca anche i 300 ettol. di vini a basso titolo al-
coolico. Però, per la produzione dei buoni vini da pasto di grande
consumazione non si spinge la vite a dare più di 40 a 50 ettolitri
ad ettare, i quali riduconsi poi a 20 o 25 se si tratta di vini rossi
fini: anzi per certi vini bianchi di qualità ricercatissima, come il Sau-
terne (1) non si va oltre i 10 ettolitri; ma, nonostante si vendano
a caro prezzo, si calcola che i capitali investiti in quei famosi predii
non frutti ao più del 5 per cento (2).
(1) Comune del bordolese, che diede il nome a tutti i famosi vini della località.
(2) Molti altri dettagli potranno trovarsi nella nostra Monografia sui vini di
lusso (2a edizione pag\ 197).
52 CAPITOLO III
§ 3. La viticoltura in Ispagna ed in Portogallo. —
a) Spagna. È questo un paese importante per la produzione vini-
cola, la quale mentre da alcuni si fissa in 25 milioni di ettolitri, da
altri invece si porta ai 30 milioni; noi pensiamo però, in base ai
dati che raccogliamo dal 1875 a questa parte sui giornali vinicoli
spagnuoli (specialmente sull'ottimo giornale Los vinos y los aceiles)
che la produzione non oltrepassi di molto i 25 milioni anche in an-
nate buone, tantoché la media delle annate normali darebbe solo
da 20 a 22 milioni di ettolitri. La Spagna conta 1,400,000 ettari di
vigne, sovra una superficie territoriale complessiva di 507,036 chi-
lometri quadrati; la vigna occupa adunque Y36 della superficie, e pur
tuttavia vi rende annualmente quasi 750 milioni di lire, vale a dire
circa quanto rende la viticoltura italiana; bene inteso qui parliamo sem-
dre di reddito brutto. Ma convien notare che mentre la Spagna ottiene
questo reddito lordo soltanto sulla 36ma parte del suo territorio, l'I-
talia vi impiega Y13 del proprio, locchè assai verosimilmente dipende
dalla minore estensione dei veri vigneti specializzati, che, a parità
di superficie, sono i più redditivi.
La Spagna, oltre ai vini, esporta anche grandi quantità di uve sec-
che; in media sono 37 milioni di chilogrammi all' anno del valore di
circa 25 milioni di lire. I prodotti delle sue vigne si possono pertanto
così classificare: 1° Vini comuni da pasto; 2° Jeres e vini simili;
3° Vini generosi; 4° Uve secche.
La fillosseronosi si è dichiarata anche ìd Spagna fin dal 1878 in
una proprietà chiamata l' Indiana , a 18 chil. da Madrid; Malaga,
l'Ampurdan e Salamanca sono invase dal terribile afide, e la malattia
vi si estende gradatamente; su di che entreremo in maggior dettagli
studiando la fillosseronosi.
b) Portogallo. Anche riguardo alla produzione vinifera del Por-
togallo sono discordi i dati che abbiamo potuto raccogliere; chi la
fa ascendere a 9,000,000 di ettolitri, e chi la riduce a soli 4,000,000:
quest'ultimo dato però, secondo noi, è erroneo; perchè non tiene cal-
colo dei molti nuovi vigneti che da 10 a 15 anni a questa parte si
sono impiantati colà. La vite occupa quasi 250 mila ettari, cioè
circa la 40raa parte del territorio. Il vino più famoso del Portogallo
è il Porlo che si produce nel Douro ; la sua produzione annua
ascende a 400 mila ettolitri (cioè 80 mila pipe da 500 litri); però il
Porto di prima qualità si ottiene solo neìYAlto-Doiiro (100,000 et-
STATISTICA DELLA VITE 53
tolitri) e vale, quando è nuovo, 275 lire la pipa (1); la seconda qua-
lità (150,000 ettol.) si produce nel Douro inferior e si vende, nuovo,
a 194 lire la pipa; la terza qualità L. 111. In totale la valle del
Douro ha, dal vino di Porto, un reddito lordo di oltre a 14 milioni
e mezzo di lire. Ma oggi questo paese è fillosserato, sin dal 1864, e
perciò il suo reddito è in continua diminuzione.
§ 4. La viticoltura nell'Austria-Ungheria. — a) Austria. La
vite occupa in Austria una superficie di ettari 210,513, per una superficie
territoriale di 300,190 chilom. quadrati; ciò che corrisponde alla 142ma
parte del territorio: il reddito lordo di queste vigne si calcola ascen-
dere, secondo il consigliere aulico H. De Hamm, a 58 milioni di lire,
cioè L. 16 ad ettolitro, calcolando una produzione annuale media di
ettolitri 3,692,500; però non tutti i vini austriaci valgono così poco,
e si sa che alcune qualità ottengono le 30 e le 40 lire l'ettolitro (Bassa
Austria). Ecco alcuni dettagli che si riferiscono alla produzione vini-
cola dell'Austria (2) : nella Bassa Austria ogni etraro produce circa
20 ettolitri di vino; nella Stiria e nella Carinzia eira 8; nella Car-
neola 18; in Boemia 9; nel Tirolo settentrionale 23; nel Tirolo me-
ridionale (Bolzano, Trento e Rovereto) circa 40; nel Vorarlberg 31;
nella Moravia 15; nella Bukovina 6; in Gorizia 10 a 12 secondo il
genere di cultura; a Trieste da 20 a 38 parimente secondo la coltura :
nell'Istria da 5 a 9, e nella Dalmazia da 6 a 10 (3).
b) Ungheria. L'Ungheria, con una superficie di 323,853 chilometri
quadrati, novera 425,314 ettari a vigna (lr76 della superficie), i
quali producono in media 8,506,280 ettolitri di vino; il reddito lordo
vien calcolato in 255 milioni di lire, cioè L. 30 per ettolitro; questo
elevato prezzo è dovuto ai rinomati vini fini dell'Ungheria,
La produzione totale dell' Austria-Ungheria ascenderebbe quindi a
12,198,780 ettolitri, dai quali essa avrebbe un reddito brutto di 313
milioni di lire ad un dipresso. Anche 1' Austria e l'Ungheria sono
fillosserate: ne riparleremo più oltre.
§ 5. La viticoltura in Germania. — Questo impero conta
circa 150 mila ettari vitati, nella sua parte meridionale, laddove la
(1) Breve noticia da Viticultura Portugueza. — Lisboa 1874 (Pubblicaz. uff.).
(2) Kohenbruck (von) Arthur. Die Weinproduction in Oesterreich ecc. 1873.
(3) Statistiche del Ministero d'Agricoltura. Vienna 1875.
54 CAPITOLO III
sua superficie territoriale è di chilometri quadrati 542,834; la vite
occupa dunque appena la 362ma parte del territorio germanico e vi
produce annualmente circa 2,600,000 ettolitri di vino, cioè 17 a 18
ettolitri per ettare; il reddito lordo ammonta approssimativamente a
130 milioni di lire annue, cioè in media L. 50 all'ettolitro; ciò è dovuto
all'elevato prezzo di parecchi fra i suoi vini, fra cui eccellono quelli
notissimi del Reno. In questo distretto (Rheingau) la vigna produce
talvolta anche soli 15 ettolitri di vino all'ettare, ma si tratta allora
di vini sopraffini e ricercatissimi i quali vendonsi anche oltre le 2000
lire per ettolitro: i più rinomati sono il Johannisberg (20 ettari) ed
il Liebfrauenmilch (latte della Madonna) che si produce a Worms;
in secondo ordine vengono i vini del Palatinato. Si noti però, che in
questo distretto del Reno il raccolto dell' uva spesso fallisce, per le
poco favorevoli condizioni climatologiche; basti il dire che in un se-
colo (1770-1869) si ebbero 58 anni di raccolto perduto, 30 di me-
diocre e soli 11 di raccolto completo, ossia ein Hauptweinjahr 'e come
si dice colà.
Anche in Baviera la vite è coltivata con molta intelligenza; contasi
quivi 24 mila ettari vitati, i quali producono in media circa 25 ettolitri
di vino caduno, vale a dire una media superiore a quella dell'intera
Germania (1). La Prussia renana conta essa pure 20,000 ettari vitati,
il Wurtemberg 19,000, il Baden 18,000, e l'Assia 8000.
§ 6. La viticoltura in Isvizzera. — Questo paese conta
34,600 ettari a vigna, secondo le accurate indagini del D.r V. Fatio
da Ginevra; i quali, calcolando che producano al massimo 35 etto-
litri di vino ad ettare del valore commerciale di 27 lire V ettolitro,
darebbero un prodotto annuo di ettolitri 1,211,000 ed un reddito
lordo di 32,697,000 lire. La vigna occuperebbe in Isvizzera la 120mft
parte del territorio.
I cantoni vitiferi sono quelli di Sciaffusa, Ticino, Ginevra, Vaudo,
Neuchàtel e Basilea Campagna.
§ 7. La viticoltura in Grecia e Cipro, in Russia ed in
(1) Queste notizie sulla Germania furono comunicate dal consigliere intimo
Weimann, dal prof. Noerdlinger e. dal D.r Buhl al D.r Fatio in occasione del
Congresso fillosserico di Losanna (1877) — Vedi Etat de la question phylloxé-
rique pag. \H e seg.
STATISTICA DELLA VITE 55
Oriente. — a) La Grecia conta soli 40,000 ettari di vigne, benché
il suolo ed il clima siano quanto mai appropriati alla viticoltura: le
vigne trovansi specialmente nell'Eliade, nelle isole dell' Arcipelago e
sovratutto nella Morea. Fra i vini sono rinomati quelli delli Cicladi, spe-
cialmente i prodotti di Santorino e di Tynos. Si calcola che la Grecia e le
sue isole producano circa 4 milioni di ettolitri di vino (H. Hamm); ma
questo dato ci pare erroneo, se badiamo alla piccola estensione dei vi-
gneti in quel regno. Infatti il Moniteur Vinicole (gennaio 1884) as-
segna alla Grecia, più l'isola di Cipro, la sola produzione complessiva di
1,600,000 ettolitri. Dai nostri calcoli risulterebbe che la Grecia colle
sue isole produce in media soltanto 1 milione di ettolitri di vino.
Per dare un'idea dell'importanza del commercio delle uve secche
di Grecia (golfi di Corinto e di Patrasso) indicheremo qui le quan-
tità di uve di Corinto (passolina) esportate dal porto di Patrasso
nell'anno 1878:
Uva proveniente da Patrasso libbre venete (1) 23,673,456
»
Egina
»
19,225,834
»
Zante
»
14,002,853
»
Cefalonia
»
24,527,908
»
Catacolone
»
23,096,201
»
Corinto
»
10,745,651
»
Nupactia
»
98,305
»
»
Missolungi i
Etslicone j
»
1,214,875
»
Elide
»
9,174,434
»
Trifilla
»
17,035,058
»
Leucade
(S. Maura)
»
10,370
»
Messenia
»
8,858,430
Totale 151,663,379
Se vi aggiungiamo l'uva uscita dagli altri porti del Reame di Grecia,
raggiungiamo il totale di 170 milioni di libbre venete. La Francia da
sola nel 1878 ne comperava per 30 milioni di libbre al prezzo di lire
270 ogni 1000 libbre, cioè L. 50 al quintale; però nel 1882 e 1884
corrente il loro prezzo scese in Francia a L. 35 a 37 al quintale.
(I) Circa \\2 chilogramma.
56 CAPITOLO III
Il rimanente è spedito sovratutto in Inghilterra, a Trieste, in Ger-
mania e negli Stati Uniti d'America.
b) L'isola di Cipro conta 8000 ettari a viti, i quali producono
150 mila ettolitri di vino; si calcola che ogni ettare produca 20 et-
tolitri di vino rosso, e soli 8 a 9 ett. del vino rinomato della Com-
manderia. La coltura delle viti a uve nere si incontra specialmente
intorno ai monti Olimpici e presso Idalia. Neil' isola si producono
moscato soprafìno e vini rossi o neri, che si smerciano in Siria, in
Egitto ed a Trieste.
cj La Russia Europea ha una assai meschina importanza come
produttrice di vino: infatti H. Hamm (1) calcola ne produca appena
650 mila ettolitri, naturalmente nella sua parte meridionale, la sola
che sia compresa nella zona della vite; altri invece ne porta il pro-
dotto ad oltre il milione e mezzo di ettolitri. Gli è specialmente nella
Bessarabia, nei dintorni di Odessa, nella Caucasia, nel Regno di A-
stracan ed in Crimea che si coltivano viti; il suolo ed il clima della
Crimea vi sono assai adattati, come lo sono eziandio ad Astracan e
nel Caucaso; ma tuttavia la viticoltura vi è ancora relativamente
poco estesa, nonostante gli sforzi del Governo russo intenti a diffon-
dere questa coltura nella parte meridionale dell'impero (2). Disgrazia-
tamente nel 1880 venne segnalata la fillossera a Magaradska, appunto
in Crimea nonché nel Caucaso. — Ad Astracan le uve sono squisite:
Humboldt, nel suo Cosmos (3), dice: « io non vidi mai in alcuna parte
del mondo, neppure nelle isole Canarie, né in Ispagna, nò nella Francia
Meridionale, frutta squisite e specialmente uve più belle che ad Astracan
presso le spiagge del mar Caspio, dove con una media temperatura
annua di circa 9°, la temperatura media nell'estate sale a 21°,2 C. »
La produzione vinicola della Russia si suddivide approssimativa-
mente come segue:
Bessarabia . .
Crimea
Governo di Cherson
Caucasia (Nord) . .
Caucasia (Sud) . .
Ettolitri 369,000
» 148,000
19,000
» 406,000
» 1,000,000
(1) Loc. cit.
(2) Nel 1884 il Governo Russo deliberava di aprire una Scuola di Viticultura
nel Caucaso.
(3) Kosmos, tomo I, pag. 347.
STATISTICA DELLA VITE 57
dj Turchia Europea. La Rumanìa. Si calcola che questo
principato (Valachia e Moldavia) produca annualmente 600 mila
ettolitri di vino sovra 90 mila ettari vitati: però, secondo la rela-
zione ufficiale della vendemmia del 1872, la Rumanìa avrebbe pro-
dotto 1,037,436 ettolitri di vino, mentre la superfìcie dei vigneti sarebbe
ora di 102,000 ettari, il che indicherebbe un progresso nella viticol-
tura. Gli è specialmente nei paesi collinosi dell'altopiano della Tran-
silvania (Carpazii del sud-est) che si coltiva la vite.
e) La Serbia. Anche in questo principato si coltiva con cura
la vite; non possiamo però precisare su quanta superficie, né quanto
vino si raccolga annualmente. I vini di Serbia erano fino a questi
ultimi tempi poco o punto conosciuti; si credevano mal preparati,
di cattiva qualità, malsani ecc. Ora però la Francia, che cerca o-
vunque vini, ha rivolto l'occhio anche sulla Serbia e, come rimarca
il Barone Babo nel giornale Die Weinlaube, quei vini sono di
esimia bontà, sempre sani, genuini e possono venire esportati diret-
tamente dal paese. Sono vini per la maggior parte d'intenso colore
rosso; mescolandone un ettolitro con ugual quantità di vino bianco,
questo si colora come il più rosso vino di Vòslau (località presso
Vienna dove produconsi vini di eccellente qualità). Quel che più au-
menta il pregio dei vini della Serbia è questo; nel mentre essi con-
tengono gran quantità di tannino, sono assai poveri di acidi, pro-
prietà codesta che manca ai vini della Dalmazia, del Tirolo meridio-
nale, dell'alta Italia, dell'Istria. E ciò non dipende dal clima, non
dal suolo, ma dalle diverse varietà di uve che si coltivano in Serbia,
fra cui anche la Catawba (1). L'intensità del color rosso si credeva
a principio artefatta usando la fuscina, ma Babo trovò i vini della
Serbia sempre genuini, sani e di gratissimo sapore. Ora essi vanno
in Francia e nella Svizzera.
f) La Bosnia, la Erzegovina e la Bulgaria producono a lor
volta buoni vini, e costituiscono anzi i paesi esportatori di simile prodotto
della Turchia Europea; ci mancano però i dati precisi sulla estensione
e sui prodotti di quei vigneti. Solo sappiamo che nel 1884 il Governo
di Bulgaria deliberava di aprire alcune Scuole Viticole ed Enologiche,
in vista dell'importanza che va acquistando colà l'industria del vino (2).
(1) Uva americana originaria della Carolina del Nord, nera o bianca; di essa
parleremo al capitolo Viti americane : per intanto veggasi anche il § 8 che segue.
(2) I concorrenti al posto di Direttore possono rivolgersi al Ministro dei lavori
pubblici e di agricoltura a Sofia.
58 CAPITOLO III
§ 8. La viticultura nell' America del Nord. — È pregio
dell'opera esaminare con qualche dettaglio lo stato della viticultura
nell'America Settentrionale, inquantochè trattasi di un vastissimo di-
stretto, nel quale vegeta la vite, e che potrebbe produrre grandi
quantità di vino, qualora la viticultura continuasse ad estendersi con
quella rapidità che si è notata in quest'ultimo decennio, e quando
venissero a coltivarsi di preferenza certe specie o varietà che danno
vini potabili e non sgradevoli, come sono molti fra quelli delle viti
del Nord-America. Premetteremo che, a cagione della fillossera, che
vi è colà indigena, almeno nei paesi dell'est delle Montagne Rocciose,
la vite europea introdottavi replicatamente non vi potè mai attecchire.
Dopo la scoperta d' America si tentò di portare colà parecchie va-
rietà della nostra vite onde essere in grado di fabbricare buon vino.
Nel 1630 una Compagnia di Londra inviò alcuni viticultori francesi nella
Virginia coll'incarico di piantarvi delle varietà europee, che quei viticul-
tori stessi avevano portato seco loro; ma i tentativi fallirono. Nel 1633
William Penn volle tentare la stessa cosa nella Pensilvania; senonchè egli
pure fallì ed in breve tempo le giovani piante morirono. Nel 1690 il ten-
tativo fu rifatto da alcuni viticultori dei dintorni del lago di Ginevra;
essi si recarono negli Stati del Sud (Kentucky) ma vi rimisero ben
50,000 lire; allora si diedero a coltivare una vite del luogo, cioè una
vite americana, e questa fu la varietà detta Alexander o Cape, che fu
la prima vite d'America coltivata nel Nuovo Mondo; ed ecco che dopo
questo cangiamento di ceppo, quegli industriosi Svizzeri riuscirono
ad impedire la morte delle viti.
Se noi dovessimo enumerare qui tutti gli insuccessi toccati ai vi-
ticultori francesi, spagnuoli, inglesi, svizzeri e d'altri paesi, che voi-
lero coltivare in America la vite europea, non la finiremmo tanto
presto. Ci limiteremo perciò a citare alcune parole stampate nel gen-
naio del 1851 nell1 'Horticulturist di Downing: « L'introduzione delle
» viti straniere nel nostro paese per la coltura in grande è impos-
» sibile. Migliaia di persone l'ha tentata, ma il risultato fu sempre
» lo stesso; 'una stagione o due di promesse e poi scacco completo. »
Riassumendo dunque, si ritiene impossibile la cultura della vite
europea nell'America del Nord (1).
(1) Per essere esatti conviene fare una eccezione per la California, uno degli
Stati del Pacifico: ivi, benché la fillossera abbia fatta la sua comparsa, pure le
viti europee (Malvasia, Zeinfeindel) resistono abbastanza bene. Non resistono però
le viti della Missione importate da Madera.
STATISTICA DELLA VITE 59
Negli Stati Uniti dell'America del Nord si coltivano adunque, fatta
eccezione per la California, esclusivamente le viti indigene, delle
quali abbiamo detto qualche cosa a pag. 18 § 3 e di cui ci occu-
peremo a lungo e spesse volte in questo volume (1) per la grande
importanza che talune fra di esse hanno assunto di fronte alla grande
quistione della fillosseronosi. La superficie coltivata a vite, che nel
1850 era solo di qualche migliaia di ettari, nel 1880 raggiungeva già
i 43,000 ettari, di cui 14,000 nella California.
La produzione del vino nel 1850 era soltanto di 10 mila ettolitri;
nel 1860 saliva ad 80 mila circa, ed oggi si può ritenere prossima
ad 1 milione di ettolitri; come vedesi 1' aumento è notevolissimo.
I 43,000 ettari coltivati a vigna negli Stati Uniti rappresentano un
valore di 67 milioni di lire, cioè in media L. 1500 all'ettare; il che
dimostra che i terreni vitati hanno colà un non piccolo valore, per
quanto esso sia assai inferiore a quello di molti vigneti italiani e
francesi.
La California è, fra gli Stati dell'America del Nord, quello che pro-
duce più vino: nel 1880 il raccolto totale fu di 480 mila ettolitri
di cui 380 mila in vini ed il resto in acquavite e liquori; nel 1881
la produzione si elevò oltre i 480 mila ettolitri circa. Ora, non ostante
una produzione così meschina di fronte ai bisogni degli Stati Uniti
(dove il vino è assai caro, epperò pochissimo diffuso) la California
trovò modo di aumentare la sua esportazione vinicola, la quale
nel 1877 fu di 58,511 ettolitri
» 1878 » 67,037 »
» 1880 » 98,250 »
E nel frattempo si emancipò dai vini francesi; poiché mentre la
Francia nel 1872 aveva inviato in California ben 280 mila ettolitri
di vino, nel 1880 non riuscì ad inviarne che 20 mila.
Senonchè i vigneti di California sono da qualche anno fillosserati,
massimamente nei distretti di Sonoma e Sacramento: intanto, siccome
gli Americani non sogliono perder tempo, stabiliscono già fabbriche
di solfuro di carbonio e fanno le sommersioni mercè i numerosi corsi
d'acqua che discendono dalla Sierra Nevada.
(1) Ai capitoli Viti Americane e Fillossera devastatrice,
60 CAPITOLO III
Oltre la California sono vitiferi gli Stati della Georgia e dell'Ohio,
ove si producono i migliori vini americani; quello della Virginia, che
fa grande commercio di uve fresche e da vino, quelli della Florida,
del Massasuchets, della Pensilvania, della Carolina e del Missouri.
Ecco ora alcune notizie sui vini americani secondo i sigg. Prof.
Saint-Pierre e Foéx, che analizzarono i campioni presentati al Con-
gresso viticolo di Montpellier del 1874; i risultati delle loro analisi
sono utili a conoscersi, onde farsi un concetto sui prodotti vinicoli del-
l' America Settentrionale:
STATISTICA DELLA VITE
61
V»
Quadro A, — VINI ROSSI.
NOME
del vitigno
Tipo Labrusca.
Concord
Concord
Concord
Ives seedling
Ives seedling
Ives seedling
North Carol.
Tipo Aestìvalis
Cvnthiana . . . .
Cynthiana ....
Norton's Virginia .
Riesen Blatt . . .
Tipo Cordifolia
Clinton
Tipo Rotundifolia
Scnppernong . . .
Ibridi di Roger
Wilder
Alcool
per cento
in
volumi
12,40
16,90
11,60
10,70
13,30
11,30
13,50
14,90
16,20
12,00
14,50
15,00
17,50
13,40
Acidità
per litro
4,37
4,87
5,66
5,36
5,86
5,66
4,87
4,77
6,26
5,66
4,57
5,76
Residuo
secco
a 100°
per litro
4,87
20,48
27,74
21.29
24 2
19,68
25,32
25,48
27,42
25,49
22,25
120,80
16,93
Osservazioni
Colore tendente al giallo
Buon gusto, poco pro-
fumo.
Gusto particolare
Gusto disaggradevole
Profumo troppo forte
Bellissimo colore
Sapore disaggradevole
Ottimo gusto e bel co-
lore.
Colore ranciato
Molto zuccherino
Ottimo in tutto
Bel col., sapore marcato
Eccess. zuccherino
Gusto disaggradevole
62
CAPITOLO III
Quadro 33
VINI BIANCHI.
NOME
del vitigno
Alcool
per cento
in
volumi
Acidità
per litro
Residno
secco
a 100°
per litro
Osservazioni
Tipo Labrusca
Concord
10,50
5,36
20.60
Concord . . . , .
12,50
4,77
—
Gusto disaggradevole
Catawba . , . . .
13,50
4,27
—
Poco profumato
Catawba
12,50
5,66
17,00
Molto profumato
Delaware
13,00
5,66
—
—
Delaware
11,90
4,67
19,20
Molto zucchero
Martha
14,00
4,27
20,80
Color roseo
Tipo Aestivalis
Herbemont .
14,00
—
19,20
Herbemont ....
10,80
5,46
16,77
Cunnigham ....
15,00
5,17
20,15
Rulander
15,00
4:97
—
Tipo Cordi fo Ha
Taylor
15,40
5,17
20,15
Profumo poco aggradev.
Taylor
13,00
5,66
—
Gusto dolce di cassia
Tipo Rotundifolia
Scuppernong ....
15,20
—
—
Sapore assai disaggrad.
Scuppernong ....
16,10
3,77
23,20
Sapore farmaceutico .
Scuppernong ....
12,4
6,66
—
Scuppernong ....
—
—
57,25
Eccessivamente zuccher.
Ibridi di Roger
Goethe
13,20
5,17
20,00
Color roseo
STATISTICA DELLA VITE
63
Quadro C — VINI DI CALIFORNIA.
NOME
del vitigno
Alcool
per cento
in
volumi
Acidità
per litro
Residuo
secco
a 100°
per litro
Osservazioni
Vitigni indigeni colti-
rati dalla Viticoltu-
ral Society ....
15,00
3,77
35,70
Il residuo secco è violaceo
Id.
14,80
4,17
51.60
Molto zucchero
Id.
15,00
3,80
38,00
Id.
Vitigni stranieri colti-
vati dalla Viticoltu-
ral Society ....
14,30
3,18
35,40
Il residuo secco è violaceo
Id.
15,65
3,38
27,50
Molto dolce
La forte dose di alcool che si osserva nei detti vini dimostra che
gli Americani, amando i vini alcoolici, aggiungono quasi sempre zuc-
chero o spirito all'atto della vinificazione.
Il Prof. W. Mallet, dell'Università di Virginia, ci porge i seguenti
altri dati analitici sui vini dello Stato di Virginia: ecco i campioni
da lui analizzati:
1. Virginia Claret. — Vino rosso fatto coll'uva « Alvey » senza
aggiunta alcuna di alcool o di zucchero. Prodotto dalla Società Vi-
nicola Monticello di Charlottesville; Ad. Russow direttore.
2. Virginia Rock. — Vino bianco fatto col mosto di prima pres-
sione dell'uva « Concord » senza alcuna edizione di zucchero; ven-
demmia del 1873. Prodotto dalla Società Vinicola Monticello.
3. Bacchantees. — Vino rosso brillante fatto con pura uva « Con-
cord » vendemmia 1871. Prodotto nella vigna Laurei Hill a Norfolk;
proprietario Lemosy.
4. Concord, detto anche Claret. — Vino rosso, tinta di mediocre
intensità fatto coll'uva « Concord. » Prodotto nella vigna Belmont
a Front Royal; proprietario Buck.
64 CAPITOLO III
5. Concord dolce. — Vino rosso scuro, fatto con uva « Concord »
con aggiunta di alquanto zucchero di canna raffinato; vendemmia del
1871. Prodotto nella vigna Laurei Hill già citata.
6. Ives. — Vino di un bel color rosso chiaro, fatto coli' uva « Ives. »
Dalla vigna Belmont.
7. Delaware — Vino bianco pallido e brillante, fatto col mosto
dell'uva « Delaware » con aggiunta di Ij4 di libbra (113 grammi)
di zucchero per ogni gallone (litri 4,500) del mosto stesso; vendemmia
del 1873. Società Vinicola Monticello.
8. Sveet Delaioare. — Vino bianco dolce, fatto con uva « De-
laware » con aggiunta di sciroppo di zucchero di canna raffinato-
Vendemmia del 1881. Ottenuto nella vigna Laurei Hill.
9. Rock. — Brillantissimo vino bianco fatto col puro mosto del-
l'uva Delaioare. Dalla vigna Belmonte.
10. Catawba. — Vino bianco fatto con puro mosto di uva « Ca-
tawba » prodotto nella vigna Belmont.
1 1 . Norton. — Vino rosso porpora molto scuro fatto coli' uva
detta Norton 's Virginia senza nessuna aggiunta di zuccaro 0 di
spirito. Vendemmia del 1873. Società Vinicola Monticello.
12. Dry Norton. — Viao rosso carico, asciutto, secco, fatto come
il precedente con Norton 's Virginia senza alcuna aggiunta. Pro-
dotto nella vigna di Laurei Hill.
Ecco i risultati ottenuti dalle analisi del Prof. Mallet:
STATISTICA DELLA VITE
65
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0. Ottavi, Trattato di Viticoltura
66
CAPITOLO III
La ricchezza alcoolica di questi vini venne indicata in peso; sic-
come fra noi si usa rappresentarla in volume, daremo qui i corri-
spondenti valori.
1. Virginia- e alcool
2. Virginia-h.
3. Bacchantees
4. Concord .
5. Concord .
6. Ives
7. Delaware
8. Sweet Delaware
9. Delaware
10. Catawba
11. Norton .
12 Dry Norton .
Dall'esame di questa tabella si deduce che i vini della Stato di
Virginia presentano riguardo alla alcoolicità, un percento relativa-
mente elevato, dovuto specialmente allo zuccheraggio dei mosti. Ciò
può fornirci un criterio abbastanza importante per studiare il gusto
dei consumatori americani relativamente ai vini.
in volume
12,0
»
10,8
»
12,3
»
12,3
»
14,2
»
13,9
»
11,8
»
13,0
»
15,3
»
12,3
»
13,0
»
14,2
§ 9. La viticoltura nell'America del Sud. — Anche nell'Ame-
rica meridionale la viticoltura, benché lentamente, accenna a progre-
dire. Quantunque taluni accennino a viti indigene colà esistenti, si ritiene
generalmente che la viticoltura abbia incominciato nel 1602, quando
i Gesuiti introdussero taluni vitigni europei nel Paraguay, nell'Uru-
guay e nella Bolivia. Oggi si coltivano viti europee nella Repubblica
Argentina (viti di Spagna) ed in Bolivia, ove sonovi vigneti molto
rinomati nella vallata di Cinti (1) ad un'altezza di circa 1500 metri
sul livello del mare; quivi la viticoltura spingesi fin sotto al 20° di
latitudine sud, ed è 1' altitudine che la favorisce; senza di ciò essa
vi sarebbe limitatissima, come la è nel Chili, e più al nord, cioè verso
la linea equatoriale, nel Perù e nell'impero del Brasile.
(1) Cinti, altra volta Camargo, sul fianco orientale delle Ande della Bolivia, sul
fiume omonimo affluente del Rio Pilcomayo: secondo Weddel vi si produce un
vino eccellente, forse il migliore fra tutti i vini d'America.
STATISTICA DELLA VITE 67
Ci mancano notizie approssimative sulla estensione della viticol-
tura nell'America del Sud: solo sappiamo che nella Repubblica Ar-
gentina si fabbrica assai male il vino, il quale sopporta difficilmente
i viaggi; all'interno, e così a Mendozza, a Catamarca, a Rioja, a San
Juan, non si beve che vino indigeno. Intanto sin dal 1875 il Congresso
nazionale della Repubblica Argentina ha decretato l'apertura di scuole
vinicole pratiche e dirette da enologi esperimentati venuti dall'estero.
La viticoltura, quando fosse meglio studiata, potrebbe dare i più bril-
lanti risultati in tutta la detta repubblica: i sigg. Claras e Heusser già
posseggono vigneti fiorenti in una zona al sud della provincia
di Buenos- Ayres. La provincia d'Entre Rios ed una parte di quella
di Corrientes sono singolarmente adattate alla coltura della vigna:
lo stesso deve dirsi delle montagne di Cordoba. La Sierra di Cor-
doba diventerà senza dubbio, in un tempo non lontano, una vera re-
gione vinicola.
Nel Chili vi sono eccellenti specie di vitigni: eppure vi si fabbrica
un vino torbido ed aspro, il quale però non manca riè dfcolore né
di forza.
L'America meridionale compera in Europa una quantità sempre
crescente di vino, perchè — massime nelle grandi città — i vini
europei sono di gran lunga preferiti a quelli indigeni. Ecco alcune
notizie in proposito: la Spagna vende annualmente nella Repubblica
Argentina tanto vino per circa 13 milioni di lire; la Francia per 12
milioni e Y Italia per 1 milione e Ij2 a 2. Vi sono però colà 430
mila italiani, 80 mila spagnuoli e 50 mila francesi, ond'è a sperare
che il vino italiano abbia in breve ad occupare il primo posto.
§. 10. La viticoltura in Africa. — La viticoltura in Africa
è limitatissima, e questo perchè i 4/5 della sua superfìcie si trovano
nella zona torrida ove la temperatura media (nell'Africa equa-
toriale) è circa di 29° C; superiore cioè di 1° a quella dell'Asia e
di 2° a quella dell'America equinoziali; e dove può raggiungere
gradi elevatissimi, come ad esempio 56° nel Fezzan e 70° nell'A-
frica australe! (V. pag. 30). Però nell'Algeria, nell'Egitto e nelle
isole poste al nord-ovest dell'Africa nell'Atlantico (Canarie, Azorre,
Madera), vale a dire nella parte settentrionale del continente africano,
circa fra il 27° ed il 36° di latitudine nord, come pure nell'Africa
meridionale (Colonia del Capo) circa fra il 30° ed il 35° di latitu-
dine sud, la vite vi prospera e vi dà ottimi prodotti.
68 CAPITOLO III
a) Algeria. In Algeria la viticoltura ha preso da varii anni un no-
tevole incremento per opera dei Francesi, i quali se ne occupano con
amore e sperano di giungere a produrvi vini rinomati, specie sul tipo
del famoso vino spagnuolo di Jerez de la Frontera o Xeres; si
basano, a questo riguardo, sulla identità della composizione chimica del
terreno dei dintorni di Xeres e di quello della provincia di Oran e di
altre località algerine. In complesso questa colonia, sia pel clima
come pel terreno, è adattata essenzialmente alla produzione dei vini
liquorosi ed alcoolici sul genere del Porto, del Malaga, del Madera
e del Marsala; i vini da pasto pare non possano reggere ai viaggi,
e conviene perciò consumarli in paese: tuttavia diremo che nel 1883
alcuni negozianti francesi ne fecero in Algeria discrete provviste per
uso della Francia.
Ecco alcuni dati sulla estensione della vite e sulla produzione vini-
cola dell'Algeria. Nel 1876 non si contavano che 16,700 ettari a
vigna, i quali diedero 221,000 ettolitri di vino: nel 1882 il numero
degli ettari oltrepassò i 37,000 e la produzione raggiunse i 947,153
ettolitri. Come vedesi si tratta d'un importante distretto vitifero, al
quale la Francia prodiga molte cure, massime dopo V invasione fil-
losserica nella Francia meridionale.
b) Egitto. La coltura della vite è antichissima in Egitto; dap-
prima florida, decadde e quasi scomparì a cagione dei precetti del
Corano. Maometto infatti chiamava il vino « una abominazione in-
ventata da Satana » (1) e prometteva la felicità a chi se ne fosse
astenuto: ma il curioso si è che questa felicità nella vita futura sa-
rebbe stata, secondo lo stesso Maometto (2), il trovarsi fra ruscelli
di latte e « ruscelli di vino, delizia di quelli che ne beveranno. » Il
grande legislatore apprezzava adunque il vino, ma ne sconsigliava
l'uso su questa terra a' suoi fedeli; fatto è che, per la esaltazione re-
ligiosa di quei tempi, che certo non ha più riscontro nella fiacca fede
d'oggidì, la viticoltura decadde del tutto. Lungo la valle del Nilo
ed in tutto quel grande triangolo che si estende tra il Cairo a mez-
zodì, Alessandria ad occidente e Porto-Said a levante, è un succe-
dersi continuo di campi coltivati a cotone, i più belli forse che pos-
sano vedersi, di grano, di fave, di zucchero, di trifoglio, con boschi
(1) Corano, Cap. V, versetto 92.
(2) Id., Cap. XLVII, vers. 16.
STATISTICA DELLA VITE
di palme di tratto in tratto, paludi, risaie, ma vigneti punto (1).
Infiacchitosi lo spirito religioso, la viticoltura accenna ora ad un ri-
sveglio, massimamente dopo che Mohamed Ali vi fece piantare due
milioni di viti di varie qualità, fra cui le mangerecce (zibibbo) (2).
Il terreno egiziano è molto adattato alle viti, escluso però il Delta,
ossia l'alluvione del Nilo, ove la vegetazione, secondo il Dr. Couvidon,
è così rigogliosa che la potatura non basta a moderarla, e l'uva vi
matura così irregolarmente, che sullo stesso ceppo si trova il fiore,
l'agresto ed il grappolo maturo, appunto come accade sotto l'equa-
tore (pag. 38); a ciò contribuiscono la fertilità del suolo, il calore e
l'umidità.
Oggi in Egitto si trovano qua e là vigneti floridi; uno fra i più rino-
mati è quello impiantato a Raz-el-Ouadi (provincia di Zagarig) dal si-
gnor Nourisson-bey, cittadino svizzero: questo vigneto, tenuto a cor-
doni orizzontali su fili di ferro, produsse già al quarto anno molta
e bellissima uva. Anche l'italiano Carlo Mazzetti, Regio Agente Con-
solare d'Italia a Zagarig, ha ottenuto ottimi risultati con talee e bar-
batelle di varietà italiane. Infine è indubitato che l'Egitto potrebbe
diventare un importante paese vitifero; ma noi non crediamo che
ciò accadrà tanto presto, anzitutto perchè oggi V Egitto si è dato
con molto ardore alla coltura del cotone , che esporta in grandi
quantità; e poi perchè gli Egiziani, a cagione del caldo clima locale,
non sentono il bisogno del vino; prova ne sia che quasi tutto quello colà
importato è bevuto dai 90,000 stranieri (per la massima parte Europei)
che dimorano in Egitto e dalle navi che si provvedono di viveri, sovra-
tutto se dirette alle Indie (3). L'Egitto compra specialmente il vino
francese fino e da pasto, il vino greco ordinario ed in ultimo il vino
italiano.
Attualmente le poche viti coltivate in Egitto, massime nel Fayum,
regione a mezzodì del Cairo, lo sono per l'uva, che vi matura assai
bene e forma grappoli meravigliosi, secondo l'espressione dei visita-
tori di quel paese.
e) Le Canarie, le Azorre e Madera. Passando sopra, per as-
(1) Così l'avv. G. Pio di Savoia, R. Vice Console in Algeri, in una sua bella
« Memoria sulla Viticoltura in Egitto ». (Bollettino Consolare: fase. II, feb-
braio 1883).
(2) G. Rosa: Storia dell'Agricoltura nella civiltà (pag. 357).
(3) Pio di Savoia: loc. cit., pag. 158.
70 CAPITOLO III
soluta deficienza di dati, ai vigneti esistenti nei dintorni di Tangeri
(Marocco) sulla costa dello stretto di Gibilterra, diremo che le isole
Canarie producono buoni vini, non però uguali a quelli di Madera,
benché dello stesso tipo. Le Azorre sono pure molto vitifere, anzi
il vino è uno fra i loro più importanti prodotti: i vini d'esportazione
si producono specialmente a Pico, una delle nove isolette del gruppo,
ma poi si trasportano a Fayal, eh' è il centro del commercio. Il
gruppo di Madera (Madera e Porto Santo) dal lato viticolo è il
più importante fra le isole africane dell'Atlantico; una volta vi si
producevano 150 mila ettolitri vino di due qualità, cioè quello che
in commercio chiamasi London Particular o Madera ordinario, ed
il Malvasia o Malmsey che vale il doppio (1). Però la produzione è
oggi diminuita, sia perchè in molte località la vite fu sostituita dalla
canna da zucchero, sia perchè la fillossera si mostrò colà sin dal
1879, specialmente a Camara de Lobas.
Nel 1852 il raccolto fu nullo nell'isola di Madera, perchè i vigneti
furono devastati daWoidium, e per nove anni si può dire che Madera
non produsse vino; ma dal 1861, anno in cui si raccolsero 1600 etto-
litri, il raccolto di vino andò sempre aumentando, e dal 1870 ad
oggi il raccolto annuo fu di oltre 40,000 ettolitri in media. La più
antica Casa vinicola di Madera fu fondata nel 1745.
La vite a Madera e Porto Santo è coltivata in luoghi molto ripidi,
e quindi su banchine o terrazze, che si elevano talvolta sino a 2000
piedi sul livello del mare; il terreno spesso è costituito da semplici
ceneri vulcaniche nere o grigie, e si suole qualche volta bagnarlo
mediante condotte d'acqua stabilite sul fianco delle montagne. Il mosto-
vino si trasporta generalmente a Funchal (porto dell'isola Madera),
ove si colloca nelle estufas onde subisca l'influenza dell'alta tempe-
ratura durante parecchi mesi; dopo si mette in botti e si commercia
passati due anni almeno. Un armazen o magazzino di Funchal contiene
una serie di fabbricati, che sono la fabbrica di tini e botti, le cantine,
\ estufa ed il pateo o deposito. I fusti nei quali si mette il vino di
Madera si chiamano pipe ed ogni pipa ne contiene 418 litri.
(1) Oltre alla Malvasia, che è dolce e delicata, si producono anche il Bual ed il
Verdelho, vini bianchi secchi aromatici, il Tinta, vino rosso astringente sul genere
del Porto, ed il famoso Sorciaie, che è uno squisito vino secco, il quale si fa per-
fetto dopo dieci o quindici anni. Nella nostra Monografia sui vini di lusso, sonovi
molti dettagli su questo vino: pag. 154 (2a ediz. 1884).
STATISTICA DELLA VITE 71
d) Colonia del Capo di Buona Speranza. Questa penisola, la
quale gode di un clima dolce e temperato, è assai propizia alla col-
tura della vite, fatta forse eccezione delle terre alluvionali presso il
Capo, ove la vite dà prodotti di qualità inferiore. I vigneti del borgo
di Costantia producono vini rinomatissimi, liquorosi, fragranti, sul ge-
nere del Tokay; però si tratta d'una produzione assai limitata e che
quasi non dà luogo ad esportazione. Si esportano invece, sotto il
falso nome di vini di Costantia, i moscati che si raccolgono nei vi-
gneti posti fra la Falsa baia e quella della Tavola. Ci mancano i
dati sull'estensione dei vigneti e sui loro prodotti nella colonia sud-
detta.
§ 11. La viticoltura in Australia. — Questo continente va
assumendo grado grado una sempre crescente importanza come pro-
duttore di vino. Abbiamo già detto a pag. 25 che alcuni Svizzeri
sin dal 1851 introdussero viti europee nella colonia di Victoria: se-
condo Carlo Jung (1) la viticoltura avrebbe invece incominciato sin
dal 1837 nella Nuova Galles meridionale, ove una famiglia tedesca
di Hattenheim (Rheingau) introdusse in queir anno vitigni europei:
ciò è molto attendibile, perchè oggi ancora il miglior vino di quella
colonia è il Riesling.
Ecco la superficie occupata dalle viti nelle varie colonie;
Superficie totale
Nuova Galles del Sud acri 4200 (2) 799,138 chil. quad.
Victoria » 4500 229,000 »
Australia Meridionale » 4200 2,342,000 »
Queensland » 700 1,737,000 »
Australia Occidentale » 700 2,527,000 »
Enrico Greffrath, uno fra i migliori conoscitori dell'Australia, par-
lando delle condizioni climatiche della colonia di Victoria, dice che le
isotermiche la pongono al medesimo livello di Marsiglia, Bordeaux,
Bologna, Nizza, Verona e Madrid; la media temperatura annuale è di
(1) Australien und Neuseeland; Historische, geographische und statistische
Skizze — Leipzig 1879, pag. 52.
(2) Un acre corrisponde a circa 40 are e mezza; l'acre si divide in 4 roods\ il
rood si divide in 1210 yards: il yard è uguale a metri quadrati 0,914.
CAPITOLO III
12°,30'
27°,9
31°,8
24°,7
7°,1
27°,30'
20°
25°, 1
13°,7
11°,4
34°
16°,9
21°,7
11°,7
10°,6
38°
14°,4
19°,9
8°,7
11°,2
35°
17°,3
23°,2
10°,8
12°,4
32°
18°,8
25°,4
febb.
13°,1
12°,3
14° C. per Melbourne (città capoluogo). Egli ci porge pure i se-
gnenti altri importanti dati sull'Australia in genere:
Latit. Sud Temp. med. Gennaio Luglio Differenze
( massimo ) (minimo)
Porto Darwin
(Aust. sett.)
Brisbane
(Queens.)
Sydney
"(N. Galles)
Melbourne
(Vict.)
Adelaide
(Aust. merid.)
Perth
(Aust. occid.)
Quella parte dell'Australia, la quale trovasi al Nord del tropico del
Capricorno, vale a dire più vicina all'equatore, ha un clima tropi-
cale, la cui temperatura media è di 27° C. e nei mesi più freddi
non meno di 20° C; invece nelle regioni meridionali, come si vede
nel quadro che precede, il clima si avvicina a quello dei paesi del
Mediterraneo, ed è perciò favorevolissimo alla coltura della vite.
Infatti la viticoltura vi si estende sempre più (1) non solo per la
produzione dei vini, ma eziandio per quella delle uve mangereccie;
(la sola Galles ne produce non meno di 9 a 10 mila quintali al-
l'anno). Tuttavia il vino prodotto in paese non basta ai bisogni della
consumazione, ed ogni anno perciò si importano per 500 mila lire
sterline di vini europei; cioè per 12,500,000 lire italiane.
I vitigni che meglio riescono in Australia sono il Riesling sovra
citato, il Verdelho Madera, l'Aucarot, il Pedro Ximenes, il Chasselas
ed il Moscato nero; fra tutti però eccelle il Riesling, col quale si fab-
bricano eziandio buoni vini spumanti. Si coltivano però con successo
eziandio il Cabernet, il Syrrah, il Malbec ed il Roussillon, tutti vi-
tigni francesi. Le uve vi maturano benissimo, talché, secondo il
Wine and Fruii Reporter di New York, dal quale togliamo queste
(1) Il principale viticoltore australiano è il Sig. J. T. Fallon di Murray, che
produce 12 mila ettolitri di vino all'anno.
STATISTICA DELLA VITE 73
notizie, il vino australiano ha in media il 18 °/0 di alcool senza ve-
runa aggiunta, cioè fatto con pura uva. Questa vale in media,
quando è di buona qualità e ben matura, L. 12 a 12,50 al quintale,
mentre in Inghilterra si potrebbe rivendere a L. 150 per la stessa
misura; perciò si fanno sforzi colà per esportare uve in Inghilterra
in un coi vini alcoolici (1). Alla esposizione universale di Parigi del
1878 figuravano i nomi di 140 coltivatori di vigneti australiani pro-
duttori di Riesling, di Borgogna, di Tokay, di Sherry o Xeres e di
Hermitage: però si trovò che questi vini erano lungi dal rassomigliare
ai loro omonimi; invero i tentativi fatti per esportare i vini d'Au-
stralia in Europa non furono insino ad oggi coronati da successo
molto felice; pur tuttavia a Parigi si ebbero premii di incoraggiamento.
Ma alla susseguente esposizione di Sydney, l'Australia si fece molto
onore, e gli Europei recatisi colà dovettero constatare reali e no-
tevoli progressi.
Senonchè sin dal 1878 si scopriva la fillossera a Geelong (città
marittima nella colonia di Victoria) sopra una estensione di 8 ettari;
essa vi fu importata, ed era da prevedersi, coi vitigni francesi, e nel
1883 già aveva invaso, a quanto pare, una superfìcie del raggio di
30 miglia circa.
§ 12. La viticoltura in Asia. — Riassunto e conclusione.
— Sono assai deficienti le notizie che abbiamo potuto raccogliere
sulla viticoltura in Asia, ove d'altronde il vino ha un ostinato nemico
nel maomettanismo, e perciò dovremo limitarci a pochi cenni. La parte
centrale e quella occidentale producono certamente vini ed ottime uve
mangereccie, fra cui sono celebrate quelle di Smirne (Corinto), e già
dicemmo che l'Asia Minore fu la patria della vite e della viticoltura
(pag. 15); si sa pure che nel Kaschemir si producono vini alcoolici
sul tipo del Madera, e che nella Persia le viti, da tempi remotissimi,
sono coltivate dai Guebri, i seguaci di Zoroastro; che si coltivano
pure viti nel Turkestan, ad Ispahan, ove si fa un buon moscato e
si producono uve mangereccie; che infine nel Canato di Bokhara,
nell'Asia Centro-occidentale, vi sono molte varietà di uva, e che le
(1) Chi si occupa specialmente di ciò, è il valente viticoltore Dottor Bleasdale
di Melbourne. V. Giornale Vinicolo Italiano, da me diretto, volume IV, pa-
gina 315.
74
CAPITOLO III
uve secche di quella provenienza sono le più grosse e le più fine
che si possano mangiare.
In quanto alla Cina ed al Giappone non risulta che vi si coltivino
seriamente viti (1), né che vi siano viti europee o asiatiche allo stato
selvatico, perchè quelle colà trovate dai signori Degron e Caillaud
anziché viti vinifere sono verosimilmente cissi (2); del resto al Giap-
pone, per causa della umidità, le uve danno vini deboli ed acquosi, e
pare che le viti si coltivino solo nei giardini. Le viti della Cina si
dicono migliori, ma sono scarse perchè i Chinesi bevono assai poco
vino; però ora s'incominciano ad introdurre al Giappone viti europee
e nel 1883 dall'Ungheria partirono per quel lontano impero oltre a
100 mila piantine (barbatelle) allo scopo di tentarne la coltura ed
acclimatarle, cosa che secondo ogni probabilità riescirà bene.
Riassumendo, la viticoltura e la produzione vinifera nel mondo
sarebbero rappresentate, molto approssimativamente, secondo i dati
più recenti e più attendibili, dai seguenti numeri:
Superficie vitata Prod. media annua
ettari ettolitri
Francia .
2,095,927
31,300,254 (3)
Italia
1,870,109
30,000,000
Spagna .
1,400,000
22,000,000
Portogallo
250,000
9,000,000
Austria .
210,513
3,692,500
Ungheria
425,314
8,506,280
Svizzera
34,600
1,211,000
Germania
150,000
2,600,000
Grecia .
40,000
1,000,000
Cipro
8,000
150,000
Russia europea
?
1,942,000
Rumanìa
102,000
1,037,436
Serbia .
?
?
Bosnia, Erzegovina, Bulg
aria ?
2
(1) Gabriele Rosa nella sua Storia dell'agricoltura, pag. 346, dice invece che
nel Giappone e nella Cina meridionale si coltivano viti, ma non dice di più.
(2) V. Botanica della vite (Cap. IV).
(3) Media esatta dal 1879 al 1883 (V. pag. 50). .
STATISTICA DELLA VITE
75
America del
Nord colla
Ca-
lifornia
America del Sud .
43,000
?
1,000,000
2
Algeria .
Egitto .
Canarie .
.
37,000
?
2
947,153
2
2
Azorre .
.
2
2
Madera .
Capo di Buona Speranza
Australia
Asia .
2
2
5,700
2
40,000
2
150,000
2
L' Europa, come risulta da questo specchio, è di gran lunga più
innanzi nella viticoltura d'ogni altro paese, quantunque sianvi nel
mondo varie altre zone ove la vite potrebbe prosperare e dare ottimi
frutti: che se la viticoltura del vecchio continente riescirà a circoscri-
vere l'invasione fìllosserica ed a lottare vittoriosamente contro di essa,
non vi ha dubbio che assai difficilmente si riescirà a muoverle una
concorrenza di qualche importanza; ond' è che ci paiono infondati i
timori manifestati da taluno a questo riguardo.
Frattanto il continuo incremento della viticoltura e della enologia
in ogni parte del mondo, dimostra che ognuno riconosce nella Vite
una pianta eminentemente benefica alla umanità, e nel vino la prima
fra tutte le bevande alcooliche.
CAPITOLO IV
Botanica della Vite.
§ 1 . Classificazione : vite d' Europa e viti Americane — § 2. Cissus d'Africa e
d'Asia (Sudan, Arabia, Cocincina, Cina e Giappone) — § 3. Descrizione della
vite o organografia — § 4. Anatomia della vite — § 5 Fisiologia della vite.
§ 1. Classificazione: viti d'Europa e viti Americane. — La
Vitis vinifera appartiene alla divisione delle Fanerogame (1), alla
sotto divisione delle Dicotiledoni (2) all'ordine o famiglia delle Ampe-
lidee (3) ed al genere Vite. La piccola famiglia delle Ampelidee,
che in tutto novera circa 250 specie, comprende altri due generi,
Cissus ed Ampelopsis, le così dette viti selvatiche, ed è nettamente
caratterizzata dalle sue foglie provviste di stipole, dai viticci opposti
alle foglie, dai suoi stami opposti ai petali, e dalla struttura del
frutto e del seme; però il solo genere Vitis dà frutti eduli ed atti
alla buona vinificazione, mentre i frutti di certi Cissus, se sono com-
mestibili e se servono a far vino presso certe tribù negre della Nigrizia,
(1) Cioè piante a fiori manifesti, per distinguerle dalle crittogame, che sono le
numerosissime piante a organi sessuali nascosti o invisibili, così chiamate da Lin-
neo. (Crediamo utile di dare queste spiegazioni elementari, nonché altre molte
che le seguiranno nel corso dell' opera, per quei lettori viticultori che avessero
scordato i principii della botanica).
(2) Cioè con embrione a due cotiledoni, mentre le piante monocotiledoni ne
hanno uno solo: seminando la vite, come il fagiuolo ecc., si hanno due foglie se-
minali appunto perchè la pianta è dicotiledone (V. più innanzi Seminagione).
(3) Parola derivata dal greco: Omero chiamò ampelos la vite.
BOTANICA DELLA VITE 77
(v. pag. 79) non servirebbero se non molto difficilmente alla fabbri-
cazione del vino, quale noi l'intendiamo.
Il Cissus è un arboscello sarmentoso a ricco fogliame come la vite,
adatto a formare pergolati e capanne; cresce spontaneamente in Asia,
nell'America del Nord e nell'Africa ed oggi è acclimatato anche in
Europa: sotto il nome di Ampelopsis si designano generalmente le
viti vergini, ed è notissima la specie Ampelopsis hederacea.
Il genere Vite comprende una sola specie europea od asiatica (la
vera Vitis vinifera di Linneo) e parecchie specie americane. Riley
riduce queste ultime a nove, cioè :
1. Vitis Labrusca 6. Vitis Californica
2. Vitis Aestivalis 7. Vitis Arizonica
3. Vitis Riparia 8. Vitis Candicans
4. Vitis Vulpina 9. Vitis Rupestris
5. Vitis Cordifolia
Soltanto le prime 4 specie sono coltivate in America per ottenerne
direttamente uva da vino. — Alcuni altri autori portarono le specie
americane a ben quarantadue, ma Elia Durand le ridusse notevol-
mente, classificandole come segue :
SEGTIO I. — Vites verse (polygamce aut dioicce).
* RAMI PR^ELONGI ET SCANDENTES.
§ Folia subtus tomentosa seu araneosa.
1. — Vitis labrusca, Linn., V. taurina, Walt. (Fox-grape).
2. — V. ìestivalis, Mich., V. labrusca, Walt. (Summer-grape,
Chicken-grape) .
Var. Sinuata Pursh.
3. — V. cariBìEa, DC, V. indica, H. B. K.
4. — V. mustangensis, Buckley (spec. nova ined.), V. Candicans?
Engelm. (Mustang -g rape).
5. — V. californica, Benth., V. caribcea, Hoock. et Arn.
§§ Folia glabra subtusve pubescentia.
6. — V. cordifolia, Mich., V. vulpina, Linn. ? non Torr. et Gray
(Fox-grape, Winter-grape).
78 CAPITOLO IV
Var. Riparia, Torr. et Gray, V. riparia, Mich., V. odoratis-
sima, Don., V. virginiana, Hort. Par.? V. palmata, Vahl?? (Ri-
ver-grape, sweet-scented-grape).
7. — V. rotundifolia, Mich., V. vulpina, Torr. et Gray (Mu-
scadine, Bullace, Bullet-grape, Scuppernong).
r ** CAULES ERECTI SEU DECUMBENTES.
8. — V. rupestris, Scheele.
9. — V. monticola, Buckley (spec. nova ined.),
10. — V. lincecumii, Buckley (spec. nova ined.) (Post-oak-grape,
Pine- wood-g rape).
SEGUO II. — Pseudo-vites.
* CAULES SCANDENTES.
11. — V. indivisa, Willd., Ampelopsis cordata, Mich., Cissus
ampelopsis, Pers.
12. — V. incisa, Nutt.
13. — V. acida, Linn.
14. — V. bipinnata, Torr. et Gray, V. arborea, Willd., Ampe-
lopsis bipinnata, Mich., Cissus stans, Pers.
15. — V. hederacea, Willd., Ampelopsis hederacea, Michaux,
V. quinquefolia, Lam., Cissus hederacea, Pursh.
Var. Texana, Buckley (var. nova ined.).
In questa classificazione si vede che Elia Durand chiamò giusta-
mente vere vigne quelle che danno un frutto edulo e che può ser-
vire alla vinificazione, a parte la maggiore o minore bontà del vino.
Chiamò invece false viti il Cissus e l'Ampelopsis.
Ma secondo il già citato D.r Regel, direttore del Giardino botanico di
S. Pietroburgo, anche la vite europea od asiatica potrebbe trovar po-
sto fra le suddette viti americane (1) ed il Dott. Engelmann (2) pare
non dissenta totalmente da questa opinione. Regel dice che la Vitis
Vinifera Lin. è il prodotto ibrido ed alterato della coltura delle due
specie selvatiche V. Vulpina e V. Labrusca, ed Engelmann la col-
(1) Op. cit. (v. pag. 17 in nota).
(2) G. Engelmann, Le vigne degli IStati Uniti (nel Catalogo dei signori Bush
e Meissner, pag. 15-10).
BOTANICA DELLA VITE 79
locherebbe fra la V. Riparia e la V. Aestivalis. Il Prof. Braun di
Berlino suppone che le differenti forme della nostra vite dipendano da
specie distinte che, come abbiamo visto nel Capo I, si trovano ancora
allo stato selvatico in molte parti del mezzodì d'Europa e dell'Asia;
queste specie, secondo Braun, non sarebbero sorte accidentalmente
delle piante coltivate, come generalmente si crede, ma rappresente-
rebbero i veri parenti originarii: ed il Dott. Engelmann aggiunge che,
come risulterebbe dalle sue ricerche, la vigna la quale abita le foreste
primitive delle rive basse del Danubio a partire da Vienna sino al-
l'Ungheria, rappresenta in modo chiaro le viti americane Cor di f olia
e Riparia coi loro tronchi spessi da 3 a 6 a 9 pollici, colle loro
abitudini di salire sugli alberi i più alti, colle loro foglie liscie e lu-
centi, appena lobate, e coi loro piccoli acini neri. D'altra parte, sem-
pre secondo Engelmann, la vite selvatica dei terreni accidentali della
Toscana e del Lazio (Roma) colla sua vegetazione più bassa, le sue
foglie tomentose ed il suo frutto più grosso ed alquanto gradevole,
ricorderebbe, malgrado la minor dimensione delle foglie, la vite ame-
ricana Aestivalis.
Noi non possiamo qui chiarire sino a qual punto siano accettabili
queste opinioni dei prefati botanici, che godono meritamente di molta
fama nel mondo scientifico; solo chiediamo come mai nella patria
delle suddette specie americane, cioè negli Stati atlantici, non siasi
sin qui trovato nessun esemplare della Vitis Vinifera allo stato sel-
vatico (1), se è vero che essa è un ibrido di talune fra quelle specie?
In quanto alle varietà delle specie europee ed americane, esse
sono tanto numerose, a causa della coltura e degli incrociamenti, che
non sarebbe qui possibile enumerarle tutte (2); al capitolo Ampelo-
grafia diremo tuttavia delle principali fra coteste varietà.
§ 2. Cissus d'Africa e d'Asia (Sudan, Arabia, Cocincina,
Cina e Giappone). — 1° Cissus del Soudan centrale e della N'i-
grizia. La invasione fìllosserica ha fatto sì che gli esploratori delle
regioni sin qui poco note, fissassero meglio la loro attenzione sulle
viti o sulle piante che loro assomigliano (Cissus). Così è avvenuto
(1) È bene notare che la Labrusca americana non ha assolutamente nulla"; di
comune colla Labrusca selvatica della Toscana e della Francia meridionale. (Il
nome di Labrusca fu impropriamente applicato da Linneo alla specie americana).
(2) Saggio di una Ampelografia universale del Conte G. Di Rovasenda.
80 CAPITOLO IV
che il sig. Lécart portò in Francia dal Sudan centrale una pianta
che egli chiamò Vite tuberosa, vegetante sulle sponde del Niger o
Kuarra e che, a suo parere, si sarebbe potuta coltivare come le
Dalie; ma il dotto ampelografo Vittore Pulliat di Chiroubles (1) scrive
a tal proposito quanto segue:
« La vite del Sudan scoverta dal signor Lécart ha fatto vera-
« mente gran rumore nei giornali. Io credo bene che questo rumore
« sia molto al disotto dell'importanza della scoverta. Un giovine ita-
« liano, che ultimamente fu presso di me, sig. Rebora De Nari, a-
« ve va veduto a Bordeaux il sig. Lécart, appena rientrato in Fran-
« eia; egli aveva assistito ad una conferenza tenuta da questo viag-
« giatore, nella quale mostrò al suo uditorio alcune piante di que-
« sta vite, disseccate e nell'erbario. Queste piante (mi ha egli detto)
« portavano delle foglie assai simili a quelle delle viti ordinarie, ma
« gli acini ne erano differentissimi. Secondo la sua espressione, essi
« avevano la figura di una piccola cimice (punaise). Quest'ultima in-
« dicazione, darebbe bene a credere che malgrado la somiglianza
« delle foglie e la forma del grappolo, la vite del Sudan non ap-
« partenga punto al genere Vitis Vinifera. »
Lo stesso sig. Pulliat, unitamente al Prof. Planchon, ebbe agio
di esaminare un' altra vite (?) del Sudan centrale e propriamente
della Nigrizia, coltivata dal bravo viticoltore sig. Roche a Marsiglia.
Questa pretesa vite è essa pure a radici tuberose e sarmenti legnosi
persistenti (2). Previo diligente esame di cotal pianta sul vivo, il
Prof. Planchon non esita più che tanto ad inferirne trattarsi proprio
davvero di un Cissus, e forse più che probabilmente del Cissus
glandulosa dello Gmelin, fin dallo scorso secolo descritto dal Forskal
sotto la denominazione di Saelantus glandulosus nella sua Flora
Aegypt. arabica, p. 34. Ecco qui riassunte brevemente cotali an-
notazioni del Roche e del Planchon.
In una prima comunicazione dal Roche diretta al Pulliat in data
11 novembre corrente anno troviamo questi primi ragguagli sulla
sua vite di Nigrizia: « Coltivo da sei anni questa vite del Sudan
(1) Lettera al nostro valente ampelografo Barone A. Mendola (V. Giornale Vi-
nicolo Italiano di Casalmonferrato : 1881, pag. 55.)
(2) V. La Vigne Américaine, 1881 (aprile) — e Giornale Vinicolo Italiano, 1881
(maggio) ove il distinto sig. Dott. F. Console pubblicava la nota sulle viti della
Nigrizia sovra riportata.
BOTANICA DELLA VITE
« a Marsiglia. Dessa non è mica però annua, come delle sue dice
« Lecart; che i suoi tralci, che spogliansi di lor foglie ben tardi, per-
« sistono perfettamente, ed anzi vi han sopportato i 15 gradi della
« invernata 1879-80 sempre più fortificandosene, quando che altre
« viti americane circostanti vi soccombevano. Piantata per tubercoli
« tal vite fruttifica lo stesso anno, e al secondo invece se per semi,
« che germinano in proporzioni del 90 0[q e senza affatto traccia
« d'ibridazione. Sua fruttificazione è estremamente abbondante, in
« gruppetti di 15-20 bacche nere, piccole, con un unico vinacciuolo
« costantemente. I semi spargonsi in aprile e levano in maggio, for-
« mando lor radici di 2-5 tubercoli, come a mo' di patate, lunghi,
« un centim. distanti l'un sull'altro verticalmente, quasi fossero sal-
« sicce e fra loro ligati d'un filetto cilindrico della grossezza d'uno
« spaghetto. La foglia è molto doppia, d'un bel verde-bianchiccio sul
« tipo del Solonis americano, ma senza macchie di sorta, anzi d'una
« purezza immacolata di tinta fino a sua caduta (sul finire di no-
« vembre in quest'anno). Veruno insetto frequenta questa vite, io al-
« meno non ve ne ho mai veduto; e tutte le mie ricerche le più minute
« sui semi, trattine due anni fa per inviarne a qualche amico, non
« mi rilevarono mai presenza di fillossera (1). »
E in altra susseguente comunicazione 16 stesso Roche aggiunge
questi altri dettagli: « I pochi tubercoli, che primitivamente ne rice-
« vetti, mi venivano ad intermedio d'un mio amico Direttore di Banco
« a Sierra-Leona in Guinea, che aveali ritirati a mezzo d'una ca-
« rovana di ritorno dall'interno dell'Africa, ove li raccolse sugli alti-
« piani circostanti a una cittaduzza tutta in capanne detta Falabah,
« a 600 o 700 chilometri interiormente. I componenti la carovana
« riferivano le tribù negre preparare col succo di cotal pianta uri
« eccellente liquore, del pari che del vino assai stimato appo loro,
« e del frutto intiero confetture non spregevoli. Questa mia vite di
« Nigrizia s'attacca con estrema facilità ai muri, che riveste rapi-
« damente: il legno ha molto sottile, sul genere di quel della vite
« vergine (Ampelopsis), e pervenuta che sia in piena vegetazione,
« produce fiori e frutti senza interruzione da maggio a novembre,
« a misura che se ne allungano i germogli. La foglia è di tinta
« verde -biancastra, come nel Solonis, ma più lunga e meno larga
« e poi almeno quattro volte più densa, tanto da rassembrare in cotal
(1) Vedi Vigne Américaine, an. 1881, p. 103.
O. Ottavi, Trattato' di Viticoltura.
82 CAPITOLO IV
« guisa alla foglia del tubero americano Boussingaultia baselloides.
« La fioritura è a bouquets in corimbo, come nel sambuco; e le bac-
« che costituenti il grappolo son piccole, nerissime e lucenti, e con
« sugo poco colorato. Non son riescito mai a ottenerne piante di
« talee, non più che d'innesti sopra vitigni nostrani od americani.
« L'osservazione già fatta da vari, e segnatamente dal Planchon,
« circa la nessuna rassomiglianza dei vinacciuoli della vite del Sou-
« dan con quei delle vere viti vinifere è precisamente esattissima
« a capello (1). »
Al seguito di tali comunicazioni il professore Planchon, avuto agio
come dicemmo di esaminare sul vivo tal pianta di Nigrizia, per tubercoli
e semi fornitigli dallo stesso Roche, uno con tralci in istato di vegeta-
zione avanzata e coi germogli già spiegati abbastanza da potere notar-
sene nettamente la forma e consistenza delle foglie e delle stipole, è tratto
a conchiudere con tutta quasi certezza questa volta, non potere ornai
non riconoscersi in cotale rimarchevole ampelidea se non se un tipo
« di Cissus rapportabile d'assai alla vite vergine o Ampelojpsis pel
« modo suo di crescenza (liana aggrappantesi pei cirri) e rassem-
« brante poi per molti tratti, quanto a infoliazione, alla Boussin-
« gaultia baselloide; » e più precisamente ad una specie del gruppo
Saelanthus del Forskal, cui lo Gmelin ben a ragione fa rientrare
nel genere linneano Cissus. « Fra questi Saelanthus di Forskal,
« continua invero il Planchon, avvene uno curiosissimo, il Cissus
« rotundi folta di Valh, che il nostro Delile già trovò coltivato al
« Cairo ia tempo della spedizione napoleonica in Egitto, e che ri-
« cevè pure posteriormente d'Abissinia, nelle preziosissime collezioni
« del Rochet di Hericourt, ove raccoltovi sulla strada da Farrè ad
« Aleyou-Amba verso l'altipiano dello Schoa. Ora il vinacciuolo u-
« nico contenuto in ciascuna bacca di questo Cissus richiama per-
« fettamente pei suoi caratteri d'insieme il vinacciuolo parimenti so-
« litario nelle piccole bacche della vite di Nigrizia del Roche. E nel-
« l'uno e nell'altro il rafe (2) estendesi qual tenue cordicina risaltante
« su tutta la faccia e tutto quasi il dosso del vinacciolo, cioè dipar-
« tendosi dall'ilo, punto d'inserzione del vinacciuolo, percorre il mezzo
« del lato ventrale, contorna lo estremo ottuso e non lobato di esso
« seme, e rimonta sul lato dorsale fino quasi alla punta basilare,
(1) Ibid. pag. 104-105.
(2) Per intendere questo ed altri termini botanici si vegga più innanzi il § 3.
BOTANICA DELLA VITE 83
« serica menomamente svanire in depressione calazica, come nel vi-
« nacciuolo della Vitis. Le due piccole depressioni che nella Vitis
« s'insolcano sulla faccia ventrale sono appena pochissimo marcate
« in questo Cissus del tipo Saelanthus. Ma non è precisamente con
« questo Cissus rotundifolia che la vite del Roche presenta più
« affinità, ma piuttosto e forse più sicuramente col Cissus giandu-
ii Iosa Gmelin, o Saelanthus glandalosas Forskal. Sfortunatamente
« non so di quest'ultimo che per la sola descrizione del Forskal,
« che tranne in quanto gli assegna, per errore evidentemente, foglie
« opposte (1), per tutto il resto cotale sua descrizione pare s'attagli
« perfettamente alla nostra pianta di Nigrizia, meno quando è detto
« di sue foglie folta serrato-dentata, subspinosa, nel mentre che
« queste nostre son piuttosto inciso-dentate e fortemente intagliate
« a denti triangolari. Forskal dice pure della sua specie caules teretes,
« cioè tralci ritondati; or la nostra vite ha i tralci quasi tondi, benché
« lievemente quadrangolari o compressi: lo stesso assegna bacche rosse
« alla sua pianta, nel mentre che il Roche le dice nerissime in que-
« sta sua (2). »
Concludendo, anche queste viti di Nigrizia appartengono al genere
Cissus e non a quello della vera Vite vinifera.
2° Cissus della Cocincina. Nel 1882 il sig. Martin, capo giar-
diniere della colonia francese di Laigon, introdusse in Francia le
viti della Cocincina (Annam meridionale) dicendole di prodigiosa fer-
tilità, cosicché una pianta poteva produrre ben 100 chilog. d'uva:
ecco come egli si esprime:
« Io l'ho trovata — dice — la prima volta nel mese di settembre
1872, nelle foreste dei Mois. Vidi questo Cissus, di cui ignorava
l'esistenza, coperto da grappoli d'un'uva grossissima. Mi venne su-
bito l'idea di farne del vino, ed il risultato mi parve favorevole. Ne
feci assaggiare a qualcuno; mi dissero che non era cattivo, ma che
non si sarebbe conservato. E per allora non ne feci più nulla; so-
lamente l'anno dopo mi contentai di farne del buon aceto. »
Ma qualche anno dopo il signor Martin tornò a pensarci sopra e
(1) « In realtà sarebbe di lungi in lungi che certe foglie presenterebbonsi op-
« poste per ravvicinamento alle biforcazioni; infatti Forskal dice dei viticci: Cu -
« rhi vel oppositifolii (dunque foglie alterne) vel laterales interfolia opposita ex
« geniculo exeunte. » Nota del Planchon.
(2) Ibid. pag. 105-106.
84 CAPITOLO IV
fece nuovi tentativi onde ottenere del vino. Ora da 10 anni coltiva
queste piante, di cui si trovano parecchie varietà bianche e rosse,
e pare che la vite della Cocincina sia la medesima di quella del
Soudan, di cui abbiamo parlato or'ora.
Si tratta però sempre d'un vino aspro, che contiene solo il 5 0\q
d'alcool; tutto ciò, secondo il sig. Martin, è dovuto alla mancanza
di calcare nei terreni della Cocincina. Egli anzi racconta che dopo
aver messo una piccola quantità di calce ad ogni piede di vite, ot-
teneva uva più dolce e vino più alcoolico.
Pare che questa pianta sarmentosa, o Cissus, o liana che si
voglia, a radici tuberose cresca abbondantissima in quei paesi. Ogni
anno in novembre le sue messe muoiono, e in marzo od aprile ri-
spuntano dai loro tuberi e rapidamente si svolgono sino alla lun-
ghezza talvolta di 40 o 50 metri, mettendo grappoli enormi in nu-
mero grandissimo. La coltura, si dice, è facilissima. Nella scelta del
terreno non vi sarebbe che da evitare il soverchio umido: le terre
fresche e leggere del resto paiono le migliori. La propagazione si
fa per semente, per tuberi, per talea. Delle sementi ve n' è già un
deposito a Parigi presso la Casa Vilmorin, Andrieux e Comp. (1).
Le messe sono sostenute, come si fa nella coltivazione del lup-
polo, da pertiche tenute ritte da fili di ferro orizzontali, per cui la
liana ascende ed arrampicandosi si spande.
Il signor Martin fa osservare che dopo il piantamento della sua
vigna nel 1872, ha osservato in essa una continua e progressiva
modificazione dovuta ai lavori di coltura: V uva diventa più grossa,
più dolce, più succosa. Basta del resto vedere i migliori vitigni fran-
cesi ritornare quasi allo stato selvaggio dopo due o tre anni <T ab-
bandono, per persuadersi della reciprocità del fenomeno inverso.
C è quindi cagione a credere che la coltura migliorerà la qualità
dell' uva e del vino, il quale del resto si potrebbe correggere col-
l'aggiunta di zucchero, onde portare il titolo alcoolico almeno a 9°
o 10°.
Il sig. Vilmorin consiglia di tener i vinacciuoli inzuppati per qual-
che giorno nell'acqua piuttosto tiepida che fredda, di frequente rin-
novata, e poi di seminarli in vasi, o in luoghi chiusi, e di non con-
(1) Vilmorin, Andrieux e C, Quai de la Mégisserie, 4, a Parigi. Il prezzo è
molto elevato, perchè sarebbe di L. 2,50 ogni vinacciuolo, o di L. 22 ogni 10 vi-
naccioli.
BOTAiNIOA DELLA VITE 85
fidare in piena terra le giovani pianticelle se non quando questa si
sarà riscaldata a sufficienza, e non vi saranno più a temere i geli
tardivi: consiglia pure d'aver cura di collocarle colla loro zolla di
terra per non recar nocumento alle radici ancora sottili.
Riassumendo, queste viti della Cocincina apparterrebbero esse pure
al genere Cissus sopra ricordato, e certo se la coltura non riescirà
a migliorare i frutti, difficilmente se ne potrà trarne partito.
3° Viti (?) della China e del Giappone. Non è molto che il si-
gnor Degron portava in Francia dal Giappone magliuoli di quelle
viti selvatiche, il cui studio venne affidato alla Scuola Viticola di
Mompellieri, onde vedere se resistano o non alla fillossera. Queste
viti vennero scoperte nel Ken d'Ischikari; i loro frutti sono piccoli,
neri e commestibili. Il sig. Caillaud trovò pure viti selvatiche nella Cina
e le descrisse dando loro varii nomi; per esempio la Vitis Rotar di,
originaria di Cong-King, la quale produce uva due volte all' anno;
la Vitis Pagnucci originaria di Cheri-Si, nelle montagne di Ho-
Chen-Miao, e la Vitis Romane ti, altra vite selvatica che pare abbia
il pregio di una stragrande fertilità; essa prospera ad un'altezza di
1300 a 1600 metri e ad una latitudine di 32° nord.
4° Viti arabe. Il signor Chabas, colono francese a Ronached
presso Milata in Algeria, pubblicava nei 1883 (1) una nota sulle viti
arabe (a quanto pare vere Viti vinifere) che qui trascriviamo:
« La vite araba è d'un vigore incomparabile; essa vive qui ge-
neralmente allo stato selvaggio sui margini di burroni umidi ed in-
colti, e predilige le fessure delle roccie ed i terreni calcari. La si
vede slanciarsi sugli alberi che essa incontra, sulle roccie, ed inco-
rona co' suoi abbondanti pampini tutti i cespugli che essa trova e
che coprono in gran parte questa terra di natura calcare. In questa
selvaggia condizione di vegetazione la vite si copre di frutti, che gli
Arabi raccolgono e vendono ai coloni, i quali ne fanno un vino molto
carico di colore, assai alcoolico e di buon gusto. Una di queste specie
chiamata dagli arabi Hasseroun, ha molta analogia coll'uva tintoria
(temturier), e come questa è nerissima, e potrebbe per conseguenza
servire ad accrescere il colore dei piccoli vini; produce vino alcoolico
d'un gusto franco che può rivaleggiare nel commercio coi nostri mi-
gliori vini del Mezzogiorno.
« È inoltre d' una prodigiosa fertilità, imperocché non è raro il
(1) V. Gazette du Village (1883).
86 CAPITOLO IV
caso di vedere queste piante di vite produrre 150 chilogrammi
d'uva. Io ho visto un proprietario pesare 320 chilogrammi d' uva
raccolta sopra una sola vite, e che gli ha dato due ettolitri di vino
eccellente. Bisogna però dire che il tronco misurava 50 centimetri
di circonferenza, e che l'arabo più vecchio del paese l'aveva sempre
veduto della stessa grossezza.
« Infine, come resistenza, ciò che io posso affermare, si è che io
ho portato nel 1875 nella proprietà di mio padre al cascinale di
Vignères, a Cavaillon (Vaucluse), 10 piedi di Hasseroun, con cui
ho rimpiazzato dei mancanti in una vigna decimata dalla fillossera.
Ora son due anni (era nel 1881), queste piante erano splendide per
vigore e sanità; stendevano i loro bei tralci sulle viti morte, che
loro servivano di sostegno e sotto i quali queste ultime sparivano.
« A. mio avviso, il successo come resistenza di una vite simile
non è più dubbio, ed io non saprei abbastanza incoraggiare i viti-
coltori della madre patria di esperimentare nelle loro novelle pian-
tagioni le viti arabe. In tutti i casi si sarà sempre sicuri di aver
piante assolutamente esenti da infezioni ».
§ 3. Descrizione della vite o organografìa. — È noto che
Y organografia, o morfologia esterna, studia la conformazione degli
organi delle piante. Questo studio faremo qui per la vite, ma con
obbiettivo piuttosto pratico che scientifico; nel paragrafo successivo
ci occuperemo invece della morfologia interna o anatomia della viti,
ed in altro paragrafo ancora studieremo la fisiologia della vite, cioè
il suo modo di vivere e fruttificare; così questo capitolo della bota-
nica della vite forse non riuscirà del tutto imperfetto e ci permet-
terà di trarre utili precetti per la pratica della viticoltura.
La Vite è un frutice o arbusto sarmentoso, i cui rami tendono na-
turalmente ad arrampicarsi sugli alberi o sui sostegni vicini, attac-
candovisi con forza mediante i cirri o viticci. Per studiare convene-
volmente la pianta della vite è necessario considerare: 1°) Le radici;
2°) Il ceppo o caule o fusto; 3°) I rami o tralci, ed i succhioni;
4°) I germogli o pampini; 5°) Le femminelle o nepoti; 6°) I vi-
ticci] 7°) Le foglie; 8°) Le gemme; 9°) I fiori; 10°) Vuva.
1.° Le radici della vite ottenuta da seme o da gemma isolata, sono
a fìttone, legnose, con molte diramazioni laterali, munite di numerose
radichette cioè di ampio cappellamento ; le radichette sono distese e
senza nodosità né nervature; se si riscontrano queste ciò vuol dire che
BOTANICA DELLA VITE 87
la radice è fìllosserata o invasa da rizomorfe (1), oppure, in rari casi,
dall'anguillaia radicicola (2). Le radichette della vite presentano una cu-
ticola delicatissima, che serve, nella parte tenera ed ancora biancastra,
all'assorbimento delle sostanze alimentari, mentre la porzione già fat-
tasi bruna e ricoperta da corteccia tuberosa, più non giova a tal
uopo; l'assorbimento ha luogo per endosmosi (3) a traverso le delicate
membrane delle cellule delle radichette. Gli è a queste estremità che
stanno le spongiole o spongille, che costituiscono il punto vegetativo
della radice, cioè la parte in via di formazione del cappellamento;
quando la vite soffre la siccità una parte di questo cappellamento
quasi si dissecca, precisamente nel punto vegetativo, mentre ciò non
accade nei terreni freschi, ove anzi la vegetazione continua anche
durante i grandi calori; si è appunto allora che gli acini ingrossano
mercè la maggior copia di umore assorbito dal suolo, d'onde l'utilità
del tener fresco il terreno del vigneto colle zappature agostane.
Le radichette della vite presentano generalmente pochi peli radi-
cali; questo almeno abbiamo potuto constatare nelle radici di barbera,
croetto, fresia e Celerina o slarina : simili peli altro non sono che allun-
gamenti tubulari delle cellule esterne delle radichette stesse, e servono
a moltiplicare il numero dei punti di contatto della radice col terreno.
Abbiamo detto che la radice della vite ottenuta da seme è a fittone;
però tutti sanno che la vite si suole moltiplicare per talee, e raris-
sime volte mercè il seme: quando si adoperano le talee la radice
della vite presenta l'aspetto delle fig. 1 e 4, ove vedesi che da ogni nodo
parte un gruppo di radici e di radichette in direzione orizzontale o
ad angolo (fig. 2) a seconda delle condizioni di siccità del terreno e
di profondità del piantamento, (4) inquantochè nei piantamenti troppo
profondi ed in terreni tenaci l'ultima corona di radici anziché essere
orizzontale si rivolge all'insù. Quando infine si piantano i soli occhi
delle talee, cioè le sole gemme con un po' di legno, si ha il sistema
radicale indicato dalla fig. 3; ove in a è indicata la gemma, ed in
b a b tre gruppi di radici.
Nella radice della vite distinguonsi varie parti, cioè il colletto o
(1) V. Malattie della vite.
(2) Queste anguillule furono scoperte dai Dr. Bellati e Saccardo nei vigneti di
Alano di Piave: ne riparleremo a lungo studiando i parassiti delle viti.
(3 Al § 5 (Fisiologia della vite) spiegheremo i fenomeni di osmosi, o diffusione,
che avvengono a traverso le membrane delle radici.
(4) Vedi il paragrafo Piantamento delle viti.
88
CAPITOLO IV
nodo vitale {a fìg. 4); esso non è bene spiegato come nelle piante er-
bacee vivaci, tuttavia si può definirlo la parte superiore a fior di
terra S S, mediante la quale la radice si unisce al caule o ceppo;
la radice madre e da cui partono le radici laterali g : le radici
aeree o superficiali b presso la superfìcie del suolo, analoghe a quelle
avventizie che producono il granturco, Y avena ed altre piante col-
tivate; queste radici se sono utili ad alcune piante perchè assorbono
umidità dall' aria, non lo sono alla vite, essendo troppo facilmente
esposte al gelo od al calore estivo, a seconda dei climi, mentre d'altra
parte impediscono in certo qual modo lo sviluppo delle radici infe-
Fig. 1.
riori; per questo si consiglia generalmente di reciderle: l'estremità d
della radice madre, da cui partono le radici inferiori e e ora diri-
gendosi all'ingiù a guisa di fìttone, ora prendendo la direzione oriz-
zontale spingendosi talvolta a molti metri di distanza, massi-
mamente se la vite è educata alta (1); infine le radici capillari
ffj o radichete, le cui estremità offrono le spongille; mercè le
(1) È questa la conseguenza dell'armonia che regna fra i tralci e le radici,
del che diremo in disteso a suo luogo. Qui soggiungeremo soltanto che quando
il terreno è bene smosso (scanso reale) le radici — anche delle viti nane — rag-
giungono lunghezze non indifferenti.
BOTANICA DELLA VITE
parti giovani delle radichette, come già dicevamo, l'alimento viene
assorbito e penetra nella radice; le spugnole, cioè le spongille
delle radichette, essendo protette da una guaina composta di cel-
lule morte del tessuto cellulare della radice, non possono assor-
bire alimenti (1); questo cappuccio, di colore giallognolo, detto
pileoriza, protegge la punta vivente della radice, mentre essa va
sempre più penetrando nel suolo. L' assorbimento avviene adunque
per mezzo delle radichette giovani e dei peli, e l'accrescimento per mezzo
delle spongiole; questo ci spiega come lo spargere il concime presso il
ceppo delle viti sia quasi sempre inefficace e giovi invece assai meglio
sotterrarlo fra i filari, ad una certa distanza dai tronchi, vale a dire
(1) Questo hanno dimostrato le belle esperienze di Ohlerts.
90
CAPITOLO IV
in quella porzione del terreno ove si trovano in maggior copia le
radichette a'ssorbitrici.
Diremo poi, parlando della anatomia della vite, come fra le ra-
dichette e le foglie siavi grande analogia, e ne trarremo utili con-
seguenze per la viticoltura.
Fig. 4.
2.° Il ceppo o fusto della vite può essere più o meno lungo a
seconda del modo con cui la pianta è allevata; e così abbiamo molte
gradazioni a partire dalla vite bassa senza sostegni alla vite maritata
agli alberi ed ai pergolati; nelle viti basse si suol chiamarlo ceppo,
ceppaja, ed impropriamente anche ceppata; in quelle alte tronco:
in ogni caso è legnoso, come ognuno sa, sarmentoso, ricoperto da
corteccia di vario spessore; generalmente più unita e più compatta
nelle viti americane che nelle europee. — La corteccia presenta
BOTANICA DELLA VITE 91
•
screpolature dirette nel senso delle fibre longitudinali, più o meno
numerose e più o meno ampie; essa aderisce con maggiore o minore
intensità al legno, ma in generale è poco aderente. Nei ceppi annosi
si osserva infatti che gli strati corticali esterni si distaccano dal
fusto, ma non sempre cadono; questa corteccia rugosa e morta, è
assolutamente estranea alle funzioni vitali della vite, e costituisce
un vero strato suberoso che si può togliere, come il sughero, anzi
è utile di togliere, come dimostreremo parlando dello scortecciamento
delle viti; sotto a questa corteccia esterna morta, si trova una cor-
teccia più giovine e viva, di color grigio rossigno (come i giovani tralci)
e che presenta delle striscie per il lungo; queste striscie sono i fascii
fibrosi del libro, che è la prima parte interna della corteccia (1),
e possono separarsi in lunghi fili.
3.° / rami ed i succhioni. I rami, o più propriamente tralci, o
sarmenti, sono getti legnosi aventi almeno un anno di età, a scorza
più o meno bruna e più o meno densa secondo la loro età; quelli che
hanno un solo anno sono i veri sarmenti, e portano bottoni dai quali
partono i getti uviferi o germogli, mentre quelli che contano due
o più anni di età generalmente non portano cacchii uviferi. A questa
regola si danno, per quello che ci fu dato di constatare, due sole
eccezioni: 1.° talvolta portano qualche raro grappolo quei polloni che
nascono sul ceppo della vite, specialmente nei nostri paesi meridio-
nali, od in qualche vite a pergolato; 2.° talvolta vedonsi grappolini
sui getti estivi (o femminelle) che spuntano all'ascella delle foglie dei
getti primaverili; ma in rari casi si è potuto trarre serio partito da
queste fruttificazioni anormali.
I rami della vite hanno vario colore, come il cinereo, il nocciola,
il castagno, l'avana, il cannella più o meno biancastri, e talvolta
sono rossicci; il colore non sempre è uniforme, e talora si fa più
scuro o più carico ai nodi: — quasi sempre i sarmenti sono striati,
cioè leggermente solcati longitudinalmente da strie più o meno fìtte;
talvolta però sono rigati e punteggiati. La loro durezza è variabile,
come è pure variabile il midollo, che è più o meno abbondante a
seconda dei vitigni; la loro aderenza al legno vecchio differisce pure
da varietà a varietà.
(1) Per dare un'idea delle fibre del libro a chi non conosce gli elementi della
botanica, diremo che sono appunto fibre liberiane quelle del lino e della canapa
adoperate per i tessuti ecc.
92 CAPITOLO IV
I tralci della vite sono nodosi, cioè divisi in internodii o meritala
di lunghezza variabile non solo secondo i vitigni ma anche secondo
il metodo di potatura, come abbiamo constatato con molte esperienze
di cui diremo a suo luogo. I nodi che separano i meritala" sono più
o meno rilevati e più o meno coloriti, talvolta non colorati diversa-
mente dal sarmento, tal'altra come di color ruggine.
I succhioni — che taluno chiama anche polloni — sono getti sterili,
cioè non uviferi, i quali nascono direttamente sul ceppo della vite; nella
loro struttura esterna non differiscono dai getti uviferi, solo che sono
quasi sempre sprovvisti di grappoli, come dicevamo or' ora; costi-
tuiscono quindi veri getti parassiti, che vivono a danno dei germogli
superiori, i quali o hanno uva o sono destinati, dal potatore, a dare
tralci frutticosi per l'anno che segue; è per questo che, salvo casi
speciali che studieremo parlando della scacchiatura, si sogliono sop-
primere.
4.° J germogli, pampini o cacchii sono getti erbacei a pri-
mavera ed estate, legnosi in autunno, che spuntano generalmente
sui sarmenti di un anno: — appena sbucciate le gemme a primavera,
cioè quando i germogli sono giovanissimi, appaiono più o meno to-
mentosi o cotonosi, cioè coperti di peluria o lanuggine; di colore
verde più o meno carico, alle volte biancastri come nel nebiolo e
nel tokai, talora unicolori, tal'altra leggermente rosei in punta: cre-
scendo abbastanza rapidamente nel loro sviluppo, possono raggiun-
gere una lunghezza di parecchi decimetri, più o meno a seconda del
vigore della vite e della fertilità del suolo; portano le foglie, i viticci
ed i grappoli; questi in numero variabile da uno a tre (1), ma possono
altresì esserne sprovvisti. I germogli portano pure gemme nascenti,
che in autunno sono poi veri bottoni frutticosi per l'anno successivo,
ed infine, accanto a queste gemme, portano eziandio dei getti secon-
darli o femminelle, di cui diremo in seguito. In alcuni casi questi
getti secondarli portano grappolini, detti secondi grappoli, dei quali
pure ci occuperemo fra non molto. Nella fig. 5 vedesi un tralcio
d'un anno d dal quale sono spuntati tre germogli uviferi b b e, i
due superiori dalla stessa gemma: questo caso è raro, ma noi abbiamo
potuto riscontrarlo con una frequenza relativa in alcuni nostri fi-
lari di fresia molto robusti; in allora però uno dei due getti è
(1) Fanno solo eccezione le viti americane Labrusca, che ne possono portare da
tre a cinque, rare volte sei, secondo il Dr. G. Engelmann.
BOTANICA DELLA VITE
93
sempre meno vigoroso del primo spuntato, ma entrambi portano uva
Fig. 5.
generalmente due grappoli nel cacchio principale ed uno in quello
secondario, e nelle annate umide un solo grappolo per caduno e
94 CAPITOLO IV
molti viticci v come nel precedente disegno, che abbiamo tolto dal
vero nella decorsa primavera. (La porzione superiore del tralcio d'un
anno d non è disegnata per maggior chiarezza).
5.° Le femminelle o nepoti sono getti erbacei, chiamati anche
rimessiticci, che spuntano sul finire della primavera sui germogli di
cui dicemmo or ora; la loro struttura esterna non differisce da quella
dei germogli ed essi pure portano foglie, viticci, e qualche volta se-
condi grappoli; le gemme che stanno all'ascella delle loro foglie (punto
d'inserzione) spesso sbucciano ed allora le femminelle portano delle
sotto- femminelle, cioè dei getti erbacei di varia lunghezza, i quali
rappresentano le ultime ramificazioni del germoglio uscito a prima-
vera dal bottone frutticoso posto sul sarmento legnoso. — Il numero
delle femminelle, o nepoti dei Toscani, è maggiore quando si praticano
precocemente le cimature dei germogli uviferi; e così pure cimando le
femminelle, si ottengono più numerose le sotto-femminelle. A suo luogo
diremo della importanza di questi organi della vite, nel processo della
fruttificazione.
6.° I viticci o cirri o capreoli (fig. 6) che taluno chiama anche
forchette, sono appendici filamentose prima erbacee, indi legnose in
autunno od anche in estate se non si avviticchiano a qualche og-
getto (1), provenienti dall'allungamento dei peduncoli florali, vale a
dire che sono grappoli abortiti; infatti occupano la posizione stessa
dei grappoli, cioè sono sempre opposti alle foglie come i grappoli
stessi: d'altra parte non è raro trovare viticci i quali portano ancora
alle loro estremità uno o più acini d'uva (fig. 7 d d, fig. 8 e d)\
queste figure rappresentano esattamente viticci da noi trovati nei
nostri vigneti nel Monferrato (2) e dimostrano in modo chiaro l'o-
rigine di consimili appendici della vite; gli esemplari simili a quelli
qui disegnati sono tanto più numerosi quanto più la primavera tra-
scorre umida, d'onde la illazione che Tumido soverchio fa abortire i
grappoli, il che è noto a tutti i viticultori (3). Abbiamo anche os-
(1) Questa regola però non è costante: abbiamo talvolta osservato viticci inat-
tivi che si sono serbati verdi sino all' agosto inoltrato. Abbiamo pure osservato
che il viticcio prossimo ad uno che si è avviticchiato, quasi sempre si essica
prontamente.
(2) Osservazioni fatte sui vitigni Barbera, Lambrusco o Croetto e Fresia. Ciò
si verifica d'altronde su tutti i vitigni.
(3) I viticultori tedeschi dicono allora « Die Trauben vergabeln sich » perchè
essi chiamano anche Gabeln i viticci.
BOTANICA DELLA VITE
95
Fiff. 6.
9(3
CAPITOLO IV
servato, a questo proposito, che allorquando la primavera è molto
umida sin dal suo principio, si hanno molti viticci sui germogli uvi-
feri, mentre invece se la primavera è umidiccia sul tardi, cioè
quasi in principio dell' estate, i viticci abbondano sulle femmi-
nelle. L'umido soverchio è quindi una fra le cause principali che
provocano la formazione dei capreoli, il che è naturale se si riflette
che l'umido favorisce l'allungamento delle parti verdi della vite, cioè
la sua produzione erbacea.
In primavere molto asciutte e calde abbiamo osservato la quasi
assoluta mancanza dei viticci nei germogli uviferi, e cosi in alcuni
germogli di fresia abbiamo potuto contare 10 internodii, altrettante
gemme e due grappoli, senza neppure un capreolo; i viticci si mo-
stravano soltanto sulle femminelle, e non sui pampini uviferi. Note-
remo però che i primi nodi, quelli cioè prossimi all' inserzione del
pampino sul tralcio, ne sono sempre sprovvisti.
La disposizione dei viticci in tutte le viti europee ed americane,
fatta eccezione per le Labrusca, selvatiche o coltivate, è quella indi-
cata dalla fìg. 6: un viticcio 1 a sinistra, poi al nodo successivo
altro viticcio 2 a destra, indi un terzo nodo 3 senza viticcio: poscia
altri due nodi con viticci, 4 e 5, cui segue altro nodo sprovvisto,
BOTANICA DELLA VITE
97
6, indi ancora due viticci 7 e 8, ed altro nodo 9 senza cirro; e poi
da capo un viticcio 10 e così di seguito. Allorquando vi ha un nodo
senza viticcio, il primo viticcio che segue è sempre dallo stesso lato
dell'ultimo viticcio che precede il nodo stesso : e così il viticcio 4 è
dallo stesso lato del viticcio 2, cioè a destra, mentre il viticcio 7 è
a sinistra come il 5, e via di seguito.
Tutti i viticci, come già dicemmo, -sono opposti ad una foglia, cioè
sono opposi tifo Ut; le eccezioni sono rarissime. Accade lo stesso dei
grappoli.
Fig. 8.
I viticci nei germogli uviferi generalmente incominciano dopo il
nodo che segue l'ultimo grappolo, il qual nodo quindi ne. è sempre
sprovvisto: nelle femminelle incominciano dopo la seconda o terza
foglia; in qualche varietà dopo la prima. Le eccezioni sono anche a
questo riguardo assai rare (1), come sono rare le eccezioni alla di-
sposizione indicata dalla fig. 6: pure qualche volta abbiamo osservato
tre nodi ed anche quattro consecutivi provvisti di cirri. Ma queste
eccezioni non infirmano per nulla la legge generale della intermit-
tenza dei viticci. Dicemmo però che essi sono continui nella vite ta-
(1) Nel luglio di quest'anno abbiamo riscontrato un curioso caso di mancanza
assoluta di viticci in un germoglio frutticoso di fresia: esso contava 10 internodi
tunghi 6 centim. con due grappoli e neppure un viticcio: questi si trovavano sol-
tanto sulle femminelle.
0. OxTAvr, Trattato di Viticoltura, 8
CAPITOLO IV
brusca e sue varietà; infatti ad ogni foglia in questa specie si trova,
dal lato opposto, o un cirro o una infiorescenza (grappolo).
In ogni viticcio si distinguono generalmente quattro parti; il pe-
duncolo a (fig. 7), la ramificazione maggiore d, la scaglia b alla sua
base, e la ramificazione minore e.
Queste ramificazioni si possono anche osservare sui viticci giova-
nissimi, cioè aventi una lunghezza totale di pochi millimetri: crescendo
esse variano però di numero, e possono raggiungere il numero di
sette od otto, come si vede nella fig. 6 al viticcio N. 1: in essa può
anche osservarsi che la ramificazione più lunga spesso si biforca in
due filamenti di diversa lunghezza; il maggiore talvolta si biforca a
sua volta, massimamente nelle annate molto umide. Pare che anche
la varietà del vitigno influisca sul numero delle diramazioni dei vi-
ticci, onde in alcune Ampelografie leggesi di vitigni a viticci bifidi
(2 diramazioni) o trifidi (3 diramazioni) e via dicendo.
È noto che se condo alcuni agronomi e botanici, sarebbe possibile
mutare in grappolo una fra le ramificazioni del viticcio. Gasparin
dice (1) che « si riesce spesso a convertire il viticcio in grappolo,
amputando una delle due diramazioni del viticcio, quella che non porta
alla sua estremità una piccola prominenza (asperità) »: ma qui non si
capisce di quale prominenza intenda parlare l'eminente agronomo fran-
cese. Ultimamente i signori Barbant, Loborier e Laporta consigliarono
di mozzare per tempo la diramazione del viticcio che porta la scaglia
alla base, cioè la più lunga ossia quella che or' ora vedremo chiamarsi
viticcio di grappolo: essi asseriscono che facendo quella amputazione
poco dopo che il viticcio è comparso, si riesce di certo a mutare
l'altra diramazione in un grappolo. Diremo tuttavia che bisogna ac-
cettare tutto ciò con molta riserva, poiché le prove fatte da altri
hanno dato sempre risultati negativi.
Le spire dei viticci vanno da destra a sinistra, oppure da sinistra
a destra senza una legge fissa; questo è quanto abbiamo potuto os-
servare su numerosissimi vitigni italiani. Invece, secondo Bdbo (2),
tutti i viticci avrebbero le loro spire dirette verso sinistra. Lo stesso
autore soggiunge che i cirri possono attorcigliarsi soltanto attorno
ad oggetti aventi una grossezza doppia della loro, mentre chiunque
(1) Cours d'agriculture — Tome IV: Paris 1848 pag. 625.
(2) Handbuch des Weinbaues und der Kellerwirthschaft — (Berlin, 1881) —
(Erster Band: Weinbau, s. 91 : alle Ranken voinden sich nach links).
BOTANICA DELLA VITE 99
può osservare che essi si avviticchiano anche a paletti aventi un dia-
metro assai maggiore di quello che essi misurano. Infine diremo che non
di rado i viticci si avvolgono a spirale su sé stessi o attorno al pe-
duncolo del grappolo, e qualche volta anche attorno alle foglie.
Mohl e Butrochet hanno osservato che i viticci, dopo alcuni giri, si
piegano dalla luce verso l'oscuro: Mohl asserisce inoltre che nelle viti,
le quali stanno a spalliera contro un muro, i viticci si dirigono verso
questo, e che nei vigneti in pien campo generalmente prendono una
direzione verso nord. Tutti poi avranno osservato che le varie rami-
ficazioni dello stesso cirro hanno movimenti indipendenti. Darwin (1)
ha eziandio potuto osservare il sub- peduncolo b (fig. 7) d'un grap-
polo e piegato intorno ad un bastone ed anche in parte intorno ad
una foglia con cui era venuto in contatto, per cui non v'ha dubbio
che esso ha la stessa natura del ramo corrispondente d' un viticcio
ordinario, quando questo non porta che alcuni fiori, giacché in tale
caso, come giustamente osserva il celebre naturalista, diviene meno
ramificato, aumenta in lunghezza e guadagna tanto in sensibilità
quanto in facoltà di movimento spontaneo (2). Il viticcio d che ha
un peduncolo a comune con un grappolo e (fig. 7, a sinistra) chia-
mato viticcio di grappolo oppure viticcio di fiore, ed ha sempre
una scaglia alla sua base b analogamente alla ramificazione più lunga
e biforcuta del viticcio comune, o semplice organo di prensione (fig. 6).
Questi viticci di grappolo non sono sempre sterili, come taluno ha
asserito; talvolta portano essi pure fiori che danno uva, per cui si ha
un doppio grappolo, o grappolo gemino; ne abbiamo noi stessi un
esempio in un nostro pergolato di moscatello nero ove quasi tutti
i viticci di grappolo sono veri secondi grappoli con uva che giunge
a perfetta maturazione; il caso è abbastanza frequente anche nelle
graperies o serre da uva d'Inghilterra, ove il doppio grappolo è detto
(1)7 movimenti 'e le abitudini delle piante rampicanti (Traduz. italiana di Ca-
nestrini e Saccardo: Unione Tipografica-Editrice, Torino 1878), pag. 85-86.
(2) Secondo le osservazioni di Darwin (loc. cit. pag. 101) la vite sarebbe fra
tutte le piante rampicanti quella che gira più debolmente, « presentando essa
evidentemente soltanto una traccia di una facoltà primitiva. » Il celebre natu-
ralista inglese, autore della teoria della selezione naturale (selectio naturalis) ,
vuol alludere con queste parole alle modificazioni che i metodi di viticoltura hanno
indotto nella vite, cioè nella sua costituzione morfologica esterna ed interna. Lo
studio dei viticci ci prova che la vite è in un periodo di transizione. (V. anche
la nota nella pagina che segue).
100 CAPITOLO IV
cluster, cioè gruppo (1). Quando, come accade quasi sempre, il vi-
ticcio di grappolo non porta bottoni fiorali, esso si essica nell'estate
(luglio) ond'è che tutti possono poi osservare, sul peduncolo dei grap-
poli, una cicatrice la quale rappresenta il punto di dove partiva il(
detto capreolo.
I viticci della vite sono di natura cessile, cioè provengono dall'asse
della pianta, e più precisamente da gemme terminali dei tralci in istato
di sviluppo normale, e non dalla modificazione di foglie, come nei piselli,
nelle veccie, ecc. in cui i cirri sono invece di natura appendicolare;
questo può osservarsi chiaramente nella fig. 6 (pag. 95) nella parte
superiore di essa; l'internodio 6-7 presentava dapprima alla sua
estremità due gemme, una terminale l'altra ascellare, cioè posta al-
l' ascella dell' ultima foglia; la prima diede un viticcio (negli inter-
nodii inferiori al viticcio num. 1, aveva dato un grappolo), mentre la
seconda produsse un nuovo ramo 7-8, che spostando a sinistra il
viticcio si collocò nella stessa direzione dell'internodio 6-7. Accadde
lo stesso al punto segnato col numero 8, ove trovavansi pure una
gemma terminale, che diede il viticcio 8, ed altra ascellare che diede
l'internodio 8-9 in continuazione dei precedenti, avendo spostato il
viticcio 8 a destra. La gemma ascellare dà adunque un asse più
forte della gemma terminale, onde l'asse di questa (viticcio o grap-
polo) viene spostato da quello e rimane ai lati del tralcio in svi-
luppo. Ma al punto segnato col numero 9 non si ha che la gemma
ascellare, quindi manca il capreolo, che riappare poi al numero 10
e così di seguito, cioè si hanno sempre due internodii che si bi-
forcano (2) ed uno no (3). Ales. Braun, De Candolle, A. De
(1) Darwin (loc. cit. pag. 87) considerando che nelle viti si trovano, come si è
detto, viticci semplici e viticci con fiori, accenna a che il genere Cissus (pure
della famiglia delle Yitaceae) non offre gradazioni, e presenta soltanto viticci bene
sviluppati e gruppi di fiori. Indi conclude con la seguente acuta osservazione: « Se
il genere Yitis fosse stato sconosciuto, il più ardito partigiano della modifica-
zione delle specie non avrebbe mai supposto che lo stesso individuo, allo stesso
periodo di sviluppo, avesse offerto ogni possibile gradazione fra i gambi fiorali or-
dinari per il sostegno dei fiori e delle frutta, ed i viticci adoperati esclusivamente
per arrampicarsi. Ma la vite ci dà chiaramente un tale esempio; ed essa mi pare
una prova di transizione sorprendente e curiosa quanto si può immaginare. » Si
vegga anche la nota (2) nella pagina che precede.
(2) Questo sistema di ramificazione è detto dai botanici sirnpodiale, cioè con
bipartizione dell'apice o estremità del fusto.
(3) In questo caso invece la ramificazione è monopodiale, cioè senza biparti-
zione dell'apice del ramo. La vite adunque presenta un sistema di ramificazione
misto.
BOTANICA DELLA VITE 101
Jussieu, C. Darwin ed altri insigni botanici sono di questo av-
viso: invece W. Velieri e 0. Penzig sostengono che i viticci sono
veri germogli laterali che nascono sui lati del fusto, opposti alle
foglie, incominciando con piccole protuberanze, e non ammettono
quindi che essi rappresentino l'apice di un internodio. Ma dopo che
Eichler ha dimostrato (1881-1882) che un cirro rinforzandosi può
ricuperare il posto che veramente gli spetta, cosicché il tralcio può
essere terminato in modo definitivo da un viticcio (1) la quistione
ci pare risolta in modo definitivo.
Ci rimane a dire dell'ufficio dei viticci; della loro costituzione e
del perchè si avvolgano a spirale diremo più innanzi studiando l'ana-
tomia della vite. È evidente che l'ufficio dei viticci ordinarii è quello
di innalzare i rami fronzuti della vite, per cui una maggior quan-
tità di foglie e gli stessi tralci possano godere della benefica in-
fluenza dell'aria, nonché del calore e della luce solare; è ovvio poi
il comprendere che, nello stesso tempo, il viticcio tiene salda la vite,
come pure i tralci, ai sostegni, mentre il viticcio di grappolo aiuta
il grappolo stesso. Parlando a suo luogo della importanza dei viticci
dal lato viticolo pratico, vedremo se convenga o non di sopprimerli,
come si usa in alcune provincie italiane (2).
7.° Le foglie della vite si compongono di tre parti essenziali,
cioè il picciuolo o peziolo o gambo; — il lembo o lamina, vale
a dire la parte piana e dilatata; — le nervature o costole colle vene
e le venicelle: debbonsi considerare inoltre i peli e le stipole.
Il picciuolo (p fig. 9 e 10) ha una lunghezza ed uno spessore
varii secondo le varie specie e varietà di vizzati; generalmente è
rotondo, talvolta depresso nella parte superiore, ossia terete, e porta
peli più o meno numerosi, se pure, come accade in molte varietà,
non ne è affatto sprovvisto; il suo colore è talora verde, tal'altra
rossiccio, più o meno striato, più o meno pallido verso l'estremità.
Il lembo della foglia di vite è più o meno ampio secondo le diverse
varietà; ha un colore verde intenso o chiaro durante la vegetazione,
ed assume una tinta giallo-chiara con macchie rossastre od abbron-
zate in autunno; alcune varietà hanno le foglie rosse sul finire
dell'agosto, altre col contorno tinto di amaranto in estate. Il lembo
(1) 0. Comes — Botanica {La scienza e la pratica dell' agricoltura, voi. II,
pag. 67).
(2) Veggasi « Soppressione dei viticci » ove si parla della potatura verde.
102 CAPITOLO IV
è più o meno sottile, rugoso e morbido, e si notano differenze
fra la pagina superiore e quella inferiore della stessa foglia; la su-
periore ad esempio può essere di colore verde- oscuro e la inferiore
di colore meno carico. È poi noto a tutti che la pagina inferiore è
più ricca di peli {tomentosa, pubescente o cotonosa, talvolta a guisa
di ragnatela, talvolta a guisa di fiocchetti) che non la superiore, la
quale o ne sembra totalmente sprovvista (cioè glabra) o mostra
soltanto una rara peluria. Il lembo è variamente frastagliato, cioè
ha una dentatura differente, più o meno rada e profonda e più o meno
mucronata, cioè coi denti terminanti in punte sottili, acute o ad
uncino; in alcune varietà il dente centrale è molto acuminato, in
altre no. Il lembo offre grandi divisioni dette seni, le quali for-
mano i lobi, che sono generalmente cinque (fig. 9 ab e de) ma, pos-
sono essere anche soli tre (fig. 10 fgh) (1); nel primo caso la foglia
è quinquelobata o cinquelobata, nel secondo è trilobata. Si chiama
palmare o palmata la foglia di vite avente lobi profondi a simi-
glianza della foglia di fico, e ciò perchè in certo qual modo ricorda
la mano aperta. Il seno del picciuolo dicesi seno peziolare; esso è
più o meno rotondo o elittico, variamente profondo ed aperto, e può
(1) Il nebbiolo (spanna, raelasca, eco.) presenta, ad esempio, foglie cinquelobate
e foglie trilobate.
BOTANICA DELLA VITE
103
presentare i due lembi laterali sovrapposti; gli altri seni sono detti
superiori od inferiori a seconda della loro maggiore o minore di-
stanza dal picciuolo, e possono essere più o meno stretti, elittici,
profondi e via dicendo. Si chiama lobo di mezzo quello che costi-
tuisce la parte superiore estrema della foglia. Esso ha forme varia-
bili, potendo essere cuoriforme o allungato o dilatato ecc.
Le nervature partono dall' inserziore del picciuolo e vanno sino
al margine della foglia, divergendo le une dalle altre; la foglia della
vite è perciò peltinervia: generalmente le nervature principali sono
cinque (fig. 9), di cui la mediana (o costola o rachide) è la più
Fig. 10.
robusta e si trova nella direzione del picciuolo di cui è la continua-
zione, mentre le altre quattro, che ne sono le diramazioni, formano
angoli differenti (45° e talvolta 90° come può vedersi nella fig. 10)
per cui le foglie della Vite sono angulinervie. Le nervature prin-
cipali si dirigono verso il mezzo dei singoli lobi della foglia; da esse
partono poi nervature secondarie, terziarie, ecc. (vene e venicellej
le quali si confondono, si uniscono (si anastomosano) le une colle
altre, per cui il lembo prende l'aspetto d'un reticolato (nervatura
palmata-reticolata). Le nervature sono più o meno rilevate, con
diramazioni più o meno numerose, colorite in rosso alla base, oppure
104 CAPITOLO IV
di color verde- chiaro, o bianco -verdastro: quasi sempre sono spor-
genti, rotonde nella pagina inferiore delle foglie, mentre sono come
depresse e piane nella superiore, massime nelle ultime diramazioni.
Infine diremo che le nervature principali presentano peli più o meno
numerosi, come ad esempio nel San Gioveto piccolo (forte).
I peli, di cui abbiamo già detto qualche cosa parlando del lembo
della foglia, sono organi filamentosi che giovano ad accrescere il po-
tere di esalazione o traspirazione del vapor acqueo della pianta per
mezzo delle foglie. Queste sono più o meno pubescenti a seconda
delle varietà; ma anche quelle che si sogliono chiamare liscie, scabre
o glabre presentano rari peli presso le nervature o sopra di esse,
massime nella pagina inferiore che è la più tomentosa (pag. 102).
Della forma dei peli diremo nel paragrafo seguente studiando l'a-
natomìa della Vite; qui ci limiteremo ad accennare che la peluria
varia molto di intensità e di apparenza a seconda delle differenti va-
rietà di vizzati, alcuni dei quali mostrano la pagina inferiore delle
loro foglie come cotonosa (il barbera ne porge un beli' esempio),
altri quasi fosse coperta da una lieve ragnatela, altri invece portano
come dei fiocchetti di peli, altri ancora paiono non portarne affatto,
come talvolta il dolcetto e via dicendo. Questo carattere della pu-
bescenza è costante per una data varietà, benché talvolta una va-
rietà a foglie glabre possa mostrarsi alquanto pelosa; ed a cagion
d'esempio le foglie appunto del dolcetto ora mostransi glabre ora
leggermente tomentose, a seconda del locale ove cresce la pianta,
dell'età della foglia, ecc. Ad ogni modo gli arapelografi tengono in
molto calcolo questo carattere nel classificare le varietà.
Le stipole sono piccole appendici, o foglioline precoci, che stanno
ai lati del picciuolo e precisamente al punto d' origine della foglia
sul ramo; quando sono libere cadono, ond' è che molti forse crede-
ranno che le foglie della vite ne siano sprovviste: ma esaminando
attentamente il posto che occupavano si possono vedere due cica-
trici, segno che esistevano realmente, compiendo al loro ufficio di
proteggere la foglia prima del suo sviluppo, cioè durante la prefo-
liazione od ibernazione nella gemma. Le stipole della vite hanno
una forma ovale allungata o quadrangolare con angoli rotondati (1)
e non presentano picciuolo, cioè sono sessili; nella gemma si svi-
(1) 0. Penzig. Anatomia della Vite (Archivio del Laboratorio Crittogamico di
Pavia), voi. IV, pag. 155 e 159.
BOTANICA DELLA VITE 105
luppano con vigore e proteggono, coprendole, le giovani foglie; ma
siccome cessano assai presto di crescere, mentre le foglie continuano
a svilupparsi senza interruzione, così esse cadono precocemente e
non rimangono che le suddette cicatrici.
Descritte così le varie parti onde si compone la foglia della Vite,
ci rimane a dire qualche cosa sulla loro disposizione sui rami o fillo-
tassi. Tutti sanno che ad ogni nodo d'un tralcio di vite (fig. 6 pag. 95)
corrisponde una sola foglia, per cui le foglie della vite sono soli-
tarie, e vengono così chiamate per distinguerle dalle foglie dette op-
poste. Prendendo ad esame un tralcio fronzuto, e sia pure quello che
abbiamo disegnato nella detta fig. 6, si osserva che data una foglia
qualunque, ad esempio quella segnata col num. 1, la successiva, cioè
il num. 2, non si trova in corrispondenza colla prima: vi si trovano
invece verticalmente le foglie segnate coi numeri 3, 5, 7, 9 e via
via. Possiamo quindi concludere che le foglie della vite sono di-
sposte su due file equidistanti fra di loro, e si alternano in guisa
da corrispondersi di due in due: esse sono quindi foglie distiche.
Avvolgendo un filo a spirale attorno ad un ramo di vite (fig. 6) a
partire dalla base della foglia numero 1 e facendolo passare con-
secutivamente per tutte le foglie, si ha una spirale detta genera-
trice, i cui cicli sono rappresentati dalle porzioni di spirale com-
presi fra le foglie corrispondenti verticalmente ai numeri 1, 3, 5,
7, ecc. Ogni ciclo (1-3, 3-5, 5-7, ecc.) nella vite consta di un passo
di spira perchè alla foglia 1 corrisponde la foglia 3, alla foglia 3
la foglia 5 e via via (1): in ogni ciclo e quindi in ogni passo di
spira si contano due foglie; infatti il ciclo 1-2-3 tocca le foglie 1
e 2; il ciclo 3-4-5 tocca le foglie 3 e 4 e così di seguito. Pertanto,
come venne proposto dal Dott. Braun, si suole indicare questa di-
sposizione mediante una frazione il cui numeratore indica il numero
dei passi di spira del ciclo (quindi 1 nel caso della vite), mentre il
denominatore indica il numero delle foglie del ciclo (cioè 2). La
espressione frazionaria
2
è detta indice di fillotassi, e significa che nella vite la distanza
(1) Nel pesco invece alla foglia 1 corrisponde la foglia 6 per cui ogni ciclo
comprende due passi di spira: è facile constatarlo esaminando un ramo di pesco.
106 CAPITOLO IV
angolare di due foglie consecutive è uguale ad una mezza circonfe-
renza (1).
Fu veramente provvida questa regolare e geometrica disposizione
delle foglie lungo i rami della vite, inquantochè non trovandosi mai
due foglie consecutive che si corrispondano verticalmente, neppure
avviene mai che una foglia impedisca totalmente all'altra di godere
della benefica azione della luce solare, la quale, come vedremo a suo
luogo, ha una così grande influenza sui fenomeni della nutrizione e
sulla produzione dello zucchero.
8.° Le gemine della vite non possono, rigorosamente parlando,
distinguersi in gemme da legno {foglifere o ramifere) ed in gemme
da frutto {fiorifere od alabastri), cioè in occhi e bottoni; infatti
da una gemma di vite può escire un germoglio che porta fiori e fo-
glie ad un tempo, quindi le gemme della Vitis vinifera sono miste o
ramifere. Il viticultore intelligente sa discernere gli occhi puramente
ramiferi da quelli misti, cioè che sbocciando daranno un ramo con
bottoni fioriferi all'ascella delle foglie; questi bottoni danno origine
ai grappoli, e come già dicemmo sono generalmente due, rare
volte tre, ed in casi eccezionali più di tre (2) . Gli occhi ramiferi sono
generalmente più acuminati, quasi diremmo aguzzi, imperfetti, mentre
i bottoni misti si presentano turgidi e quadrangolari, se così possiamo
dire; questi ultimi però non sempre danno getti uviferi, anzi si può
asserire in tesi generale che i bottoni collocati nella parte inferiore
del tralcio, vale a dire presso la sua inserzione sul vecchio, non sono
fruttiferi, anche se ne hanno l'apparenza; onde, come vedremo, ta-
luni li acciecano (3). È curioso il fatto che questi bottoni sono ap-
punto generalmente quelli sprovvisti di viticcio durante il periodo
vegetativo del precedente anno; al paragrafo sulla fisiologia della
vite ritorneremo su di ciò.
Le gemme della vite sono tutte ascellari, cioè poste all' ascella
(1) Accade lo stesso nelle graminacee e nell'olmo; invece ad esempio nel pesco
l'angolo di divergenza di due foglie consecutive è misurato da un arco uguale
2
a 2j5 di circonferenza, e perciò l'indice di fillotassi è -—
o
(2) H. W. Dahlen narra di aver visto germogli uviferi con sei grappoli {Die
Weinbereitung — Vieweg in Braunschweig — 1882, pag. 10). Noi abbiamo visto
un solo caso di 4 grappoli in un germoglio, nonostante lunghe e frequenti escur-
sioni viticole.
(3) V. alla descrizione dei principali sistemi di viticoltura il Metodo Van-
nuccini.
BOTANICA DELLA VITE 107
delle foglie: quasi sempre esse non sono solitarie, ma più spesso
per così dire sovrapposte ; infatti oltre alla gemma principale, si
trova accanto ad essa una gemma secondaria, e in qualche caso,
non tanto raro quanto potrebbe credersi, una terziaria; queste ul-
time gemme chiamansi usualmente sotf occhi o contr occhi e spesso,
se perisce il bottone principale, si sviluppano oltre e possono anche
portare uva.
Ma le gemme della vite si distinguono anche in pronte e dor-
mienti: le prime stanno su getti dell'annata, germogliano neh" anno
stesso e producono le femminelle portanti talvolta i così detti secondi
grappoli; esse sono veri sott'occhi posti presso il bottone o l'occhio
dormienti. Questi ultimi stanno invece su tralci di un anno d' età e
sono detti dormienti perchè non si sviluppano se non nella primavera
dell'anno successivo a quello della loro formazione. Essi sono vestiti,
cioè protetti da appendici coriacee embìHcate, ossia simili ad embrici
e disposte come il frutto squamoso dei pini, per approfittare meglio
del poco spazio che occupano; queste squame sono internamente co-
perte o imbottite, se così possiamo esprimerci, di molta lanuggine,
per meglio proteggere le parti interne tenere della gemma durante
i rigori dell'inverno. Appunto perciò queste gemme dormienti furono
chiamate, da Linneo, svernatoi o ibernacoli; Mirbel chiamò perula
l'involucro protettore e diconsi poi tegmenti le singole squame che
lo compongono.
Non tutte le varietà di viti portano gemme a perula lanugginosa
o tomentosa; alcune mostrano bottoni solo leggermente pelosi sui
getti allo stato erbaceo, altre hanno gemme poco lanugginose; e
questo senza che si possano stabilire classazioni, perchè nei paesi
caldi troviamo viti a gemme tomentose (es. la vite Troja delle Puglie)
e nei freddi viti a gemme senza lanuggine (es. il Dolcetto di Pie-
monte che dà solo in primavera un getto leggermente lanugginoso).
Anche la forma delle gemme varia a seconda dei differenti vitigni;
ora è arrotondata, ora depressa, ora acuminata, ora conica, ora a
guisa di amandola, con squame di vario colore e via via.
9° / fiori della vite — salve poche eccezioni (1) — si com-
pongono di quattro parti essenziali; il calice, la corolla, gli stami,
ed il pistillo, e perciò sono completi: essi si mostrano aggregati in
(1) Al paragrafo seguente diremo dei fiori anormali della vite, cioè incompleti,
per cui le piante che li portano sono sterili.
108 CAPITOLO IV
modo da costituire, come tutti sanno, una infiorescenza a grappolo
o racemo, il quale consiste in un asse principale, detto rachide (che
non è altro che la continuazione del peduncolo o gambo) attorno al
quale stanno varii rami secondarli; questi rami, disposti con una certa
uniformità sulla rachide, sono detti sub-peduncoli; essi ramificano
alla loro volta e portano i fiori, per cui la infiorescenza della vite
anziché essere semplice è composta. I piccoli gambi che sostengono
i singoli fiori, e quindi più tardi i singoli acini, sono detti pedunco-
letti o pedicelli, onde i fiori della vite sono peduncolati (1).
I rami secondarli coi loro grappoletti di fiori o racimoli sono sempre
più sviluppati presso la base della infiorescenza e costituiscono, presso
alcune varietà di vite, come chi dicesse le ale dei grappoli, i quali
infatti chiamansi alati se i grappoletti sono molto pronunciati; questi
grappoletti possono poi essere sostenuti da un sub-peduncolo cadente,
più o meno floscio, più o meno lungo, più o meno erbaceo e via
via, d'onde le varie forme dei grappoli a seconda delle varietà; come
ad esempio grappoli quasi cilindrici, conici o piramidali, molto o poco
alati, irregolari, più o meno allungati, più o meno ramosi ecc. Infine
se i grappoletti di fiori, e quindi di acini, sono molto ravvicinati gli
uni agli altri, i grappoli sono detti uniti e talvolta anche serrati; in
caso contrario sono detti spargoli o sciolti: di più, un grappolo può
essere ad esempio a racimoli spargoli ed avere gli acini più o meno
densi.
Le infiorescenze della vite sono sempre, come dicemmo dei viticci,
opposte alle foglie, cioè opposi tifo He; invece normalmente le infio-
rescenze in quasi tutte le piante, o nascono all' ascella delle foglie
(ascellari) o partono dall'estremità del fusto o dell'asse d'incremento
(terminali) come nel Tulipano, o sono miste, cioè offrono riuniti i
due modi di infiorescenza. Le infiorescenze della vite sono quindi
extra-ascellari, e siccome deviano dalla suddetta legge generale che
regola la disposizione dei fiori sul fusto, tanto bene studiate da
Roeper, Bravais ed altri, così appartengono al piccolo numero delle
infiorescenze anomale.
Esaminiamo ora la conformazione esterna dei quattro organi o ver-
ticilli onde, come dicemmo, si compone il fiore.
II fiore (fìg. 11) è il verticillo più esterno come tutti sanno, e
racchiude per così dire gli altri organi fiorali; nella vite è molto
(1) Diconsi invece sessili i fiori senza peduncolo, come quelli della Verbena.
BOTANICA DELLA VITE 109
piccolo, come si può vedere nella figura 11, ed i suoi sepali essendo
uniti o saldati fra di loro, ne consegue che il calice nella vite è ga-
mosepalo o monosepalo, distinguendosi così dai calici polisepali cioè
a sepali liberi. Esso presenta cinque dentelli onde è cinquedentato.
La sua parte superiore, ossia l'orlo, è libera; mentre la inferiore è
unita al ricettacolo, che è il breve asse su cui si inseriscono tutte
le appendici del fiore, corrispondente al ramo vegetativo. Al principio
della fioritura il calice spesso si essica e più tardi cade.
Fig. 11. Fig. 12. Fig. 13.
La corolla avviluppa e protegge gli organi della riproduzione:
essa è quasi sempre costituita da cinque foglioline o petali (fig. lice
fig. 12 e) e segue immediatamente il calice: esaminando un fiore di vite
prima che si apra (la fig. 1 1 lo mostra già aperto) si osserva che i cinque
petali si alternano coi cinque dentelli del calice, e toccano questi ul-
timi soltanto pei loro margini, onde si ha una così detta estivazione
valvare (1). I petali nel fiore della vite da principio sono divisi come
da cinque piccoli solchi longitudinali che vanno dalla base alla estre-
mità; ma quando incomincia la fruttificazione la corolla si divide in
cinque parti che sono appunto i petali: essi però restano saldati nella
loro parte superiore e staccansi solo alla base (fig. 11 e) rimanendo
con quest'ultima ripiegata in alto a guisa di cappuccio protettore del
pistillo e degli stami: i petali non essendo veramente saldati fra di
(1) I botanici chiamano estivazione il modo differente con cui sono disposte le
parti componenti il fiore prima che questo si apra. Oltre la estivazione valvare,
si ha quella detta torsiva, (di cui ci porge un esempio la corolla dei fiori di malva)
e la quinconciale.
110 CAPITOLO IV
loro, ma liberi, la corolla della vite, a differenza del calice, è poli-
petala. In alcune varietà di viti i petali anziché essere cinque, come
accade generalmente, sono sei e talvolta anche sette. Il complesso
della corolla nel fiore della vite ha una forma che generalmente
corrisponde a quella del futuro acino.
Gli stami, o organi maschili, nel fiore della vite sono quasi sempre
cinque (fig. 13 d d) e costituiscono il così detto androceo, che è il
terzo verticillo del fiore, racchiuso nella corolla: se sono cinque l'an-
droceo è pentandro, ed è questo il caso più comune nella vite, quan-
tunque vi siano fiori di vite con quattro, oppure sei od anche sette
stami, nel qual caso anche i petali si contano in egual numero. Ogni
stame consta del filamento e dell'andrà: i filamenti sono liberi e
sorgono dal ricettacolo su cui sono inseriti, precisamente fra i pe-
tali e la base dell'ovario; perciò l'androceo nella vite è ipogino (1) o
infero, mentre l'ovario è supero perchè situato superiormente al ca-
lice alla corolla ed all'androceo: tutto ciò appare evidente nella fig. 13
ove in d d ecc. sono disegnati cinque filamenti colle rispettive antere.
I filamenti nel fiore della vite sono subulati cioè foggiati a guisa
di lesina, allungati ed assottigliati verso la estremità.
Vanterà sta all' estremità del filamento, e costituisce come un
sacco membranoso giallognolo, quasi foggiato a guisa di cuore (fig. 14)
entro cui si trova il polline o polvere fecondante: l'antara è divisa
in due logge o cavità, o forse meglio borse, addossate una all'altra
e solo separate da un tessuto intermedio detto connettivo; essendo
due le logge, l'antera è biloculare nella vite, ed è quanto accade
generalmente in pressoché tutti i fiori delle varie piante. L'antera è
fissata al filamento per la parte mediana del suo dorso (fig. 14 b)
per cui è mediifissa; avendo poi la sua faccia rivolta verso il centro
del fiore (fig. 13 d d) è intr^orsa (2). L'antera è oscillante, ed ha
una deiscenza, cioè un modo d'aprirsi, longitudinale. — (Fig. 14 a fila-
mento con antera molto ingrossata vista per davanti; b, vista per di
dietro; e, vista dopo l'apertura delle borse d d, e l'uscita del polline).
77 polline è costituito (fig. 15 ingr. 410) da una polvere di color
giallo chiaro; la forma dei granellini che lo compongono può essere
elittica come in a o più acuminata come in b ; del diametro più
(1) Dicesi invece peritino se gli stami sono inseriti sul calice — e epigino o
supero se stanno Della parte superiore dell'ovario, il quale allora vien detto infero,
(2) In altre piante l'antera ha una posizione opposta (l'sti-orsa).
BOTANICA DELLA VITE
111
lungo di circa 25 micromillimetri ed il [più corto di circa 15 min.;
ma di essi parleremo più a lungo nel paragrafo seguente {Anatomia
della vite).
d
a
Fig. 14s.
Il pistillo è il verticillo centrale del fiore della vite; esso qui co-
stituisce da solo il gineceo, ed è un pistillo supero come già
vedemmo (fig. 11 b) terminante in una apertura detta stimma,
(fig. 13 f) e diviso internamente in due logge, qualche volta in tre (1):
in ogni loggia vi sono due ovuli. Il pistillo è composto di due o tre
Fig. 15.
parti, dette carpelli, saldate fra di loro e che corrispondono appunto
alle due o tre logge interne; esso è perciò un pistillo composto o
pluricarpellare , e forma due o tre ovarii: però usualmente si chiama
ovario l'intero pistillo. Siccome ogni ovario contiene più di un ovulo,
ne viene che esso è pluriovulato. La sua forma è o arrotondata o
allungata, e quasi diremmo fusiforme a mo' di bottiglia, d'onde le
varie forme degli acini di cui diremo fra poco. Lo stimma, o aper-
tura del pistillo, generalmente non è posto in cima ad uno stilo,
(1) Ciò accade quando i fiori hanno sei o sette petali e sei o sette stami.
112 CAPITOLO IV
come in altri fiori, ma sta immediatamente sub" ovario (fig. 13 f),
per cui lo stimma nel fiore della vite è sessile (1); se esiste uno
stilo esso è assai breve e semplice, ma ciò è raro. Lo stimma è ar-
rotondato piatto, e leggermente depresso nel centro.
10.° L'uva. Come tutti sanno il grappolo o pigna si compone
essenzialmente degli acini; in quanto al gambo ai peduncoli ed ai
picciuoli rimandiamo il lettore a quanto dicemmo (a pag. 108) par-
lando delle infiorescenze della vite, il che naturalmente vale pure
per quanto riguarda la varia forma dei grappoli d' uva. L' acino
botanicamente parlando è una bacca carnosa, così detta perchè
tutto il pericarpio è polposo, soffice, succulento e non vi ha noc-
ciolo in essa, ma solo i semi: nel frutto dell' uva manca adunque
l'endocarpio, che è quella membrana indurita, coriacea, ossea, che
tutti abbiamo osservato nella pesca, nella susina, nella ciliegia ecc.,
vale a dire il nocciolo: neh' acino d' uva l' endocarpio è confuso
colle altre parti del pericarpio.. Invece è molto sviluppata la parte
carnosa, succulenta, zuccherina che sta fra la pellicola (epicarpio)
ed i semi, e che dicesi mesocarpio o sarcocarpio: quindi nella
bacca dell'uva il 'pericarpio si distingue essenzialmente in due parti:
V epicarpio ed il mesocarpio o parenchima (2). L'acino non è de-
iscente, cioè il suo pericarpio non si apre, quando i semi sono ma-
turi, per dar luogo alla disseminazione; esso quindi, come tutti i
frutti carnosi, è indeiscente.
La forma degli acini può essere sferica o depressa; subrotonda,
dubbia o incostante, e decisamente ovale (3): queste forme però non
sono scrupolosamente costanti per una data varietà, poiché le con-
dizioni di clima e di suolo possono far assumere ad uve ad acino
rotondo la forma oblunga: tuttavia gli ampelografi tengono calcolo
anche di questo carattere.
(1 I botanici chiamano sessili le foglie, i fiori, le antere, e gli stami che non
hanno picciuoli, o peduncoli, o stili, o altri sostegni.
(2) Chiamasi parenchima la parte generalmente molle (tessuto cellulare) dei
frutti, delle foglie ecc. Al contrario chiamansi fibre i vasi dei vegetali riuniti in
fascii e costituenti come la trama o lo scheletro di quasi tutti gli organi. Nelle
foglie, ad esempio, è facile distinguere il parenchima dalle fibre.
(3) È questa la divisione adottata eziandio dal valente ampelografo G. Di Ro~
vasenda (op. cit. pag. 203) — Però L. Oudart divideva gli acini in due soli or-
dini: acino rotondo ed acino oblungo, ritenendo egli che gli acini subrotondi,
essendo rari assai, si potessero unire colle uve ad acino rotondo. Al capitolo Am-
pelogr.afia ritorneremo su di ciò.
BOTANICA DELLA VITE 113
Gli acini sono più o meno aderenti al peduncolo, massime nel
periodo della maturanza; in alcune varietà possono anche cadere di
per sé stessi, se nel detto periodo sopraggiungono le pioggie e se
il terreno del vigneto è poco permeabile. Il colore degli acini può
essere bianco, rosso o nero, con gradazioni diverse, come nero-
violaceo, rosso-rubino, azzurro-cupo, giallo-dorato, verdognolo ecc.;
alcuni ampelografì però distinguono le uve soltanto in colorate e
bianche; comunque sia, è certo che questo carattere è fra i più costanti,
onde Tampelografia, come vedremo più tardi, ne tiene grande conto.
La pellicola o buccia degli acini d'uva chiamasi propriamente la fio-
cine; essa, oltre al differente colore, può mostrarsi pruinosa oppure
lucida; coriacea o sottile. Diconsi pruinosi o annebbiati o cenerini
gli acini che sono ricoperti come da un pulviscolo bianchiccio, o per
parlare più propriamente, che sono spalmati da una sostanza grassa,
la quale oltre a proteggerli contro le intemperie, perchè è impenetrabile
all'acqua, giova molto allo sviluppo degli eteri (fragranza) nel futuro
vino: sono annebbiati gli acini del Nebbiolo, sono pruinosi quelli del
San Gioveto piccolo e del Dolcetto, e sono cenerini quelli della Cenerina
o Celerina o Slarina. È lucida invece la fiocine non pruinosa, come
ad esempio quella dell' uva Troia delle Puglie. Chiamasi coriacea
quella degli acini che volgarmente diciamo duri o croccanti, com'è
delle uve che si conservano per fare i vini passiti o ad uso tavola
per l'inverno, quali la Verdea, TErba-luce, ecc.
Veniamo ora ai semi d'uva, detti più propriamente vinacciuoli;
il loro numero nell'acino varia da zero a quattro al massimo, su di
che ritorneremo nel paragrafo seguente. Per ora ci limiteremo a de
scrivere esternamente il vinacciuolo (fig. 16): dicesi becco la sua
estremità, più o meno allungata; calaza un rigonfiamento circolare
od ovale che si trova quasi nel centro del vinacciuolo: rafe o ra~
fide o vasidutto è una prominenza che, in forma di cordoncino, parte
dalla calaza, si ripiega nella parte opposta del seme (parte ventrale)
e va a terminare alla punta del becco o ilo, che è il punto d'inser-
zione del seme sul pericarpio: vertice è l'estremità opposta al becco.
La calaza e la parte anteriore del rafide si trovano in una infos-
satura che va dalla parte centrale al vertice (1).
(1) Questa breve e chiara descrizione coir unita figura togliamo dalla Guida
pratica per la ricostituzione dei vigneti italiani dell' agr. V. Vannuccini — (Fi-
renze 1883, pag. 22-23).
0. Ottavi, Trattalo di Viticoltura. 9
114
CAPITOLO. IV
Queste sono adunque le parti esterne del vinacciuolo; ma è a no-
tarsi che la loro conformazione varia col variare del loro numero
nell'acino, e sovratutto poi col variare delle specie di viti. Engelmann
ha constatato che se in un acino vi ha un solo vinacciuolo, esso
prende una forma più arrotondata; se ve ne sono due, essi sono alquanto
appiattiti sul lato interno ed arrotondati sull' esterno ; se infine ve
ea-lattu
lAe/ctloe
ì^i£qisìs atti/ut
ne sono tre o quattro, i vinacciuoli sono più allungati ed angolari.
Queste differenze possono riscontrarsi anche negli acini d'uno stesso
grappolo. Ma le differenze fra specie e specie sono assai più importanti
e notevoli, massimamente per le viti americane. Si deve ad En-
gelmann il miglior lavoro su questo importante argomento; da esso
prendiamo le figure che seguono, acciò il lettore possa vedere le dif-
ferenze che passano fra i vinacciuoli di alcune specie.
Fig. Il a — seme di vite Riesling, ingrandimento di 4 diametri; b
Chasselas; e Black-Hamburg di una serra di viti presso Londra.
Fig. 18 d — Lambrusca di Toscana e del Nord d'Italia.
Le viti della specie europea ( Vitis vinifera) hanno, come vedesi, un
becco molto più allungato ed una calaza più grande che non le specie
americane; inoltre la calaza occupa la parte superiore e non la me-
diana del vinacciuolo. I quattro vinacciuoli qui disegnati non com-
prendono però tutte le forme delle viti d'Europa; tuttavia i loro
BOTANICA DELLA V1TK
15
caratteri fondamentali non variano di molto nelle altre numerosis-
sime varietà.
a
Fig 17.
Fig. 18.
Fig. 19 e fg e fig. 20 2/ quattro vinacciuoli di viti Riparia sel-
vatiche; e f Goat Island, alle cascate del Niagara; g dal lago Cham-
plain; fig. 20 i; June grape (uva di giugno) delle rive del Missis-
Fig. 19.
sipì, al disotto di San Luigi. Questi vinacciuoli sono ottusi, o molto
leggermente depressi al vertice; la calaza è piuttosto piatta, allun-
m
Fig. 20.
gata e si perde gradualmente in una infossatura che racchiude il
rafe appena saliente.
116
CAPITOLO IV
Fig. 20 l m: forme coltivate di Riparia (l Taylor-Bullit e m Clinton):
vinacciuoli più grossi, ma delFistessa forma.
Tralasciamo altre descrizioni per amor di brevità (1) e poniamo
così termine alla morfologia esterna della vite.
§ 4. Anatomia della vite. — Abbiamo già detto, incomin-
ciando il § 3, che l'anatomia corrisponde alla morfologia interna,
per cui dovremo ora fare, per i singoli organi onde si compone la
Vite, lo studio della loro intima costituzione o struttura: a tale uopo
terremo lo stesso ordine seguito nella morfologia esterna, incomin-
ciando dalla radice per terminare agli acini ed ai loro semi.
l.° La radice. Se noi confidiamo al suolo in determinate con-
dizioni di calore e di umidità, delle quali ci occuperemo studiando
Fig. 21.
Fig. 22.
la seminagione della vite, un vinacciuolo, vediamo che, dopo un
tempo più o meno lungo, si sviluppano due foglie seminali o cotile-
donari, (fig. 21 e 22) ed una radichelta a fìttone, la quale si sviluppa
(1) Chi desiderasse maggiori notizie, cousuiti Les Vìgnes Américaincs par Bush
e Meissner (IIoopli-Milauo).
BOTANICA DELLA VITE 117
rapidamente nel suolo, più rapidamente che il fusticino; questo è la
continuazione di quella e perciò fra la struttura interna della radice
e quella del fusto non sonovi che poche differenze essenziali.
La tenera punta della radichetta già mostra le spongiole e la pi-
leoriza (pag. 87 e 89) di colore giallognolo, costituita da cellule di-
staccatesi dal tessuto cellulare della radice e poi morte; esse pro-
teggono la punta vivente della radice. La parte esterna delle radi-
chette presenta anzitutto una speciale epidermide, detta epiblema,
composta di cellule appiattite e senza pori o meati (1); la parte te-
nera e bianchiccia delle estremità delle radichette, nonché i peli ra-
dicali che ivi si trovano, costituiscono il sistema assorbente della
pianticina, quando vengono in contatto colle particelle del suolo;
ed eziandio in una vite completamente sviluppata è sempre la gio-
vine punta delle radichette che prende gli alimenti dal terreno, come
diremo più distesamente nel successivo paragrafo (Fisiologia).
La parte interna della radichetta è quasi totalmente costituita da
tessuto cellulare attraversato da vasi (tessuto vascolare) che ne occu-
pano la parte centrale, come si vede nel disegno (fig. 23). La piccola
Fig. 23.
zona centrale libera da vasi si può considerare come il midollo
(tessuto cellulare impregnato di succhi). Invecchiando la radice, l'e-
pidermide è surrogata da uno strato di cellule morte. Infatti nelle
radici vecchie vediamo anzitutto all'esterno un vero strato sugheroso
(cellule sugherose o suberose) che si può separare in squame
(1) Diconsi meati o spazii intercellulari, le cavità che si riscontrano tra le cel-
lule, massime se queste sono arrotondate.
118 CAPITOLO IV
come accade dei tronchi; queste squame sono costituite dai fascii fi-
brosi del libro. Alla scorza fa seguito una zona di tessuto cellulare
o parenchima (1) le cui cellule non si sono vuotate del loro succo
come accade di quelle esterne anzidette, ma ne sono impregnate es-
sendo in pieno sviluppo.
Queste cellule contengono molti granuli amidacei. L'amido si
trova nelle cellule non solo dei grani (cereali) e dei tuberi (patate),
ma anche nel legno degli alberi, e ci accadrà molte volte di accen-
narlo studiando l'anatomia della Vite; specialmente perchè nelle foglie
di quest'ultima, se esposte direttamente al sole, si forma pure amido
in grande quantità durante l'estate e perchè l'amido in determinate
circostanze si metamorfosa in glucosio o zucchero.
I granuli d' amido osservati al microscopio offrono forme molto
differenti e grossezze pure diverse; la loro presenza si può ricono-
scere facilmente mettendoli in contatto con una soluzione acquosa o
alcoolica di iodio; se ne ottiene così un colore azzurro porporino assai
bello (2).
Oltre all'amido, nelle radici, massime se vecchie, si riscontrano ab-
bondanti i cristalli di ossalato di calcio (3) nelle cellule del paren-
chima corticale: da principio 1' ossalato è disciolto entro le cellule
della radice, benché sia insolubile nell'acqua pura; ma quando la radice
è bene sviluppata si hanno i cristalli quasi visibili ad occhio nudo, o
almeno con piccolo ingrandimento. Questi cristalli (ossalati, solfati,
fosfati, carbonati di calcio, ecc.) hanno ricevuto diversi nomi: chia-
(1) Abbiamo già detto (pag. 112 nota 2.a) che il tessuto parenchimatoso è il
tessuto cellulare molle, composto di cellule poliedriche oppure arrotondate, nel
qual caso ò detto merenchima : si chiama invece prosenchima il tessuto composto
di cellule allungate o fibre (tessuto fibroso). È bene conoscere questi termini bo-
tanici.
(2) L'amido ha la identica composizione chimica della cellulosa ( Co Hio O5 ).
E noto che la pianta ò un aggregato di cellule microscopiche; le pareti delle
cellule sono cellulosa, la quale costituisce come lo scheletro della pianta, dandole
la solidità. I corpi che più abbondano nelle piante coltivate sono, per ordine
d'importanza, l'acqua, la cellulosa, e Yamido.
(3) Gli elementi superflui od eccessivi della pianta, 0 rimangono disciolti nei
succhi, e sono emessi sotto forma di efflorescenza, oppure si depositano nelle
cellule, incrostando talvolta le pareti cellulari. S. W. Johnson dice che quan-
tunque questi cristalli non siano mandati fuori dall' organismo, tuttavia si pos-
sono giustamente considerare come escrezioni. (V. Come crescano i raccolti, di
Johnson traci. Giglioli — Milano: Treves, pag. 201).
BOTANICA DELLA VITE 119
mansi cistoliti le concrezioni cristalline, le quali sono attaccate ad
una parete cellulare; rafidi i fascii di cristalli aventi la forma di
aghi; druse se l'agglomeramento dei cristalli assume come la forma
d'una stella. Di questi cristalli diremo più a lungo studiando l'ana-
tomia della foglia. Nelle cellule del parenchima radicale si trovano
specialmente i rafidi.
Dopo la scorza ed il tessuto cellulare, o parenchima corticale, tro-
viamo nella radice della vite uno strato intermedio detto zona ge-
neratrice o cambio, che riscontreremo anche nel caule; nella radice
però questa zona, che taluno chiama libro tenero, consta soltanto
di tessuto cellulare e vascolare (1) cui fa seguito il corpo legnoso
che occupa il centro della radice, ove non si riscontra più il midollo
delle giovani radici, o almeno è quasi impercettibile nelle radici
molto vecchie.
Il tessuto vascolare della radice consta principalmente di vasi 'pun-
teggiati e rigati, (fig. 24) cosidetti per l'apparenza delle loro pareti,
nei quali quasi sempre si riscontra amido in piccoli granelli, secondo
il Prof. G. Briosi. Aggiungeremo che tutto il tessuto cellulare della
radice abbonda di vasi laticiferi (1).
Il corpo legnoso è attraversato dai raggi midollari come il caule.
2.° Il fasto. Per quanto il caule si confonda in certo qual modo
col corpo della radice, da cui non lo separa nessuna linea di
demarcazione, pure nella vite vi sono talune differenze essenziali
tra la struttura interna dell'uno e dell'altro.
Se noi pratichiamo un taglio orizzontale nel ceppo di una vite,
o in una diramazione legnosa di essa, noi vediamo chiaramente (fig. 25)
tre zone concentriche; cioè nel centro il midollo, poscia il corpo le-
gnoso, indi all'esterno la corteccia. Studiamo queste tre zone inco-
minciando dalla corteccia.
La parte più esterna di essa è, come già dicemmo, X epidermide,
composta di uno o più strati di cellule a grosse pareti intimamente
uniti fra di loro; si attribuisce all'azione diretta dell'aria, della luce
(1) Ricorderemo che il tessuto vascolare è formato dai vasi, i quali sono organi
essenziali della nutrizione: appariscono come tubi o canali aperti ai due capi, non
ramificati, a pareti sottili, più o meno lunghi, isolati o riuniti in fascii, i quali
penetrano entro il" tessuto cellulare. Diconsi vasi laticiferi, quei vasi semplici o
ramificati che contengono il latice o succo proprio della pianta. (L'oppio, le gom-
me resine ecc. si ricavano appunto dai latici di talune piante).
120
CAPITOLO IV
e di tutti gli agenti atmosferici sul tessuto cellulare esterno, l'ori-
gine dell'epidermide, come già sostenne pel primo Malpighi, quantun-
que le cellule che la compongono differiscano notevolmente da quelle
del tessuto sottostante. Essa mostra un certo numero di stomi (men-
tre questi mancano nelle radici) i quali riscontreremo assai più nu-
merosi nelle foglie: questi stomi o pori corticali (fig. 26) rendono per
così dire la vite permeabile all'aria, ed Hales trovò pel primo che
per loro mezzo l'aria penetra nei vasi longitudinali del fusto legnoso.
Come mostra la fig. 26 essi constano di due cellule a forma di mezzaluna,
le quali formano come piccoli occhi oblunghi, talvolta poligonali, posti
Fig. 24
Fig 25.
nello spessore dell'epidermide, e le di cui pareti sono suscettibili di re-
stringersi o allargarsi; già da parecchi anni Amici provò che l'umi-
dità soverchia quasi li fa chiudere, mentre il secco e l'azione diretta dei
raggi solari li dilatano e li aprono. L'epidermide ha uno spessore vario
secondo le diverse varietà di viti (1),* però essa esiste soltanto nelle
parti giovani del fusto; nelle altre, quando hanno due o più anni,
troviamo invece lo strato sugheroso (pag. 91) che tutti i viticul-
tari avranno certo osservato sui tronchi vecchi, ove è assai spesso.
(1) Secondo il Dr. 0. Penzig la varia grossezza della cuticola determinerebbe
la maggiore o minore resistenza che le varie viti possono opporre ai parassiti.
Archivio del Laboratorio crittogamico Garovaglio, Pavia 1882, pag. 153).
BOTANICA DELLA VITE 121
Dopo lo strato sugheroso troviamo, nel tronco della vite, un tes-
suto corticale da cui trae appunto origine il detto tessuto sugheroso;
e poscia fanno seguito i fascii fibrosi del libro, di cui già parlammo
a pag. 91. Tutto ciò costituisce la corteccia della vite.
Procedendo verso l'interno del ceppo troviamo il corpo legnoso:
ma fra esso e la corteccia si trova la zona generatrice o cambio,
già accennata a pag. 119, composta di tessuto cellulare e vascolare
e che Mirbel, sin dal 1816, definì un tessuto assai giovine che forma
la continuazione del libro, ed in cui circola il succo nutritore, per
la qual cosa esso si cangia insensibilmente in legno ed in libro se-
condochè tocca il primo od il secondo (1). Ciò è tanto vero che e-
Fig. 26.
saminando in primavera un tronco di vite, si trova la superficie del
legno (alburno) e quella interna della corteccia (libro) come turgida
e ricoperta di tessuto cellulare formativo, ossia nascente, inzuppato
di succhi: così si formano sia le fibre del libro che quelle del legno.
E se in primavera noi possiamo scortecciare facilmente un ramo di
vite sino a scoprire il legno, si è appunto perchè le cellule del cam-
bio sono giovani e delicate, mentre in autunno sono pienamente
sviluppate, si indurano e diventano legnose o liberiane.
Veniamo ora al ^ corpo legnoso: esso si compone di due parti, il
legno giovane, a contatto colla zona generatrice, detto alburno (2)
(1) Mirbel disse che questa trasformazione è percettibile all'occhio dell'osser-
vatore.
(2) Alburno, quasi per significare un legno più bianco; infatti talvolta è più
pallido del legno propriamente detto cioè più interno, e tal'altra è bianco come nel-
122 CAPITOLO IV
ed il legno propriamente detto, chiamato duramen o cuore del legno,
od anche semplicemente legno, il quale è più duro e consistente del-
l'alburno. Nel corpo legnoso della vite vi ha poca differenza di co-
lore fra queste due parti; F alburno però è meno consistente.
Nella fìg. 25 abbiamo disegnato una sezione orizzontale d'un tronco di
vite barbera; in essa si vedono chiaramente gli strati legnosi circolari
che costituiscono il corpo legnoso, disposti attorno al canale midol-
lare; ogni anno si forma uno di consimili anelli all'esterno di quelli
che già costituivano il corpo legnoso, ma non sempre essi sono di-
sposti regolarmente attorno al midollo: se il tronco o ramo della
vite è verticale abbiamo la disposizione a della fìg. 27; ma se è molto
ricurvato, come accade generalmente nei sistemi di educare la vite,
allora si ha la disposizione b cogli strati annuali che si protendono
eccentricamente verso il lato inferiore del ramo. Questi anelli legnosi
Fig. 27.
annuali rimangono sempre visibili nel caule, onde dal loro numero
può dedursi quanti anni abbia la vite; (nella fig. 25 il numero degli
strati non corrisponde a quello degli anni perchè l'abbiamo ingran-
dita di 2 volte onde renderla più chiara). Conviene tuttavia notare
che ciò si verifica specialmente nei paesi ove, per il freddo dell'in-
verno, la vegetazione della vite cessa del tutto o quasi, poiché se
essa continuasse quasi senza interruzione (pag. 30) gli strati legnosi
annuali si confonderebbero gli uni cogli altri, e allora sarebbe molto
difficile dedurre dal loro esame l'età della vite.
Come vedesi nella fig. 25 ogni anello legnoso annuale è separato
dai due altri in mezzo a cui si trova, mediante un sottile strato; esso
è costituito da cellule legnose più piccale delle altre, e corrisponde
T ebano, ove il legno interno è a dirittura nero, e nel campeggio, ove è rosso _
Però questa differenza di colorazione è insensibile nei legni bianchi e leggeri
(pini, pioppi, ecc. ecc.). ^
BOTANICA DELLA VITE 123
al momento dell'anno in cui la vegetazione della vite si arresta: du-
rante la vegetazione le cellule sono più grosse, d'onde questi sottili
strati di legno più compatto, bene visibili anche ad occhio nudo.
Esaminandoli al microscopio si riconosce che essi sono composti di
tessuto legnoso perfettamente identico a quello che costituisce V in-
tera massa legnosa.
La fibra legnosa, massime del legno o duramen, è impregnata
da lignina^ oltre alla cellulosa che costituisce, come già dicemmo
a pag. 118 la parete delle cellule: la lignina ha una composizione non
ancora bene definita, ed è forse una miscela di varie sostanze (Schulze).
Veniamo ora al midollo, che è la parte centrale del fusto della
vite: esso è racchiuso nell'astuccio midollare di forma circolare, il
quale altro non è che la parte interna del primo strato legnoso for-
matosi, ond' è che non è separato dal corpo legnoso. Esso si com-
pone di trachee (1), vasi punteggiati (2) e tessuto legnoso.
Il midollo consta, nella vite, di grandi cellule, ossia d'una massa
continua di tessuto cellulare, impregnata di succo, ma che offre ca-
ratteri diversi secondochè si esamina un ramo giovine oppure un
vecchio tronco: in quest'ultimo caso il midollo si riduce notevolmente
di volume (fig. 25) e cede grande parte de' suoi succhi alle altre
parti del tronco, onde le cellule si vuotano, le loro pareti inspes-
siscono e si impregnano di lignina, per cui il midollo si riduce ad
una massa quasi diremmo arida, di colore rossastro o monachino,
come gli strati corticali, mentre quando è giovine è bianco.
Dal midollo partono i raggi midollari e vanno al tessuto cellu-
lare della corteccia; essi altro non sono che lamine verticali di tes-
suto cellulare, le quali, come si vede chiaramente nella fig. 25, divi-
dono il corpo legnoso in tanti compartimenti formando per così dire
delle chiusure: essi sono di colore più chiaro e però si vedono fa-
cilmente, come si vedono gli strati legnosi annuali. I raggi midollari
tagliano appunto questi anelli legnosi: essi notansi assai numerosi
nei giovani tralci, specialmente nel legno di un anno sul quale sia
(1) Sono tubetti cilindrici, lunghi, a pareti sottili e membranose, aventi nel
loro interno un filo ravvolto a spirale, per cui si chiamano anche vasi a spirale.
Il filo è cilindrico e pieno di sava; il tubo cilindrico è invece pieno d'aria.
(2) I vasi (pag. 119 nota l.a) sono detti punteggiati quando mostrano sulla
periferia dei puntidisposti con una certa regolarità in linea trasversale: questi punti
sono realmente spazii (areolé) nei quali non si sono deposte sostanze, per cui mercè
di essi il succo può venire facilmente assorbito e poscia diffuso.
124
CAPITOLO IV
praticata una sezione trasversale; ma, com' è evidente, quanto più
abbondano tanto minore è il loro spessore. Essi constano di cellule
aventi una forma speciale, e visti in una sezione orizzontale appa-
iono come tanti quadrilateri allungati (fig. 28: a midollo, b raggio mi-
dollare, e epidermide della corteccia) : tali cellule sono prismatiche
assai regolari con pareti punteggiate ad occhiello (fig. 29 e 30 r r)\
esse sono molto ricche di amido nochè di tannino (1), il quale ri-
scontrasi anche negli strati corticali e nel libro; inoltre contengono
cristalli di ossalato di calce (rafidi) e cristalli isolati presso gli strati
esterni del libro.
Per dare ora un' idea complessiva della costituzione morfologica
interna del fusto della vite esamineremo la fig. 29 (2) che rappre-
senta un taglio trasversale del legno, ingrandito 400 volte: in g ve-
diamo i vasi (pag. 119); in r un raggio midollare ed in II le fibre
del libro (pag. 121) a figura allungata ed aguzza e poco punteggiate.
La fig. 30 invece ci mostra un taglio longitudinale del fusto della vite
ingrandito 300 volte; g g sono i vasi rigati, o più propriamente sca-
(1) 0. Penzig, loc. cit. pag. 151.
(2) Riproduciamo le fig. 29 e 30 dal citato lavoro
del Laboratorio crittogamico di Pavia).
del Dott. Penzig (Archivio
BOTANICA DELLA VITE
125
lari formi, essendo le linee trasversali assai regolari; questi vasi pre-
sentano pure le areole di cui parlammo a pag. 123, nota 2; l Me
libre libriformi semplici; V V quelle tramezzate o septate da sottili
tramezzi; p p il parenchima legnoso: r r un raggio midollare.
3°. Il legno giovine. Passiamo ora a studiare 1' anatomia del
tralcio legnoso della vite: esso non presenta differenze dal legno del
Fi-. 29.
fusto or'ora studiato ed offre uno o due anelli legnosi secondochè ha
uno o due anni.
Il midollo, relativamente al legno ed alla corteccia, è molto svi-
luppato, siccome ci mostra la fìg. 31, la quale rappresenta un tralcio
di un anno d'età: il suo colore è più chiaro che non nel legno vecchio;
inoltre esso è più ricco di succhi.
Nel legno giovine il midollo non è continuo, ma ai nodi pre-
senta delle soluzioni di continuità, cioè dei tramezzi legnosi di
126
CAPITOLO IV
color chiaro, come vedesi in a e b fig. 31. Gli è perciò che nei tralci
della vite troviamo i meritalli o internodii aventi ciascuno un mi-
dollo proprio, cioè indipendente da quello degli internodii superiore
ed inferiore. La gemma o bottone fa sempre parte del meritallo ad
essa superiore (1) il cui midollo senza dubbio contribuisce a renderla
Fig. 30.
più robusta e più feconda : ond' è che il potatore razionale non re-
cide mai il tralcio presso la gemma, ma bensì alla estremità del suo
(1) Ciò però non significa che la gemma, se separata dal suo meritallo, debba
certamente perire: è noto che si possono seminare le semplici gemme (V. più in-
nanzi Pianlamento della vite).
BOTANICA DELLA VITE
127
internodio. Questa gemma, alla quale sovrasta un internodio (il quale
però deve essere chiuso superiormente dal tramezzo legnoso) si chiama
gemma franca, quasi per indicare che non può fallire, e difatti è
raro che non sbucci. Se però l'internodio venisse tagliato troppo in
basso, così da non essere chiuso dal tramezzo legnoso superiore, il
midollo si guasterebbe e l'astuccio midollare potrebbe servire di nido
ad insetti, per cui ne verrebbe gravemente danneggiata la gemma:
questo fatto ci è accaduto di constatarlo più volte.
Invecchiando il legno, i tramezzi legnosi si fanno sempre più scuri,
Fiff. 31.
Fi- 32.
sino a prendere lo stesso colore del midollo: infine scompaiono. Non
sapremmo precisare quando ciò accada, solo possiamo dire di aver
trovato i detti tramezzi di colore scuro, ma ancora sufficientemente
duri, nel legno di vite di cinque anni.
La quantità di midollo contenuta nei tralci della vite varia a se-
conda delle varietà differenti di vizzati: e così abbiamo quelli con
sarmenti ricchi di midollo, altri medianamente provvisti ed altri po-
veri. Si osserva generalmente che quando il midollo è scarso ab-
128
CAPITOLO IV
bonda il legno, ed è naturale; onde allora il vitigno è più robusto
e più resistente alle intemperie e sovratutto ai grandi freddi: però
non si deve ritenere ciò come assoluto, essendovi talune eccezioni,
fra cui il barbera, che nonostante un copioso midollo è robustissimo
e che abbiamo visto resistere a forti geli nel rigidissimo inverno del
1880 in cui in Monferrato si ebbero, nel gennaio, 10 gradi C. sotto
lo zero a mezzogiorno.
Anche nel legno giovine, come nel ceppo, trovasi tannino, ossa-
lato di calcio ed amido e nulla abbiamo da aggiungere su di ciò.
Pia-. 33.
4.° / germogli. Se noi pratichiamo un taglio orizzontale sovra
un germoglio erbaceo vediamo agevolmente come le parti verdi
della vite si compongano di fascii vascolari bene distinti (fig. 32)
che scorrono lungo il germoglio parallelamente al copioso midollo
che essi circondano. Come si vede nella fig. 32 i fascii sono attra-
versati da un anello, detto anello cT inspessimento, ond' è che ri-
mangono divisi in due parti: la più piccola è esterna e fa parte del
libro; la più grande è interna ed appartiene al legno. Questi fascii
BOTANICA DELLA VITE
129
di vasi da principio sono più rari di quanto non appaia nella fìg. 32,
e fra di essi trovansi parecchi strati di parenchima, oltre ai raggi
midollari molto marcati: ma a poco a poco i fascii si moltiplicano,
suddividendosi ciascuno in due altri fasci distinti, separati solo dai
Fi-. 34.
raggi midollari: ciò accade rapidamente e spiega il pronto accrescersi
del diametro dei germogli viticoli.
La fìg. 33 rappresenta un taglio trasversale d'un giovane tralcio
ingrandito 200 volte: in l abbiamo il libro; in g i vasi; in e cri-
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 10
130 CAPITOLO IV
stalli isolati di ossalato di calcio; in d druse stellate pure di ossalato,
ed in r rafidi dello stesso sale (vedi pag. 119).
Ricorderemo che nelle parti giovani della vite, le quali sono ri-
coperte dall'epidermide di colore verde, manca lo strato sugheroso
che si riscontra nel legno di due o più anni; inoltre queste parti
verdi presentano (pag. 92) peli analoghi a quelli del picciuolo della
foglia. Il citato Dottor 0. Penzig ha disegnato (fig. 34) uno di questi
peli semplici con un ingrandimento di 1[500: essi sono di forma co-
nica, immersi mercè la loro base in una massa di cellule epidermiche,
la quale quasi come glandola (1) sporge dalla superficie del ger-
moglio o del peziolo; la loro parete è spessa ed è formata da una
cuticola densa e pieghettata, il cui contenuto mostra chiaramente la
circolazione del plasma granuloso lungo la parete stessa (2). Questi
peli si possono quindi considerare come unicellulari, cioè costituiti
da una grande cellula allungata contenente, come tutte le cellule,
Fig. 35.
quel liquido denso e granuloso che è detto liquido formativo o pro-
toplasma, oltre al nucleo nel centro. Pare che nei peli della vite non
esista amido, mentre esso trovasi invece nei peli del genere Ampelopsis
(pag. 76).
L'estremità del germoglio della vite può rappresentarsi come nella
fìg. 35 (ingrandimento 1[200): in /' f f" sono indicati i principii
delle foglie; in r' r" i viticci; in n' ri' le stipole (pag. 104); ed in s
(1) Le glandule sono piccoli ammassi di cellule, le quali secernono umori spe-
ciali, ora odorosi ora acri ecc. Ad esempio nelle ortiche le glandule che si trovano
alla base dei peli secernono quell' umore caustico che, passando pei peli stessi,
viene ad irritare la pelle di chi tocca l'ortica, perchè nell'atto del toccare rom-
pesi la punta fragile dei peli.
(2) 0. Penzig loc. cit. pag. 156.
BOTANICA DELLA VITE 131
la sommità del fusto (1). Alla foglia f è opposto il viticcio r'\ alla
foglia f" il viticcio r" secondo la regola generale accennata a pa-
gina 94. Alla foglia f non corrisponde un viticcio, ma poi si ha un
viticcio r' opposto ad una foglia f, ed una foglia f" opposta ad
un viticcio r" in conformità di quanto dicemmo a pag. 96 accen-
nando alla legge generale della intermittenza dei viticci.
5°. / viticci. Se noi pratichiamo una sezione orizzontale a tra-
verso un viticcio, vediamo che i fascii fibro-vascolari sono disposti
secondo la fìg. 36 : questi fascii sono molto numerosi e molto» vicini
gli uni agli altri; come quelli dei germogli essi sono disposti in cir-
colo attorno al midollo, e provengono per così dire da una dirama-
zione dei fascii vascolari del germoglio stesso da cui parte il viticcio:
i vasi a spirale vi sono predominanti. L' epidermide è costituita da
cellule allungate, e vi si trovano stomi come nei germogli : il libro
è pure bene determinato. Mancano i peli, o almeno sono rarissimi
Fig. 36. Fig. 37.
e si trovano solo nei giovani cirri di alcune varietà. L'amido, il
tannino e l'ossalato di calcio vi si trovano distribuiti come nel fusto.
6°. Le foglie. Nel picciuolo i fascii fibro-vascolari sono disposti
come lo indica la fìg. 37, con una depressione verso la faccia supe-
riore del picciuolo stesso, e costituiscono essi pure una diramazione
di quelli del germoglio; alla estremità del picciuolo si distribuiscono
nelle nervature, nelle vene e nelle venicelle (pag. 103). Questa
rete di vasi a maglie poligonali (2) costituisce un solido scheletro
(1) Penzig Id. id. pag. 162.
(2) Queste maglie anastomizzandosi costituiscono il reticolato delle nervature,
(veggasi la fig. 42 a pag. 137): in ciascuna di queste maglie penetra un ramo
(raramente due) formato di trachee, che si ramifica più o meno regolarmente in
quella guisa che dicesi pedata, e le cui ramificazioni ulteriori sono formate di
semplici tracheidi che terminano a fondo cieco, cioè non si anastomizzano ulte-
132 CAPITOLO IV
per la foglia, come già osservammo a pag. 112 (nota 2a), mentre
gli spazii che intercedono fra i vasi sono più o meno ripieni di cellule
parenchimatose con granuli di clorofilla di cui diremo or'ora.
L'epidermide del picciuolo è costituita da ampie cellule, e mostra stomi
nonché peli corti di forma uguale a quella indicata a pag. 129. Anche
nel picciuolo, come nei germogli e nel fusto, si trovano ossalato di
calcio, tannino e amido.
Le due pagine della foglia sono ricoperte da una epidermide
robusta e spessa, poco aderente al tessuto sottostante, composta
di cellule appiattite e diafane, cioè senza granuli di clorofilla. L' e-
pidermide presenta certe aperture, o pori respiratori!, che già ve-
demmo (a pag. 121) chiamarsi stomi, mercè cui gli spazii intercel-
lulari della foglia comunicano coli' atmosfera : gli stomi sono raris-
Fig. 38.
simi, e spesso mancano del tutto, nella pagina superiore della foglia
{a fig. 38), mentre sono molto numerosi nella pagina inferiore (b fig. 38),
la qual cosa si osserva in tutte le foglie delle piante terrestri (1):
si può quindi concludere che le parti delle foglie le quali sono più di-
rettamente esposte al calore solare sono quelle che difettano o man-
cano di pori respiratomi; infatti, secondo alcuni botanici, il calore e
la siccità non solo farebbero restringere 1' orifizio di questi stomi,
riormente. 11 Dott. Giuseppe Cuboni di Collegllano fu quegli che pel primo de-
scrisse questo modo di terminarsi delle ultime estremità libere dei cordoni va-
scolari nelle foglie.
(1) Le foglie sommerse delle piante acquatiche ne sono sprovviste del tutto,
tolte poche eccezioni: le foglie galleggianti hanno stoini soltanto sulla pagina
superiore,
BOTANICA DELLA VITE
133
ma talvolta lo costringerebbero a chiudersi del tutto, laddove, con-
trariamente a quanto dicemmo a pag. 120, l' amido ne provo-
cherebbe l' apertura e l' allargamento, tanto più se coadiuvato da
una luce viva. Noteremo però, che se la luce favorisce l'aper-
tura dei pori, come già ammetteva Amici, V ombra ne fa aumen-
tare il numero, cosicché talvolta in luoghi ombreggiati ed umidi
anche la pagina superiore ne è sufficientemente provvista.
Abbiamo detto che le cellule dell'epidermide non contengono gra-
nuli di clorofilla: ne contengono però le cellule che costituiscono gli
stomi, e forse dipende da ciò la diversa intensità di colorazione verde
che si osserva talvolta fra le due pagine della stessa foglia.
La fig. 39, la quale rappresenta una sezione trasversale assai in-
grandita della foglia, ci indica chiaramente la disposizione delle varie
Fig. 39.
parti nello spessore della foglia stessa: e così in e e abbiamo l'epi-
dermide della pagina superiore senza stomi, ed in é e' l'epidermide
della pagina inferiore: o indica uno stoma formato dalle due cel-
lule s s poste una verso l'altra, per cui ne risulta un poro nell'epi-
dermide: in p p p' p' abbiamo il tessuto cellulare del parenchima
contenente i granuli di clorofilla segnati colla lettera e: — p p in-
dicherebbe il vero parenchima a cellule allungate, disposte per così
dire a palizzata e molto vicine le une alle altre, mentre p' p' pr ecc.
sarebbero varii strati del così detto merenchima (pag. 118, nota la)
134
CAPITOLO IV
o tessuto spugnoso a cellule arrotondate, le quali perciò lasciano fra
di loro gli spazii i i detti meati intercellulari, come già sappiamo.
La fig. 40 mostra la sezione trasversale molto ingrandita di una
nervatura, ove e e indica l'epidermide, e e il tessuto cellulare e t
un pelo, poiché le nervature principali presentano sempre peli (pa-
gina 104).
Infatti nella pagina inferiore della foglia di vite si trovano sulle
nervature molti peli , come già dicemmo : di essi abbiamo dato
una descrizione a pag. 129 fig. 34. Aggiungeremo qui che oltre
a questi peli di forma conica, che sono i più numerosi, se ne tro-
vano altri assai sottili, lunghi e flessuosi, per cui intrecciandosi fra
di loro talvolta danno luogo a quella pubescenza che a pag. 102 chia-
mammo ragnatela, mentre tal'altra costituiscono come un vero strato
J<òO
o
ODO
p C J
Fisr. 40.
cotonoso. Infine il D.r Penzig ha pel primo osservato una terza
forma di peli sulle foglie della vite, come pure sul picciuolo, sui gio-
vani tralci e sui viticci (1): questi peli, che si osservano pure sulle
foglie del genere Ampelopsis, hanno (fig. 41) un gambo cortissimo com-
(1) Loc. cit. pag. 158.
BOTANICA DELLA VITE
135
posto di molte cellule ed un capolino assai grande, talvolta lungo 2
millimetri, ialino e luccicante quasi a mo' di perla diafana, onde molti
osservatori furono già tratti in inganno prendendo simili peli per
ova di insetti oppure per acari parassiti della foglia. Nel centro del
capolino esistono molte grandi cellule piene di plasma e di succo
limpido: sui fianchi si vede un solo stoma st di forma ordinaria, le
cui cellule contengono molta clorofilla e molto amido.
Per ultimare quanto si riferisce alla anatomia della foglia ci rimane
a parlare della clorofilla e dell'ossalo di calcio, sin qui accennati
soltanto fuggevolmente.
La clorofilla (1) si presenta nel parenchima della foglia sotto
forma di granuli, i quali trovansi nel protoplasma cellulare, costi-
Fig. 41.
tuiti da un nucleo di amido circondato da vera clorofilla: infatti
trattati col iodio (pag. 118) si colorano tosto in violetto. La clorofilla
è solubile nell'alcool, nell'etere e negli acidi cloridrico e solforico, che
(1) Clorofilla significa verde delle foglie.
136 CAPITOLO IV
si colorano intensamente in verde: secondo Fréray essa si può decom-
porre in due sostanze coloranti trattandola con un miscuglio di acido
idroclorico ed etere; si ottiene allora sciolta nell' etere una sostanza
azurra, che Frémy chiamò cianofilla (o fillocianina) mentre nell'a-
cido rimane una sostanza gialla, detta xantofilla (o filloxantina)
alla quale probabilmente si deve il colore giallo che assumono le
foglie in autunno. Noi abbiamo trovato però nelle foglie di alcune
viti (barbera, tintoria, ecc,) una copiosa materia colorante rossa, a-
naloga alla enocianina; essa si produce solo sul finir dell' estate.
Ne riparleremo al capitolo Chimica della Vite.
È importante sapere che senza ferro non può formarsi clorofilla,
per cui le piante le quali vegetano in terreni privi di ferro riman-
gono bianche; ma basta aggiungere al terreno sali di ferro (solfato
o cloruro) perchè comparisca il color verde, come hanno dimostrato
con esperienze dirette Salm-Horstmar, Sachs e Gris. Quest'ultimo e-
sperimentatore osservò, coli' aiuto del microscopio, che mancando il
ferro il protoplasma delle cellule (pag. 130) rimaneva una massa in-
coio ra o gialla, mentre sotto l' influenza del ferro non tardavano a
formarsi i granuli della clorofilla. Sono le cellule contenenti questi
granuli, che sotto l'influenza moderata della luce e del calore hanno
il potere di decomporre V acido carbonico dell' aria, assimilandosi il
carbonio e formando, cogli elementi dell' acqua e del suolo, le so-
stanze organiche onde è costituita la pianta. Concludendo, diremo che
il ferro è indispensabile alla produzione della clorofilla e quindi anche
alla vita ed allo sviluppo delle piante; la pratica della viticultura ci
insegna infatti che il ferro (solfato) sparso sul terreno, è di grande
giovamento alla vite, il cui fogliame si fa rigoglioso ed assume un
bel colore verde carico.
Uossalato di calcio (pag. 118) è stato studiato ultimamente con
molta cura, nelle foglie della vite, dal Dr. Cuboni (1), il quale ha esa-
minato ai microscopio il tessuto della foglia direttamente in super-
ficie e non già in sottili sezioni trasversali come si usa fare ordina-
riamente: egli ha trattato le foglie assai giovani con alcool, per
allontanare la clorofilla, e le foglie adulte con idrato di potassio, la-
vando poscia il preparato con acido acetico: con questi metodi egli
ha potuto constatare: 1°) che le foglie giovani della Vitis vinifera
non contengono altri cristalli (di ossalato di calcio) che i rafidi, mentre
(1) Rivista di Vit. ed Eh. di Conegliano (N. 23 e 24 1S83).
BOTANICA DELLA VITE
137
le druse non compariscono se non nelle foglie adulte. (A pag. 119 ab-
biamo detto che cosa siano questi cristalli). 2°) Che i rafidi sono sempre
contenuti entro grandi cellule di forma speciale, differentissime dalle
cellule ordinarie che costituiscono il parenchima della foglia, mentre
le druse sono contenute entro cellule piccolissime, inoltre i primi dif-
feriscono dalle seconde per la diversa posizione che costantemente
occupano nel tessuto della foglia.
Le cellule contenenti rafidi hanno una forma ordinariamente ci-
lindrica (fig. 42; porzione di foglia giovine di Raboso ingr. 140 e
^— v
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Fie. 2.
fig. 43 a b e cellule con rafidi isolate ingrandite 600 volte): il dia-
metro trasversale ordinariamente misura da 20 a 25 millesimi di
millimetro, mentre quello longitudinale varia assai, cioè da 100 a
200 millesimi di millimetro: il fascio dei rafidi è lungo da 30 a 35
millesimi di millimetro. — La fig. 44 ci mostra una porzione di foglia
adulta di vite Rabosa colle cellule a rafidi e le druse ingr. 140 e la
fig. 45 in a ci rappresenta varie cellu'e a druse di forma quasi cu-
138
CAPITOLO IV
bica ed il cui lato maggiore misura soltanto 10-12 millesimi di mil-
limetro; ed in b una cellula a rafidi trattata con acido acetico con-
centrato, nel qual caso si forma subito un precipitato gelatinoso opaco
che inviluppa il fascio dei rafidi. Questo precipitato, a parere del
Dr. Cuboni, è dovuto senza dubbio alla coagulazione di una sostanza
che prima era disciolta nel succo cellulare: essa è molto abbondante
nelle cellule delle foglie giovani, ma va mano mano scemando col
crescere dell'età della foglia, finché nelle foglie autunnali il tratta-
mento coll'acido acetico non determina che un coagulo sottilissimo
intorno al fascio. Questo coagulo non presenta alcuna delle reazioni
caratteristiche del protoplasma: è solubile nell'acido cloridrico e forse
non è altro che l'ossalato di calcio disciolto nel succo cellulare che
precipita allo stato amorfo coll'acido acetico.
Fig. 43.
11 D.r Cuboni ha osservato pel primo che le cellule a rafidi nelle
maglie poligonali di fascii fibro-vascolari che costituiscono il reticolo
delle nervature, si trovano in numero di una o due, ai lati del cor-
done vascolare che penetra nelle maglie stesse, come è chiaramente
indicato nella fig. 42. Il numero di queste cellule, il quale pare varii
da 70 ad 80 per ogni millimetro quadrato, non aumenta né dimi-
BOTANICA DELLA VITE
139
nuisce coll'età della foglia, a cominciare dal momento in cui essa ha
raggiunto la sua forma definitiva. Invece le druse non si trovano
che nelle foglie adulte, molto tardi verso l'autunno: le cellule che le
contengono sono piccolissime e sono disposte, come si vede nella
fig. 44, in una fila più o meno interrotta alla diritta ed alla sinistra
di ciascun cordone vascolare. Il numero di queste cellule va mano
mano aumentando coll'età delle foglie, e le prime si formano vicine
alle nervature più grosse.
^T\
Infine diremo che il D.r Cuboni ha trovato le cellule a rafidi in
200 e più viti europee, nonché nelle americane Labrusca, Riparia
ed Aestivalis e nelle foglie dell' Ampelopsis hederacea : quindi pro-
babilmente esse sono caratteristiche di tutte le Ampelidee (pag. 76).
Nel paragrafo seguente sulla fisiologia della vite, diremo dell'azione
della luce solare e delle condizioni fisico -chimiche del terreno su
questi cristalli di ossalato di calcio.
7.° Le gemme {occhi e bottoni). I botanici chiamano prefoglia-
zione (pag. 104) la disposizione che hanno le foglie entro le gemme
foglifere {occhi) prima che queste si aprano: chiamano poi pre-fio-
140
CAPITOLO IV
razione la disposizione delle varie parti del fiore entro le gemme
fiorifere {bottoni). Tanto la prefogliazione quanto la preflorazione
sono generalmente le stesse, cioè sono costanti, in tutte le piante
di una stessa famiglia naturale, ond' è che vi si attribuisce molta
importanza. La prefogliazione dicesi anche ibernazione, e la pre-
florazione è pure chiamata estivazione.
Fig. 45.
Negli occhi della vite le foglie sono ripiegate su sé stesse secondo
la loro lunghezza a guisa d'un ventaglio, e perciò la prefogliazione
è plicata o pieghettata od anche increspata. Le foglie normali
negli occhi sono protette, come già dicemmo a pag. 104, dalle sti-
pole. Queste foglioline precoci sono ricoperte da una epidermide a
cellule sottili, senza stomi, ma con lunghi peli da ambe le faccie per
meglio proteggere la vera foglia prima del suo sviluppo, quasi come
farebbe una guaina: secondo il Dott. Penzig nella base delle stipole
non penetrano affatto fascii fibro -vascolari, locchè è strano; perchè
in generale le stipole hanno una nervatura mediana, osservata in-
fatti nel genere Cissus dalla stesso Penzig. Infine le stipole presen-
tano ossalato di calcio (rafìdi a grossi fascii: veggasi la fig. 42 a pa-
gina 137), ma invece mancano di clorofilla, d'amido e di tannino (1).
(1) Loc. cit. pag. 160.
BOTANICA DELLA VITE 141
Nei bottoni della vite i cinque petali si alternano coi cinque den-
telli del calice, toccando questi ultimi soltanto pei loro margini, per
cui la preflorazione è detta valvare (veggasi la pag. 109). Nei bot-
toni i fiori sono protetti dalle brattee che corrispondono alle stipole
delle foglie. Le brattee trovansi anche sui cirri, ed è questa un'altra
prova che il viticcio è un grappolo abortito: la brattea del viticcio
corrisponde alla scaglia della sua ramificazione maggiore, come dicemmo
a pag. 98 (fig. 7 d)\ le brattee possono trasformarsi in vere foglie pic-
ciuolate, mentre talvolta anche le diramazioni secondarie dei cirri por-
tano brattee alla cui ascella nascono i pedicelli fiorali dei quali di-
remo or'ora. Queste brattee hanno una sola nervatura mediana assai
sporgente: le parti laterali sono tenere, sottili e scolorate. (Penzig).
Tutte le gemme della vite, ma specialmente quelle bene svilup-
pate, presentano in autunno, sotto di esse, come un rigonfiamento
del legno (una specie di mensoletta o rigonfiamento polputo) rac-
chiudente una sostanza di apparenza amilacea, la quale rappresenta
i cotiledoni dei semi. Infatti questo rigonfiamento alimenta il tenero
germoglio nella successiva primavera sino a che esso non abbia cac-
ciato le foglie, ed intrecciate le sue fibre con quelle del libro del
ramo.
8.° / fiori. I sepali del calice ed i petali della corolla sono essi
pure attraversati come le foglie da fascii fibro- va scolari; la qual cosa
è naturale, poiché in sostanza i sepali, i petali, gli stami ed i car-
pelli (pag. Ili) altro non sono che foglie variamente modificate (1).
Fra i fascii suddetti trovasi un tessuto parenchimatoso, appunto come
nelle foglie: l'epidermide ricopre il tutto, e mostra benché in piccolo
numero, gli stomi.
La struttura interna del fiore è la seguente (fig. 46 ingrandita
50 volte) (2): sotto l'apertura o stimma a si trova come un breve
stilo b che realmente è la parte superiore dell'ovario: esso da prin-
cipio è ripieno di un tessuto che trae origine dalla sua parete interna
ed è composto di cellule leggermente connesse fra di loro: tale tes-
(1) È noto che i giardinieri per produrre i così detti fiori doppi si giovano
appunto dell'identità che passa fra la natura delle varie parti del fiore, trasformando
ad esempio gli stami in petali.
(2) Togliamo questa figura da una recentissima ed interessante memoria del
Dott. Portele, dell'Istituto Agrario di S. Michele nel Tirolo. (Studien iiber die
Entwicklung der Traubenbeere t- 1883).
142 CAPITOLO IV
suto cellulare costituisce in sostanza le papille dello stimma a. Questo
ultimo forma generalmente un tutto senza divisioni e solo la La-
brusca qualche volta ha uno stimma che si può considerare come di-
viso in cinque parti. Il breve stilo b è realmente aperto solo quando
i carpelli invece di essere due sono tre (come già accennammo a pa-
gina 111) e contengono quindi sei semi o ovuli, la qual cosa fu ri-
petutamente osservata da Portele nei Riesling.
Non appena i granellini del polline cadono sullo stimma, questo si
rigonfia e spinge i tubetti pollinici a traverso l'accennato tessuto b
dello stilo (detto precisamente tessuto conduttore) sino agli ovuli k
ed s che si trovano nell'ovario. Gli ovuli sono fìssati mediante il funi-
colo o cordone ombellicale r alla parete y dei carpelli oplacenta (1).
Prima ancora che i tegumenti od involucri degli ovuli n ed o pren-
dano origine dalla base m degli ovuli stessi, questi subiscono un mo-
vimento di rotazione tale che al tempo della piena fioritura (come
è rappresentato nella sezione longitudinale della fìg. 46) il micro-
pilo x viene a trovarsi a lato del funicolo r il cui tessuto allun-
gandosi viene così a formare quella linea sporgente che a pag. 144
abbiamo chiamato rafe o vasidutto. Il micropilo è un'apertura stretta
a guisa di canale, formata per così dire da un rigonfiamento anulare
di cellule del tegumento esterno n e dell'interno o, ed a traverso la
quale gli otricelli pollinici riescono agli ovuli.
Riassumendo, nella fìg. 46 le lettere laterali indicano quanto segue:
a Cellule delle papille dello stimma; b breve stilo; e ovario; d nettario;
(pag. 143); f un pezzo di stame o per dir meglio di filamento inserito
presso la base dell'ovario; g punto da cui si distaccarono i petali; h
rudimenti del calice; k ovulo in sezione verticale; s ovulo in prospet-
tiva; n tegumenti esterni dell'ovulo; o tegumenti interni; p germe del-
l'ovulo; x micropilo; r funicolo; v-v cordoni fibro vascolari in numero
di 15 a 18 provenienti dal pedicello ed entranti nel fiore; z punto
da cui si diramano i fascii fibro-vascolari i quali scorrono lungo le
pareti dell'ovario i: w punto di dove partono altri fascii o cordoni
per dirigersi agli ovuli; y parete del carpello, la quale sull'epidermide
esterna presenta alcuni stomi, e nelle cellule della interna, che sono
poligonali, offre un grande numero di druse stellate di ossalato di
calcio.
L'ovario porta alla sua base come un cerchio di cinque protube-
(1) Chiamasi placenta quella porzione dell'ottano che porta gli ovuli.
BOTANICA DELLA VITE
143
ranze o glandole d (1), le quali si alternano cogli stami f; esse con-
sistono in cellule parenchimatose colorate in giallo, le quali conten-
gono molto zucchero ed un olio essenziale {nettare). A parere di Plan-
chon corrisponderebbero ad un secondo circolo di stami rudimentali,
V V
Fig. 46.
e Portele ha potuto constatare che possono eziandio metamorfosarsi
in petali; i botanici sono però molto discordi su di ciò. Solo è noto
che tali glandole nettariche, da cui proviene il gratissimo odore dei
(1) Queste cinque glandole si possono vedere nettamente nelle figure 11 e 13
a pag. 109 alla base dell'ovario, tra questo e il calice.
144 CAPITOLO IV
fiori della vite, si essiccano dopo la fioritura, ma rimangono aderenti
alla base dell'acino sino alla sua maturazione.
Gli stami abbiamo già visto (pag. 110) che constano del filamento
e dell'antera; il filamento è attraversato nella sua parte mediana da
un cordone di vasi a spirale che poscia entra nella parte di mezzo del
dorso dell'antera: facendo una sezione trasversale si osservano nel
filamento, da ogni lato del fascio vascolare, tre a quattro serie di cel-
lule parenchimatose, a pareti delicate, contenenti zucchero; la cloro-
filla ed il tannino si trovano specialmente nelle cellule più esterne
al momento della fioritura, e nei filamenti vecchi si trovano eziandio
traccie di amido (1).
L' antera è composta di puro tessuto parenchimatoso ; le sue due
logge o borse nei primi stadii del loro sviluppo sono riempite d'un
protoplasma fortemente azotato, nel quale vedonsi piccolissimi gra-
nuli rotondi di amido. Da questo protoplasma prendono origine i
granuli di polline (figura 47 a, b,). Successivamente le borse
dell'antera presentano le pareti formate da una serie di cellule molto
omogenee, le quali ne costituiscono l'epidermide; ma quando il fiore
incomincia ad aprirsi, le membrane esterne di queste cellule dell'epi-
dermide si essiccano, le pareti si stracciano longitudinalmente ed i
granuli di polline escono e sono portati dal vento o dagli insetti
sugli stimmi dell'ovario. (Veggasi la fig. 14 a pag. 111).
Il polline è formato, come dicevamo or' ora, da cellule del pro-
toplasma che si trova nell'antera nei primi momenti del suo sviluppo;
successivamente esse prendono una configurazione speciale, hanno
una doppia parete e contengono un liquido granelloso detto fovilla,
composto essenzialmente di acqua, materie azotate (plasma) e zuc-
chero; Fritzche sostiene che non di rado nella fovilla trovansi anche
granuli di amido tanto teneri da muoversi di continuo (movimento
broivniano o meglio brauniano) (2).
I granuli sono estremamente piccoli, e si contano a migliaia in un
antera: essi hanno o la forma elittica a o la allungata b, come già sap-
piamo: la loro parete esterna è sottile ed elastica, e messi nell'acqua
questa viene assorbita per endosmosi, onde i granuli si gonfiano in
(1) Loc. cit. (Portelo), pag. 10.
(2) Hrown osservò pel primo che quando in un liquido si trovano in sospen-
sione corpicini assai minuti, essi vanno saggetti ad un movimento oscillatorio con-
tinuo, come accade ad esempio sciogliendo dell'inchiostro di China nell'acqua.
BOTANICA DELLA VITE 145
breve tempo e scompaiono allora le due pieghe che prima si osserva-
vano sulla detta parete esteriore. Ma considerando la loro forma quando
non sono gonfiati dall'acqua, si osserva, come ha constatato pel primo
il Dr. Portele, che allorquando i filamenti sono più corti che l'ovario
propriamente detto, cioè fatta astrazione dallo stilo e dallo stimma,
allora i granuli di polline hanno sempre la forma acuminata b; mentre
quando i filamenti sono più lunghi dell'ovario, i granuli presentano sem-
pre la forma a; se poi i rapporti fra queste due lunghezze non differi-
Fig. 47.
scono di molto, si possono osservare V una accanto all' altra le due
forme; infine tanto più brevi sono i filamenti relativamente all'ovario,
tanto più acuminati mostransi i granelli pollinici. La differente lun-
ghezza dei filamenti è pure in relazione coll'apertura dello stimma: se
quelli sono corti, lo stimma è più largo e più basso; se quelli sono lun-
ghi è più stretto e più alto. Il Dr. Portele ha fatto un'altra curiosa os-
servazione, ed è questa; che in quasi tutte le varietà d'uva con stami
più corti dell'ovario, i fiori cadono facilmente prima di attecchire, cioè
si verifica il così detto aborto o coulure dei Francesi. Il Portele
cita ad esempio le uve moscate: ebbene egli ha perfettamente ragione,
inquantochè anche nel Monferrato, di dove noi scriviamo, il moscato
rosso, il così detto moscatellino, pure rosso, il moscato bianco o greco,
e la moscadella bianca o bergamotto, vanno ogni anno molto sog-
getti alla caduta dei fiori. Finora non abbiamo potuto trovare una
soddisfacente spiegazione di questo fatto.
Ma il fiore della vite può essere anormale, come già dicemmo a
pag. 107, e le anormalità possono essere varie. Talvolta ad esempio gli
stami mostrano i filamenti ripiegati e le antere rivolte all' insù in-
vece di avere la faccia verso il centro del fiore: secondo Portele
ciò dipende dalla soverchia umidità della primavera, per cui i petali
della corolla non cadono abbastanza prontamente e quindi gli stami
rimangono curvati e tortuosi. Però pare che ciò non rechi nocu-
mento alla fioritura, per le ragioni che diremo parlando della impol-
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura, 11
146 CAPITOLO IV
linazione nei fiori della vite, la quale avviene essenzialmente con
polline di altri fiori.
A cagione delle sfavorevoli condizioni climatologiche della prima-
vera, può anche accadere che la corolla quinquepetala si sollevi bensì,
ma non cada totalmente: in questo caso una parte degli stami si
raggrinza e perisce, e l'ovario finisce per cadere, onde l'acino è per-
duto del tutto.
Alle volte lo stimma dell'ovario, il quale si mostra soverchiamente
grosso, non si sviluppa affatto; ed anche in questo caso la feconda-
zione e l'attecchimento del fiore non sono possibili; quindi esso cade.
Invece quando i petali della corolla si distaccano dalla loro parte su-
periore e, rimanendo fìssati alla, base dell'ovario per la loro parte
inferiore, si ripiegano all'ingiù, la fecondazione può ancora aver luogo,
purché lo stimma sia sviluppato. Portele ha anche osservato che
talvolta gli stami prendono l'aspetto di foglioline ripiene di clorofilla
mentre l'antera è gialla. Però il loro polline è normalmente svilup-
pato. I petali poi possono essere doppii, cioè in due ordini l'uno sul-
l'altro quasi a guisa dei fiori detti appunto doppii: in questo caso i
nettarii si sono trasformati in petali, e difatti essi mancano sempre in
fiori consimili: l'ovario però è regolare ed il polline pure normale,
onde non sempre si ha la perdita del frutto: V acino però rimane
più piccolo di metà e più ancora, vale a dire che può avere un
diametro di soli 2 millimetri e mezzo invece d'uno di 5 a 7 (1).
Questa piccolezza degli acini è da attribuirsi al fatto che gli ovuli
non si sono sviluppati regolarmente e completamente; ciò è tanto
vero che, allorquando un ovulo si sviluppa male, l'acino appare sen-
sibilmente più grosso dal lato del vinacciuolo, ossia dell' altro ovulo
bene sviluppato. Inoltre è noto che gli acini delle uve senza vinac-
ciuoli (i Corinti) sono sempre piccoli. I vinacciuoli non completamente
sviluppati hanno essi pure, come gli acini, metà grossezza al mas-
simo di quelli che si trovano in acini regolarmente cresciuti, ed
inoltre sono privi della facoltà di germinare.
Abbiamo accennato alle uve che sono prive di vinacciuoli, cioè
apirene, poiché dicesi apirenità (2) la mancanza dei semi negli acini;
(1) Portele loc. cit, pag. 19. Lo studioso che desiderasse conoscere tutte le ri-
cerche di questo diligente osservatore dovrebbe provvedersi 1' accennata memoria
(Hoepli — Milano).
(2) Parola tolta dal greco (a privazione, pyren nucleo o vinacciuolo).
BOTANICA DELLA VITE 147
sono tali tutti i Corìnti, uve che ci vennero dalla Grecia e dall'Oriente (1),
ma possono eziandio diventare temporaneamente apirene le uve
di alcuni fra i nostri vitigni se vengono a trovarsi in speciali cir-
costanze, in certe annate, come ebbe ad osservare il Mendola ac-
cidentalmente nel Cataratta di Sicilia ed in altri vitigni della sua
bellissima collezione ampelografica. Qual' è la causa di questa man-
canza di vinacciuoli? Putliat crede che si debba rintracciarla in un
difetto di conformazione degli organi sessuali, {Le Vignoble 1874,
Avril); ma Portele, dopo diligente esame del fiore, è venuto a con-
cludere che fra il fiore dei Corinti e quello normale delle altre uve
non vi ha la minima differenza sia nella struttura esterna sia nella
anatomica (toc. cit. pag. 20) e Muller-Thurgau attribuisce la api-
renità al mancato sviluppo degli ovuli dopo avvenuta la fecondazione
{Weinbau, 1883, n. 22 e 23). Questa conclusione del Dr. Mtiller
ci pare accettabile, massime dopo le osservazioni del Portele.
Nel novero delle viti a fiori anormali dobbiamo infine collocare anche
le Lambrusche selvatiche; i loro fiori presentano uno stimma molto
appiattito; lo stilo manca affatto, onde lo stimma è applicato diret-
tamente sull'ovario, mentre i filamenti delle antere sono relativamente
assai lunghi: la corolla, durante la fioritura, è sollevata a mò di
padiglione dagli stami ed il fiore ha i nettarii che mandano molto
odore. Il polline pare costituito regolarmente, e 1' ovario pure; con-
tuttociò le lambrusche sono generalmente sterili, forse perchè il
fiore, essendo sorretto da un pedicello lungo e delicato, cade facil-
mente: tuttavia, invecchiando molto, esse diventano fertili (pag. 16).
9.° Gli acini ed i vinacciuoli. Ci rimane ora a descrivere l'in-
terno dei frutti della vite. L'acino (fìg. 48) si compone della fiocine
o epicarpio a; del mesocarpio o sarcocarpio b, d, che è la parte
carnosa e succulenta (parenchima): la porzione centrale d del meso-
carpio è composta di un succo come dire vischioso, entro il quale
stanno i vinacciuoli; l'epicarpio ed il mesocarpio costituiscono il così
detto pericarpio a, b e d, che proviene dai carpelli dell'ovario: in-
fine dei semi e che sono raramente quattro come nel disegno, più
spesso soli due e talvolta mancanti, come dicemmo a pagina 146.
Ogni acino è sopportato da un pedicello liscio rotondo sul quale
(1) Veggansi sulla tribù dei Corinti un esteso ed attraente studio pubblicato
nell'anno 1878 del nostro Giornale Vinicolo Italiano dal dotto ampelografo Ba-
rone A. Mendola.
148
CAPITOLO IV
notansi alcuni peli assai piccoli: questo pedicello ha una costitu-
zione anatomica simile a quella dei viticci (fascii vascolari, paren-
chima, epidermide e piccolissimo midollo). La parte carnosa b e d,
quasi sempre di colore bianco giallastro, risulta dall' agglomera-
zione di numerosissime cellule assai piccole a forma di glandole,
nelle quali avviene la secrezione o produzione del succo. Dal picciuolo
entrano generalmente neh" acino i vasi conduttori della linfa nutri-
Fig. 48.
trice, che si ramificano poi in ogni parte dell'acino: il numero di
questi vasi corrisponde a quello degli ovuli o semi (vinacciuoli) (fi-
gura 46 v v e fìg. 13).
La fiocine risulta dagli strati più esterni del tessuto cellulare del-
l' acino, e consta di piccole cellule appiattite molto spesse: lo strato
più esterno costituisce una cuticola spessa da 3 a 6 millesimi di
millimetro, sotto a cui si trovano cellule estremamente piccole,
lunghe da 10 a 30 millimillimetri e larghe da 3 a 7. Procedendo
verso l'interno, gli strati sono formati da cellule sempre più grandi
sino a raggiungere una lunghezza di circa 100 millimillimetri ed
una larghezza di 20: infine le cellule della parte carnosa dell' acino
possono raggiungere un diametro di circa mezzo millimetro. La
fiocine è composta di un differente numero di strati di cellule, a
seconda delle varie uve: alcune ne hanno da 10 a 12 (Labrusca)
altre soli 8, altre ancora soli 6. Ciò nonostante essa è talvolta diafana,
sempre poi elastica quando l'acino si avvicina alla maturità, mentre
prima è dura e rigida.
BOTANICA DELLA VITE
149
Nell'acino maturo si trovano varie sostanze disposte a poco presso
come ora diremo:
Attorno ai vinacciuoli a (fig. 49) abbiamo anzitutto uno strato b la cui
composizione è molto complessa, ma che presenta la caratteri-
stica di essere quasi privo di zucchero; esso consta pertanto di
sostanze albuminoidi (o azotate) di acidi liberi, fra cui però
scarseggia assai l'acido tartarico, e di cremor tartaro: ha una cotale
densità e si presenta come vischioso a causa delle materie albumi-
noidi suddette. Allo strato b ne segue un altro e assai più grosso e
più liquido, perchè contiene molta acqua; il suo componente più
importante è lo zucchero, cui tengon dietro l'acido tartarico libero,
altri acidi, varii sali, ed infine una piccola quatità di albumina,
assai meno però che non nello strato b. Dopo lo strato e abbiamo
Fig. 49.
un piccolo strato d, abbastanza ricco di zucchero, di consistenza car-
nosa, e composto essenzialmente di sostanze le quali, come Y amido,
la gomma e le mucillagini, sono quasi tutte destinate, col concorso
della luce, del calore e dell'umidità, ed essere trasformate in zucchero:
in questo strato però non mancano affatto né le sostanze albumi-
noidi, né i sali e gli acidi. Infine l' ultimo strato e è per così
dire aderente alla buccia dell' acino ed ha una grande importanza
per l'enologo: infatti in esso trovasi anzitutto la materia colo-
rante (1); vi si incontra pure V acido tannico, o tannino, ma
(1) Sono ben rare le uve le quali, come la nota Tintorìa, contengano materia
colorante anche negli altri strati dell'acino.
150 CAPITOLO IV
però solo quando l'acino è quasi maturo, perchè il tannino non si
forma che negli ultimi giorni della maturazione dell'uva: nell'ultimo
strato trovansi pure le sostanze aromatiche, che tutti conoscono
perchè il loro sapore è pronunciatissimo in certe uve, come i moscati,
gli aleatici, le malvasie e molte uve americane: queste sostanze aro-
matiche però non si devono confondere cogli eteri da cui deriva la
fragranza dei vini vecchi: gli aromi sono realmente olii volatili, di
maniera che se, estratti che fossero dall'uva, si avesse a versarne
una goccia su un pezzo di carta, tale goccia finirebbe per non lasciare
veruna macchia, appunto per la natura volatile dell'essenza: diciamo
questo per ispiegare popolarmente il significato delle parole « olii
volatili. »
Ci rimane ora ad esaminare il vinacciuolo.
Nell'acino può mancare a dirittura, come nelle uve greche (Co-
rinto) ed allora già sappiamo (pag. 146) che l'acino è detto apireno;
ma generalmente vi si trovano, come già dicemmo, due o tre semi,
rare volte uno solo oppure quattro; e secondo alcuni si danno casi in cui
i vinacciuoli sono anche cinque o sei. In allora le tre logge dell'ovario,
(le quali da principio sempre mostransi in questo numero, ma a fiore
sviluppato riduconsi a due) contengono due ovuli per caduna, ed hanno
quindi portato a compimento tutti gli ovuli; ma il caso è quanto mai
raro, come è anche raro che le dette logge si conservino in numero
di tre; già vedemmo a pag. Ili che usualmente sono solo due di-
stintamente sviluppate. Anche gli ovuli sono sei da principio, ma
non se ne sviluppano che due o tre; gli altri abortiscono.
I vinacciuoli sono separati da un tramezzo carnoso composto di
cellule parenchimatiche e derivante dalla parete dei carpelli {y fig. 46);
questo tramezzo, che è composto di due parti, aumenta di volume
mano mano che l'uva va maturando: nella fig. 50 abbiamo una se-
zione trasversale d'un acino, in cui a b da un lato e g d dall'altro
BOTANICA DELLA VITE
161
indicano quattro vinacciuoli, f segna il tramezzo carnoso, / indica i
due o più fasci di vasi (pag. 148) i quali entrano nel tramezzo/1, ed
infine e mostra lo strato di tessuto fibroso a rete che separa la fio-
cine dalla parte polposa dell'acino. Ma allorquando uno o più ovuli abor-
tiscono, allora il tramezzo carnoso ne occupa il posto, aumentando di
volume: — la fig. 51 ci mostra alcuni casi di aborto (1); in A abbiamo
un solo vinacciuolo a, ed il tramezzo carnoso b colle sue cellule
parenchimatiche occupa il rimanente spazio dell'ovario: in B abbiamo
due semi a a disposti uno sovra 1' altro, mentre in C sono disposti
differentemente, ma sempre il tramezzo b occupa il posto dei vinac-
ciuoli mancanti. Dal che si deduce che la quantità di mosto che può
dare un acino è tanto maggiore quanto più piccolo è il numero dei
vinacciuoli sviluppati.
Fig. 51.
Ogni vinacciuolo proviene da un ovulo completamente sviluppato, la
cui posizione abbiamo indicata a pag. 143, fig. 46. L'ovolo, non ap-
pena fecondato, cresce rapidamente e presenta i rudimenti delle parti
di cui va poi a comporsi il vinacciuolo: infatti abbiamo in esso la
parte interna detta nocella o nucleo, o terzina di Mirbel, composta
di cellule molto sottili e bene unite; ad essa fa seguito la secondina o
tegumento, e poscia viene la primina o testa. L'ovulo è attaccato alla
placenta (pag. 142) per mezzo di un breve cordone ombellicale, ed
il punto in cui questo aderisce alla primina è detto ilo. La nocella,
al momento della fecondazione dell'ovulo, presenta nel suo interno
una lunga cavità, detta sacco embrionale, nel quale riscontransi un
liquido protoplasmatico e due vescicole embrionali nella estremità
superiore del sacco; una di queste vescicole, fecondata che sia dal
polline, si sviluppa ed abbiamo 1' embrione; V altra, non fecondata,
scompare.
Gli ovuli da principio s.ono costituiti in modo tale che la calaza
(1) Portele loc. cit. pag. 36.
152 CAPITOLO IV
(veggasi la fìg. 16 a pag. 114) si trova alla estremità opposta del becco
o ilo, mentre questo risulta vicino al micropilo; essi sono allora ovuli
anatropi. Ma più tardi, continuando Y ovulo a svilupparsi, subisce
come un movimento di rotazione, pel quale la sua cima o micropilo
si avvicina alla base o calaza, e l'ovulo risulta come curvato su sé
stesso; allora diventa campolitropo.
Nel vinacciuolo completamente sviluppato troviamo essenzialmente
due parti: il tegumento esterno .o episperma, ed il contenuto o
mandorlo coli' embrione. U episperma risulta dalla primina e dalla
secondina accennate or' ora, e difatti è composto di due membrane;
l'esterna, risultante da molti strati a cellule poligonali ricche di pla-
sma scolorato, e l' interna o secondina, composta di soli tre strati
di cellule schiacciate (1).
Il mandorlo contiene il germe, nonché un tessuto cellulare detto peri-
sperma o endosperma, ricco di materia grassa e d'olio, con albume
di poca consistenza, e con qualche cristallo (drusa) di ossalato di
calcio (2). Il germe o embrione, assai piccolo, è collocato alla estre-
mità superiore del vinacciuolo, colla radichetta verso il micropilo,
siccome accade generalmente nei differenti semi; esso ha quindi una
direzione opposta alla normale, perchè il micropilo è alla cima del-
l'ovulo, e la radichetta si deve considerare come la base dell'embrione.
L'embrione, quando è completamente sviluppato, presenta i rudi-
menti della futura pianta; cioè l'asse (radichetta e fusticino o plu-
mula), i cotiledoni (prime foglioline) e la gemmula mercè cui l'asse
si allunga e produce le prime foglie propriamente dette. Nella fìg. 56
pag. 156 abbiamo disegnato dal vero una giovine pianticina colla
radichetta, Tasse, le due foglie cotiledonari e la prima foglia regolare.
Il vinacciulo non contiene amido; invece è ricco di tannino, il
quale si trova nell'epidermide esterna, nonché nei tessuti della pri-
mina e della secondina: la quantità di tannino si può calcolare in
media al 5 0[q. L'olio sovraccennato si trova nella mandorla secca
nella proporzione del 15 0[Q' è un olio fìsso, buono per gli usi in-
dustriali.
§ 5. Fisiologia della Vite. Ora che conosciamo la struttura
esterna ed interna della Vite, dobbiamo studiare come viva, come
(1) Penzig: loc. cit. pag. 171.
(2) Babo: loc. cit. pag. 39.
BOTANICA DELLA VITE 153
fruttifichi e come porti i suoi frutti a quel grado di matura-
zione che è richiesto dagli usi enologici ed alimentari, questo essendo
l'obbiettivo per cui si coltiva la vite. Tale arduo e delicato compito
spetta alla fisiologia vegetale; vediamo pertanto quanto ci appren-
dono sulla importantissima quistione gli studii e le esperienze fatti
negli scorsi anni dai botanici e dai viticultori in Italia, in Germania
ed in Francia. Divideremo questo paragrafo in varie parti, e così:
1°) Germogliamento dei vinacciuoli;
2°) Respirazione e traspirazione della vite;
3°) Nutrizione ed accrescimento »
4°) Vegetazione »
5°) Fioritura »
6°) Fruttificazione »
7°) Maturazione dell'uva;
8°) Longevità.
1°) Germogliamento dei vinacciuoli. I semi della vite, come ac-
cade delle sementi in generale, non possono germogliare se non sono
posti in determinate condizioni di umidità e di calore; questi agenti,
coadiuvati dall'ossigeno atmosferico, il quale eccita lo sviluppo del-
l'embrione, come dimostrò Saussure, provocano 1' uscita della radi-
chetta e della plumula. Si può asserire che la germogliazione avviene
anche in piena terra per tutti i semi di vite, europea o americana,
onde non è indispensabile apposito germinatoio; noi, che seminiamo
viti da più anni, ne abbiamo sempre fatto senza.
La quantità di calore di cui abbisognano i vinacciuoli per germo-
gliare varia a seconda dei differenti vitigni; per esempio le viti Aesti-
valis e Cinerea richiedono maggior calore che non le V. Riparia e
loro derivati (Clinton, Taylor e Solonis); queste ultime quindi sono
a consigliarsi pei paesi a primavera fredda, mentre le prime conviene
coprirle con letame paglioso o con altro corpo coibente.
L'umido non deve essere deficiente, perchè se ciò accade l'acqua
non riesce a penetrare a traverso il duro episperma, e quindi il
seme non si gonfia, non si ha verun movimento nelle cellule germi-
nali e la germogliazione è impossibile. È quello che accade spesso,
perchè la seminagione della vite è quasi una pratica sconosciuta, ed
è soltanto dopo l' introduzione delle viti americane quali resistenti
alla fillossera, che si fecero al riguardo accurate esperienze (1).
(1) Dobbiamo però accennare alle numerose seminagioni fatte dal prefato Ba-
154 CAPITOLO IV
Per dar tempo ai vinacciuoli di provvedersi della quantità di ti-
mido di cui abbisognano, è necessario tenerli durante alcune settimane
stratificati nella sabbia fina ed umida, oppure immergerli nell' acqua
durante quattro, cinque e sino otto giorni. Abbiamo fatto alcune
esperienze per vedere quale influenza può esercitare la temperatura
dell'acqua sul germogliamento, nonché il miscuglio d'acqua e soda o
urina. Ecco i risultati:
Vinacciuoli (1) immersi per 24 ore in acqua sem- ) Germ0£iiarono
plice, tenuta al sole: seminati poi in terreno assai \ tutti,
fertile, e coperti con 3 centimetri di terriccio. )
Vinacciuoli tenuti per dodici ore in acqua calda \ Qerm0o-iiar0I10
a 40° C che poi si lasciò raffreddare del tutto: > y quasi tutti,
seminati come sopra. )
Vinacciuoli tenuti per dodici ore in acqua e ) Ne germogliò un
soda (acqua quasi satura). ) quarto circa.
Vinacciuoli tenuti per dodici ore in acqua ed ) j^e germogliò la
urina di cavallo già fermentata (50 Ojo)- > metà.
Non è adunque necessario tenere i vinacciuoli durante quattro o più
giorni nell'acqua, se questa è alquanto riscaldata, perchè in tal caso
agisce più prontamente sull'involucro dei semi stessi. Al capitolo Se-
minagione della vite entreremo in altri dettagli pratici, che qui
sarebbero fuor di luogo. Soggiungeremo soltanto che, sotterrato il
vinacciuolo, dopo un tempo più o meno lungo (talvolta dopo quattro
mesi e talvolta ancora dopo un anno se difettano l' umido ed
il calore e se si tratta di semi d' uve americane) esce prima la
radichetta e poscia il fusticino, con due foglie cotiledonari o false-
foglie, onde si hanno i quattro aspetti indicati dalle figure 52, 53,
54 e 55. Nelle fìg. 54 e 55 si vede spuntare una prima foglia rego-
lare, che è poi pienamente sviluppata nella fig. 56 fra le due cotile-
donari: lateralmente ad essa ne spunta tosto una seconda, e non
tardano pure a formarsi le gemme laterali, per cui la pianticella
prende forma. — Nel primo periodo la pianta germinale vive a spese
dell'endosperma (pag. 152). Ma noi abbiamo visto che l'endosperma
rone Mendola a Favara (Girgenti) prima ancora dell'invasione fillosserica: perciò
il Mendola ci ha apprese molte utili nozioni a questo riguardo.
(1) Scuppernong, del Sud degli Stati Uniti d'America.
BOTANICA DELLA VITE
155
del vinacciuolo contiene specialmente materie grasse ed olio, che sono
quasi insolubili od intieramente insolubili nell' acqua, e perciò non
J?
Fig. 52.
Fig. 53.
Fig. 54.
Fig. 55.
potrebbero servire alla nutrizione; senonchè, per le belle esperienze
di Sachs e Fleury, sappiamo che i corpi grassi durante il germo-
156
CAPITOLO IV
gliamento si trasformano quasi totalmente in amido, il quale alla
sua volta si cangia in destrina (1) e zucchero d' uva, cioè in so-
stanze solubili nell'acqua. In quanto all'albume, è noto che gli albu-
minoidi sono generalmente solubili nell'acqua. Questi albuminoidi sotto
Fig. 56.
l'azione dell' ossigeno od in presenza dell' acqua si decompongono e
poscia danno origine ai così detti fermenti, i quali agiscono sul-
l'amido e lo cangiano, come dicevamo, in destrina e zucchero. Payen
e Persoz hanno sostenuto invece sin dal 1883 che nel seme germo-
gliale si trova presso Y embrione una sostanza azotata, detta dia-
(1) L'amido esposto per qualche ora al calore di un forno si gonfia e si muta
in una sostanza bruno-chiara detta destrina, ed in commercio gomma-britannica.
Anche gli acidi ed i fermenti trasformano l'amido in destrina.
BOTANICA DELLA VITE 157
siasi, la quale provoca la trasformazione dell' amido : una parte di
diastasi può trasformare 2000 parti di amido prima in destrina e
poi in zucchero (1).
Durante il germogliamento si producono acido carbonico, acido
acetico ed acido lattico, oltre a traccie di ammoniaca e di azoto: una
parte dell'acido carbonico proviene, secondo alcuni botanici, da una
vera fermentazione alcoolica dello zucchero; altro diossido carbonico
proverrebbe dalla ossidazione degli albuminoidi. Infine non vogliamo
scordare di far cenno dello sviluppo di calore che accompagna sempre
il germogliamento, e che è dovuto alle azioni chimiche, fra cui so-
vratutto l'assorbimento dell'acqua e l'assorbimento dell'ossigeno.
Ma se l'acqua ha grande importanza nel primo atto del germo-
gliamento, cioè nella soluzione delle materie nutritive dei cotiledoni,
è pure indispensabile quale veicolo di queste materie stesse a prò
della radichetta, indi dell' intera pianticina, la qual cosa avviene a
traverso il tessuto vascolare, secondo Herbert Spencer.
Crescendo la giovine pianta embrionale, a spese dell' endosperma,
i cotiledoni escono col fusticino dal terreno e formano le due prime
foglie (fig. 54) che già chiamammo cotiledonari. A queste seguono
le vere foglie della vite, e la pianticella, già provvista all'estremità
della radichetta di radici penetranti nel suolo, cessa di vivere a spese
del seme (fig. 56).
2° Respirazione e traspirazione della vite. La vera respi-
razione vegetale, nel senso della respirazione animale (assorbimento
di ossigeno ed emissione di acido carbonico) avviene solo di notte
per le parti verdi delle piante, e di giorno per le parti non verdi; di
giorno nelle parti verdi abbiamo invece un fenomeno inverso (assor-
bimento dell'acido carbonico). Questa respirazione diurna — o piut-
tosto assimilazione — avviene, come è noto, essenzialmente per
mezzo delle foglie, ma altresì per tutte quelle parti verdi (germogli)
le quali sono provviste di clorofilla (pag. 135). Essa consiste nel-
l'assorbimento dell'acido carbonico dell'aria e nella emissione di ossi-
geno nonché del vapor acqueo esuberante; il tutto sotto l'azione della
luce e del calore solari. Questo ossigeno deriva dalla riduzione dell'a-
cido carbonico e del vapor acqueo, locchè accade appunto nei granuli di
(1) Johnson op. cit. pag. 345 e 346: « Non è ancora stato spiegato con cer-
tezza in qual maniera la diastasi ed altre simili sostanze, cagionino le modificazioni
descritte ».
158 CAPITOLO IV
clorofilla. Le foglie trattengono quindi carbonio, che proviene dal-
l'acido carbonico, non che idrogeno, il quale invece è proveniente
dall'acqua (1).
La clorofilla non può assolutamente agire senza la luce solare (2);
anzi senza la luce non si formerebbero neppure i granuli di essa,
come hanno dimostrato Sachs e Mayer. Una pianta di vite (come
qualsiasi altro vegetabile, fatta eccezione pei funghi (3) ) qualora te-
nuta per un certo tempo al buio, perirebbe sicuramente, perchè si
decomporrebbero i granuli di clorofilla e scomparirebbero, onde non
sarebbe più possibile la respirazione.
La formazione della clorofilla è eziandio influenzata dal calore;
noi non sappiamo quale sia, per la vite, il limite minimo di calore
sotto il quale più non si forma clorofilla sappiamo: solo che, in ge-
nerale, una temperatura di 35° rappresenta il limite massimo favo-
revole a quella produzione fWiesner). Fino a 35° la rapidità con
cui formansi i granuli di clorofilla cresce col crescere della tempe-
ratura : oltre questo limite la clorofilla finisce col non più formarsi.
Quelle parti della vite le quali non sono clorofillate, ci danno
una prova evidente dell'importanza M questa sostanza verde nei pro-
cessi di elaborazione ed assimilazione : infatti i fiori, e specialmente
gli stami, appunto siccome parti non clorofillate, assorbono ossigeno
ed emettono acido carbonico; e gli acini dell' uva in maturazione,
quando hanno perduto il loro colore verde e quindi la clorofilla, in-
vece di ridurre l'acido carbonico, siccome dicemmo or ora, esalando
ossigeno ed assimilando carbonio, assorbono invece essi pure 1' ossi-
geno dell'aria ed emettono acido cai bonico e vapore acqueo; la ma-
turazione dell'uva è quindi una vera ossidazione, la quale continua
anche dopo che il grappolo è stato distaccato dal tralcio.
(1) Per chi non lo sapesse, diremo che l'acido carbonico o diossido di carbonio
si compone di carbonio ed ossigeno ( C O2 ) — e l'acqua di idrogeno ed ossigeno
( H2 0 ). La metà circa del peso della materia secca delle piante è costituita da
carbonio (Sachs).
(2) Gli è sotto l' influenza della luce bianca, cioè della luce solare non iscom-
posta, che la formazione della clorofilla raggiunge il suo massimo. (È noto che la
luce solare può scomporsi, col prisma triangolare di cristallo, in sette colori diversi).
(3) I funghi costituiscono la classe dei vegetali senza clorofilla, i quali perciò
appunto non possono elaborare materiali, cioè produrre composti organici (cellu-
losa, amido, glucosio ecc.): essi quindi, come gli animali, debbono vivere a spese
delle sostanze organiche già elaborate da vegetali clorofillati. Fra questi ultimi
la Vite occupa un posto importantissimo.
BOTANICA DELLA VITE 159
Inoltre è noto che di notte, quando, mancando la luce, cessa il
lavoro di elaborazione della clorofilla, le piante assorbono ossigeno,
ed emettono acido carbonico ed acqua.
Ma le foglie non servono solo alla respirazione; per loro mezzo si
compie, come abbiamo già accennato, la traspirazione, che è quella
funzione importantissima per cui la pianta dalle cellule dell'epidermide
e dagli stomi (pag. 132) perde sotto forma di vapore, l'acqua che le
riesce esuberante (circa i due terzi della quantità assorbita). Nello
stesso tempo, penetrando nuova acqua dalle radici, penetrano pure
le materie saline dal terreno, d'onde il legame che passa tra la tra-
spirazione e lo sviluppo vegetale. Cotale esalazione non può avve-
nire senza il calore e la luce del sole, ed è molto maggiore se la
luce è viva e l'aria secca, mentre diminuisce d'assai e può anche
cessare se l'aria è umida, come ad esempio accade durante un tempo
piovoso.
Se la traspirazione fa rapidamente perdere alla pianta una quantità
d'acqua maggiore di quella assorbita dalle radici, la pianta stessa ne
soffre e può essicarsi; ma in condizioni normali è funzione assai im-
portante, come quella che dà sfogo all'acqua esuberante della linfa
ascendente, ricca di materiali utili provenienti dal terreno; anzi, se-
condo le recenti esperienze del prof. Bóhm (1) la evaporazione a
traverso gli stomi delle foglie, sarebbe la causa principale dell'ascen-
sione del succo, coadiuvata però dalla pressione dell'aria e dalla e-
lasticità delle pareti delle cellule. Gli ultimi studii sulla traspirazione
hanno provato, in modo non dubbio, che essa è debolissima all'om-
bra, quasi nulla durante la notte, mentre è attivissima se la luce so-
lare è viva, e questo indipendentemente dal calore.
Infine non vogliamo scordare di dire che la vite, come tutte le
altre piante, evapora acqua, così come farebbe se fosse morta e
come fa ad esempio il terreno; questa evaporazione è adunque un fe-
nomeno puramente fisico, mentre l'anzidetta traspirazione è un vero
fenomeno fisiologico ben diverso. Infatti la vite evapora anche al
buio, cioè tanto di notte quanto di giorno, più o meno secondo la tem-
peratura e l'umidità dell'aria; invece essa non traspira che alla luce.
Per dare una idea della quantità d'acqua consumata giornalmente
dalla vite, riferiremo qui una tabella comparativa di E. Risler:
(1) A. Levi. (L'Actimometro Arago-Davy) Rivista di Vit, ed En. di Conegliano
1879 pag. 68.
160
CAPITOLO
IV
Media
diurna
millimetri d'acqua
Erba medica
da 3,4 a 7,0
Prati naturali
da 3,1 a 7,3
Avena
da 2,9 a 4,9
Fave
più di 3,0
Granturco
da 2,8 a 4,0
Frumento
da 2,7 a 2,8
Trifoglio
più di 2,9
Segale
» 2,3
Vite
da 0,9 a 1,3
Patate
da 0,7 a 1,4
Pino
da 0,5 a 1,1
Quercia
da 0,5 a 0,8
La vite adunque esige assai meno acqua delle piante foraggiere
e delle cereali, ed invero tutti sanno che anche in terreni aridissimi
e quando l'annata trascorre assai asciutta il raccolto può essere ot-
timo e quasi sempre anche abbondante, mentre nelle condizioni op-
poste è mediocre e generalmente scarso.
3° Nutrizione ed accrescimento della vite. — Gli organi del-
l'alimentazione delle piante sono, come è noto, le radichette e le fo-
glie. Tutte le piante sono composte di sostanze fisse (ceneri) e di
sostanze combustibili o volatili (gaz); le prime vengono tutte dal
suolo per mezzo appunto delle radichette, le seconde quasi tutte
dall'aria e dall'acqua mercè le foglie.
Sostanze fisse Sostanze volatili
Potassio \ Solfati Carbonio
dall'aria
e
Calcio ! Fosfati Ossigeno
Magnesio Nitrati Idrogeno ,
Ferro )■ Cloruri Azoto (1) ) dal1 acqua
Oltre ad altre di importanza Azoto )
secondaria. Zolfo > dal suolo
Fosforo
(l) L'azoto (o nitrogeno) che si trova nell'aria in piccolissima quantità sotto
forma di ammoniaca (carbonato ammonico) è assimilato di giorno e di notte dalle
parti verdi della pianta, e specialmente dalle foglie, come hanno dimostrato in
modo evidente A. Stóckhardt (1859), A. Selmi (1864), Th. Schlocsling e A. Ma-
yer (1874).
BOTANICA DELLA VITE 161
I sali nutritivi sono assorbiti, come già si disse a pag. 87, mercè
la parte tenera e biancastra delle radichette; ed essendo sciolti nel-
l'acqua (che la vite prende quasi totalmente dal suolo) si innal-
zano nel fusto a traverso il corpo legnoso, costituendo la così
detta linfa ascendente o succo greggio. L' acqua è il principale
ingrediente di questo succo, mentre i sali vi sono sempre contenuti
in piccole quantità. Nel suo tragitto la linfa si arricchisce anche di
materiali utili, che trova nell'interno del legno della vite serbati dal-
l'anno antecedente, e giunge infine alle foglie.
Nelle foglie, che sono il vero laboratorio della pianta, queste so-
stanze, unitamente al carbonio all'idrogeno ed all'azoto tolti all'aria,
danno origine alla materia organica (1); sono le cellule provviste
di clorofilla che compiono questa importantissima elaborazione.
Le materie organiche, dette anche principii immediati, costitui-
scono la parte essenziale dell'organismo ed esse sole possono costi-
tuire organi vitali, diventando allora materie organizzate; le prin-
cipali materie organiche sono l'amido, lo zucchero, le sostanze albu-
minoidi (azotate o proteiche) le sostanze coloranti, gli acidi vegetali,
il tannino, i corpi grassi, gli olii, nonché il pectosio (polpa e gelatina
delle frutta).
II succo ascendente così elaborato, scende poscia dalle foglie e,
come suol dirsi, emigra verso i frutti ossia gli acini, nonché verso
tutti gli organi attivi della pianta sino alle radici, a traverso la zona
generatrice di cui abbiamo parlato a pag. 121, cangiandosi insensi-
bilmente in legno ed in libro, vale a dire cooperando al lavoro di
organizzazione dei tessuti della vite. Questo succo elaborato suole
chiamarsi linfa discendente.
La materia organica si forma quindi da materiali ino'rg anici e-
sclusivamente nei vegetali provvisti di clorofilla, fra i quali la vite oc-
cupa un posto importante: i vegetali non clorofillati e gli animali
distruggono invece la materia organica rilucendola alle materie inor-
ganiche di cui era composta; ma i vegetali con queste materie prime
(1) « È usuale, tra gli scrittori d'agricoltura, di limitare l'espressione organico
alla porzione volatile ed apparentemente distruttibile dei corpi vegetali ed animali,
e di chiamare inorganici gli ingredienti della loro cenere. Un simile uso di pa-
role è pochissimo corretto. Quello che si trova nelle ceneri di un albero o di un
seme, essendo una parte essenziale dell'organismo, è tanto organico quanto la
parte volatile. » Così Johnson (op. cit. p. 16) — Soggiungeremo pertanto che
anche il carbonio, l'acqua, l'ammoniaca ecc. sono elementi inorganici.
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 12
162 CAPITOLO IV
ricompongono nuove sostanze organiche, ed ecco il ciclo che percorre
la materia passando dal vegetale all'animale.
Come avvenga che nel protoplasma clorofillato delle foglie si formi
la materia organica non fu tuttora spiegato in modo soddisfacente;
solo è noto qual' è la prima sostanza che in esso si forma, nel caso
speciale della vite. Gli studii relativi a questo importantante oggetto
si debbono anzitutto a Sachs, Molli, Kramer ecc. e poscia a Briosi,
Penzig, Mùller, Cuboni ed altri esperimentatori. Sachs sostenne
con molti altri illustri botanici, che il primo prodotto organico che
si forma nelle foglie di vite sotto 1' azione dei granuli di clorofilla,
si è V amido, dal quale poi deriverebbero lo zucchero, la destrina,
la cellulosa, le materie grasse ecc. ecc. (1), tutte sostanze le quali
in complesso costituiscono circa i 7[8 della sostanza secca della
pianta.
Invece Briosi (1872 e 1878) e più tardi Penzig (1882) osserva-
rono che nei grani di clorofilla delle foglie di vite non si trova amido,
ma bensì tannino ed in abbondanza (2). Senonchè il Dott. Cuboni,
prendendo le mosse dalle osservazioni fatte al Briosi dal Dott. Mùller-
Thurgau in una sua conferenza tenuta nel 1881 a Geisenheim, riu-
sciva molto abilmente a mettere d' accordo questi risultati apparen-
temente cotanto contradditorii. Il Cuboni ripeteva infatti le espe-
rienze del Mùller, seguendo anche nella ricerca dell'amido lo stesso
procedimento tenuto da lui: è bene citare testualmente. « Egli opera a
questo modo : tratta la foglia con alcool per allontanare il color verde,
lascia la foglia per lungo tempo in una soluzione di potassa e poscia la
tratta colla soluzione di iodio. Esaminando a questo modo una foglia
immediatamente dopo che è stata per qualche tempo sotto l'azione della
luce diretta, comparisce un bellissimo color violetto caratteristico dell'a-
mido; se invece la foglia esaminata è rimasta per qualche tempo
fuori della luce diretta, il color violetto non si manifesta più. »
(1) Queste sostanze sono dette idrati di carbonio perchè risultano dalla
combinazione del carbonio coli' idrogeno e l' ossigeno, nelle stesse proporzioni,
questi ultimi, in cui trovansi nell' acqua: popolarmente si potrebbe dire che gli
idrati carbonici sono combinazioni di carbonio con acqua.
(2) Il tannino, detto anche acido tannico, benché assai debolmente acido, venne
considerato sino a questi ultimi te mpi come un glucoside, perchè capace di sdop-
piarsi in glucosio ed acido gallico. Ma dietro le ricerche accurate di Ugo Schifi'
si deve oggi ritenerlo come acido digallico. Il tannino è esso pure composto di
carbonio, idrogeno ed ossigeno.
BOTANICA DELLA VITE 163
« Ora tutto ciò è verissimo, e Mùller-Thurgau ha ragione; le cen-
tinaia di esperienze da me fatte negli scorsi mesi (1883) me lo hanno
perfettamente confermato. Anzi nel dubbio che il color violetto, che la
tintura di iodio genera in queste foglie, fosse determinato non già
dall'amido esistente nei granuli di clorofilla, ma dalla cellulosa mo-
dificata forse dall'azione della potassa, ho voluto escludere quest'al-
cali troppo energico. Dopo parecchi tentativi ho trovato che per ren-
dere la soluzione di iodio penetrabile nella foglia, e quindi capace
di determinare la reazione sia sulle cellule della zona spungosa che
della cosidetta palizzata, si presta benissimo il sapone di colofonio,
suggeritomi dal mio collega Prof. Comboni. Le foglie di vite scolo-
rate coll'alcool ed immerse per qualche minuto in una soluzione calda
di colofonio, trattate colla tintura di iodio, si colorano in violetto.
« Non vi è dubbio quindi, secondo me, che anche nella vite il primo
prodotto dell' assimilazione, almeno quello osservabile microscopica-
mente, è 1' amido, ed il Mùller-Thurgau ha il merito di averlo per
primo dimostrato.
« Restava una difficoltà: come spiegare l'asserzione contraria di
microscopisti così valenti come il Briosi ed il Penzig?
« Le ulteriori esperienze lo chiarirono nettamente, dimostrando che
l'amido formato nelle foglie di vite sotto l'influenza diretta dei raggi
solari scomparisce con istraordinaria rapidità durante la notte, ov-
vero anche nel giorno stesso quando la foglia rimanga per un certo
tempo sottratta all'azione diretta dei raggi solari. Per questo riguardo
le foglie della vite presentano una serie di fenomeni notevolissimi,
mostrandosi sensibili alla luce in un grado molto maggiore di quello
che finora si conoscesse per le piante superiori (1). Mi limiterò qui
a riferire i risultati principali delle mie osservazioni fatte nei mesi
di giugno, luglio, agosto, settembre ed ottobre di quest'anno (1883):
1. Le foglie di vite raccolte prima della levata del sole o prima
che il sole le abbia colpite coi suoi raggi si mostrano prive quasi
totalmente d'amido;
2. Le foglie raccolte in un giorno piovoso od anche soltanto
nebuloso non contengono amido; ugualmente non contengono amido,
ovvero ne contengono piccolissima quantità, le foglie rimaste alla
(1) Vedi Pfeffer, Pflanzen Physiologie, Band 1, pag. 191, e la monografia di
Ugo de Vries « Wachstumgeschichte der Kartoffelplanzen (Landw. Jahrbucher
1878, pag. 591). »
164 CAPITOLO IV
luce diffusa o all' ombra, ma non colpite direttamente dai raggi
solari.
3. Nelle foglie esposte direttamente al sole nelle calde giornate
d'estate l'amido si forma in grande quantità ed in poco tempo: basta
tenere esposta la foglia ai raggi del sole per un paio d' ore per
ottenere colla tintura di iodio una intensa colorazione violetta.
Un' elegante dimostrazione dell' influenza della luce nella genesi
dell'amido si ha ricoprendo le foglie con stagnola, lasciandone sco-
perta qualche porzione circoscritta; l'amido allora non si forma che
nei punti scoperti. Se sopra la stagnola, con la quale si ricopre le
foglie vi si intagliano alcune lettere o parole, quando si va a trat-
tare queste foglie colla tintura di iodio, si ottiene una riproduzione
esattissima delle medesime lettere o parole colorate in violetto, con
contorni così precisi e distinti come se fossero state formate con un
pennello.
« L'esperienza riesce meglio nelle foglie giovani che nelle vecchie,
nelle quali è evidente che il processo di assimilazione procede con
minor energia.
« Così pure da queste esperienze è risultato evidente che la colo-
razione violetta (e quindi la formazione dell'amido) riesce tanto più
intensa ed omogenea, non solamente quanto più intensa e di maggior
durata è stata l'energia dei raggi luminosi, ma anche quanto più
alta è la temperatura dell'aria. Le condizioni precise secondo le quali
il fenomeno varia rispetto a questi due agenti luce e calore, non le
ho finora studiate, ma non sarà inutile ricordare che ho potuto con-
statare formazione d'amido nelle foglie di vite fino al giorno 21 no-
vembre, nel quale giorno un termometro esposto al sole vicino alla
foglia sperimentata segnava 17°; nei giorni successivi invece non mi
riuscì più di constatare formazione di amido sebbene il cielo fosse
sereno, ma in questi giorni il termometro non si elevò sopra 13°.
Non ho bisogno di far notare quanto V esatta investigazione di
tutte le circostanze che valgono a favorire o a rallentare la forma-
zione dell'amido interessi il fisiologo non solo, ma abbia anche una
importanza grandissima nella pratica. Giacche è questo amido che
convertito in zucchero emigra dalla foglia e va ad immagazzinarsi
nell'acino. » (1).
Soggiungeremo che l' amido non solo si muta in zucchero, ma
(1) Rivista di Yitic. ed Enol. di Conegliano, N. 23 e 24 dicembre 1883.
BOTANICA DELLA VITE 165
compie nella vegetazione della vite importanti funzioni. Anzitutto
coopera alla formazione di nuove cellule e di nuovi organi; inoltre
si accumula nel legno, e già vedemmo che le gemme sono poste so-
pra una specie di mensoletta contenente materia amidacea in cui il
tenero germoglio trova il suo primo alimento sinché non abbia messo
le foglie. Infine si può ritenere che dall' amido prendano origine i
diversi acidi organici (malico, tartrico, ossalico, succinico, ecc.) delle
foglie e delle uve immature, nonché la cellulosa, le sostanze grasse
ed altre sovra accennate.
Ma, come dicemmo, il lavorìo delle foglie è coadiuvato dalla
funzione assorbente che esercitano le radici. Già sappiamo che sol-
tanto la parte giovine della radice è adattata ad assorbire nutrimento,
inquantochè le parti vecchie sono rivestite da un inviluppo soveroso
impenetrabile. Da ciò ne segue che la vite, per prosperare, deve for-
mare continuamente nuove radici; ora, quanto più noi favoriremo
questa formazione, tanto più facilmente la pianta compirà le sue fun-
zioni fisiologiche, e tanto più a lungo noi possederemo un ceppo
robusto.
In base a questi principii il Dr. Mùller Thurgau si diede a ricer-
care — nel 1873 — quali fossero gli agenti che esercitavano una
influenza favorevole sulle radici della vite, cioè sul loro accresci-
mento e sulla loro attività. Le sue ricerche, di cui diremo or' ora,
sono basate sulle seguenti considerazioni: — Acciò una radice possa
crescere, gli sono necessarii dei materiali adattati; ora i materiali che
essa prende dal suolo non servono a quello scopo, imperocché sono
unicamente sali inorganici, i quali dapprima vogliono essere elabo-
rati. Come tutte le parti del vegetabile, anche la crescente punta
della radice è composta da numerose cellule ognuna delle quali pre-
senta essenzialmente due parti, cioè la parete cellulare o cellulosa,
ed il contenuto, detto, come già sappiamo, protoplasma, che è spesso
di consistenza granulosa e più o meno liquido (filante). Il protoplasma
è la parte essenziale e vivente della cellula; provvede alle funzioni
di questa, costruisce nuove pareti cellulari e nuove cellule; ed in que-
sto modo permette l'accrescimento della radice. Per molte cellule è
facile convincersi della vitalità del protoplasma quando lo si osserva
in movimento automatico attorno alla parete cellulare. Noi possiamo
adunque paragonare la parte crescente delle radici ad un immenso
fabbricato: in ognuna delle sue numerosissime camere sta un infati-
cabile lavoratore, il protoplasma; le pareti delle camere noi le chia-
166 CAPITOLO IV
miamo pareli cellulari. Ora le pareti cellulari sono composte di cel-
lulosa, mentre il protoplasma consiste di sostanze albuminoidi.
Abbiamo già detto che il materiale principale per la formazione
della parete cellulare, è preparato nelle foglie verdi sotto l'influsso
della luce e del calore: esso è l'amido, il quale è formato da acido
carbonico ed acqua. L'acido carbonico passa direttamente dall'aria nelle
foglie, l'acqua è quivi diretta per mezzo delle radici e del fusto, e
viene dal suolo. L'amido formatosi e poscia trasformato in zucchero
ed emigra dalle foglie nelle differenti parti crescenti della pianta, e
così anche nella parte crescente delle radici. Or quivi lo zucchero è
utilizzato alla costruzione di nuove pareti cellulari. Amido, zucchero e
cellulosa hanno la stessa composizione chimica; essi consistono di car-
bonio, ossigeno ed idrogeno; queste tre sostanze appartengono agli
idrati di carbonio (pag. 162). Abbiamo dunque:
Acido carbonico , J ^ . r Amido, zucchero, cellulosa
Acqua TdS i (Idrati di carbonio)
Ma acciò possa formarsi la parte più importante della cellula, il
protoplasma, la pianta deve produrre albumina.
Essa abbisogna perciò d' un idrato di carbonio, ed inoltre di a-
zoto sotto forma d'un sale ammoniacale o nitrico.
(' Carbonio ]
Idrato di carbonio < Ossigeno f _, . ,, . .,. ' .
f Idrogeno ì Costanze albuminoidi, protoplasma
Sale azotato ..... Azoto )
Gli idrati di carbonio (ossia l'amido) come venne indicato, son for-
mati nelle foglie verdi; per contro, dove s'originino le sostanze al-
buminoidi fin qui non era stato messo in sodo. Ora, le ricerche del
Dr. Mùller formano una contribuzione alla soluzione del quesito « se
presso le piante li organizzazione superiore le sostanze albuminoidi
sian formate ugualmente soltanto nelle foglie, oppure se la forma-
zione di questo importante principio costitutivo possa aver luogo an-
che in altre parti della pianta, per esempio nelle radici, quando le
medesime abbiano a loro disposizione un idrato di carbonio ed un
sale azotato ».
Ad alcune giovani piante di semi di maiz, di frumento, di fave,
BOTANICA DELLA VITE 167
ecc. allevate nell'acqua distillata, furori tolte tutte quante le radici
lasciandone loro soltanto due di uguale lunghezza: lo stesso venne
fatto con maglioli di vite che avevano vegetato nell'acqua distillata.
Ognuna delle pianticelle così preparata, venne allora collocata sopra
due recipienti posti uno accanto all'altro, però in modo tale che ca-
duna delle due radici pescasse in altro vaso. In uno de' vasi tro-
vavasi una completa soluzione nutritiva (acqua distillata coi sali ne-
cessarii alla nutrizione), e nell'altro la medesima soluzione privata
però dei sali azotati.
Ora se l'azoto, per formare con un idrato di carbonio l'albumina,
deve passare nelle foglie, vuol dire che allora le sostanze azotate
di nuova formazione devono anzitutto andare dalle foglie alle radici,
e non v'ha alcuna ragione perchè l'una delle radici ne riceva più
dell'altra: mostreranno tutt'e due un accrescimento ugualmente forte.
Per contro, se la cosa si passa diversamente, cioè se anche le
cellule delle radici possono esse stesse preparare sostanze azotate,
allora la radice che si trova nella soluzione azotata dovrà, mercè
lo zucchero che proviene dalle foglie e l'azoto assorbito direttamente,
formare sostanze albuminoidi ed essere ricca di protoplasma. L'altra
radice invece, che si trova in una soluzione sprovvista di azoto, ri-
ceverà bensi abbastanza di zucchero dalle foglie, ma le mancherà
l'azoto necessario alla formazione del protoplasma: essa dovrà pren-
dere questo azoto, o sotto forma di albumina già preparata o sotto
forma di sali azotati, dai fusti e dalle foglie, oppure dalle altre ra-
dici. Dovrà quindi essere più povera di protoplasma che non la ra-
dice che si trova nella soluzione contenente azoto, e perciò crescerà
anche meno rapidamente.
Or bene, le numerose ricerche del dott. Mùller-Thurgau hanno di-
mostrato realmente una tale differenza nell'accrescimento delle due
radici, e con ciò hanno pure dimostrato la verità della suesposta dot-
trina, cioè che anche le radici possoìio usuf ruttar e V azoto che è
posto esteriormente a loro disposizione, e così formare albumina.
Per avere la sicurezza che nessuna altra causa potesse aver provo-
cato un più rapido sviluppo di una delle radici (locchè del resto era
già stato escluso dal grande numero delle ricerche), la soluzione, in
molte esperienze, venne cangiata di tempo in tempo, cosicché la ra-
dice, la quale da principio si trovava in una soluzione azotata, ve-
niva posta in una soluzione priva d'azoto, e l'altra invece, durante
questo frattempo, pescava in soluzione azotata. Ma sempre accadde
168 CAPITOLO IV
che la radice la quale pescava direttamente nella soluzione azotata,
mostrava quell'abbondante accrescimento.
Queste ricerche furono condotte a termine in ugual modo tanto
nella sabbia che nella terra, e diedero gli stessi resultati.
Il Dr. Mùller-Thurgau al Congresso viticolo di Coblenza (Settembre
1879) fece andar in giro fra i congregati un certo numero di piante
coltivate nel suddetto modo: il più forte sviluppo dei sistemi radi-
cali cresciuti in soluzioni azotate fu facilmente riconosciuto da ognuno.
La differenza era specialmente spiccata pel numero delle radici
secondarie (capell amento) le quali erano molto più fitte; esse erano
poi anche più sviluppate. Per esempio in due radici di viti cresciute
in soluzione azotata, si vedevano numerose radichette già sulle ra-
dici secondarie (cioè si contavano tre ordini di radici) mentre in al-
tri sistemi radicali venuti in soluzioni senza azoto, non si osserva-
vano per anco quelle radichette del terzo ordine.
Il dottor Mùller-Thurgau conchiude osservando che, dal lato scien-
tifico, risulta dalle suesposte ricerche come le cellule delle radici siano
in condizione di preparare sostanze albuminoidi quando ricevano i-
drati di carbonio dalle foglie ed esternamente possano usufruire d'un
sale azotato. Per la pratica poi possiamo concludere che l'accresci-
mento di un sistema radicale è assai accelerato se noi poniamo a sua
disposizione i necessarii sali azotati.
A ciò hanno condotto le ricerche del laboratorio: per vedere ora
sino a qual punto questi risultati possono giovare ai viticoltori,
è mestieri fare esperienze coi concimi nei vigneti, esperienze che
già furono incominciate per cura dello stesso esperimentatore. In-
tanto è provato questo, che nel trattamento dei letami e dei con-
cimi ecc. l'azoto non deve essere cotanto trascurato, come pur troppo
lo fu sin qui. E si dovrebbe pure in avvenire, nella valutazione della
quantità di sostanze nutritizie esportate annualmente da un vigneto
sotto forma di legno, fogliame, uve, ecc. non più scordare l'azoto.
Alla domanda che fu fatta al dott. Mùller-Thurgau, se l'azoto as-
similato dalla radice che pesca nella soluzione azotata venga solo
usufruttato per questa radice stessa, oppure se una parte del me-
desimo emigri anche nell'altra radice, egli rispose che sperimental-
mente ciò non lo ha constatato: è tuttavia ammessibile che una
parte di quell'azoto profitti anche alla seconda radice. Ma la mag-
gior parte della sostanza azotata assorbita rimane nella radice che
pesca nella soluzione nutriente azotata; è quivi impiegata alla for-
BOTANICA DELLA VITE 169
inazione del protoplasma e favorisce il rapido sviluppo di quella ra-
dice stessa. Questa, in tutti i casi, è più innanzi nello sviluppo che
non l'altra.
Oltre all'azoto, la vite prende al terreno, per mezzo delle sue ra-
dichete, acido fosforico, calce, potassa e silice, ed in via secon-
daria magnesia, ferro, acido solforico, sodio, alluminio, cloro e
manganese: ma su di ciò ritorneremo al capitolo Chimica della
vite.
Il periodo di nutrizione ed accrescimento della vite dura general-
mente parlando quattro mesi, dall'aprile al settembre; verso il finire
dell'agosto o nel principio del settembre, a seconda dell'andamento
delle stagioni, cessa il periodo di accrescimento, ed incomincia quello
di maturazione non solo dell'uva pendente ma anche del legno a van-
taggio della fruttificazione successiva; è noto infatti che quando in
questo periodo il tempo è costantemente sereno, e si ha perciò luce
viva e calore sufficiente, i viticultori sogliono dire che il legno ma-
tura bene. Gli è pure in questo periodo che si elaborano e si per-
fezionano i materiali raccolti nelle mensolette delle gemme, di cui
parlammo testé a pag. 165.
Durante questo periodo, siccome la clorofilla va mano mano scom-
parendo, (salve speciali condizioni atmosferiche molto favorevoli)
cessa la riduzione dell' acido carbonico nelle foglie, cessa cioè l'as-
similazione; le foglie ed i frutti respirano allora come respirano
gli animali, cioè trattenendo Y ossigeno ed emettendo l' acido car-
bonico. Contemporaneamente ha luogo V emigrazione dell' amido
dalle foglie ai sarmenti ed alle gemme, e dello zucchero verso gli
acini; su di che si intratterremo più a lungo fra breve studiando la
maturazione dell'uva.
Ma anche dopo la caduta delle foglie non cessa il processo di e-
laborazione dei materiali immagazzinati nei sarmenti e presso le gemme;
abbiamo ripetutamente osservato che un autunno ed un inverno re-
lativamente caldi e abitualmente con cielo sereno influiscono notevol-
mente sulla maturazione del legno della vite; il quale assume una
colorazione rossigna e mostra le gemme più turgide che non in con-
dizioni meteorologiche meno favorevoli; la cacciata dei pampini in
primavera è allora sempre assai vigorosa, mercè l'anzidetto perfezio-
namento del legno.
L'accrescimento della vite avviene, come in tutte le piante dicoti-
ledoni, esternamente; quindi essa appartiene al novero delle piante
170 CAPITOLO IV
esogene, così dette perchè il loro fusto aumenta di diametro mercè
nuovi tessuti che si organizzano nella parte interna della corteccia
formando un anello attorno al midollo, come abbiamo visto apag. 121.
Invece le piante endogene, cioè le monocotiledoni, crescono in-
ternamente (frumento, granturco, avena, orzo, le palme, ecc.) ed
ha luogo un allungamento anziché un ispessimento successivo del
fusto, fatte poche eccezioni (1).
Gli è appunto per il modo d'accrescimento del tronco di vite, che noi
vediamo esternamente quello strato suberoso (pag. 91) che si può
togliere siccome inutile, essendo infatti la parte morta della cortec-
cia. (Veggasi: scortecciamento delle viti).
4.° Vegetazione della vite. — Il risveglio della vegetazione
nella vite si manifesta con una perdita di umore acquoso dalla e-
stremità de' suoi tralci; questo umore è detto comunemente il pianto
della vite. Vediamo come e quando avvenga questo fenomeno; di-
remo poi di che cosa sia composto cotale umore.
Se noi prendiamo un imbuto di vetro con collo lungo e sottile, e
lo chiudiamo con un pezzo di vescica, e poscia capovolgendolo lo
riempiamo fino al collo con acqua salata, immergendo infine la ve-
scica in un recipiente contenente acqua, osserviamo due fenomeni;
cioè che il liquido si innalza nel collo dell'imbuto, e si abbassa nel
recipiente. Dutrochet, il quale fece pel primo questo semplicissimo
esperimento, chiamò corrente di endosmosi (propulsione all'indentro)
quella dell'acqua penetrante dal recipiente nell'imbuto, ed esosmosi
il passaggio del sale dall'imbuto verso l'esterno, poiché egli osservò
infatti che l'acqua del recipiente era divenuta salata. Dutrochet chiamò
osmosi (ossia impulso) il complesso di questi fenomeni di diffusione
a traverso le membrane.
Orbene la stessa azione osmotica viene esercitata a traverso la
tenera cuticola delle radichette ed i peli radicali della vite, dall'acqua
del terreno coi sali che essa tiene disciolti (fosfati, nitrati, solfati
di calce, di potassa, ecc.); e questo fenomeno è favorito dalla rapidità
di diffusione dei sali stessi. L'acqua penetrata che sia nelle cellule delle
radichette, le fa rigonfiare distendendone per modo di dire le pareti
(tessuto cellulare), onde filtra poi a traverso di esse, diffondendosi
(1) L'albero del sangue di drago (Dracoena drago), che è una palma di Tene-
riffa, cresce anche in circonferenza; ma è questa una eccezione, d' altronde bene-
spiegata dai botanici.
BOTANICA DELLA VITE 171
da cellula a cellula sino a giungere ai vasi, che sono come tubi
verticali entro cui si innalza (1) siccome ha dimostrato Sachs con
una brillante ed ingegnosa esperienza.
Riflettiamo ora per un momento alla sproporzione rimarchevole che
esiste fra il tronco di una vite e V ampiezza del suo sistema radi-
cale; è facile vedere che il sistema assorbente (radichette e peli) è
amplissimo relativamente al fusto, ed è ovvio quindi l'intendere come
il succo acquoso assorbito dal suolo, essendo relativamente assai ab-
bondante, debba gocciolare in primavera dalla estremità dei tralci.
Abbiamo detto in primavera, perchè allorquando i tralci sono
provvisti di fogliame, l'eccesso di acqua è smaltito per mezzo della
evaporazione e della traspirazione (pag. 159); infatti noi abbiamo
osservato ripetutamente che quando la vite porta foglie i tralci non
piangono che di notte, cioè quando le foglie non adempiono più a
quest'ufficio di smaltitoi aerei: anzi abbiamo osservato che la per-
dita di linfa acquosa va scemando man mano che il sole si alza sul-
l' orizzonte; dimodoché mentre alle ore 6 del mattino (ad esempio ai
primi di maggio) si ha il pianto, alle ore 9 od alle 10 ciò non è
più possibile, essendo subentrata una evaporazione potente. (Il liquido
acquoso lascia un deposito di gomma sulla estremità del tralcio, il
quale può impedire il pianto; tagliando una piccolissima porzione del
tralcio stesso, il pianto ricompare, talvolta anche a primavera innol-
trata, salvo che si verifichino le accennate circostanze: è bene tener
nota di ciò nell' esaminare la intermittezza di questo fenomeno).
Non tutti però ammettono che la causa principale dell'ascensione
del succo risieda nell'osmosi: il Prof. Bòhm (2) con esperienze eli-
rette dimostrò che tale fenomeno è un effetto della traspirazione,
della elasticità delle pareti delle cellule e della pressione dell' aria.
Ma, poiché la traspirazione è quasi nulla durante la notte, come
spiegare il pianto notturno delle viti da noi osservato ? Forse colla
evaporazione (pag. 159) la quale, come fenomeno puramente fisico,
ha luogo anche in mancanza della luce, nonché coi fenomeni di
osmosi. Del resto Herbert Spencer già aveva attribuito il movimento
(1) Il succo giunto ai vasi corre con molta maggior velocità: Herbert Spencer
trovò che i liquidi assorbiti dalle piante corrono con una velocità cinquanta volte
maggiore nel tessuto vascolare, paragonato al tessuto cellulare (Principles of Biology
volume II, pag. 555).
(2) Veggasi la pag. 159, nota 1.
172 CAPITOLO IV
dei succhi essenzialmente alla traspirazione delle foglie adulte, coadiu-
vate da altre cause, fra cui l'osmosi e la capillarità, ossia l'attrazione di
adesione, (1) che certo deve favorire il passaggio del succo a traverso
i tessuti della pianta.
La forza con cui il succo acquoso penetrante dalle radichette sale
lungo il tronco della vite e si diffonde pei tralci è veramente rag-*'
guardevole. Chi la misurò pel primo fu Hales, sin dal 1727; egli
trovò che essa può fare equilibrio ad una atmosfera, e talvolta an-
che ad una atmosfera e mezza di pressione, sostenendo una colonna
di mercurio alta 822 mm., ossia una colonna d'acqua alta m. 11,096.
Hales notò pure che la pressione esercitata dalla pianta della vite
dal basso in alto è cinque volte maggiore di quella con cui viene
spinto il sangue nelle più grosse arterie del cavallo. Hofmeister un
secolo dopo, esperimentando su piante di viti in vasi, trovò in con-
fronto con piante di fagiolo e d' ortica le seguenti pressioni:
Vite 725 mm.
Ortica 350 »
Fagiolo 150 »
Recentemente (1873) Neubauer e Canstein (Annalen der (feno-
logie, TV, pag. 502 e 517) istituirono altre interessanti esperienze
sull'argomento, che stimiamo utile far conoscere. — Neubauer si
valse dell'apparecchio disegnato nella fig. 57; in T abbiamo un ramo di
vite, il quale mediante un forte anello di cauciù L è posto in cor-
rispondenza con un tubo di vetro a; l'anello L è legato strettamente
al tralcio ed al tubo a. Quest'ultimo pesca in un vaso di vetro A
il quale nella sua parte inferiore e per un terzo circa della sua al-
tezza è ripieno di mercurio; nella porzione rimanente come pure nel
tubo a si mette acqua. Nel mercurio pesca un lungo tubo b b gra-
duato in millimetri. Il vaso A è posto in una vaschetta V ripiena
d'acqua, nella quale pesca un termometro t. Neubauer osservò, con
questo apparecchio, che nelle giornate calde dell'aprile del 1873 la
pressione aveva raggiunto i 112 millimetri (2): essa diminuì allo sbuc-
ciare delle gemme, e cessò allo sviluppo delle foglie, quando queste en-
fi) E noto che i liquidi per attrazione capillare si innalzano nei tubi sottili
o capillari.
(2) La temperatura essendo ridotta a zero.
BOTANICA DELLA VITE
173
trarono in funzione. La evaporazione allora si era fatta assai forte;
essa venne misurata da Neubauer coll'appareccbio rappresentato dalla
fìg. 58. In b abbiamo un getto di vite fronzuto il quale pesca in un
tubo di vetro e pieno d'acqua ma chiuso ermeticamente: questo tubo
è introdotto in un cilindro a sul cui fondo trovasi del mercurio, e
Fig. 57.
Fiar. 58.
che è pure ermeticamente chiuso in d. Ora più il mercurio si sol-
leva e più è forte la evaporazione : infatti Neubauer trovò che un
germoglio di vite lungo 28 centimetri e con una superficie di foglie
uguale a 340 centimetri quadrati, solleva una colonna di mercurio
di 183 millimetri, alla temperatura di 23,5° C.
Riflettendo pertanto alla potenza con cui il succo sale in prima-
174 CAPITOLO IV
vera dalle radici ai tralci della vite, si troverà che è molto efficace
la espressione usata dai viticultori, i quali dicono che, nelle prima-
vere umide, il pianto affoga i fiorellini; su di ciò ritorneremo stu-
diando l'aborto dei fiori (francesamente colatura).
Da quanto abbiamo detto risulta che nell' organismo vegetale so-
novi due correnti di succhi; l'una ascendente dalle radici al fogliame,
F altra discendente dal fogliame alle parti vitali della pianta non
escluse le radici. La linfa ascendente circola principalmente pel tes-
suto vascolare, quella discendente pel tessuto cellulare; i due movi-
menti sono indipendenti l'uno dall'altro, ed il secondo è certamente
dovuto in gran parte all' azione osmotica a traverso le membrane
delle cellule. Accade quindi una vera diffusione, non soltanto all'ingiù
verso le radici, ma anche in alto per tutte le parti della pianta (gemme,
tralci, frutti) dei principii organici di cui abbiamo parlato a pag. 161.
Ci rimane a studiare la composizione del liquido che costituisce
il pianto della vite; da quanto precede si deduce che esso non
è costituito da pura acqua, come crede il volgo dei viticultori;
consiste invece di acqua la quale tiene in dissoluzione gli elementi
minerali che la terra somministra alle piante, elementi che abbiamo
enumerato a pag. 160. — La sua composizione varia a seconda delle
annate più o meno piovose, ed a seconda della stagione, perchè col
progredire di questa aumentano in esso i fosfati, nonché il totale
delle materie minerali, mentre diminuisce quello delle organiche, certo
perchè va scemando la quantità di queste ultime posta in serbo dal-
l'anno precedente, come già si disse.
Il Dott. Ghizzoni (1) ha studiato con cura il pianto della vite, rac-
cogliendo la linfa a diverse altezze nonché dallo stesso vitigno, però
coltivato in luoghi differenti. Crediamo utile riassumere tali esperienze,
raffrontandole con altre del Dott. Rotondi.
a) La prima conclusione che si desume dalle esperienze del
Ghizzoni è questa, che la linfa della vite è costantemente acida,
ed olire al portare alla pianta nuovi elementi, promuove Vas-
similabiliià di talune sostanze contenute nella pianta, ed agisce
producendo lo sviluppo delle gemme. Questa azione sarebbe pro-
dotta dal primo succo che si innalza nella pianta, il quale essendo
acido, rende solubile, cioè atta all'assimilazione, una certa quantità
di materie attornianti le gemme e destinate al futuro sviluppo del
(1) Rivista di Viticoltura ed Enologia di Conegliano, 1878.
BOTANICA DELLA VITE 175
germe. Per il Ghizzoni pertanto lo sviluppo delle gemme sarebbe ia
tatto paragonabile a quello dei semi, e la linfa della vite avrebbe
nei primi momenti lo stesso ufficio della diastasi, la quale, come di-
cemmo a pag. 156, trasforma in materia solubile quella che altri-
menti non avrebbe, per la sua insolubilità, potuto aiutare e svolgere
il tenero embrione dei semi. In altri termini, secondo l'esperimenta-
tore, la prima linfa agirebbe da vero solvente sulle materie insolubili
che stanno attorno alle gemme.
Contrariamente alle deduzioni del Ghizzoni, è noto essere risultato
all'ing. Rotondi (già della Stazione Enologica di Asti) che la linfa sud-
detta, specialmente nelle viti ad uve rosse, avrebbe una reazione non
acida, cioè neutra od alcalina. Queste sconcordanze dimostrano che
il quesito non è ancora bene risolto: gioverà quindi fare nuove e-
sperienze e tenere anche calcolo di quel pianto che sgocciola dalle
viti durante la notte verso il finir di maggio cioè allorquando i
tralci sono già provvisti di foglie, per cui il pianto cessa di giorno:
svettando in tali momenti i tralci si ha pur tuttavia uno sgocciola-
mento notturno che meriterebbe d'essere studiato; abbiamo già detto
a tal riguardo che esso scema man mano che il sole si alza sull'o-
rizzonte, cosicché verso le ore 9 o 10 del mattino cessa del tutto.
b) Altra conclusione del Ghizzoni è la seguente: che nel pianto
delle viti la quantità dei nitrati è in ragione inversa della bontà
dei vitigni.
e) I nitrati stanno nelle linfe in ragione diretta della ve-
getatila (campi ed orti) del terreno, ed in ragion inversa della
bontà del metodo di coltivazione.
d) In genere la sostanza organica é, nelle viti nere, pre-
dominante sulla minerale', mentre per le viti ad uva bianca la
minerale si troverebbe in quantità predominante suU organica.
e) Mentre nel basso (cioè nella linfa inferiore d'una vite) v'ha
predominio di materia minerale, nell'alto vha quello della ma-
teria organica.
f) Nel suo decorso quindi, la linfa mentre si carica di ma-
teria organica perde in materie minerali.
g) I fosfati aumentano in genere col procedere della sta-
gione, aumentando anche il totale delle materie minerali, men-
tre diminuisce quello delle organiche.
Il dott. Ghizzoni, dai fatti che accenna desume che non si dovrebbe
far perdere alla vite, con una potatura tardiva o primaverile, una
176 CAPITOLO IV
certa quantità della sua linfa; stabilito infatti, coll'esperimentatore,
che l'azione di detta linfa sia quella di promuovere ed aiutare lo svi-
luppo delle gemme, parrebbe potersi conchiudere che questo viene
necessariamente ritardato quando venga a perdersi una gran parte
di quella.
Noi non esitiamo a convenire in massima con quanto qui dice lo
studioso autore: ma non possiamo tuttavia scordare gli indiscutibili
vantaggi del salasso primaverile delle viti nelle primavere umide,
precedute da un autunno e da un inverno pure umidi, e ciò onde
evitare la colatura dei fiori la quale quasi ogni anno arreca così
gravi danni ai vigneti dell'alta e media Italia. Facciamo quindi voti
acciò l'importante quistione del pianto della vite sia pure studiata nel
caso, non certo raro, d'una vite pletorica.
Dalle nostre numerose osservazioni risulterebbe infatti, che con viti
cosifatte ed in primavere molto piovose, è assolutamente indispen-
sabile provocare o aiutare il pianto, nei modi che diremo studiando
F aborto dei fiori, e questo tanto più se trattasi di viti giovani, ri-
gogliose e potate corte. Per contro, nei paesi a primavera general-
mente secca e calda, e dove si hanno viti vecchie e non molto ri-
gogliose, bisogna che la vite non pianga o pianga assai poco (pota-
tura precoce, meglio se autunnale).
Ma lo studio della vegetazione della vite non può limitarsi a quanto
si riferisce al pianto: abbiamo altre importanti considerazioni a fare
su questo grave soggetto, specialmente riguardo al portamento delle
radici, alla tendenza naturale dei tralci e dei viticci ed alla varia
lunghezza degli internodi.
Il portamento del sistema radicale della vite varia a seconda
di differenti circostanze; non parliamo del numero più o meno grande
delle radichette, il quale dipende dai sali azotati (nitrato di potassa,
solfato d'ammoniaca) che si trovano più o meno in copia a disposi-
zione delle radici (pag. 166): vogliamo invece alludere alla disposi-
zione delle radichette stesse ed alla loro profondità variabile. Nei
vigneti non mai lavorati esse si portano a poca distanza dalla su-
perficie del suolo, quasi in cerca di principii assimilabili; diciamo
quasi in cerca di alimento, perchè realmente la radice non si di-
rige verso le sostanze nutritizie, ma solo si sviluppa e si ramifica
tanto più copiosamente quanto più abbondante è l'alimento, se così
possiamo dire, col quale si trova in vicinanza, in contatto: ora, es-
sendo dimostrato dalle esperienze di Emilio WolfF e Boussingault,
BOTANICA DELLA VITE 177
che nei terreni lavorati, cosicché gli agenti atmosferici vi abbiano
facile accesso, si forma una maggior quantità di nitrati (1), è facile
intendere come le radichette si formino più copiose negli strati su-
perficiali del terreno, se questo è lavorato a poca profondità o peggio
se non mai lavorato. Allorquando poi il piantamento della vite è
fatto troppo profondamente e, come suol dirsi, sul duro, allora (fig. 2
pag. 89 tolta da un nostro piantamento a 0,60 di profondità) accade
che l'ultima corona di radici si dirige all'insù, come dicevamo or' ora,
laddove le altre corone sono orizzontali o quasi. Certamente ciò non
accadrà nelle terre leggere e ciottolose; infatti nei terreni lapillari
sofficissimi dei dintorni di Napoli si piantano i maglioli ad oltre un
metro di profondità, senza inconvenienti: ma nelle terre compatte si
verifica quanto dicevamo sopra, e la vite ne soffre, avendo un si-
stema radicale che non si sviluppa in condizioni troppo favorevoli.
Il piantamento profondo vuol dunque essere accompagnato, o per
meglio dire, preceduto dal lavoro profondo: in caso diverso la radice
si riduce ad un fittone quasi sprovvisto di radichette, ed ha una sola
corona di radici secondarie quasi presso la superfìcie del suolo: ad
esempio un magliolo (fig. 59) piantato profondamente sino al segno
b, in terreno non scassato convenientemente, mette bensì in principio
una corona di radici sotto al punto a, ma queste in così cattive con-
dizioni di suolo deperiscono rapidamente, onde il sistema radicale in
pochi anni si riduce a poco presso come è disegnato nella fig. 60,
cioè alle sole radici superficiali, troppo esposte all'azione della sic-
cità e troppo facilmente danneggiate dagli istrumenti lavoratorii: ora
è evidente che, se soffrono queste radici, tale pianta non può con-
tare su altre più profonde, ed intristisce essa pure.
Infine per la grande armonia che regna fra il sistema sotterraneo
e quello aereo della pianta, avviene che ogni offesa recata ai rami
si ripercuote sulle radici; d'onde il consiglio di non potare la giovine
vite al suo primo anno e di potarla leggermente al secondo, perchè
così operando si permette un ampio sviluppo al sistema radicale, che
ha tanta influenza sulla produttività, sulla robustezza e sulla longe-
vità delle viti. È poi ovvio il comprendere che, appunto in conse-
(1) Wolff, professore 'a Hoenheim (Baden) trovò, con esperienze dirette, che
quando la terra è bene smossa e divisa, l'ammoniaca del terreno si cangia in a-
cido nitrico per l'azione dell'ossigeno dell'aria. Boussìngault (Chimie Agricole L
jpag. 296) venne alla stessa conclusione.
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 13
178
CAPITOLO IV
guenza di cotale armonia vegetativa, il sistema radicale sarà assai
meno sviluppato nelle viti potate corte ed educate basse, che non in
quelle allevate a lunghi tralci, nel qual caso si possono vedere ra-
dici lunghe oltre i dieci metri. Ed è tale 1' armonia fra i rami e le
radici che abbiamo osservato molte volte come a rami robusti corri-
Fig. 59.
Figr. 60.
spondano, dallo stesso lato della pianta, radici secondarie robuste; e
come offendendo ad esempio la pianta a diritta, ne soffrono precisa-
mente le radici a diritta: cosa facile a spiegarsi se si riflette, come
dicevamo studiando l'anatomia della radice e del caule (pag. 119), che
i vasi del tessuto vascolare vanno dalla prima al secondo senza in-
terruzione, senza cioè una vera linea di demarcazione al così detto
BOTANICA DELLA VITE 179
nodo vitale, e proseguono così ponendo in comunicazione le foglie
colle radichette; ma queste non possono vivere e svilupparsi oltre
senza gli idrati di carbonio di quelle (pag. 168), onde se si offende
il sistema aereo si offende pure il sistema sotterraneo.
Passiamo ora a studiare la tendenza naturale dei tralci. Ab-
biamo già detto, al paragrafo sull' organografia, che i tralci della
vite propendono ad allungarsi ed espandersi strisciando sul terreno
se pure non si slanciano sugli alberi che loro si trovano vicini, rag-
giungendo altezze relativamente grandi: si narra infatti di viti d'A-
frica e d'America, che slanciansi a guisa di ponti attraverso i fiumi;
e Plinio ci tramanda d'una statua di Giove fatta con un tronco di
vite e di colonne di tempii pure di viti. È pure noto che le viti sel-
vatiche, delle quali abbiamo già parlato più addietro, assumono spesso
proporzioni enormi; e che le viti coltivate stesse, se si abbandonano
a sé, possono coprire coi loro tralci molta superficie di terreno (1).
In quei pochi locali (ad esempio nella Valle d' Aosta) ove si lascia
la vite libera (vale a dire che non le si recidono mai tralci secchi,
come si fa potando) essa si espande con tanta ricchezza di vegeta-
zione, che si è costretti a fare i piantamene ponendo i filari a 5
metri di distanza uno dall'altro, e le piante nelle file a ben 25 metri
l'ima dall'altra; queste enormi distanze sono indispensabili. Che dire
poi delle viti americane? Giustamente quelle selvatiche furono chia-
mate piante da bosco (2) poiché si arrampicano fìuo alle più alte
cime degli alberi, ove maturano i loro frutti.
Ora, tutto ciò dimostra che la tendenza naturale della vite è quella
di allungare quasi direbbesi senza limiti i suoi tralci, a guisa di ri-
gogliosa liana; che se noi la vediamo invece nei nostri vigneti ridotta
generalmente a meschine proporzioni si è per i sistemi di viticoltura
in uso, così spesso antirazionali. Né vale il dire che così si deve fare
se si vogliono avere frutti zuccherini ed abbondanti, perchè è noto
che, ad esempio, le viti tenute col sistema francese detto en chaintres
(ampie spalliere orizzontali) talora con 15 tralci frutticosi lunghi da
metri 1,50 a 2, danno molta uva, che matura bene, mentre le piante vi
sono più longeve che non seguendo il sistema delle energiche potature.
(1) Il Dott. A. Cencelli-Perti narra d'un suo ceppo di pizzutello (uva Cornetta)
il quale si estende su una superficie di 150 metri quadrati, da tempi remotis-
simi. [Albereto Fedisco: Conegliano 1874, pag. 4).
(2) Così il viticultore americano Hecker negli Annalen der Oenologie (1883).
Citato da A. Cencelli (op. cit. 4).
180 CAPITOLO IV
Ed anche con taluni sistemi italiani di viti maritate ad alberi, specie-
se all'acero campestre (1), si hanno viti le quali sono più longeve
che non quelle educate basse, oltre ad offrire una produzione più
costante; locchè è senza dubbio conseguenza del sistema di potatura
lunga, mercè cui si asseconda la tendenza naturale dei tralci.
Tuttavia non vorremmo che si spingesse questo principio sino alle
sue ultime conseguenze, cioè se ne deducesse che la potatura annuale
della vite è più dannosa che utile; noi diciamo solo che un eccesso nella
potatura (potatura povera o corta) rende la vite vecchia e spossata
in poco tempo, perchè essendo meschini i suoi tralci si fanno me-
schine anche le sue radici. Inoltre è certo che la potatura energica
modifica i tessuti della vite per quanto riguarda la loro compattezza.
Ci porge una prova assai convincente degli inconvenienti ai quali
si può andar incontro inceppando nella vite quello sfogo che le è
indispensabile siccome pianta sarmentosa, la storia delle viti americane
nel Nord America ed in Europa. Nel Nord America i viticultori eu-
ropei che, sin dal 1600, vi si recarono a coltivare viti, volendo educare
quelle indigene colla potatura corta, non riuscirono mai ad avere viti
robuste e longeve; il sig. Hecker (loc. cit, pag. 13) dice chiaramente
che le viti americane non si debbono sottoporre al taglio corto, bensì
potarle a tralcio lungo, e soggiunge che chi pota secondo la ma-
niera tedesca (corto) raccoglie poco, mentre essi, gli Americani, po-
tano soventi volte i loro tralci a 20-30 gemme, nei terreni fertili;
infine conclude che « chi fra gli Alleganei e le Montagne Rocciose
non vuol ottenere punto raccolta, deve lasciar potare il suo vigneto
da un vignaiuolo tedesco, perchè allora sarà sicuro che egli avrà
rovinato il suo vigneto. »
Le viti americane introdotte in Europa vogliono sempre, ed è na-
turale, la potatura lunga, che è la più consentanea alla loro indole;,
invece nelle numerose coltivazioni che se ne sono fatte in Francia,
quali resistenti alla fillossera, si seguirono senz'altro i sistemi locali,
cioè si potarono corte, inducendo così talune modificazioni nei tessuti
oppure inceppando un più ampio sviluppo del sistema radicale. La mo-
dificazione nella compattezza dei tessuti per causa della coltura che
diremo all'europea, è oramai ammessa dai fisiologi, e ad essa si attri-
buisce il fatto sconfortante di parecchi vitigni d'America, i quali
(1) L' acero o oppio ha poche radici e si può potare energicamente; perciò si
può quasi considerare come un sostegno non vivo, benché sia vivo.
BOTANICA DELLA VITE 181
mentre nel loro paese d'origine resistono alle punture della fillossera,
introdotti in Europa vanno grado grado perdendo questa loro pre-
ziosa proprietà, cosicché oggi sono pochissime le specie che ancora
la conservano.
Concludendo diremo che sono a ritenersi come canoni importanti
della fisiologia della vite questi; 1°) che la espansione che si lascia
prendere alla vite mentre accresce la sua fecondità ne accresce pure
il vigore e la durata (Guyot); 2°) che in generale è a preferirsi la
potatura ricca a quella povera, perchè la potatura ricca logora la
vite solo quando il suolo è spossato, al che si rimedia con opportune
concimazioni, laddove la potatura povera logora la pianta, il che è
assai più grave (G. A. Ottavi). Studiando la potatura e le distanze
dei piantamenti ci accadrà di richiamare in nostro aiuto questi pre-
ziosi ammaestramenti.
Veniamo ora alla tendenza naturale dei viticci: già sappiamo
(pag. 94) come si sviluppino e quale ufficio abbiano. Le spire vanno
da destra a sinistra o viceversa, senza seguire una norma costante;
cosa però non ammessa da tutti, poiché v' ha chi sostiene che essi
generalmente tendono a sinistra. Certo è però che la loro tendenza
naturale è quella di attorcigliarsi agli oggetti cui vengono in contatto
colle loro estremità, fosse anche un altro viticcio, o il gambo d'un
grappolo, o una foglia, od un tralcio: così attorcigliati ai sostegni
delle viti, le tengono salde, le rendono resistenti all'azione dei venti,
ed innalzano i pampini esponendo meglio le foglie all'azione impor-
tantissima della luce solare.
Ma se i viticci colle loro estremità (nelle quali il Dr. Penzig crede
esistano i rudimenti di organi già destinati (1) molto probabilmente a
congiungere la vite al sostegno) non riescono a toccare qualche og-
getto, generalmente non si contraggono a spirale : tuttavia non è
necessario che essi tocchino l'oggetto precisamente coll'apice; abbiamo
osservato che il contatto su qualsiasi punto della loro superfìce li
fa ricurvare verso l'oggetto. I viticci sono molto più sensibili quando
sono giovani; allora anche toccati leggermente, si curvano, ma se
cessa tosto il contatto si raddrizzano.
(1) Questi organi si osservano ancora nell'Ampelopsis, e consistono come in un
disco che aderisce ai muri con forza. Il Dr. Penzig crede che nella vite le punte
dei cirri avessero un tempo questa funzione, ma ora non più perchè acquistarono
irritabilità su tutti i punti.
182 CAPITOLO IV
Dunque la tendenza naturale dei viticci è quella di avvolgersi a
spirale; se non possono, diremo così, soddisfare a questa loro esigenza
naturale, si essicano. E così di due viticci consecutivi (pag. 95) quando
uno si è avviticchiato, non essendo più necessario, per sostenere il
pampino, che si attorcigli anche 1' altro, in quest'ultimo cessa la vi-
talità e quasi si atrofizza. Studiando se convenga o non sopprimere
i viticci, diremo se oltre all'ufficio di organi di prensione essi adem-
piano anche, come taluno crede, a quello di organi coadiutori di nu-
trizione, essendo clorofìllati essi pure come le foglie.
Darwin ha cercato di spiegare perchè quando un viticcio tocca
un oggetto si curva e si avvolge a spirale attorno ad esso: a suo
parere ciò dipenderebbe dalla contrazione delle cellule lungo il lato
concavo (1) ed in ciò si trova d'accordo con H. De Vries e con Sachs,
il quale dice che quando il viticcio viene in contatto con un oggetto,
si accelera notevolmente lo sviluppo della superficie convessa, mentre
vi ha contrazione nella superfìcie concava. È però diffìcile spiegare
come mai talvolta i viticci si avvolgano a spirale senza toccare ve-
rmi oggetto, come abbiamo potuto osservare più d'una volta; in questi
casi i viticci della vite si comportano come quelli di altre molte piante,
i quali si contraggono spiralmente senza essere mai venuti in con-
tatto con oggetti; ciò accade però solo quando i viticci stanno pen-
zoloni ed hanno perduto in grande parte la loro sensibilità, cosicché
a poco a poco finiscono coll'essicarsi.
Ci rimane a studiare quanto si riferisce alla lunghezza degli in-
ternodii ne' suoi rapporti colla vegetazione della vite.
Si ritiene generalmente che la lunghezza degli internodi (meritalli
o mesofiti) sia costante per le singole varietà di vitigni, e per vie-
meglio convalidare questa opinione si citano anche le osservazioni
di Pier de' Crescenzi, il quale visitando i vigneti di Asti osservava
che gli internodi dei nebbioli erano lunghi; « queste generazioni di
« viti, dice egli, hanno le loro gemme per lunghi internodi distanti: »
ora, chi ha veduto oggi viti di nebbiolo può far fede che gli inter-
nodi sono tuttavia lunghi; eppure sono trascorsi nientemeno che G00
anni. Il compianto Luigi Oudart nella sua Introduzione alla am-
pelografia italiana, narra di aver veduto un vigneto piantato con
Pinot e Gamai or sono più di ottantanni dall'avo del conte di Ca-
stelborgo, nel suo podere di Neive presso Alba; « e queste specie,
(1) Le piante rampicanti — pag. 107.
BOTANICA DELLA VITE 183
dice egli, benché piantate in un terreno e sotto un clima tanto di-
verso da quello della Borgogna e del Beaujolais, coltivate e potate
così diversamente, conservano i loro nodi alla distanza che anche
oggi conservano nei vigneti della Borgogna e del Beaujolais. »
Il sig. Oudart, basandosi su questi ed altri fatti, i quali pare par-
lino in favore d'una costante lunghezza dei meritalli per ogni vizzato,
propose nel 1874 una classificazione dei vizzati stessi in tre grandi
schiatte o tribù, collocando nella prima le viti ad internodi corti,
nella seconda quelli ad internodi medii e nella terza quelli ad inter-
nodi lunghi. In quell'anno, prendendo ad esame nel voi. XXXI del
Coltivatore, questa proposta, e citando alcune nostre osservazioni
fatte sui principali vitigni del Monferrato, ci associavamo alle idee
del valente sig. Oudart; non vi si associava però il barone Antonio
Mendola, dotto ampelografo siciliano, il quale in una lettera a noi di-
retta concludeva col dire « che questo carattere (la lunghezza degli in-
ternodi) tanto proteiforme, tanto incerto, tanto difficilmente apprezzabile
e che cangia coi climi e colle età, colle colture, colle esposizioni, non
è un carattere distintivo, ma una mera particolarità da tenersi in un
cotal conto in via secondaria, non mai da poterne far base fonda-
mentale di un sistema. »
In progresso di tempo, facendo ricerche su questo argomento, ci
accadde di trovare parecchi autori in accordo col sig. Oudart, e così
i francesi Conte Odart, Olivier de Serres, Victor Rendu e lo spa-
gnuolo Simon de Rojas. Ma oltre alle ricerche sui libri facemmo
anche varie esperienze sui vigneti, cercando, con speciali trattamenti
inflitti alle viti, di fare variare la lunghezza dei meritalli; ora queste
esperienze ci portarono invece a concludere che ben s' apponeva il
barone Mendola, poiché il sistema di coltura può influire a ren-
dere piti o meno lunghi gli internodi.
Le piante sulle quali facemmo le nostre osservazioni erano poste
in filari distanti 3 metri circa uno dall' altro; solo che mentre uno
dei filari era coltivato al sistema monferrino, 1' altro era tenuto ad
alberello. Il vitigno era lo stesso, il terreno lo stesso, la esposizione
la stessa: solo era diverso il metodo di educazione della vite. In-
fatti col sistema monferrino si ha un lungo tralcio frutticoso ed uno
sperone legnoso, e non si praticano cimature o svettature; invece
col sistema alla latina o ad alberello da noi modificato, si pratica
una cimatura graduale prima della fioritura (si noti bene questa cir-
costanza) svettando coll'unghia i getti uviferi, man mano che si al-
184
CAPITOLO IV
lungano, e precisamente quando è spuntata la quarta o quinta foglia
sopra 1' ultimo grappolo. Per tale cimatura (che non vuoisi confon-
dere, come si fa spesso, colle cimature tardive e colle scacchiature)
si esporta la vera punta dei getti dell'annata, la quale ha V aspetto
di un piccolissimo ventaglio; si concentra per tal maniera il vigore
della pianta nella sua parte inferiore locchè è indispensabile per
costituire un vero e solido alberello, con una impalcatura ugual-
mente solida.
Veniamo ora alle suddette osservazioni.
(Dopo 4 anni di cultura ad alberello e 5 di cultura a tralcio lungo).
VITIGNO
Viti ad alberello
Lunghezza degli internodi
sui tralci di un anno
Viti a tralcio lungo
Lunghezza degli internodi
sui tralci di un anno
Pianta di Barbera ...
/ Cent. 11
» 8 50
» 13
» 6 50
6 50
6 50
Pianta di Barbera.
/ Cent.
Pianta di Barbera.
9 75
Cent. 9
10
10
11
11
7
4
11
13
6
6 50
9 50
9
10
9
9 50
7
10
8
11
14
6
50
Media e. 8 75
Cent.
Media e. 9 20
Cent.
Media e. 9 10
Cent.
10
14
15
9
12
15
13 50
16 50
16
11
7 50
14
12
10
13
10
8
10 50
14
15
16
10
10
16 50
1150
9
12 50
15
15 50
9
15
12 50
Media e. 12 50
} Media e. 11 90
Media e. 12 65
BOTANICA DELLA VITE
185
VITIGNO
Viti ad alberello
Lunghezza degli intemodi
sui tralci di uu anno
Viti a tralcio lungo
Lunghezza degli internodi
sui tralci di un anno
Cent. 11
J> 4
Pianta di Barbera..../
Pianta di Barbera.
Pianta di Fresia.
Pianta di Fresia.
Cent.
Cent.
»
/ Cent.
6
7 50
6 50
3
6
4
10
4
10
> Media e. 6 90
10
4
50
10
15
8 50
17
6
7
4
6
10
4 50
5 50
1150
8
5 50
8 50
8
7
8 50
7 50
10
6 50
9
4 50
6
8 50
13
9 50
10
11
>Media e. 8 50
Media e. 7 45
Cent. 13
» 1150
» 9
» 10
» 8 50
» 13 50
» 10 50
» 12
» 10
> 12
» 14
» 13
» 9
» 10
» 12
Cent. 10
» 10
» 12
» 13
» 11
» 10
» 14
» 10 50
» 9
» 10
» 10
» 8
» 1150
» 10
» 7
» 8
» 9
Cent. 12 50 \
» 12 50 '
» 10
» 11
» 11
Media e. 1120
)Media e. 10 10
Media e. 11 16
\ Media e. 8 45
Cent.
9 50
14
11
9 50
» 8
9 50
11
7
7
8 50
7
Media e. 8 37
186
CAPITOLO IV
VITIGNO
Viti ad alberello
Lunghezza degli iaternodi
sui tralci di un anno
Viti a tralcio lungo
Lunghezza degli internodi
sui tralci di un anno
Pianta di Fresia.
Pianta di Fresia.
Pianta di Fresia.
/ Cent. 8 50 \
» 7
» 3 50 /
» 7 50
» 4 50
» 6
» 7
Cent. 4
» 5 50
» 5
» 6 50
» 7 50
» 4 50
» 5
» 6 50
Cent. 5 50
» 5
» 3 50
» 5
» 5 50
» 9 50
» 11
» 5
Media e. 6 10
Media e. 5 56
Media e. 6 20
Cent.
Cent.
Cent.
Media e. 7 60
Media e. 1150
Media e. 8 10
Riuniamo ora in un solo quadro tutte le medie:
VITIGNO
Ad alberello
A tralcio lungo
Barbera
»
»
»
»
Fresia
Cent.
Cent.
8 75
9 20
9 10
6 90
8 50
7 45
8 45
6 10
5 56
6 20
\ Media e. 8 49
Media e. 6 75
Cent.
Cent.
12 50
1190
12 65
1120
10 10
11 16
8 37
7 60
1150
8 10
Mediac.il 6T
Media e. 9 34
Dall'esame di questi dati deducesi che a parità di vitigno, di suolo,
di esposizione e di altitudine, il sistema di cultura ad alberello in-
fluisce a far diminuire la lunghezza dei meritalli in proporzione molto
BOTANICA DELLA VITE
187
sensibile. Nel caso suddetto questa diminuzione risultò alquanto mag-
giore per il barbera che non p^l fresia: volendo stabilire un dato
medio pei due vitigni, avremo:
Viti a lungo tralcio cent. 10,50
Viti ad alberello
7,62
Differenza cent. 2,88
Ma quale importanza può egli avere per la pratica della viticul-
tura una maggiore o minore lunghezza dei meritalli?
Ignoriamo fino a qual punto i viticultori abbiano riflettuto ad un
simile quesito; crediamo però di non andar errati asserendo che po-
chi si sono curati di risolverlo. Eppure, come si vedrà dagli altri
dati che seguono, è a ritenersi che ad una minor lunghezza dei
meritalli corrisponde in generale una maggior fecondità nelle
gemme uvifere.
Ecco a questo riguardo alcuni dati esatti fornitici nel giugno del
1882 dallo stesso vigneto dove facemmo le precedenti osservazioni.
VITIGNO
LUNGHEZZA.
DEI MERITALLI
GRAPPOLI
PER GEMMA
Media di varii vitigni vecchi e a tralcio lungo . .
Media di varii vitigni vecchi a tralcio lungo ma
cimati
Barbera in filari distanti 4 m. coltivati a frumento
(età anni 8)
Barbera della stessa età ma cimata, e senza col-
ture negli interfilari
Pinot anni 4 a 6, specializzati, alberelli ....
Cabernet id. id. id
Grenache o Alicante id. id
Barbera id. id. id
Teinturier id. id. id
Bonarda id. id. id
Nebiolo id. id. id
Slarina id. id. id
Fresia id. id. id
Croetto id. id. id
Centim. 10 25
» 8 50
» 14 25
» 9 95
» 6 70
» 9 15
» 6 05
» 8 75
» 8 70
» 8
» 10
» 7
» 8 75
» 7
N. 1
» 1 25
» 0 60
75
30
Le misure furono prese tra la quarta e la sesta gemma dei tralci
uviferi lasciati alla potatura, cioè fra le gemme che sbucciando ci
188 CAPITOLO IV
avevano dato i germogli uviferi: i dati sovra riferiti sono le medie
di misure determinate su sei piante per ogni qualità.
Sin dal 1874 il prof. Carlo Hugues, avendo istituito varie ricer-
che sulla lunghezza dei meritalli nei vitigni coltivati a Rovereto, ebbe
a trovare, analogamente a quanto dicemmo or'ora, che i vitigni a
nodi corti eran i più ricchi in grappoli. Le sue osservazioni versa-
rono su vitigni tedeschi ed italiani, e confermarono pure il fatto già
accennato che la lunghezza degli internodi non è un carattere co-
stante delle diverse varietà di vizzati. D'altra parte anche qui si può
ricordare Y adagio, che non vi ha nulla di nuovo sotto il sole, poiché
il valente viticultore latino Plinio Secondo (C. Plini Secundi, Na-
turalis Historiae, liber XVII) aveva scritto fin dai suoi tempi, al
cap. 21, che la densità o spessezza delle gemme è indizio di fe-
condità: densitas gemmarum fertilitatis indicium est.
Concludendo, diremo che la lunghezza degli internodi può variare
a seconda dei sistemi di potatura, e che le gemme dei tralci ad in-
ternodi brevi sono in generale più feconde di quelle dei tralci a in-
ternodi lunghi.
5.° Fioritura delle viti. Eccoci ora all' importantissimo atto
della vita vegetativa che incomincia colla comparsa del fiore e ter-
mina coli' allegamento del frutto: della fruttificazione parleremo poi,
per ora diremo solo della fioritura propriamente detta e della fecon-
dazione dei fiori.
I fiori delle vite si presentano quasi sempre, come già sappiamo,
su germogli spuntati in primavera da gemme di tralci i quali hanno
un anno di vita, cioè di tralci dell' anno avanti. A questa regola
si danno, per quello che ci fu dato di constatare, due eccezioni:
1°) talvolta portano qualche raro grappolo quei polloni che nascono
sul ceppo o vecchio tronco della vite, specialmente nei paesi meri-
dionali, od in qualche vite a pergolato; 2°) talvolta vedonsi grappoli
sui getti estivi (le femminelle) che spuntano all'ascella delle foglie
dei getti primaverili: ma in rari casi si è potuto trarre partito da
queste fruttificazioni anormali.
La fioritura della vite è singolarmente favorita da una primavera
calda e moderatamente umida: è un errore quello di credere che l'u-
mido sia assolutamente dannoso ai fiori, perchè è a sapersi che senza
l'azione di esso sul polline la fecondazione non potrebbe aver luogo: i
granelli pollinici si gonfiano per endosmosi, le loro pieghe scompaiono
(pag. 145) ed essi finiscono per emettere il loro contenuto, d'onde
BOTANICA DELLA VITE 189
la fecondazione. Certo però le pioggie abbondanti sono molto dan-
nose, perchè disperdono il polline. Dannosissimo è pure il freddo, e
sovratutto il freddo accompagnato da molta umidità, nel qual caso
il fiore della vite abortisce facilmente.
L'osservazione ci ha pure appreso che la viva luce solare favo-
risce in modo singolare la fioritura della vite; per cui quando la
primavera si mantiene calda, con cielo abitualmente sereno, e mo-
deratamente umida, la vendemmia è in generale abbondante, se non
soppraggiungono avversità.
La fioritura avviene nell'ordine seguente: prima fioriscono i grap-
poli della base del germoglio, poi gli altri; e nel grappolo prima fio-
riscono gli acini che stanno presso il gambo: adunque la fioritura
avviene secondo lo stesso ordine con cui si formano i grappoli sui
tralci e gli acini sulla rachide.
Come ha luogo la fioritura della vite? Un tempo si riteneva che la
fecondazione degli ovuli avvenisse a vaso chiuso, cioè sotto la cuffia
della corolla quinquepetala (pag. 109); poscia si credette che la vite
appartenesse alla classe delle piante anemofile, cioè fecondate per
opera del vento, quale veicolo pel trasporto del polline; così essendo
è evidente che non può arrivare il polline sugli stimmi se non
quando la cuffia sia caduta. Ma oggidì si ritiene che siano gli m-
settì i pronubi della vite, e lo si argomenta anche dal fatto che i
fiori della vite sono provvisti, come già sappiamo (pag. 143) di glan-
dole nettariche che esalano gratissimo odore; queste glandole infatti
non si essicano se non quando la fioritura è finita.
Abbiamo fatto alcune ricerche sulla impollinazione nei fiori della
vite e vogliamo qui riferirle a complemento di quanto ora dicemmo.
Oramai, dietro le osservazioni dell'illustre botanico dott. Engel-
mann di San Luigi (Missouri), non v'ha più alcun dubbio che la vite
selvatica, ne' luoghi primitivi della sua origine (e ciò sia che si
tratti di" vite asiatico-europea, di vite americana o di qualsiasi altra
vera vite) è poligama; ciò vuol dire che vi sono le piante che por-
tano unicamente fiori maschi, e le piante che portano o fiori com-
pleti (maschi e femmine; ermafroditi) o rarissime volte fiori femminei;
in una parola fiori fertili, mentre i primi sono sterili. Faremo però
notare che i fiori fertili sono quasi sempre ermafroditi, perchè (come
dice Engelmann) non pare essersi mai osservati fiori femminei sprov-
visti di stami. Così se noi seminiamo dei vinacciuoli, otteniamo sog-
getti sterili e soggetti fertili; questi ultimi sono a fiori completi, e
190 CAPITOLO IV
sono quelli che noi prescegliamo per la coltura, distruggendo gli
altri, locchè ci pare un errore, come diremo fra breve.
La fecondazione dei fiori della vite può dunque aver luogo in tre
modi diversi, cioè con tre pollini; o col polline dei soggetti sterili, a
fiori maschi, o col polline di altri stami che non siano quelli dell'o-
vario fecondato, ma di fiori ermafroditi, o infine col polline dei cin-
que stami medesimi che circondano il pistillo o ovario fecondato. —
La prima maniera di impollinazione si chiama impollinazione o fe-
condazione dioica (1), la seconda, monoica (2), e la terza, omoclina.
Ora, le osservazioni già fatte da Hildebrand e da Delpino sull'a-
rancio e su altre piante, porterebbero a credere che la forza fecon-
dativa sia variabile nei tre suddetti casi d'impollinazione. Così, par-
rebbe potersi ammettere che quando ha luogo la fecondazione omo-
clina, si abbia l'infimo grado di forza fecondativa e per ciò zero semi
nell'acino d'uva; che quando invece ha luogo un'impollinazione mo-
noica, si abbia un grado sensibilmente maggiore, potendo variare il
numero dei semi da 1 a 2 a 3; e che infine quando può verificarsi
la fecondazione dioica, allora si abbia il massimo di forza fecondativa
e 4 vinacciuoli nell'ovario, cioè nell'acino.
Per vedere quanto, riguardo alla vite, si verifichi in natura a
questo proposito (poiché pare che fin'ora non siansi fatte esperienze
dirette, ma solo si sia scritto dietro congetture e raffronti) abbiamo
fatto le seguenti prove.
Varii grappolini d'uva barbera, i quali non erano ancora in fiori-
tura, vennero introdotti entro leggere boccettine di cristallo, chiudendo
poscia queste con cura attorno al gambo del grapp olino stesso, in
guisa che assolutamente non potesse penetrarvi verun insetto appor-
tatore di polline, e solo si avesse una leggera aerazione, Questi grap-
polini non potevano ricevere altro polline che quello dei loro stami; —
ciò non costituiva, è vero, una impollinazione omoclina propriamente
detta, perchè entro ogni boccettina vi erano varii fiori il cui polline
poteva incrociarsi, ma intanto era escluso il polline non solo di altri
grappoli dello stesso soggetto, ma altresì quello di altri soggetti, il quale
come vedremo, può avvicinarsi, in quanto ad attività fecondatrice, al
polline dei fiori maschi. L'uva allegò bene nelle boccettine, che furon
rotte a suo tempo, ed ecco il numero esatto dei semi che trovammo
in ogni acino:
(1) Ce ne porge un esempio comunissimo la canapa.
(2) Ce ne porge pure un esempio la meliga (maiz).
BOTANICA DELLA VITE 191
Con un solo vinacciuolo N. 210 acini
N. 280 acini \ Con due vinacciuoli » 60 »
di berbara j Con tre vinacciuoli » 10 »
\ Con quattro vinacciuoli » 0 »
Per confronto prendemmo ugual numero d'acini della stessa uva,
di vitigni allevati collo stesso sistema (alberello) e posti nello stesso
vigneto: ecco i risultati della controprova:
[ Con un solo vinacciuolo N. 40 acini
N. 280 acini ] Con due vinacciuoli » 60 »
di barbera \ Qon tre vinacciuoli » 100 »
\ Con quattro vinacciuoli » 80 »
Ci pare che questo esperimento dia ragione alle suddette conget-
ture, e permetta anche di "farvi qualche utile aggiunta per la viti-
cultura.
In primo luogo sta il fatto che quando un fiore di vite riceve il
polline d'altri fiori (meglio se questi fiori appartengono ad altri grap-
poli o ad altri soggetti), la fecondazione è sicura, efficace; ed au-
menta il numero dei semi, mentre questi senza dubbio darebbero sog-
getti assai robusti qualora fossero confidati al suolo. Converrebbe
dunque di avere frammezzo alle nostre viti varii soggetti maschi,
benché sterili, nella proporzione ad esempio di uno ogni cinquanta
ceppi di vite. La fecondazione in primavera si farebbe meglio, sa-
rebbe cioè completa, e non abortirebbero tanti fiori, come accade con
certe varietà dei nostri vitigni.
In secondo luogo si può ritenere che il polline dei fiori che ap-
partengono ad uno stesso grappolo, ha una debole forza fecondatrice
su quei fiori stessi, ed il numero dei semi si riduce ad uno circa per
acino; ci avviciniamo quindi alla fecondazione omoclina, con zero semi,
sulla quale converrà però fare esperienze dirette.
In terzo luogo può stabilirsi che il polline proveniente da fiori eh e
stanno su altri soggetti ermafroditi, od anche su altri grappoli dello
stesso soggetto, ha una forza fecondativa assai superiore a quella
del caso precedente, come risulta dall'esame dei 280 acini dell'espe-
rimento di confronto.
In quarto luogo infine è a ritenersi che nella fecondazione dei fiori
della vite v'ha un continuo incrociamento di polline, non solo tra un
192 CAPITOLO IV
grappolo e l'altro della stessa pianta, ma anche fra i grappoli dei
diversi soggetti: vuol dire adunque che i semi difficilmente riprodur-
ranno i caratteri individuali della pianta madre. Ciò infatti è oramai
noto a tutti coloro che hanno seminato vinacciuoli; anzi questo ibri-
dismo è molto temuto ora in Francia per le viti americane colà col-
tivate, dei cui semi si fa commercio, perchè si è osservato che ne
nascono soggetti meno resistenti alle punture della fillossera. A con-
ferma di ciò diremo che il professore G. Foéx, raccomandando
la seminagione di alcune viti americane, dopo aver consigliato di
« scegliere delle razze le cui proprietà di resistenza non siano state
« alterate dalla ibridazione colle nostre viti indigene » soggiunge
che conviene attenersi specialmente alle viti Riparia, « grdce à
« la hdtiveté de leur floraison, qui exclui tonte chance d'hybri-
« dation. » {Messager Agric. du Midi n. 2, 1880).
Osserveremo infine, che se la esperienza sovracitata conclude in
favore della impollinazione dicog amica (cioè mediante incrocia-
mento di polline) ciò è in perfetta armonia colle leggi naturali. La
dicogamìa infatti è legge universale, ed i botanici più insigni ci di-
cono che essa è valida e nel regno vegetale e nel regno animale,
nelle crittogame inferiori e nelle superiori, nelle ginnosperme e nelle
angiosperme, nelle dicotiledoni e nelle monocotiledoni. Sin dal 1793
Sprenghel scrisse: « pare che la natura abbia voluto che niun fiore
ermafrodita sia fecondato col polline proprio ». Knight, sette anni
più tardi, provò che se si adduce agli stimmi polline eteroclino, si
ottengono semi più numerosi e una posterità più robusta che non
altrimenti. Herbert nel 1837 concluse analogamente, accennando ad
un maggior numero di semi e ad una prole più robusta. Lo stesso
concluse Darwin nel 1858. Infine ci dicano uguali cose Delpino, Hil-
debrand, Axell, Ricca, Erm. Mùller, Fr. Mùller ed altri illustri bo-
tanici. Il nostro Delpino intanto diede a quella legge il nome di legge
della dicogamia.
Sta bene che nelle piante non si hanno sempre le nozze incrociate;
ma questa è una previdente disposizione della natura, dal momento
che i vegetali essendo immobili ed avendo organi sessuali pure im-
mobili, andrebbero incontro a molti inconvenienti riguardo alla fe-
condazione, locchè non si verifica nel regno animale. La natura ha
però provvisto che vi siano dei pronubi (insetti, uccelli melifagi,
vento, acqua, e in casi rarissimi le lumache) i quali si incaricano
di portare il polline eteroclino (che è il più attivo) da un soggetto-
BOTANICA DELLA VITE 193
all'altro. Tutto porta a credere che, nel caso della vite, siano le
mosche gli agenti principali della traslazione del polline o gli insetti
in genere come dicemmo più sopra; su di che ci riserviamo di fare
speciali osservazioni: — sta intanto che i fiori della vite non sono
adattati all'impollinazione per mezzo del vento. Naturalmente essendo
talvolta deficiente il numero delle mosche — per sfavorevoli condi-
zioni climatologiche in primavera — allora ha luogo una feconda-
zione con polline omoclino (cioè senza incrociamento): ma questo pol-
line è poco attivo, ed allora molti fiori possono abortire.
6.° Fruttificazione della vite. Ed eccoci all' atto fisiologico
precipuo, massime pel viticultore che chiede alla vite frutti abbon-
danti e di qualità pregiata. Vediamo anzitutto quanto riguarda il
tralcio frutticoso. Esso prende origine dalle gemme ascellari. La
gemma è verosimilmente in origine una cellula vegetale, cioè un
corpicciuolo tondeggiante formato da una membrana (cellulosa) rac-
chiudente un nocciolo di sostanza più consistente, il quale nuota in
un liquido; — quando poi il bottone è costituito ed ha perforato la
corteccia, presenta nel suo interno (cioè entro l'involucro delle scaglie
protettrici) un embrione di germoglio, del quale tutte le parti late-
rali — i rudimenti delle foglie e fors' anche delle gemme fiorifere,
foglifere o miste — stanno quasi diremmo rannicchiate, pieghettate
attorno ad un cortissimo asse (H. De Jussieu), per modo da occu-
pare il minore spazio possibile. Come avvenga che da una semplice
cellula si formi grado grado questo bottone, non lo si sa fin'ora; si
può solo ammettere con Raspail che la gemma si costituisca a spese
degli strati esterni dell'alburno, e che per segmentazioni incessanti
(strozzature) della cellula madre da cui trasse origine, essa finisca
per allungarsi sotto la corteccia, rendendosi infine esterna.
Ora se è vero che, consentaneamente alle razionali idee del Ra-
spai^ al ritorno della primavera l'alburno dovrà nutrire gli organi
più interni, fra cui cotali bottoni latenti, nessun dubbio che esso si
andrà esaurendo, passando in parte allo stato di libro, e confonden-
dosi per tal maniera col libro degli anni antecedenti, per poi passare
allo stato di corteccia ed infine essicarsi affatto. Quindi è che la
pianta sentirà un potente bisogno di riparare a queste perdite per
le quali il legno si fa alburno, l'alburno si fa libro, ed il libro cor-
teccia. Se la pianta si troverà in condizioni di provvedere a questo
suo accrescimento per intuscezione, vuol dire che avrà un alburno
ricco di materiali atti alla buona costituzione delle gemme ed al loro
0. Ottayi, Trattato di Viticoltura. 14
194 CAPITOLO IV
accrescimento; per cui ognuna di esse, uscita che sia di sotto la cor-
teccia, conterrà nel suo interno un embrione di germoglio provvisto
di parecchie gemme fiorifere. Allungatosi poi il germoglio a prima-
vera, cotali gemme ci daranno i grappoli. Ogni gemma ne contiene
allo stato rudimentale due o tre; è raro che non ve ne siano affatto;
ma non è egualmente raro il loro aborto, per cui il germoglio nasce
e si sviluppa senza portare frutti. Così quando la gemma si costi-
tuisce sotto cattive condizioni, sovratutto perchè la pianta è contra-
riata dal cattivo andamento delle stagioni, questi embrioni di grap-
poli possono benissimo fallire completamente, o ridursi ad uno solo
per bottone.
Nel tralcio frutticoso adunque si devono considerare: 1° i frutti
pendenti; 2° i bottoni frutticosi per l'anno successivo.
Passiamo ora a studiare le gemme, le quali sono la base della
fruttificazione.
Poiché i getti primaverili portanti uva nascono dà gemme, vuol
dire che il loro vigore, la loro potenza fruttificatrice sarà anzitutto
in relazione diretta colla fecondità delle singole gemme madri. Oltre
a ciò se questa gemma non troverà nel legno del tralcio (alburno)
e nel succo ascendente quella copia di alimenti che le tornano in-
dispensabili, specialmente durante i primi momenti del suo sviluppo
e della cresciuta del proprio germoglio, darà un getto meschino e
poco fruttifero. Dunque quello che è il suolo, ad esempio, per il
seme di frumento, è il tralcio di un anno per la gemina. Le
radici non hanno grande influenza nei primi momenti della germo-
gliazione e della cresciuta dei teneri germogli; prova ne sia che se
si pone in terra un pezzetto di tralcio munito di alcune gemme,
queste danno piccoli germogli anche prima d'aver cacciato radici, le
quali possano elaborare materiali del suolo. A suo tempo poi, e col
comparire delle foglie, le radici incomincieranno la loro opera ali-
mentatrice, perchè allora le fibre radicali della gemma stessa si sa-
ranno già intrecciate, o diremo meglio anastomizzate, colle fibre cor-
ticali del libro preesistente. Da questo punto il germoglio cessa di
essere un parassita, ma fa parte attiva del vegetabile, perchè le sue
parti verdi incominciano ad assorbire acido carbonico e fors' anche
ossigeno. Come si vede, havvi un periodo abbastanza lungo, durante
il quale la pianta madre deve alimentare del proprio non pochi pa-
rassiti; sono dessi i bottoni (veri svernatoi di Linneo) che spuntano
all'ascella delle foglie in primavera sui rametti dell'annata. Essi vi-
BOTANICA DELLA VITE 195
vono a spese della madre tutta l'estate, tutto l'autunno ed il verno
successivi, nonché una parte della primavera, benché già sviluppa-
tisi in teneri germogli, e non cessano dal loro parassitismo che al-
lorquando questi ultimi, per la loro corteccia recente (che è verde)
e poi per le prime foglioline, incominciano ad assorbire acido car-
bonico e fors' anche ossigeno in presenza della luce.
Durante tutto questo periodo si forma pertanto la fruttifica-
zione dell'anno agrario successivo, fruttificazione che sarà più
o meno abbondante a seconda delle condizioni metereologiche
alle quali sarà stata soggetta la pianta madre nell'anno agrario
precedente.
Le gemme infatti avranno risentito esse pure l'influenza di queste
condizioni atmosferiche e se la madre sarà stata contrariata nella
sua vegetazione, anche le gemme dovranno crescere mal costituite
e dare Tanno dopo germogli poco o punto fruttiferi. E tutto ciò
perchè ogni influenza metereologica alquanto costante, si tra-
duce in un fatto fisiologico più o meno importante.
La fruttificazione futura non sarà quindi altro che la risultante
delle varie influenze meteorologiche dell'anno anteriore, tenendo cal-
colo, ben inteso, della cooperazione del suolo e dei concimi, coope-
razione che noi possiamo già valutare in anticipazione con grande
certezza. Anzi, ci preme di insistere su questo punto, acciò non
si creda che siamo ciechi seguaci dell'antica massima annus fructi-
ficai, non tellus, che pecca alquanto di assolutismo, tuttoché sia in
parte giusta.
In conclusione: 1° La fruttificazione che in maggio vediamo
sulle viti, è il frutto d'un lavorìo interno della pianta, il quale
ebbe a durare 12 mesi o poco meno; 2° Le gemme spuntate su
tralci dell'annata, i quali più propriamente si debbono dire germogli,
e che mettono quasi un anno a costituirsi, possono dare, al loro schiu-
dersi, getti molto, poco o punto frutticosi; invece le gemme che sor-
gono sul legno di soli 2, di 3, di 4 e più anni, non possono (fatte
rarissime eccezioni) dare getti fruttiferi, per quanto siano bene co-
stituite fin dalla loro origine.
Orbene l'osservazione ha provato, come ci fu dato constatare per
oltre un ventennio (1), che « durante una primavera calda e so-
pratutto poco piovosa, nelle viti rigogliose, in terre fertili, ben te-
(1) Vedi il capitolo Carpoprognosia.
196 CAPITOLO IV
nute, dell'alta e media Italia, nonché nelle regioni alte e fresche del
Mezzodì, le gemme ascellari primaverili che debbono svolgersi nel
successivo anno, si organizzano bene. » Giovano pure allo stesso
intento uri estate ed un autunno egualmente caldi e poco pio-
vosi, e giova infine il non essere la pianta troppo carica di frutti.
Infatti i frutti, che sono veri parassiti della pianta madre, danneg-
giano anche e gravemente le dette gemme ascellari, ed è per questo
che due annate di copiosissima vendemmia può dirsi che non si se-
guono mai.
È superfluo poi soggiungere che i concimi ed i lavori oppor-
tuni aiutano, come diremo a suo luogo, la fruttificazione in modo
potente, e possono in parte, se non in tutto, rimediare alla si-
nistra influenza di cattive condizioni climateriche.
Vediamo ora le relazioni che passano fra le gemme ascellari, le
foglie e le femminelle. All'ascella della foglia ove trovasi la gemma
fruttifera, sorge spesso, per non dir sempre, una femminella, per cui il
bottoncello rimane collocato tra questa ed il picciuolo della accennata
foglia. Le femminelle già sappiamo che sono rimessiticci (o cacchii o getti)
che spuntano sul finire della primavera, specialmente su quei tralci uviferi
i quali furono spuntati al principio della stessa stagione. Cosi, dove
si cimano molto questi tralci frutticosi, le femminelle sono assai più
numerose che non colà dove non si pratica la cimatura, come pure
là dove le piante sono poco rigogliose. Ma a che cosa servono
le femminelle? Esse hanno due uffici, ed ambedue della maggior por-
tata. L'uno è quello di permettere col loro mezzo alla vite quello
sfogo vegetativo che le è indispensabile, siccome pianta per natura
rampicante e tendente ad estendersi per ogni verso. L'altro è quello
di giovare alla fruttificazione dell' anno susseguente a quello della
loro vita vegetativa. Bisogna che spieghiamo bene questi due punti,
perchè speriamo cosi di poter dissipare varii errori che si commet-
tono nel cimare. La vite è un frutice a rami rampicanti, i quali,
se l'uomo non intervenisse col ferro a moderarne il rigoglio, si esten-
derebbero rapidamente, e quasi diremmo prepotentemente da ogni
lato, avvitichiandosi coi capreoli ai sostegni e salendo lunghesso i
medesimi sino a grandi altezze. Se il viticultore inceppa questa ten-
denza naturale della preziosa nostra ampelidea, accade che essa ne
soffre più o meno a seconda del suo stato di robustezza; ed in tesi
generale può stabilirsi che i tagli ripetuti, energici e frequenti,
siano essi su rami giovani o vecchi, sono sempre dannosi alla
BOTANICA DELLA VITE 197
pianta nel senso che ne provocano il precoce invecchiamento. Of-
fendendo i rami, infatti, noi offendiamo le radici. Ma se il viticul-
tore avveduto limita al puro necessario le amputazioni alle sue viti,
può averne eccellenti risultati. Si osservi che cimando i tralci uvi-
feri spuntati a primavera, spunta tosto a fianco alla gemma ap-
pena nascente che si disegna su di essi, una femminella, oltre alla
consueta foglia. È codesta la manifestazione d'un prepotente bisogno
naturale della vite: il viticultore le impedisce di allungarsi ed esten-
dersi per mezzo dei tralci uviferi che egli le ha spuntato, ed essa
caccia rimessiticci coi quali può liberamente espandersi. Se il viti-
cultore allora spunta o cima anche questi rimessiticci, la vite manda
fuori delle sotto- femminelle, perchè quello che fu chiamato sfogo
vegetativo le è indispensabile. Ed ecco qual' è il primo ufficio delle
femminelle.
Ma dicemmo anche che esse giovano pure alla fruttificazione fu-
tura, e precisamente a quella dell'anno che segue. Si badi infatti che
l'umile bottone che sta alla loro base, cioè presso il loro punto d'in-
serzione, non può provvedere da solo che molto debolmente alla sua
cresciuta, né perfezionarsi secondo quanto dicemmo più sopra. Il suo
potere assorbente è assai poca cosa, massime relativamente al ter-
reno: esso si accresce a spese dei materiali del tralcio stesso, ma
noi riteniamo, dietro 1' osservazione di moltissimi fatti, che ciò non
gli basti per farsi uu turgido bottone fruttifero. La natura però ha
pensato a codesto, e lo ha provveduto di una foglia che gli sorge
accanto. Anche ciò è ottimo per la buona costituzione della gemma,
perchè la foglia, che è il laboratorio della pianta, lavora anzi-
tutto a beneficio della sua gemma ascellare. Queste gemme
ascellari però non danno sempre molta uva; le prove di ciò sono
qui in Monferrato, di dove scriviamo, numerosissime, e lo consta-
tammo molte volte osservando i getti non fruttiferi dello sperone.
Ma se, come fa taluno, si provoca lo sviluppo delle femminelle ac-
canto alle gemme dei futuri speroni, ecco che l'anno dopo si ha uva.
Adunque la femminella coadiuva potentemente la foglia suddetta a
fecondare la gemma, la quale allora presenta altresì sotto di sé, in
autunno, un bel rigonfiamento del legno (una specie di mensoletta
o cuscinetto polputo) racchiudente una sostanza di apparenza ami-
lacea, la quale funge la stessa parte che fungono nei semi i cotile-
doni; cioè deve alimentare il tenero germoglio nella successiva pri-
mavera sino a che esso non abbia cacciato le foglie ed intrecciate
le sue fibre radicali, colle fibre corticali del libro.
198 CAPITOLO IV
Ma non tutte le gemme d'un tralcio frutticoso sono feconde,
e fra le feconde non tutte lo sono in uguale misura. Generalmente
parlando le prime gemme dei capi a frutto sono poco frutticose, e
sono poi sempre meno feconde delle gemme che stanno sulla parte
mediana e sulla parte estrema dei capi stessi. Queste gemme infe-
riori si possono a dirittura considerare come sterili allorquando si
sono organizzate sotto la influenza d'un'estate umida e poco calda:
infatti in questo caso le viti continuano senza posa a cacciare fem-
minelle e foglie e bottoni ascellari, e perfino femminelle sulle femmi-
nelle, e per ciò le gemme che si trovano alla base del futuro tral-
cio frutticoso non possono organizzarsi bene, ed i loro serbatoi riescono
meno bene provvisti di materiali utili: ciò non accade alle gemme
della parte superiore del futuro tralcio, perchè essendo questa por-
zione di tralcio penzoloni, ricurvata ed assai meglio esposta alla luce
ed al calore, quelle gemme si fanno più turgide e feconde, coi loro ser-
batoi ben forniti di materiali nutritizii. Infatti se restate trascorre
molto umida accade che le gemme meglio sviluppate sono quelle
della punta dei germogli primaverili. Potando corto, in questi
casi, si otterrebbe ben poca uva perchè si reciderebbe la parte mi-
gliore del tralcio; per questo noi crediamo che la potatura debba su-
bire da un anno all'altro qualche variante, che il viticultore stabi-
lirà dietro l'osservazione attenta delle condizioni meteorologiche cui
la vite fu soggetta durante il periodo in cui si prepara la fruttifi-
cazione futura.
Il perchè le gemme della base dei tralci frutticosi siano general-
mente assai meno frutticose di quelle della parte mediana e della
estrema, ci pare di poterlo rintracciare considerando quanto segue:
noi sappiamo che se si piega orizzontalmente a primavera un tralcio
frutticoso, il succo subisce un rallentamento nel suo moto, ed i bot-
toni si costituiscono assai bene, facendosi turgidi e fecondi, mentre
è pur noto che i tralci diritti o verticali danno sempre pochis-
simi frutti. Consentaneamente a ciò noi vediamo che sono poco o
punto feconde le gemme le quali si trovano sulla porzione verticale
dei tralci, mentre quelle cresciute e sbucciate sulla porzione oriz-
zontale o ricurva sono assai più ubertose.
Non bisogna però scordare la efficacia delle cimature graduali,
fatte prima della fioritura, sulla fecondazione dei bottoni inferiori del
futuro tralcio a frutto; quelle svettature oltre a cagionare esse pure
un arresto nel movimento della sava, provocano l'uscita delle fem-
BOTANICA DELLA VITE 199
minelle a lato dei bottoni medesimi; le quali femminelle, come dice-
vamo or ora, loro recano non piccolo giovamento. Ma lasciamo in
disparte per ora le cimature e stiamo al nostro argomento, cioè
alla maggior fecondità delle gemme medie e superiori dei tralci a
frutto.
Le gemme di un tralcio, che vuoisi destinato alla futura fruttifi-
cazione, si possono a nostro avviso dividere in due gruppi: le prima-
verili e le estive. Le prime si disegnano sul tralcio crescente, gene-
ralmente in maggio ed in parte di giugno; le seconde si formano in
giugno e luglio ad un dipresso: or bene, la differenza che passa,
meteorologicamente parlando, fra le dette due stagioni si traduce in
una differente fecondità delle gemme frutticose, e ciò a parte l'in-
fluenza della piegatura del tralcio, delle cimature, delle incisioni anu-
lari e via dicendo.
Infatti le gemme che chiamammo primaverili nascono in una sta-
gione meno calda e spesso più umida che non le estive; il succo
nutritore è allora più acquoso, e l'analisi chimica ci dice che la sua
composizione varia sensibilmente col progredire della stagione. E
varia anche innalzandosi nella pianta, perchè nel suo tragitto si ca-
rica di materia organica; è per questo che nella linfa della parte in-
feriore della vite v'ha invece predominio di materia minerale (pag. 174).
Le gemme estive adunque, che sono poi le superiori, si trovano in con-
dizione di meglio organizzarsi; nei loro serbatoi si accumula quindi
molta sostanza amilacea, ed a ciò contribuisce lo stesso calore estivo,
infine sono più feconde l'anno successivo.
Concludendo si potrebbe consigliare a parer nostro l'accecamento
delle due gemme inferiori, al massimo tre, del tralcio frutticoso (1)
perchè con esso si ottengono varii vantaggi, cioè 1°) s'impedisce l'uscita
di germogli quasi sempre infecondi, e veri ghiottoni; 2°) si favorisce
l'allegamento dei frutti perchè si impedisce un soverchio adombramento
dei grappolini nascenti; 3°) si favorisce lo sviluppo dei getti dello
sperone; 4°) si rendono feconde in certa misura anche le gemme de-
gli speroni stessi; 5°) infine si ottiene un maggior prodotto, senza
scapito nella vigorìa della pianta, perchè si usufruttano le gemme
più feconde del tralcio fruttifero.
(1) Fu proposto ed attuato con pieno successo dal compianto Dr. Luigi Van-
nuccini di Scansano (V. la nostra Monografia sul sistema razionale Yannuc-
cini edita nel 1881 in Casale).
200 CAPITOLO IV
Sulla fecondità del tralcio frutticoso, oltre alle cause sovra enu-
merate, esercitano pure una marcata influenza le seguenti altre.
Anzitutto accenneremo al movimento più o meno rapido della
linfa: è un fatto bene accertato in fisiologia vegetale che il ritardo nel
movimento della sava o succo nutritore, favorisce la produzione
dei frutti, alimenta meglio le gemme ascellari, e rassoda il le-
gno dei tralci; mentre V acceleramento favorisce la produzione
delle foglie e delle tenere messe erbacee. Ciò è esatto anche per
la vite. La fisiologia vegetale ci insegna però anche che questo ri-
tardo nel movimento della sava, allorquando è tale da arre-
stare la vegetazione, finisce per arrecare grande nocumento
alla pianta ed ai frutti. Numerosissimi sono i fatti dai quali si
desunsero i due principii qui esposti; gli albericoltori e gli stessi or-
ticoltori ce ne forniscono molti. La cimatura dei meloni e di
varie altre cucurbitacee, quella dei piselli e dei pomodori, quella del
maice, la curvatura dei rami troppo diritti, le incisioni anulari sulla
corteccia e via dicendo, sono tutte operazioni (che quasi costitui-
scono una vera ortopedìa vegetale) le quali hanno per iscopo di ri-
tardare il movimento del succo nutritore, per favorire i frutti, o le
gemme, o il legno, a seconda dei casi.
La pratica adunque ci insegna a sua volta che se si piega orizzon-
talmente a primavera un tralcio frutticoso, il succo subisce un
rallentamento nel suo moto, ed i bottoni si costituiscono assai
bene, facendosi turgidi e fecondi secondo quanto premettemmo
testé, mentre i tralci diritti o verticali danno sempre pochissimi
frutti.
Le cimature graduali (1) cagionando esse pure un arresto nel
movimento della sava, giovano a raggiungere lo stesso intento.
In Toscana la piegatura è praticata artificialmente ogni anno e
si effettua sul finire di giugno. È pure praticata in Monferrato, nel-
l'Astigiano ed ovunque con successo, massimamente se le viti sono
vigorose. Pelle viti deboli o vecchie essa sarebbe però superflua;
ma per certi vitigni (bonarda, grignolino) essa è indispensabile. Vo-
(1) Osserveremo che « per cimatura intendiamo quella operazione mercè cui
si esporta l'estremità dei germogli, estremità la quale ha l'aspetto d'un piccolis-
simo ventaglio; tale operazione si deve fare coli' unghia. » La cimatura dunque
non è né una sfogliatura, né una scacchiatura, come erroneamente molti cre-
dono; con essa si esporta unicamente la piccola vetta del germoglio, e si fa quindi
una vera svettatura.
BOTANICA DELLA VITE 201
lendosi praticarla, si devono anzitutto recidere i capreoli o viticci ai
tralci frutticosi che dovranno servire per il prossimo anno, e poscia
lasciare ohe da sé si facciano penzoloni od orizzontali, salvo poi ad
appoggiarli agli altri tralci vicini- però senza far ombra, perchè la
luce solare loro giova assai.
Influiscono pure sulla fecondità dei tralci frutticosi i lavori op-
portuni nel vigneto, coi quali si ottengono due risultati: il primo è
la distruzione delle male erbe che recano grave danno alle viti
togliendo loro alimento e bevanda; il secondo quello di concentrare,
se così possiamo dire, la freschezza nel suolo, e ciò per la ragione
che un terreno smosso, riempiendosi di bolle d'aria, diventa coibente,
cioè cattivo conduttore del calorico, epperciò si riscalda meno; onde
le radici stanno in ambiente fresco; si aggiunga poi che la terra zap-
pata assorbe meglio le rugiade notturne.
I concimi appropriati esercitano pure una notevolissima influenza
sui tralci frutticosi. Ma a questo riguardo è bene fare alcune distin-
zioni; anzitutto è oramai provato che il letame e gli altri concimi
molto attivi giovano assai nei primi anni del piantamento, per-
chè fanno sviluppare bene e presto le parti legnose che debbono
costituire la pianta. In avvenire, invece, non bisognerà eccedere
nella dose del letame di stalla e dei concimi ricchi di ammoniaca,
perchè usando ingrassi assai azotati si ha più uva, ma vino
meno pregevole, più ricco di albuminoidi e perciò più facile
ad alterarsi.
Infine il metodo di potatura ed il momento in cui si effettua
questa importantissima operazione influisce pure assai sulla fecon-
dità dei capi a frutto. Studiando la potatura scenderemo ai dettagli;
qui ci limiteremo a dire che: 1°) un eccesso nella potatura rendendo
la vite stanca in poco tempo, rende pure meno fertili i tralci frut-
tiferi; 2°) che simili viti estenuate è meglio potarle in autunno, cioè
subito dopo la vendemmia, quando le foglie sono ancora alquanto
verdi e continua qualche movimento nei succhi; questi succhi ven-
gono così usufruttati a beneficio delle gemme frutticose dei tralci
uviferi, i quali appunto per ciò non si debbono sfogliare; 3°) la vite
in condizioni quasi normali, cioè non troppo rigogliosa, ma nemmeno
spossata, si deve potare più tardi; nel verno, ad esempio; 4°) infine
la vite giovane e robusta si deve potare tardi in primavera, ma
sempre prima nei paesi caldi che non nei freddi. Queste viti rigo-
gliose, che crescono su terre feraci, massime se si trovano nell'Italia
202 CAPITOLO IV
superiore, ove la primavera è spesso umida assai, è indispensabile
che piangano molto, se pur si vogliono evitare i gravissimi danni
dell'aborto dei fiori.
Da quanto qui dicemmo si deduce poi che le viti poste in terre
aride, quelle dei climi assai caldi, o esposte al sud o coltivate sui
poggi, o composte di vitigni molto feraci e produttivi, debbono po-
tarsi prima che non le viti poste in terre fertili, quelle dei climi
mediani o freschi, o esposte al nord, o coltivate nelle piane, o com-
poste di vitigni a produzione scarsa, a lunghi internodi e che sof-
frono per le primavere umide. Quando poi una vite avesse sofferto,
o avesse portato troppa uva, o avesse avuto per vicini, negli inter-
filari, il frumento, la segale, ecc., o peggio le male erbe, e non si
fosse vangata o zappata che una sol volta, essa dovrà potarsi prima
che non la vite che abbia vegetato in condizioni normali; e ciò per-
chè avvantaggi un po' neh' autunno, come dicemmo or ora, e non
pianga troppo in primavera, perdendo quel succo di cui ha tanto
bisogno e che in essa non è sicuramente esuberante.
La conclusione generale di quanto abbiamo detto riguardo alla
fruttificazione della vite, è questa: che la vite deve essere bensì vi-
gorosa, ma entro certi limiti, oltrepassando i quali si otterrebbe più
legno che frutti; bisogna quindi trasformare il vigore in fecondità;
inoltre il viticultore deve risolvere ogni anno un triplice problema,
vale a dire deve predisporre bene nelle gemme ascellari la fruttifi-
cazione del successivo anno; deve badare di non recare danno al
vigore ed alla longevità della pianta; infine deve aiutare l'ingrossa-
mento ed il perfezionamento dei frutti pendenti, del che diremo fra
poco.
Ognuno vede quindi quanto difficile sia il compito del viticultore,
e come gli sia indispensabile 1' aiuto della fisiologia vegetale nell'e-
sercizio della sua arte, poiché il solo empirismo non potrebbe trac-
ciargli una via sicura.
7° Maturazione dell' uva. Fintantoché 1' uva è verde essa si
comporta come le foglie (1) vale a dire che essendo clorofìllata as-
sorbe, benché con debolissima attività, acido carbonico ed emette os-
sigeno; ma dal momento in cui al colore verde subentrano il rosso
(1) Frémy (Comptes rendus de VAcadémìe des Sciences, t. 58 pag. 656) « Il
« frutto verde agisce sull'atmosfera a modo delle foglie, decomponendone l'acido-
« carbonico sotto l'azione della luce solare ecc. ».
BOTANICA DELLA VITE 203
od il giallo (e secondo Bérard anche prima) 1' uva inspira ossigeno
ed emette acido carbonico ed acqua, cioè respira (pag. 158), La ma-
turazione è quindi una vera ossidazione, cioè una combustione lenta.
Queste combustioni insensibili, non essendo accompagnate dalla pro-
duzione di luce e calore (come accade ad esempio quando abbrucia,
cioè si ossida, la legna nel focolare) sono ignote al volgo dei viti-
cultori; ma pure conviene avvezzarsi a considerare siccome combu-
stione anche la ossidazione, a fine di intendere in qual modo avvengano
quei cambiamenti nell'acino che da acerbo lo fanno divenire maturo.
Adunque mano mano che il colore verde va scomparendo dall'uva,
varii dei suoi componenti si ossidano, si abbruciano, si distruggono
dietro le azioni chimiche che avvengono fra di loro; e così una parte
degli acidi vegetali ossidandosi si cambia in acido tartarico, che si
combina poi colla potassa, d'onde il bitartrato di potassa che aumenta
nell'uva mano mano che questa va maturando; l'altra parte degli acidi
pure ossidandosi è abbruciata e si cangia in acido carbonico ed acqua
che, come dicemmo, sono emessi dall'uva. Il tannino in parte si muta
in zucchero (1) ed in parte emigra sotto la buccia, ove si trova sempre
unito alla materia colorante, e nel tegumento esterno dei vinacciuoli
(pag. 149). Abbiamo quindi una continua diminuzione di principii
acidi nella polpa dell'uva.
Ma la maturazione dell'uva non consiste solamente in questo fe-
nomeno di ossidazione; vi ha altresì quello importantissimo della for-
mazione e della emigrazione dello zucchero negli acini. È fuor
di dubbio che negli acini si forma direttamente dello zucchero, a
parte cioè quello che loro viene dalle foglie: essendo essi clorofillati
producono zucchero benché in quantità molto limitata. Lo abbiamo
constatato in piante di viti spogliate quasi totalmente dalle loro foglie
per causa della peronospora mentre gli acini erano appena sul prin-
cipio della maturanza e quasi del tutto verdi; contuttociò il loro
mosto conteneva piccole quantità di glucosio. Gli è sotto 1' azione
della luce, del calore e dell'umidità che nella polpa dell'acino avven-
gono quelle trasformazioni per cui le mucilaggini, la pectina, le
gomme ed altre sostanze le quali si possono considerare come zuc-
(1) Secondo Mayer e Sachs (Vedi A. Levi: Rivista di Vii. ed En. di Conegliano
1879, pag. 72. — Ciò però è ora contraddetto, ed il Prof. Comboni (Trattato di
Enochimica pag. 73) dice che oggi « non si crede più alla importanza del tan-
nino nella formazione del glucosio ».
204 CAPITOLO IV
cheri imperfetti, si mutano in parte in zucchero d'uva; tutto ciò stu-
elleremo più in disteso al capitolo Meteorologia viticola.
Senza dubbio però la maggior parte dello zucchero, come già di-
cemmo a pag. 164, si forma nelle foglie e di qui emigra negli acini
a traverso i peduncoli dei grappoli ed i pedicelli degli acini stessi.
Fra le molte esperienze fatte per dimostrare questa formazione di
glucosio nelle foglie le più accurate sono certo quelle del compianto
Dr. Macagno. Eccone le conclusioni:
1° Nelle foglie della vite vi sono quantità considerevoli di glucosio,
ivi preparato a vantaggio dei grappoli sottostanti; 2° il glucosio
abbonda principalmente nelle foglie della punta dei tralci frutticosi,
cioè nelle foglie estreme del germoglio uvifero, mentre si trova in
quantità minore nelle foglie situate inferiormente rispetto ai grappoli
del tralcio stesso, nonché in quelle che sono destinate unicamente
alla produzione legnosa ; 3° in conseguenza di ciò le sfogliature
(non le cimature) fatte in giugno, luglio ecc., mercè le quali s1
scacchia, cioè si esporta tutto quanto sta al disopra della terza o
quarta foglia oltre l'ultimo grappolo, sono generalmente nocive alla
vite, che dà allora poca uva ed uva mal matura e poco zuccherina;
4° la piena luce solare attiva la funzione delle foglie, e quindi ajuta
potentemente la maturanza dell'uva, oltre ad aver ajutato dapprima
la fioritura, impedendo che i grappolini si trasformassero in viticci.
Ecco infatti alcune analisi comparative:
Uva delle viti Uva delle viti
scacchiate (sfogliate) non
in estate scacchiate
Glucosio, o zucchero (p. 100) 14,600 17,541
Acidità totale (per 1000) . . 14 13,200
Quantità di mosto (in peso) . 581 (p. 1000 peso grapp.) 620 (p. 1000)
La maturazione dell' uva adunque risulta dalla ossidazione d' una
parte degli acidi organici della polpa dell'acino, dalla formazione di
zucchero negli acini stessi e sovratutto dallo zucchero che vi si ac-
cumula proveniente dalle foglie e dalle altre parti verdi della vite.
Staccata che sia l'uva dal tralcio è evidente che possono conti-
nuare a verificarsi nel suo parenchima i soli fenomeni di ossidazione;
ed infatti le esperienze del Prof. Pollacci, del Prof. Pasteur e di altri,
hanno dimostrato che nelle uve, dopo la loro separazione dalla pianta,
continuano a diminuire gli acidi, che vi sono come bruciati: noi stessi
usiamo tenere le uve poco mature, ma sane, ammucchiate senza rom-
BOTANICA DELLA VITE 205
perle entro tini, perchè abbiamo constatato che vi aumenta il per-
cento di zucchero e diminuisce l'acidità complessiva. È questo il me-
todo del portoghese Sampayo, che anche Vauquelin e Maumené
hanno trovato efficace per favorire la maturità dell'uva vendemmiata.
Il Prof. Pollaccì trovò però che la diminuzione degli acidi e quindi
l'aumento dello zucchero hanno un limite; infatti la quantità di zuc-
chero, oltre un dato punto, incomincia a diminuire e continuando
sempre la ossidazione sovra accennata, la polpa dell'acino finisce per
essere decomposta del tutto, tanto più perchè vi si manifesta anche
una speciale fermentazione, d'onde la produzione dell' acido carbo-
nico (1): allora lo zucchero sparisce totalmente, il pericarpio si di-
sorganizza ed i vinacciuoli sono allora liberi. Quest'ultimo è lo scopo
della natura, perchè essa provvede essenzialmente alla riproduzione
della pianta, ed infatti il vinacciuolo in quello stadio di disfacimento
dell'acino è maturo ed ottimo per la seminagione. Ma il viticultore
ha uno scopo diverso; egli poco si cura del seme, ed invece vuole
un acino che contenga il massimo di zucchero; quindi lo raccoglie
nel punto culminante della maturanza. La prima dunque si potrebbe
chiamare maturità botanica; la seconda maturità agricola, pren-
dendo ad imprestito una dicitura di Gasparin.
Vediamo ora quali agenti favoriscano sovratutto la matura-
zione. Dietro numerosissime osservazioni (2) da noi fatte non in la-
boratorio ma nei vigneti stessi e per molti anni consecutivi, crediamo
di poter stabilire che ciò che contribuisce a rendere più volumi-
nosi gli acini ed il loro succo più ricco in sostanza zuccherina
e per conseguenza non soverchiamente aspro né troppo ricco di al-
buminoidi, è il concorso in solido dei tre fattori luce, calore ed
umido. Se facesse difetto l'azione di uno di questi fattori, qualunque
esso fosse, la maturazione riescirebbe imperfetta; è adunque indi-
spensabile il loro concorso, come è indispensabile ognuna delle tre note
musicali di un accordo perfetto per produrre questo accordo stesso.
a) Circa alla influenza della luce è dimostrato in modo irrefu-
tabile (3) che se essa non è viva e potente, il calore non basta, col-
(1) Frémy (loc. cit.) dice che si possono ottimamente conciliare le due opinioni
di Chatin (sviluppo di acido carbonico derivante da ossidazione) e di CaJiours
(sviluppo di acido carbonico per causa di fermentazione).
(2) Le accenneremo in disteso al capitolo Meteorologia applicata alla viticultura.
(3) Il Dr. A. Levi dopo molte accurate osservazioni è venuto a concludere che
« la luce esercita una influenza rimarchevole sul fenomeno della maturazione delle
uve » Annales Agronomiques (1881).
206
CAPITOLO IV
l'umido, per portare gli acini a quel grado di ricchezza zuccherina
che caratterizza le uve delle annate ottime. L'estate adunque deve
trascorrere non solamente calda, ma con un cielo abitualmente
scoperto. La luce, quando proprio sia intensa, come nelle belle
giornate di luglio, di agosto e di settembre, forza per così dire il
vitigno ad assorbire dal suolo tutta quanta l'umidità che esso con-
tiene; ma allora la stessa luce provoca altresì una attiva evapora-
zione di questo umido dalle foglie; or siccome l'evaporazione è una
fra le principali cause determinanti il movimento dei principii imme-
diati necessarii alla maturazione, ne consegue che più è attiva quella,
più completa è questa; e quindi infine le uve riescono più ricche in
zucchero;
b) In quanto al calore esso agisce come agisce la luce, e tutti
sanno che è indispensabile; ma è altresì comprovato che se si pon-
gono due piante, una all' ombra e 1' altra al sole sullo stesso ter-
reno, la prima (anche ad una maggior temperatura) evapora assai
meno che la seconda. Dehérain fece di più ancora: mise tre piante
una al sole, l'altra alla luce diffusa e la terza nella oscurità compietà,
tutte e tre a 20° C. Egli ebbe ad osservare che mentre la prima
evaporò gr. 88 circa d'acqua per ogni 100 di foglie, la seconda non
ne evaporò che 17 e la terza un solo gramma. Il dottor Macagno,
nelle accennate esperienze fatte a Gattinara, ha trovato che le
viti tenute sotto una tela nera (le quali perciò ricevettero dall'aprile
a tutto luglio pochissima luce solare) ma ebbero a godere di una
maggior temperatura, vegetarono malissimo, e nelle loro foglie non
trovò traccia di glucosio. Riassumeremo in una tabella i principali
risultati ottenuti dal Dr. Macagno su viti di Nebiolo.
Temperatura media dal 20 aprile a
tutto luglio
Quantità di tralci
Glucosio (nei tralci con foglie) . . .
Acido tartarico
Acido carbonico nella cenere . . .
Cenere pura
Calce
Potassa totale
Acido fosforico
All'aria
libera
21°.13C.
100
126,01
90,15
30,71
154,12
21,81
31,91
2,15
Sotto tela
bianca
27°.53 C.
80
69,29
53,52
20,83
102,53
15,34
20,02
1,47
Sotto tela
nera
33°.90 C.
10
nulla
1,36
0,44
8,22
0,87
1,34
0,07
BOTANICA DELLA VITE 207
Questi dati son disposti in modo che stanno fra loro come 100
ad 80 a 10, ponendo eguale a 100 la quantità di tralci prodotti
dalle viti poste in condizioni naturali. Essi dimostrano in modo evi-
dente: 1° che il calore non basta; 2° che un maggior calore non
giova affatto a supplire alla deficienza della luce. Infatti noi ab-
biamo osservato che nel 1874, nonostante che la vite, in Monferrato,
avesse avuto circa 2600 gradi di calore, il mosto era poco zucche-
rino e ricco di acidi liberi, e ciò perchè il cielo, dal maggio al set-
tembre, era stato abitualmente coperto, e s' avevano avuto soli 39
giorni di perfetta serenità e di viva luce solare. (Vedi pei molti det-
tagli il nostro Giornale Vinicolo, 1875, pag. 355, voi. L);
e) Infine, per quanto riguarda Yacqua, è noto che se essa scar-
seggia le uve tardano anche fino al novembre a maturare, e spesso
maturano male assai, facendosi allora lentissimi ed incompleti quei
processi chimici per cui il frutto da acerbo si fa maturo (1); ciò ac-
cade in varie delle nostre plaghe del Mezzodì, quantunque le viti
abbiano colà luce e calore ad esuberanza. A tal riguardo citeremo
una esperienza fatta nelle nostre viti di Ajaccio (in Corsica): certe
uve non maturavano se non nel novembre e sempre con grande
stento ed imperfettamente: un anno si deliberò di annacquare al piede
le ceppaie due volte per settimana; però non si riuscì con questo
espediente a far maturare i grappoli (2). Allora supponendo che
V acqua potesse direttamente entrare nei frutti per endosmosi,
fecero aspergere i grappoli e le foglie; or bene la cosa si avverò
appunto in questo senso, perchè l'uva maturò prontamente ed assai
bene. Altri nel nostro Mezzodì praticarono con uguale successo l'a-
spersione dell'acqua sui frutti restii a maturare, per cui è questo un
fatto oramai acquisito per la fisiologia vegetale. Infatti si può facil-
mente dimostrare che vi ha endosmosi tra l'acqua che sta sugli a-
cini ed il liquido racchiuso nell'acino stesso: a tal uopo si immergano
nell'acqua degli acini d'uva dopo averli esattamente pesati; si lascino
nell'acqua alcuni giorni, e dopo si ripesino. Si troverà una differenza
molto sensibile nel loro peso. Continuando poi a lasciarli nell'acqua,
(1) Il contadino siciliano dice ben a ragione che « la pioggia nei primi di a-
gosto riempie il tino di mosto ». E noi, dell'Alta Italia, diciamo: « chi zappa la
vigna in agosto, la cantina riempie di mosto » perchè la zappatura vale almeno
una innaffiatura, come dimostreremo a suo .luogo.
(2) La stagione essendo troppo avanzata, verosimilmente non vi era più assor-
bimento per mezzo delle radici.
208 CAPITOLO IV
finiranno per iscrepolarsi dopo cinque, sei o più giorni a seconda
dell'elasticità del tessuto epidermico, precisamente come talvolta ac-
cade degli acini sulla pianta. — J. Boussingault trovò che due granelli
di tokai, i quali pesavano prima dell'immersione grammi 7,66, cinque
giorni dopo pesavano grammi 8,07: per cui in questo frattempo s'e-
rano introdotti dentro grammi 0,41 di acqua, cioè gr. 0,082 per
giorno. Nell'acqua poi trovò dello zucchero, segno che la fiocine
(volg. la pelle) aveva agito come una membrana interposta fra due
liquidi mescolabili e di diversa natura.
Concludendo adunque, gli è col concorso in solido degli agenti
luce, calore ed umido, cui converrebbe aggiungere altresì la elet-
tricità (1), che V acino si arricchisce in zucchero e si fa più
voluminoso. Sull'importanza dello zucchero nel mosto è assoluta-
mente superfluo di insistere; ma in quanto al volume maggiore o
minore degli acini stessi, diremo qualche cosa forse non osservata
da tutti i viticoltori, ed è che la quantità del mosto aumenta
assai di più coli 'aumentare del volume degli acini, che non col-
V accrescersi entro certi limiti $el numero dei grappoli. Diciamo
a bello studio « entro certi limiti » e ognuno intende il perchè di
questa riserva: ma è un fatto che, ad esempio nell'anno 1878 le
piante di viti (alberelli) aventi 18 grappoli per ciascheduna, diedero
in complesso una quantità di mosto sensibilmente minore che non le
piante di viti (pure alberelli) aventi nell'anno successivo soli 12 grap-
poli. Ciò dipese dal fatto che questi ultimi grappoli avevano gli acini
più grossi (perchè dopo i calori estivi caddero alcune benefiche piogge);
ora noi sappiamo come per legge matematica, per poco che aumenti
il diametro degli acini, aumenta d'assai e si raddoppia o triplica la
quantità del mosto che essi possono contenere. Ecco le prove dirette
da noi fatte nel 1879 al nostro podere Cardello, dove per la prima
volta si studiò questo fatto:
40 acini di barbera del diametro medio ognuno di millim. 18,5,
pesarono gr. 99,91:
40 acini di bonarda del diametro di mill. 16 pesarono gr. 76,31:
40 acini di grignolino del diametro, ancor minore, di mill. 14
pesarono soli gr. 53,32. Adunque gli acini di barbera benché non
avessero che circa 4 millim. di più di diametro, pure contenevano
quasi il doppio di mosto. Il viticoltore deve pertanto procurare
(1) Di ciò ci occuperemo al capitolo Carpoprognosia.
BOTANICA DELLA VITE 209
di fare aumentare, fosse pure di soli due o tre millimetri, il dia-
metro degli acini, perchè ne avrebbe in compenso il doppio di
prodotto. Ciò potrà ottenerlo mettendo in pratica i buoni precetti della
viticoltura, e principalmente; 1° tenendo, colle zappature, fresco il
suolo in luglio, agosto e settembre; 2° se possibile spruzzando acqua
in autunno sugli acini che stanno maturando; 3° evitando che sui tralci
deboli, specialmente se la regione è calda ed arida, vi sia un nu-
mero soverchio di grappoli, locchè si fa nel nostro Mezzodì da qualche
esperto viticultore, staccando un certo numero di grappoli in maggio;
4° scacchiando, cioè sopprimendo i getti inutili; 5° non coltivando
nulla negli interfìlari per impedire una soverchia sottrazione di umido
dal suolo; 6° concimando opportunamente i proprii vigneti; 7° infine
adottando, salve le riserve che già facemmo a suo luogo, la pota-
tura corta, quella cioè con cui si lasciano al capo frutticoso quattro,
cinque o sei gemme al più, e ciò perchè il succo nutritore, appena
uscito dal suolo, trovi subito i grappoli, senza dover percorrere lungo
tratto di legno, inquantochè in questo lungo percorso perderebbe
molta acqua.
Oltre a questi mezzi, che sono i più potenti, ve n'hanno altri i
quali giovano essenzialmente a far più ricco di zucchero il mosto.
Essi sono: 1° il taglio dei tralci carichi d'uva, otto o dieci giorni
prima della vendemmia, troncando la loro comunicazione colla pianta.
Ma ciò non si può fare se non quando la vite è educata con sistemi
mercè cui i tralci sono sostenuti da canne o fili di ferro; 2° La sfo-
gliatura autunnale; 3° Il conservare le foglie in estate; 4° L'offen-
dere il tralcio a frutto o il peduncolo del grappolo; 5° Il vendem-
miare nelle ore calde ed in più tempi; 6° Il pulire e lo spuntare i
grappoli.
8°. Longevità della vite. Ora che abbiamo studiato come nasca
la vite dal vinacciuolo, come viva, quali tendenze naturali abbia, come
si nutra e come fruttifichi, dobbiamo dire come deperisca e muoia»
dobbiamo in altri termini studiare le cause che influiscono sulla sua
longevità.
Queste cause sono varie, ma si debbono principalmente considerare le
seguenti: 1°) la fertilità del terreno e la maniera di concimazione; 2°) la
distanza delle viti le une dalle altre; 3°) il sistema di potatura. Riguardo
alla fertilità del terreno diremo come in un terreno magro e scarsamente
ingrassato, la vite deperisce prontamente; nel Basso Monferrato, colà
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 15
210 CAPITOLO IV
dove si concima il vigneto ogni biennio, le viti che hanno sessanta
o settantanni sono tuttavia cariche di molti grappoli, cioè non sono
né vecchie né spossate. In quanto alla distanza dei ceppi gli uni
dagli altri, ed alla distanza fra i filari, risulta dall' osservazione di
quanto accade in Italia ed in Francia, che la vite deperisce assai
presto quando queste distanze sono piccole ed il terreno è magro;
invece, dato pure cosifatto terreno, se le viti sono distanti, durano
all'incirca il doppio. In Toscana, per esempio, le viti fìtte non vi du-
rano oltre i 18 o 20 anni, e danno in questo frattempo uno scarso
reddito; lo stesso può dirsi delle Marche. Nella Liguria ogni 15 anni
circa conviene svellere le ceppaie, già vecchie e sfinite, perchè in
un suolo che è per natura arido si contano circa 9000 ceppi ad et-
tare, cioè su 10,000 metri quadrati, locchè è assolutamente troppo;
in Corsica si contano 10,000 piante ad ettare, su suolo arido, e la
vite è vecchia a 12 anni; invece in Sicilia, generalmente parlando,
non si contano che 4500 piante ad ettare (a Cefalù 5000 a 5500)
e la vite non invecchia che oltre i trent' anni; nel Basso Monferrato
poi con sole 3000 piante ad ettare, all' ingrosso, la vigna può toc-
care i 100 anni se aiutata dal concime; e nel Salernitano con piante
a 1,60 circa di distanza, e con buon terreno e buona cultura, vi
sono viti che toccano pure i 100 anni. Uscendo poi dall' Italia, ve-
diamo che nel rinomato Hérault (Francia) il viticultore invecchia
prima della sua vigna; costì prima della fillossera si contavano 4500
piante ad ettare con concimazione triennale; il prodotto toccava i 200
ettolitri ad ettare, ma la pianta nonostante non si esauriva. Dunque,
quanto più il terreno è magro ed arido, massime nei paesi molto
caldi, e quanto più sono grandi, entro ragionevoli limiti, le di-
stanze, tanto più longeva è la vite.
Ci rimane a considerare il « sistema di potatura. » Già sappiamo
che potando energicamente, e cimando e ricimando senza criterii, si
inceppa lo sviluppo aereo della vite, e si influisce sinistramente sul
suo sistema sotterraneo; ciò fa invecchiare precocemente la vite.
In quel di Siena è stata fatta questa bella esperienza (1): certe viti
potate ad un solo sperone (con 2 gemme) s' eran fatte vecchie e
sfinite in poco tempo; si provò allora a potarle a sei speroni eon
due gemme caduno, ed ecco che il tronco ingrossò, la pianta riprese
novello vigore e si serba così da 18 anni a questa parte, perchè
(1) Presso il sig. Severiano Ardinghi di Siena.
BOTANICA DELLA VITE 211
si concima il vigneto ogni due anni con terricciati. Adunque quando
si vuole stabilire con una certa approssimazione la durata di un vi-
gneto, si deve tener calcolo dei tre suddetti coefficienti.
Ma se 1' uomo non fosse costretto a moderare la tendenza natu-
rale della vite colla potatura, e se la preziosa ampelidea non fosse
bersagliata da tanti parassiti, si potrebbe dire che la sua durata può
raggiungere i secoli, e forse non esagerò colui che disse « la Vite
non muore mai ! »
CAPITOLO V
Chimica della "Vite.
§ 1. Composizione del legno della vite — § 2. Composizione delle foglie —
§ 3. Composizione dell'uva e dei semi — § 4. Composizione del mosto e delle
vinaccie — § 5. Componenti principali della vite — § 6. Relazioni fra la com-
posizione del terreno e quella della vite — § 7. Relazioni fra i concimi e la
composizione dell'uva.
§ 1. Composizione del legno della vite. — Lo studio della
composizione chimica delle varie parti ond'è costituita essenzialmente
la pianta di vite, ha una importanza non piccola, inquantochè può
fornirci utili ammaestramenti riguardo agli alimenti che il viticultore
deve di preferenza porre a sua disposizione, tenuto calcolo della com-
posizione del terreno. E siccome questi alimenti (concimi) esercitano
una notevole influenza sulla quantità e sulla qualità dell' uva, così
è evidente che la chimica della vite può rendere importanti servizii
al viticultore.
La composizione della cenere del legno della vite, secondo la media
di otto analisi fatte da Wolff ad Hohenheim, sarebbe la seguente:
Percento di cenere 2,75
Potassa 29,80
Soda 6,7
Magnesia 6,8
Calce , 37,3
Acido fosforico anidro 12,9
Acido solforico anidro 2,8
Silice 0,8
Cloro 0,8
CHIMICA DELLA VITE
213
Il percento di cenere rappresenta la parte fissa (pag. 160) della
pianta, la quale è sempre minore della parte volatile; infatti gene-
ralmente non supera il cinque per cento.
Nel caso speciale della vite su 100 parti di sostanza secca solo circa
2,75 sono costituite da materie fìsse, cioè che rimangono allo stato
di cenere quando si sottopone il legno all'abbruciamento. Fra i varii
legni la vite è tuttavia dei più ricchi in cenere; ecco ad esempio
alcuni dati di confronto dello stesso Wolff:
Melo percento in cenere 1,3 Faggio percento in cenere 1,0
Abete »
»
2,0
Larice »
»
0,3
Pino rosso
»
0,3
Pino bianco »
»
0,3
Giunco »
»
0,3
Gelso »
»
1,6
B e tuia »
»
0,3
Vite »
»
2,75
Ora, essendo gli elementi della cenere indispensabili alla vita ed
allo sviluppo di tutte le piante, e la pianta di vite contenendone re-
lativamente una forte proporzione, è facile dedurre quanta impor-
tanza abbiano per essa i principii minerali del suolo, e specialmente
la potassa, la calce e l'acido fosforico.
Infatti, dall'analisi sovra riferita emerge che questi tre elementi
sono i più abbondanti nel legno di vite. Lo stesso dicasi della com-
posizione dei tralci dell'annata; ecco una analisi del Dottor Ro-
tondi:
Barbera
Grignolino
Pinot
Ossido di Calcio 36,83
35,18
32,76
» di Potassio 34,54
33,47
32,84
» di Magnesio 6,64
6,50
5,38
» di Sodio 0,88
1,77
1,78
» di Manganese —
—
—
» d'Alluminio traccie
traccie
0,13
» di ferro 2,34
1,90
2,47
Cloro 0,74
0,91
1,26
Silice 6,36
6,01
8,60
Acido fosforico (anidro) 7,69
10,01
10,56
» solforico » 3,42
4,67
4,07
A conferma di queste analisi del Rotondi, citeremo anche le se-
guenti determinazioni fatte presso la Scuola viticola di Klosterneu-
òurg (Vienna):
214 CAPITOLO V
Cenere di nuovi tralci
di Riesling
Potassa 33,876 0[q
Calce 30,411 »
Soda 0,708 »
Magnesia 7,195 »
Ferro 7,720 »
Manganato di manganese .... 0,092 »
Cloro 0,699 »
Acido fosforico 13,175 »
Acido solforico 3,153 »
» silicico 3,129 »
L'esame delle ceneri del pianto di vite concorda con quanto di-
cevamo or ora: Neubauer trovò infatti quanto segue:
Potassa 16,20 0\q
Calce 63,73 »
Magnesia 8,54 »
Acido solforico 2,22 »
» fosforico 4,35 »
Cloro 4,41 »
Silice 1,25 »
Ossido di ferro 0,29 »
Per altri dettagli sulla composizione del pianto di vite, rimandiamo
il lettore alle pag. 174: qui ricorderemo solo che esso è essenzial-
mente costituito da acqua, come si può vedere in questa analisi del
Dott. Nessler:
Pinot nero
Quantità complessiva delle sostanze secche 1,99 per mille
Sostanze organiche .0,81 »
Azoto 0,17 »
Ceneri 0,84 »
Acido carbonico . . , 0,35 »
Neubauer avrebbe trovato i seguenti massimi, esaminando il
pianto di diversi vitigni:
Sostanze secche 2,91 per mille
» organiche 2,03 »
Ceneri 0,94 »
0
CHIMICA DELLA VITE 215
Infine Rotondi studiando il pianto di viti a uve bianche e rosse
trovò quanto segue:
Rosse Bianche
Sostanze secche . . . 0,20 0,11 per mille
» organiche . . 0,14 0,06 »
Azoto 0,00 1,55 »
Ceneri .-..., 0,06 0,04 »
Nelle annate molto piovose aumenta la quantità dell'acqua; inoltre
progredendo la primavera aumenta la quantità della cenere e dimi-
nuiscono le sostanze organiche. Ciò può spiegare le contraddizioni delle
precedenti analisi.
Le sostanze organiche che entrano a far parte del legno di vite
sono la cellulosa, l'amido, l'acido tannico, l'ossalato di calcio, il tar-
trato di potassio ed infine le sostanze azotate. Queste ultime nella
sostanza secca trovansi nella proporzione di circa l'uno per cento.
Però lo studio di tutte queste sostanze organiche in quanto alle pro-
porzioni in cui si trovano nel legno della vite, è oggi assai defi-
ciente: solo si sa, dalle analisi fatte a S. Michele (Tirolo), che i getti
erbacei della vite contengono da 20 a 30 per cento di sostanze a-
zotate, nella sostanza secca; corrispondenti dal 4 al 5 0[0 nei getti
allo stato fresco, cioè col 70-77 0[q di acqua. Ciò spiega come i
concimi azotati favoriscano tanto la produzione erbacea nella vite.
§ 2. Composizione delle foglie. — Già sappiamo che nelle
foglie riscontransi principalmente la clorofilla (pag. 135 e 158) l'a-
mido (pag. 162) Vossalato di calcio (pag. 136) oltre allo zucchero
(1 0[Q secondo Neubauer nelle foglie fresche), le sostanze albumi-
noidi, (da 2 a 3 0[q nella sostanza secca secondo Rotondi e Kur-
manrì), le sostanze coloranti ed altre enumerate a pag. 161. Ve-
diamo ora la composizione delle ceneri: dietro le suaccennate analisi
del D.r Rotondi si avrebbe il seguente per cento;
Barbera Grignolino Pinot
Silice 34,22 39,44 33,11
Acido solforico (anidro) 2,82 1,41 1,41
Acido fosforico id. 0,92 0,66 0,90
Ossido di ferro ... 1,04 0,74 1,28
» d'alluminio . . traccie traccie —
» di manganese . — — —
216 CAPITOLO V
Barbera
Grignolino
Pinot
Ossido DI CALCIO .
. . 45,06
41,61
46,32
» di magnesia
. . 8,04
8,36
8,78
» DI POTASSIO
. . 6,53
6,36
6,05
» di sodio .
. . 0,64
0,64
0,58
Cloro ....
. . 0,62
0,50
0,46
La quantità di cenere lasciata dalle foglie è maggiore di quella
del legno (pag. 213): infatti Rotondi trovò quanto segue:
Ceneri pure (private del- Barbera Grignolino Pinot
l'anidride, carbonica) . 0[Q gr. 8,34 9,52 8,30
Invece nei tralci aveva
trovato » 2,66 2,41 2,91
E nel mosto (per ogni
litro) ...... » 3,98 8,07 3,71
Blankenhorn e Rósler hanno trovato la seguente composizione
media delle ceneri di foglie di viti:
Potassa . .
Soda ....
Calce . . .
Magnesia . .
Ossido di ferro
» di manganese
Acido solforico
Acido fosforico .
Cloro
Acido silicico . .
Foglie
per cento 13,02
» 1,07
» 55,19
» 11,13
» 1,26
» 0,86
» 4,92
» 3,63
» 1,57
» 7.51
Legno di vite
32,20
0,49
41,77
10,88
0,53
0,49
4,18
6,32
2,14
1,48
Da tutte queste analisi risulta che la cenere delle foglie è più ricca
in silice, calce e magnesia di quella del legno; mentre quest' ultima
è più ricca in potassa ed acido fosforico. La rilevante quantità di
silice trovata dal Dr. Rotondi nelle foglie di viti può forse spiegarsi
supponendo che egli abbia esperimentato su foglie vecchie, cioè nel
tardo estate od in autunno, avendo Arendt trovato che in queste
stagioni la silice si accumula nelle parti più vecchie della pianta,
mentre è relativamente poca nelle parti più giovani ed ancora in
isviluppo. Sin' ora non è stato bene spiegato quale ufficio compia
questa sostanza nel vegetale, e tanto meno nella vite.
CHIMICA DELLA VITE 217
Nelle foglie di alcune varietà di viti, quali la tintoria, il barbera
e lo zag arese abbiamo trovato, sin dal 1882, una materia colo-
rante rossa della quale diremo qui brevemente.
Nel settembre del detto anno, raccolte varie foglie di tintoria
fteinturier dei Francesi) che appaiono rossastre in autunno, le po-
nemmo in infusione nell'alcool a 92° G. L. in guisa che l'alcool gal-
leggiasse sulle foglie stesse. Dopo 8 giorni il liquido mostrava un
incipiente colore rossastro, ed al 14° giorno aveva un bellissimo co-
lore di vino vecchio. Degustato ci accusò un sapore speciale che ri-
cordava lontanamente quello del the.
Sul finire dello stesso settembre facemmo un'esperienza in grande:
preso un recipiente della capacità di un ettolitro, lo riempimmo di
foglie di Tintoria, comprimendole alquanto; su di esse versammo
30 litri di alcool a 92° G. L. Per facilitare però la dissoluzione della
materia colorante e darle un colore più vivace, aggiungemmo all'al-
cool 15 grammi di acido tartarico per litro.
Dopo 48 ore lo spirito era colorato intensamente in un bel rosso
cupo; il liquido era denso ed esalava l'odore delle foglie di viti. Il
sapore sui generis della prima esperienza era qui assai più pronun-
ciato, causa la grande quantità di foglie adoperate.
Abbiamo ora in corso altre prove sulle foglie di varii vitigni per
sperimentare questa materia colorante su vini chiari, intanto cre-
diamo di poter dedurre quanto segue:
1) Nelle foglie di alcune varietà di viti si forma una materia
colorante solubilissima nell'alcool.
2) Tale formazione progredisce di pari passo colla maturazione
dell'uva; infatti le foglie raccolte dopo la prima metà di settembre
ne sono assai più ricche che non quelle raccolte sul finir dell'agosto.
3) L'acido tartarico aggiunto all'alcool favorisce la dissoluzione
di tale pigmento colorante e lo rende più rosso.
4) La materia colorante delle foglie delle varietà Tintoria e
Barbera ha un sapore speciale che converrebbe eliminare prima di
adoperare quella sostanza per colorare i vini.
In seguito alla pubblicazione di queste notizie il signor Antonio
Anelli di Grottamare nelle Marche fece esprimenti sulle foglie dello
Zagarese, uva la quale dà vini di bel colore: queste esperienze sono
molto interessanti, onde vogliamo farne cenno brevemente.
Il signor Anelli fece adunque pigiare della malvasia bianca cosi
da ricavare tre litri di liquido, che mise in una pentola di coccio;
218 CAPITOLO V
immediatamente sopra cotale mosto, egli stratificò le foglie dello za-
garese (200 grammi) senza punto ammaccarle, e sopra di esse stra-
tificò tutte le vinaccie della suddetta malvasia. Lo scopo prefissosi
dall' esperimentatore nel collocare queste vinaccie sul mosto fu solo
quello di costringere le foglie stesse a stare immerse nel liquido fer-
mentante, onde ottenere una copiosa dissoluzione di materia colorante
mercè l'alcool prodotto dalla fermentazione. Le foglie non erano
dunque mescolate al mosto ma solo poste sopra di esso, e non ri-
piegate bensì aperte, perchè nelle foglie ripiegate rimane una maggior
quantità di colore non disciolto dal liquido alcoolico. Questo fu ab-
bandonato a sé durante 8 giorni, trascorsi i quali il mosto, che era,
come dicemmo, di malvasia bianca, si trasformò in un liquido vinoso
di' un colore rosso assai bello, come noi stessi ebbimo a constatare sul
campione che il signor Anelli ci inviava. Questo mosto vino non a-
veva nessun sapore disgustoso o sui generis, come nel nostro espe-
rimento sopra descritto: ma certo ciò dipese da che noi adoperammo
alcool puro e forte, che disciolse non solo il colore ma anche i suc-
chi delle foglie stesse, mentre il signor Anelli adoperò il semplice
mosto.
Da questo esperimento del distinto enofilo di Grottamare si deduce
che è possibile, mediante le foglie di certe uve ricche di colore, tra-
sformare durante la fermentazione un mosto d'uva bianca in un vino
rosso. Invitiamo intanto gli studiosi ad occuparsi essi pure di questo
interessante argomento.
§ 3. Composizione dell'uva e dei semi. — a) Uva sana. Il
suo componente più importante è lo zucchero : V uva è fra i frutti
più ricchi in principio dolce, come risulta dalle seguenti medie di
Fresenius:
per cento
Pesche 1,6
Albicocche 1,8
Susine 2,1
Susine (green gages) 3,1
Susine gialle 3,6
Lamponi 4,0
More di rovo 4,4
Fragole 5,7
CHIMICA DELLA VITE 219
per cento
Mirtillo di macchia 5,8
Ribes 6,1
Prune 6,3
Uva spina 7,2
Pere rosse 7,5
Mele 8,4
Ciliege morelle 8,8
More del gelso 9,2
Ciliege dolci 10,8
Uva 14,9
È noto però che nei paesi meridionali il percento di zucchero del-
l'uva è molto superiore al 14 e s'aggira intorno al 20, oltrepassan-
dolo non di rado.
Secondo le analisi di Berthier le ceneri dell'uva avrebbero la se-
guente composizione media:
Potassa per cento 56,00
Calce » 28,06
Magnesia » 2,97
Acido fosforico » 12,97
La cenere delle pellicole o fiocine, secondo Crasso avrebbe la
seguente composizione:
Potassa per cento 41,66
Soda » 2,13
Calce ........ » 20,32
Magnesia » 6,02
Ossido di ferro per cento 2,11
» di manganese ... » 0,76
Acido silicico » 3,46
» solforico » 3,48
» fosforico » 19,58
» cloridrico ..... » 0,51
Le ceneri dei vinacciuoli, pure secondo Crasso, sarebbero così
composte:
Potassa per cento 27,87
Soda » —
220 CAPITOLO V
Calce per cento 32,18
Magnèsia ....... » 8,53
Ossido di ferro » 0,46
» di manganese ... » 0,35
Acido silicico » 0,95
» solforico ..... » 2,40
» fosforico » 27,01
» cloridrico ...... » 0,28
Come si vede i componenti principali delle ceneri dell'uva, come
quelli del legno, sono sempre la potassa, la calce e l'acido fosforico;
quest'ultimo abbonda specialmente nei semi, come diremo fra poco.
b) Uve ammalate. Blankenhorn e Rósler alcuni anni or sono
fecero interessanti ricerche di confronto sulla composizione delle uve
sane ed ammalate di crittogama (oidio): crediamo riescirà utile
farne qui cenno.
Uva Silvaner
molto ammalata poco ammalata sana
Soda 0,45 2,74 0,31
Potassa 46,42 42,52 48,46
Calce 7,33 ' 8,74 6,95
Magnesia 3,75 3,50 3,86
Ossido di ferro 0,10 0,19 0,05
Manganese — 0,08 —
Alluminio 0,46 0,53 0,02
Acido carbonico 24,38 23,46 23,24
» fosforico ........ 7,36 11,68 8,00
» solforico ....... 4,89 2,97 4,31
» cloridrico ...... 0,96 0,33 0,78
» silicico 1,71 3,26 3,92
Da questo quadro risulta che Y oidio non induce grandi differenze
nella composizione dell'uva per quanto riguarda gli elementi mine-
rali; diminuisce solo di poco la potassa. È noto però che nelle uve
ammalate è lo zucchero che si riduce di molto, quando la detta crit-
togama riprende ad attaccare le uve in via di maturazione.
e) Semi d'uva. I vinacciuoli non contengono amido, bensì tan-
nino (5 0[o) e olio fìsso (15 Ojo), del che abbiamo già parlato a pa-
gina 152. Essi contengono pure oltre al 2 0[q di azoto. La quantità
CHIMICA DELLA VITE
221
di tannino varia però secondo la varietà delle viti e secondo il grado
di maturanza degli acini.
Nelle ceneri dei vinacciuoli il Prof. Bechi trovò:
Potassa per cento 34,4
Soda , » 6,36
Calce » 6,48
Magnesia , » 1,81
Acido fosforico ..... » 44,42
Acido solforico » 5,44
Acido silicico » 0,90
Cloro » 0,18
Questa analisi differisce solo sensibilmente riguardo alla calce da
quelle di altri esperimentatori; ad esempio Crasso ne aveva trovato
ora il 32 ora il 35 0[q. Ad ogni modo l' acido fosforico, la potassa
e la calce sono, anche nella cenere dei vinacciuoli, i principali com-
ponenti.
§ 4. Composizione del mosto e delle vinaccie. — Le ana-
lisi fatte dal prefato Dott. Rotondi ad Asti su mosti di Barbera, Gri-
gnolino e Pinot (vitigni dei quali già abbiamo dato analisi nei tre
precedenti paragrafi) diedero i seguenti risultati, su 1000 parti di
mosto :
ELEMENTI DETERMINATI
Acidità totale
Bitartrato di potassio (cremore) . .
Acido tartarico libero
Acidi diversi
Glucosio
Materie estrattive, sottratte le ceneri
Grado all'areometro di Guyot . . .
Densità a •*- 15°
Qualità del Vitigno
Barbera
. 11,75
7,40
2,52
6,49
183,24
241,10
23,0
1,099
Grignolino
l\ 10,65
7,15
2,86
4,94
171,10
209,21
19,25
1,089
Pinot
'. 6,30
7,25
0,62
2,80
201,61
247,80
22,50
1,096
Dall' esame di questo quadro risulta, cosa notoria d' altronde, che
il componente più importante, se non il più abbondante, è lo zuc-
chero (glucosio).
Ma il mosto dà dal 3 al 4 0[q di ceneri : or ecco la composizione di
queste comparata con quella dei tralci e delle foglie, su 100 parti:
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di sodio .
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CHIMICA DELLA VITE 223
L' esame delle ceneri del mosto ci dice che in esse il principale
componente è la potassa: in seconda linea vengono la calce e l'a-
cido fosforico, analogamente a quanto dicemmo del legno nei prece-
denti paragrafi. E questo prova sempre più 1' importanza di questi
tre elementi per la Vite.
La composizione del mosto varia però secondo lo stato di mag-
giore o minore maturità delle uve, e questo non solo riguardo allo
zucchero, ma anche riguardo al cremortartaro: già Neubauer (1)
aveva trovato che la potassa, in un colle sostanze minerali, au-
menta negli acini durante il periodo della maturazione. Ma nel
1875 il Doti. Macagno dietro analisi accurate trovò non solo la
conferma di quanto aveva detto Neubauer, ma altresì che il tar-
trato acido di potassio è meno abbondante nel mosto della parte
inferiore del grappolo, cioè in quella meno matura; onde si può
ritenere che la formazione del cremortartaro procede di pari passo
colla maturazione dell'uva; cosa evidente del resto, se si riflette che
infatti le vinaccie dei paesi meridionali danno più tartaro che non
quelle dei paesi settentrionali.
Ecco riunite in una interessante tabella le ricerche del Dott. Ma-
cagno, il quale fece i suoi saggi operando su 25 a 30 chilogr.
d'uva; (la parte inferiore corrisponde alla punta del grappolo):
(1) Chemische Untersuchungen iiber das Reifen der Trauben negli Annalen
der Oenologìe (V, 358).
.224
CAPITOLO V
NOME DELL'UVA
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IN UN LITRO DI MOSTO
Glucosio
Acidi
Cremor-
tartaro
EPOCA
della vendemmia
1
Barbera . . .
2
Uvaggio . . .
3
Grignolino verde
4
Barbera . . .
5
Uvaggio . . .
6
Grignolino. . .
7
Uvaggio verde .
8
Moscato . . .
9
Malvasia . . .
10
Nebbiolo . . .
11
Bordeaux . . .
12
Pinot . . . .
13
Barbera appassita
14
Balsamina .
15
Tokai . . . .
16
Fresia . . . .
17
Grignolino . . .
18
Barbera . . .
19
Fresia . . . .
20
Grignolino . .
21
Moscato . . .
22
Malvasia . . .
23
Montepulciano .
24
Barbera . . .
25
Dolcetto . . .
26
Grignolino. . .
27
Nebbiolo . . .
parte sup.
parte inf.
parte sup.
parte inf.
parte sup.
parte inf.
parte sup.
parte inf.
parte sup.
parte inf.
parte sup.
parte inf.
parte sup.
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parte inf.
parte sup.
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parte sup.
parte inf.
parte sup.
parte inf.
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193
10,9
9,7
1,094
188
10,8
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1,080
160
7,0
9,2
1,078
155
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142
10,4
6,0
1,059
119
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3,2
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10,1
6,1
6 Ottobre
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29 Settembre
11 Ottobre
29 Settembre
2 Ottobre
2 id.
28 Settembre
27 id.
24 id.
7 id.
24 id.
4 Ottobre
3 id.
29 Settembre
25 id.
28 id.
28 id.
4 Ottobre
28 Settembre
4 Ottobre
25 Settembre
CHIMICA DELLA VITE 225
Vediamo ora la composizione delle vinaccie. In alcune interes-
santi ricerche fatte a Klosterneuburg dal Prof. S. Meneghini, la
cenere delle vinaccie abbruciate accusò la seguente composizione:
Su 100 grammi di cenere
Potassa 44,09
Soda 0,48
Calce 7,18
Magnesia 5,38
Ferro . 8,56
Manganese 0,22
Cloro 0,37
Acido solforico 2,33
» fosforico . ... . . . 10,59
» silicico 20,83
Come vedesi anche nella cenere delle vinaccie la potassa è l'ele-
mento principale; vengono dopo la silice, e poi Y acido fosforico, la
calce ed il ferro (a cui si deve la colorazione verde dei tralci, come
dicemmo a pag. 136).
Su 1000 parti di vinaccia umida sì trovano in generale:
Graspi .... parti 280
B uccie .... » 520
Vinacciuoli ... » 200
1000
Secondo il Prof. De Grully le vinaccie umide contengono in media:
Acqua 70
Materia secca totale . 30
Materie azotate . . 3,25 (corr. azoto 0,535)
Materie grasse . . 2,36
Estrattive non azotate 17,45
Cellulosa o legnosa . 4,06
Materie minerali . . 2,93
Invece quando sono secche contengono in media:
Materie azotate . . 11,25 (corr. azoto 1,784)
Materie grasse . . . 7,86
Estrattive non azotate 58,17
Cellulosa .... 13,53
Ceneri .' . . . . 9,78
O. Ottavi, Trattato di Viticoltura 16
226 CAPITOLO V
§ 5. Componenti principali della vite. — Dall' esame delle
numerose analisi sovra riportate si deduce che i principali compo-
nenti della vite, volendosi riunire in una sola le varie composizioni
del legno vecchio e giovine, delle foglie, dell'uva e del mosto, sono
i seguenti: la potassa, Y acido fosforico, la calce, l' acido silicico
ed il ferro fra le sostanze minerali, Y amido, lo zucchero, la mate-
ria colorante ed il tannino, fra le sostanze organiche. Accenne-
remo fra i componenti anche Y acqua, che è assai abbondante; in-
fatti nel legno verde ne troviamo circa il 50 per cento: in quello
essiccato all' aria il 14 0[q e nelle foglie oltre all'80 0[q, massime
se fresche. Nei grappoli circa 60 al 66 0[Q, nei semi circa il 25 Ojq,
neh' uva matura il 75 e più per cento, infine nel capellamento delle
radici dal 60 al 63 per 0[q ed il 47 Ojo circa nelle radici grosse.
L' acqua è adunque senza dubbio il più abbondante componente della
vite. Ma esaminiamo gli altri componenti sovra accennati.
a) Potassa. Moltissime sono le ricerche chimiche e le espe-
rienze nei vigneti, dalle quali risulta che la potassa ha grande in-
fluenza sulla vite e massimamente sulla maggiore ricchezza dell'uva
in zucchero. Onde non si riesce ad intendere come Boussingault abbia
potuto dedurre, dalle sue ricerche, che « la coltura della vigna
non esige una maggior quantità di potassa che le altre col-
ture » (1). Sta però che i concimi potassici giovano molto alla vite
massimamente il nitrato di potassa, il cloruro, il carbonato ed
il solfato. Il prof. Andognand (2) ha potuto constatare con ricerche
dirette: 1. Che la potassa deve essere mescolata con altre sostanze
concimanti, perchè essa ne aiuta V assorbimento da parte della vite;
2. Che la quantità complessiva di potassa non vien concentrata to-
talmente nel frutto, ma in parte resta in serbo nel legno vecchio
e nei tralci annuali; cosa che noi pure constatammo e ne riparleremo
tra breve.
Il Prof. Rotondi dalle sue ricerche in proposito dedusse poi che
i concimi potassici sotto forma di cloruro sembrano essere quelli
che danno il maggiore aumento in materia zuccherina; la qual cosa
abbiamo noi pure constatato ripetutamente nei nostri vigneti ove
usiamo appunto concimi chimici a base di cloruro potassico al 50
per cento di ossido (cioè di potassa assimilabile). Il prof. Rotondi
(1) Agronomie, Chimìe Agricole et Physiologie. Tom. V, pag. 421.
(2) Biedermann's Centralblatt fur Agricultur Chemie. 1878.
CHIMICA DELLA VITE 227
ha pure trovato che la potassa somministrata sotto questa forma è,
fra le sostanze concimanti, quella che dà un maggior aumento in
sostanze minerali. Il Prof. Bechi giunse a conclusioni quasi uguali (1).
Il Prof. Saint-Pierre, dopo molte esperienze accurate fatte nei
vigneti stessi, è venuto alle seguenti conclusioni: 1.) La potassa è
1' elemento fertilizzante più necessario alla vite; 2.) i fosfati solubili
da soli non giovano molto; 3.) Il miglior ingrasso è quello che con-
tiene potassa e fosfati uniti assieme. Queste esperienze del Saint-Pierre
concordano pienamente colle nostre.
In quanto alla soda abbiamo constatato con certezza che non è
di alcun giovamento alla vite, non ostante la sua analogia con la
potassa; e trovammo pure differenze notevoli fra il nitrato di po-
tassa e quello di soda considerati come concimi.
b) Acido fosforico. Il celebre chimico G. Liebig credeva che l'e-
saurimento del terreno, specialmente riguardo ai fosfati ed alla potassa,
fosse la causa della facile diffusione della crittogama oidio ; ciò ci pare
assai discutibile , perchè anche le vigne di terreni ubertosi e concimati
razionalmente sono fieramente attaccate dalla malattia; ad ogni modo
è dimostrato che anche Y acido fosforico ha una grande importanza
per le viti, e si può facilmente desumerlo dalle analisi sovra riportate.
Un prodotto di 30 ettolitri di vino sottrae da un ettare di terreno
(10 mila m. q.) circa chilog. 7 a 8 di acido fosforico; ciò non è molto,
ma conviene riflettere che l'acido fosforico è l'elemento che più scar-
seggia nel terreno, ond'è che quasi sempre la vite non trova a di-
sposizione neppur quella piccola dose. Le ricerche del Professore
Joulie hanno dimostrato che una più abbondante alimentazione della
vite con acido fosforico, come avviene per tutte le piante saccarifere,
accresce la proporzione dello zucchero nell'uva. Il sig. Joulie ri-
tiene pure che la presenza di questo acido nel terreno faciliti l'as-
sorbimento dell'azoto, e quindi indirettamente giovi anche alla forma-
zione d' un copioso sistema radicale e d'una ricca vegetazione; altri
esperimentatori sono giunti alle stesse conclusioni.
Noi, che usiamo sempre unire ai concimi potassici, fosfati di calce
allo stato di perfosfato commerciale, possiamo accertare che la vite
se ne avvantaggia notevolmente sia nel vigore vegetativo sia nella
qualità dell'uva.
Ma oltre la vite ne avvantaggia anche notevolmente la qualità
(1) Così il Prof. Comboni — op. cit. pag. 24.
228 CAPITOLO V
del vino: infatti il fosfato di calce è un componente costante del
vino buono, rosso o nero (1). Un litro ne può contenere circa grammi
0,8 ed allora riesce molto nutriente perchè il fosfato, elemento pre-
cipuo delle nostre ossa, viene agevolmente trasportato dal vino stesso
nei liquidi del corpo umano, e va cosi a supplire alle perdite gior-
naliere che le nostre ossa fanno del fosfato medesimo.
e) La calce. Anche questa sostanza ha una non piccola impor-
tanza per la vite, e lo dimostrano le analisi sovra riportate del legno
e delle foglie. Benché nel mosto essa quasi scompaia, pure è dimo-
strato da numerose osservazioni che nei terreni calcari V uva si fa
più ricca di principio dolce che non negli altri terreni: il vino quindi
risulta più alcoolico e più tardi si arricchisce di eteri. La calce quindi
indirettamente contribuisce alla finezza ed alla fragranza del vino.
Clanj trovò, ad esempio, per la stessa varietà d'uva il seguente per
cento di alcool nel vino:
Terreno calcare . . . . 11,30 per 100 in volumi
Terreno argilloso . . . 9,60 » »
ed in altri esperimenti trovò:
Terreno calcare .... 11,00 » »
Terreno argilloso . . . 9,00 » »
Tuttavia non è men vero che speciali condizioni non ancora bene
studiate, possono supplire anche alla totale assenza del calcare: veggasi
per esempio qui appresso l'analisi della terra di Chdteau de La fitte,
famosissimo vigneto di 78 ettari situato nel Bordolese, al Nord del
Comune di Pauillac:
Ciottoli levigati silicei .... 630 per mille
Sabbia minuta 344 »
Sostanze organiche (1,3 0[q) . . 13 »
Allumina 7 »
Calce (1[2 0[q) 5 »
Ossido di ferro 1 »
1000
In Italia abbiamo pure ottimi vigneti il cui suolo non contiene as-
(1) Secondo Midder i fosfati accompagnano sempre la enocianina (principio co-
lorante dell'uva) ed è forse anche per questo che i vini rossi sono più nutrienti
dei vini bianchi.
CHIMICA DELLA VITE 229
solutamente calcare: il Dott. Angelo Mona nei suoi Studi di eno-
logia scrive d'aver fatto alcune analisi su diversi campioni di terra
dei migliori vigneti di Brindisi, analisi le quali gli diedero per ri-
sultato la quasi assoluta mancanza di calce: alcuni campioni bolliti
coll'acido dorico e tentati poi coll'acido ossalico e coll'ossalato d'am-
moniaca non accusarono che una debole traccia di calce: eppure le
viti di quelle terre danno eccellenti vini.
Si vede quindi che se la presenza del calcare è giovevole, non è
però indispensabile; e questo valga a tranquillare varii fra i nostri
viticultori che sogliono attribuire la meno buona qualità dei loro vini
al terreno, laddove dovrebbero incolparne o il metodo di fabbrica-
zione o le scadenti varietà d'uva coltivate.
Dell' ossalato di calcio abbiamo già parlato a pag. 118 e 136; è
una combinazione di calce ed acido ossalico, acido che si trova in
abbondanza ad esempio nell'acetosella. L'ossalato di calcio benché in-
solubile nell'acqua pura si trova però disciolto, come già sappiamo,
nel liquido delle cellule mentre la pianta è in sviluppo. Più tardi, se-
condo Schmidt ed altri, esso si accumula in cristalli dei quali ab-
biamo dato varii disegni a pag. 136. Quale sia la funzione di que-
sto sale nella pianta di vite, non è ancora stato detto; ma è a spe-
rarsi che gli studiosi, coll'aiuto della micro-chimica, riescano presto
a formulare qualche conclusione soddisfacente sul delicato soggetto.
d) La silice. Abbiamo già detto a pag. 216 che è sovratutto
nelle foglie della vite che abbonda la silice (dal 7 al 35 0\q secondo
l'età della foglia): nei tralci invece se ne trova soltanto dell' 1 al 9 0[0
secondo l'età ed il vitigno, e nel mosto meno ancora, cioè circa il
5 Ofo (il 3 0[o nella cenere delle buccie dell'uva e solo l'I 0\q in
quella dei vinacciuoli). È singolare il fatto che la silice pare dimi-
nuisca nelle uve affette da crittogama (oidio); infatti nelle esperienze
citate a pag. 220 si vede che nelle uve sane la silice rappresenta
quasi il 4 0[q delle ceneri mentre nelle uve poco ammalate abbiamo
solo il 3,26 ed in quelle molto ammalate l'I, 71 0[q; la diminuzione
è rilevante. Nulla possiamo però dire dell'ufficio che la silice compie
nei varii organi della vite.
e) Il ferro ha una grande importanza nella vite, non solo per-
chè senza ferro non si forma clorofilla (pag. 136) ma perchè esso
contribuisce alla robustezza della pianta ed alla salubrità del vino.
Contribuisce alla robustezza della vite perchè le foglie colorate d'un
bel verde, lavorano più attivamente a benefizio del legno, delle gemme
230 CAPITOLO V
e dell'uva, come abbiamo lungamente detto studiando la fisiologia
della vite. Contribuisce poi alla salubrità del vino perchè è fuori di
dubbio che i sali di ferro, e specialmente il tartrato, sono impor-
tanti fattori di quelle proprietà ristoratrici che posseggono certi vini
fra cui il Barbera ed il Bordeaux, se fabbricati con mosto e vi-
naccìe (1). Il Dr. Rotondi in alcune sue ricerche trovò quanto segue:
Ossido ferroso
Barbera fatto con puro mosto per litro gr. 0,0067
» » 8 0[o di vinaccie » 0,0095
» » 50 0[Q » » 0,0114
Le esperienze dei Dottori Pasqualina Pasqua Perier e Faurè
provano esse pure che i sali di ferro conferiscono proprietà risto-
ratrici a taluni vini rossi: Faurè dice che il Bordeaux contiene sino
a 0,25 per mille di tartrato di perossido di ferro, cioè un quarto di
gramma per litro; i vini bordolesi bianchi ne contengono meno.
Vino rosso Vino bianco
Minimo Massimo Minimo Massimo
gr. 0,1632 0,24S4 gr. 0,0642 0,1870
Il solo Prof. Nessler non ammette tanta ricchezza in ferro nei
vini bordolesi; egli avrebbe trovato infatti soltanto 6 decimilligrammi
di ferro per ogni litro. Senonchè le numerose ricerche di parecchi
altri analizzatori, fanno supporre che il Nessler abbia esperimentato
su vini bordolesi di qualità mediocre.
Ma il ferro è anche un costituente della materia colorante del-
l' uva. Le interessanti ricerche del sig. Glenard e sovratutto del
Prof. Comboni sulla enocianina hanno dimostrato che il principio
violetto del colore d'uva è un sale di ferro (2), e questo spiega
perchè i vini rossi siano più ricchi in ferro dei bianchi.
Infine da quanto dicemmo risulta pienamente giustificata la pra-
tica consigliata dal Do IL Guyot, e seguita da parecchi fra cui noi
stessi, di spargere il solfato di ferro al piede delle ceppaie di viti
alla dose di circa 20 chilog. per ettare, cioè circa 2 grammi per
pianta di vite di vigneto specializzato.
f) Materie organiche. Dell' amido abbiamo già parlato lunga-
(1) Fabbricandoli con solo mosto la quantità di ossido di ferro diminuisce sen~
sibilmente.
(2) E. Comboni — Trattato di Enochimica, voi. 2°, pag. 26.
CHIMICA DELLA VITE 231
mente, ed abbiamo anche visto quale sia la sua importantissima fun-
zione nella vite; rimandiamo perciò il lettore alle pag. 118, 135, 144,
149, 156 e 162.
Abbiamo pure parlato dello zucchero studiando a pag. 202 la
maturazione dell' uva; qui dobbiamo soggiungere che lo zucchero
d'uva risulta dalla mescolanza di due sostanze dolci, dette glucosio
e levulosio. Il glucosio ha la seguente composizione centesimale:
Carbonio 40,00
Idrogeno 6,67
Ossigeno 59,33
100,00
Il levulosio (o chilarioso) ha la stessa composizione del glucosio, di
cui può considerarsi siccome un isomero (1). Allorquando l'uva si es-
sica, una parte dello zucchero trasuda e cristallizza alla superfìcie della
buccia, e costituisce il glucosio; la parte liquida o sciropposa, non
cristallizzabile, che rimane nell'interno dell'acino è il levulosio. Gli è
certo perchè il principio dolce dell'uva è così composto, che non è
possibile imitare perfettamente il vino con nessun' altra sostanza
zuccherina.
La materia colorante dell'uva fu studiata molto accuratamente
in questi ultimi anni dai Prof.i Comboni e Carpenè di Conegliano, i
quali riuscirono a prepararla industrialmente con un processo noto
soltanto in parte: solo si sa che le vinaccie d'uve molto colorate
sono tenute in infusione durante 20 giorni nell'alcool a 85°, acidu-
lato con acido tartarico, e che poscia si distilla il liquido di infusione
in apparecchi speciali. Colla decantazione si ottiene quindi la eno-
cianina commerciale la quale ha la seguente composizione:
Densità a + 15° = 1,0200
Acqua gr. 95,006 0I0
Glicerina » 0,320 »
Materie grasse » 0,049 »
Enocianina » 1,840 »
Quercetina traccie
(1) Diconsi isomeri quei corpi che hanno bensì la stessa composizione cente-
simale ma differiscono per le loro proprietà fisiche o chimiche.
232
CAPITOLO V
Tannino
Acido pectico e gumme . . .
Acidi tartarico, succinico, malico
Acidi minerali combinati . . .
Cremore
» 0,850 »
traccie
» 1,190 »
traccie
» 0,657 »
99,912
gr. 1,0920 0|o
Ceneri
La composizione di queste ceneri è in media la seguente
Calce
Acido fosforico (anidro)
Magnesia
Potassio .
Acido solforico (anidro)
Ferro
Cloro
Silice
Sodio, litio, rubidio .
Gr. 10,1 0[0
» 23,6 »
30,2 »
14,0 »
7,0 »
9.0 »
2.1 »
3,0 »
traccie
99,0
Il Dr. Comboni (1) conclude che l'enocianina commerciale si può
quasi considerare siccome vino privato del suo alcoole e della maggior
parte dei sali.
L'enocianina ricavata coll'accennato processo, è solubile nell'acqua
senza intorbidamento di sorta e senza aggiunte di alcoole; è pure
solubilissima nel vino, siccome noi abbiamo ripetutamente esperimen-
tato: sin qui invece si era sempre ritenuto che V enocianina fosse
insolubile nell'acqua, il che dipende dal metodo di preparazione.
Dagli studii fatti a Conegliano risulterebbe che nell'uva esistono varii
principii coloranti; l'uno violetto, l'altro rosso ed un terzo che diventa
rosso dietro trasformazioni chimiche: ad essi va sempre unita clo-
rofilla. Il violetto, che è instabile e precipita, contiene più ferro che
non il rosso, che è la materia colorante la quale rimane in soluzione
quando si prepara la enocianina. Lo studioso che desiderasse cono-
scere tutte le esperienze del Prof. Comboni, dovrebbe ricorrere al
suo pregevole Trattato di enochimica.
(1) Op. cit. voi. II pag. 265.
CHIMICA DELLA VITE 233
Il tannino devesi pure annoverare fra i principali componenti
della vite; infatti contengono tannino le cellule dei raggi midollari
(pag. 124), gli strati corticali, il libro, il legno giovine ed il legno
vecchio (pag. 128), i viticci (pag. 131), i picciuoli (pag. 132), i fila-
menti degli stami (pag. 144), la rachide il peduncolo ed i sub-pe-
duncoli (pag. 108) infine la fiocine ed i vinacciuoli.
L'acido tannico ha la seguente composizione centesimale:
Carbonio 52,42
Idrogeno 3,56
Ossigeno 44,02
100,00
Il Dr. Wagner, distinguendo i varii tannini, chiama quello del-
l'uva enotannino e lo dice tannino fisiologico poiché è un prodotto
di elaborazione della pianta. Gli altri tannini enumerati dal prof.
Gauthier sono quello della noce di galla, del caffè (caffetannico)
della china (chinotannico) del cauciù (caschutannico) ed altri. Ab-
biamo già detto come varii chimici ritengano che il tannino sia un
glucoside capace di sdoppiarsi per fermentazione in acido gallico e
glucosio; recentemente invece, dopo le esperienze del Dr. Schiff, ciò
è contraddetto. Crediamo però che sia ancora a studiarsi qual1
trasformazioni subisca il tannino dei vini ruvidi, i quali, invec-
chiando, si fanno più morbidi perdendo una grande parte del tannino
stesso.
Dell' acido tartarico e dei molti altri acidi dell' uva non diciamo
nulla, non volendo invadere maggiormente il campo della enologia;
per cui rimandiamo il lettore all'altra nostra pubblicazione Enologia
teorico -pratica (1).
§ 6. Relazioni fra la composizione del terreno e quella
della vite. — È facile supporre che la composizione chimica, e per
certi rapporti anche la struttura, del terreno sul quale vegeta la vite,
debbono esercitare una rimarchevole influenza sulla composizione di
quest'ultima. Anzitutto il terreno influisce sulla quantità delle ce-
neri di tutte le piante, e così anche della vite; ma, dato lo stesso
terreno, le diverse varietà di vitigni assimilano quantità approssima-
(1) Un voi. di pag. 726 — presso il Tip. C. Cassone — Casal monferrato.
234 CAPITOLO V
tivamente uguali di materie minerali. Però le piante più robuste e
più ricche di fogliame contengono quantità notevolmente maggiori
di cenere.
Riguardo all'influenza del terreno sui componenti organici della
vite,, e specialmente dell'uva che è il nostro obbiettivo principale,
abbiamo creduto opportuno di radunare nella seguente tabella i ri-
sultati delle nostre osservazioni al riguardo:
Sostanze la cui formazione
Natura del terreno viene favorita
Calcare sciolto ciottoloso (1) Zucchero ( alcool abbondante nel
vino) (2)
Calcare sabbioso leggero . . Zucchero id.
Marnoso- calcare . .
Ferruginoso rossastro
Argillo-calcare compatto
Argilloso umifero, fertile
Id. id.
Zucchero, colore id.
Tannino, colore, tartrati (vini ruvidi)
Sostanze azotate (vini poco serbevoli)
Argillo-calcare di media fertilità Zucchero, tannino, colore, sostanze
azotate (vini usuali)
Asciutto arido vulcanico , . Zucchero (vino scelto)
Umido Sostanze azotate, acqua (vino sca-
dentissimo)
Osserveremo che la quantità di principio dolce varia poi, a parità
di terreno, a seconda del clima, del vitigno e del sistema di potatura;
diciamo questo acciò non si attribuisca alla tabella che precede un
valore affatto assoluto.
Supponendo un ettare di vigneto specializzato, colla raccolta del-
l'uva si esporteranno in media (Bonssing ault):
Potassa .... chilogrammi 16,42
Acido fosforico . . » 7,23
Calce .... » 12,49
Acido solforico (3) . . » 1,93
(1) Il Bordeaux di prima qualità (es. Chdteau La fitte) viene da terreni simili;,
è vero che l'alcool in esso non si può dire che abbondi, ma vi abbondano gli eteri
perchè l'uva contiene una dose conveniente di acidi ed è povera di sostanze a-
zotate.
(2) Nei climi caldi, vini alcoolici o liquorosi; nei climi temperati vini meno
alcoolici ma ricchi di eteri invecchiando.
(3) Ricorderemo che l'acido solforico si trova nel terreno sotto forma di gesso
(solfato di calcio).
CHIMICA DELLA VITE
235
Secondo le accurate ricerche fatte dal Prof. Meneghini a Klo-
sterneuburg 2400 viti di Riesling tolsero in un anno al terreno
quanto segue:
Legno nuovo (1)
Parti erbacee .
Vinacce . . .
Feccia ....
Vino ....
Totale in chilogr.
Potassa
Calce
Magnes.
4.579
9.122
6.686
0.853
2.190
4.092
5.821
1.085
0.103
0.270
0.969
2.334
0.819
0.010
0.100
23, 430
11.371
4.232
Ac. fos£
1.773
2, 661
1.602
0.093
0.660
789
Questi dati del Prof. Meneghini si riferiscono ad un vigneto di
circa mezzo ettare: supponendo un vigneto di un ettare con 5000
piante di viti, avremo con approssimazione una doppia esportazione
annuale ài potassa, acido fosforico, calce e magnesia dal terreno. Ora
giustamente egli osserva che concimando i vigneti collo stallatico ogni
biennio od ogni triennio come si usa usualmente, si restituiscono al
terreno quantità assai minori di detti elementi minerali, ond' è che,
volendo fare una coltura razionale ed avere vigneti longevi e robusti
ed il terreno non spossato, converrebbe ricorrere ai concimi chimici; e
jioi aggiungiamo altresì alla cenere, alla terra vergine ed alle vi-
naccie debitamente preparate. Ma di questo dovremo occuparci stu-
diando la concimazione del vigneto.
§ 7. Relazioni fra i concimi e la composizione dell' uva.
— I concimi esercitano una marcata influenza sulla composizione del-
l'uva; sono principalmente lo zucchero, il tartaro e le sostanze azo-
tate che subiscono le variazioni più notevoli. È provato che i concimi
potassici (ceneri, cloruro di potassa ecc.) provocano la formazione
d'una maggior quantità di glucosio e di tartaro; ed è pure certo che
i concimi azotati (solfato d'ammoniaca, letami, guano, polverina
ecc.) provocano una copiosa formazione di sostanze albuminoidi, d'onde
un mosto meno zuccherino, ed un vino di più difficile conservazione.
(1) Degli altri elementi minerali non si tien conto, perchè parte non sono in-
dispensabili alla vite, ovvero in ogni terreno se ne ha a sufficienza.
236 CAPITOLO V
Il Prof. Cer letti fece nel 1882 varie interessanti ricerche, all'I-
stituto di Conegliano, sovra questo argomento; ecco le sue conclusioni:
1) Le viti in qualsiasi modo concimate entrano in fruttificazione
più prontamente, o a parità di tempo in maggior numero che quelle
non concimate;
2) Non si può ancora stabilire nettamente se colla concimazione
aumenta il coefficiente di allegazione del frutto;
3) La quantità di prodotto in uva è sempre considerevolmente
maggiore per le viti concimate in confronto di quelle non concimate.
4) I concimi complessi a base di azoto, potassa ed acido fosfo-
rico inducono una maggiore produzione dei concimi isolati e ciò anche
quando vengono abbinati due di essi, ovvero anche raddoppiata la
quantità di uno.
5) La formazione del glucosio nell'uva è notevolmente più ab-
bondante nelle viti in qualunque modo concimate che non in quelle
non concimate; per le applicazioni sotto i diversi climi occorre de-
terminare anche se questo aumento deve ritenersi in senso assoluto,
ovvero come una maggior rapidità di maturazione procurata dal
concime.
6) Fra i diversi concimi quelli a base di potassa fanno aumen-
tare la quantità di glucosio in proporzione maggiore che non i con-
cimi a base di acido fosforico o d'azoto.
7) Colla concimazione ha sempre luogo un aumento assoluto di
glucosio, ma esso è meno appariscente là dove il quantitativo d'uva
non crebbe assai, che ove questo aumento risultò considerevole.
8) Circa all'acidità complessiva dell'uva quattro risultati direb-
bero che colla concimazione essa diminuisce, due invece accennereb-
bero ad un aumento. »
Da alcuni fatti si sarebbe poi indotti a concludere che i concimi
puzzolenti, se adoperati tali e quali anziché mescolati con terra nei
composti o terricciati, comunicano disgustosi aromi all'uva; su di ciò
mancano però esatte osservazioni, perchè la cosa appare dubbia se
si riflette che i vigneti del Reno sono spesso concimati cogli escre-
menti umani.
Taluno infine pretende che concimando i vigneti con sostanze ricche
di tannino (cuojacci ecc.) l'uva si faccia molto aspra e tanninica; ma
anche questa affermazione merita conferma.
CAPITOLO VI
Meteorologia viticola.
§ 1. La luce e la vite — § 2. Il calore e la vite — § 3. L'umido e la vite —
§ 4. L'elettricità e la vite — § 5. La grandine e la vite — § 6. La brina e
la vite — § 7. Il gelo, la neve e le viti — § 8. I venti e la vite — § 9. La-
titudine, altitudine ed esposizione — § 10. Linee isotermiche e punti clime-
nologici.
§ 1. La luce e la vite. — L'influenza che le condizioni me-
teorologiche a cui va soggetto l'ambiente nel quale vegeta la vite
esercitano sulla fruttificazione, è marcatissima; e se è vero in gene-
rale, come scrisse Arturo Young, che il clima è altrettanto essen-
ziale quanto il suolo, nel caso speciale della vite si può affermare
che l'influenza di quello è assai maggiore; poiché la nostra ampeli-
dea, quale pianta rusticana, quasi si adatta ad ogni maniera di ter-
reno, laddove, se le condizioni metereologiche le sono avverse, ve-
geta mediocremente e fruttifica male o non fruttifica del tutto. È
adunque grande l'importanza dello studio che stiamo per fare in
questo capitolo, onde vi richiamiamo sopra la maggior attenzione
del lettore.
Allorquando Galileo chiamava il vino « un composto di umore
e di luce » sintetizzava il prodotto della vite assai meglio di Dante,
il quale aveva cantato « il calor del sole » che si fa vino
Misto all'umor che dalla vite cola.
Infatti gli ultimi studii riguardo all'influenza della luce sulla frut-
tificazione della vite hanno dimostrato in modo non dubbio che essa
è l'agente che esercita la massima influenza sulla formazione del
principio dolce nell'uva; e che a parità di temperatura, l'uva è tanto
più zuccherina e povera di acidi, quanto più intensa è l'azione della
luce solare.
238 CAPITOLO VI
Abbiamo già accennato a questo fatto a pag. 205 e 207; ma qui
dobbiamo scendere a varii utili dettagli. Già da alcuni anni qual-
che studioso di viticultura aveva osservato che ad annate ugual-
mente calde non corrispondevano uve ugualmente zuccherine; anzi
si notavano talvolta differenze così rimarchevoli da non potersi
assolutamente spiegare attribuendole alle cause minori che possono
influire sulla maturazione dell'uva. Così, gli anni 1865 e 1866 die-
dero in Francia, e più precisamente in Borgogna, vini molto di-
versi nel titolo alcoolico: — quelli del 1865 riescirono eccellenti e
quelli del 1866 scadenti o poco meno. Tuttavia le osservazioni me-
tereologiche attestarono che nei due anni la quantità di calore che
il suolo aveva ricevuto era stata la stessa: senonchè dalle stesse
osservazioni risultava che nel 1865 il cielo era stato abitualmente
chiaro e la luce viva, piena, intensa, mentre nel 1866 quello era
stato coperto molte volte. Negli anni 1873 e 1874 noi facemmo
una uguale osservazione nell'Italia superiore e specialmente in Mon-
ferrato, e d'allora in poi raccogliemmo ogni anno osservazioni non
solo a Casalmonferrato, di dove scriviamo, ma in altri punti (Asti,
Moncalieri , Bra, Firenze) sempre allo scopo di constatare se re-
almente la luce esercitasse, a parità di temperatura, una così grande
influenza sulla formazione del principio dolce nelle foglie ed indiret-
tamente nell'uva.
Ecco radunate nei seguenti quadri, parecchie fra le osservazioni
da noi fatte (1).
Incominciamo da un parallelo fra gli anni 1874 e 1875; avvertiremo
anzitutto che le osservazioni meteorologiche non vanno oltre la 2a
decade di agosto così nei due anni accennati come nei successivi,
perchè noi volevamo essenzialmente studiare l'influenza della luce,
prima che l'uva incominciasse a colorarsi, sulla formazione del
glucosio nelle foglie. Citeremo poscia altre esperienze le quali ab-
bracciano anche il periodo della maturazione dell'uva, cioè dal set-
tembre all'ottobre. Abbiamo chiamato nelle seguenti tabelle giorni
sereni quelli che ebbero realmente una serenità perfetta; perciò fra
i giorni misti ve ne sono parecchi che ad intervalli ebbero ore di
sole vivo e molto proficue per la maturità delle uve.
(1) Ringraziamo qui nuovamente gli egregi professori Bonza (Moncalieri) Cra-
veri (Bra) Ravizza (Asti) e Meucci (Firenze) che ci fornirono i dati raccolti
dai loro reputati Osservatomi meteorologici.
METEOROLOGIA VITICOLA
239
Anno 1875.
ASTI — Osservazioni fatte per cura della R. Stazione Enologica.
Giorni sereni
Misti
ID.
Coperti
ID.
Temperatura media (1)
dal 1 giugno al 10 agosto
Maggio
Giugno
Luglio
Agosto
l.a decade
31
33
7
—
25 C
25 C
33 C
CASALE — Osservazioni fatte per cura del Giornale Vinicolo.
13
74
15
19 C
22 C
23 C
21
BRA — Osservazioni fatte dal Prof F. Craveri
all' Osservatorio metereologico.
9
80
13
18.90 C
19.96 C
20.90 C
20.39 C
MONCALIERI — Osservazioni fatto dal Rev. P. Denza
all'Osservatorio del Collegio Carlo Alberto.
6
82
14
18.57 C
20.01 C
21.37 C
20.88 C
FIRENZE — Osservazioni fatte dal Prof F. Meucci
presso V Archivio metereologico.
91
6
21.4 C
23 C
24.9 C
23.6 C
Riguardo all'anno 1874 riferiremo solo i dati che si riferiscono a
Casalmonferrato; ed ecco quindi un breve parallelo col 1875.
CASALMONFERRATO
1874 (2) 1875
g. sereni misti coperti
39 58 15
g. sereni misti coperti
13 74 15
Il 1874 che ebbe sino alla metà circa di agosto maggior numero
di giorni sereni, quantunque la temperatura non sia stata molto su-
periore a quella del 1875 dal giugno al settembre, produsse uve sen-
(1) Per Asti le osservazioni furono fatte con termometri posti a 0,50 dal suolo
a Mezzodì.
(1) Qui vi sono 10 giorni di più che nel 1875 e cioè dal 1 maggio al 20
agosto: ma il confronto può farsi egualmente.
402
CAPITOLO VI
sibilmente più ricche in principio dolce, e questo non solo nel Mon-
ferrato, ma altresì nei paesi delle suddette stazioni meteorologiche:
tuttavia il 1874 non fu una grande annata, quantunque il calore a-
vesse raggiunto quel numero di gradi che abbisognano all'uva per
farsi molto ricca di zucchero; e questo perchè i giorni perfettamente
sereni non furono che 39 sa 112; in detto anno le buone uve del
Monferrato non accusarono in media che 19 0[q di zucchero ed i vini
in media 1 1 0[Q di alcool. L' acidità dei mosti toccò 1' 11 per mille
(acidità complessiva, calcolata come acido tartarico). Vedremo che
in annate più ricche di giorni sereni, i mosti riuscirono più zucche-
rini e meno acidi.
Veniamo ora al 1876.
CASALMONFERRATO. — Osservazioni del Giornale Vinicolo.
Mesi
Maggio ....
Giugno ....
Luglio ....
Agosto (due decadi)
Totali
Giorni
Sereni
Misti
Coperti
5
12
14
7
13
10
14
16
1
9
10
1
35
51
26
Temperatura
media
14°80C
21.47
24.93
25.46
ASTI — Osservazioni della R. Stazione Enologica. (1)
Maggio ....
Giugno ....
Luglio
Agosto (due decadi)
Totali
5
13
13
13
15
2
23
2
6
12
4
4
53
34
25
18°27C
26.66
32.36
33. 01
BRA — Osservatorio diretto dal Prof. Craverl
Maggio ....
Giugno ....
Luglio
Agosto (due decadi)
Totali
17
14
4
23
3
4
27
—
5
14
1
13
81
18
13°64C
19.76
23. 59
23.65
(1) La temperatura fu misurata a 0,50 dal suolo.
METEOROLOGIA VITICOLA
241
FIRENZE — R. Museo di fisica e storia naturale.
Giorni
Temperatura
media
Mesi
Sereni
Misti
Coperti
Maggio
4
2
25
28
26
18
6
2
1
17° C
22.3
25.1
26.9
Giugno
Luglio
Agosto (due decadi) . . .
Totali
6
97
9
Riassumendo abbiamo:
1876 Casale Asti
Giorni sereni 35 53
Id. coperti e misti 77 59
Bra
Firenze
13
6
99
106
Totali 112
112
112
112
Facciamo ora un parallelo col 1875.
1875 Casale Asti
Giorni sereni 13 31
Id. coperti e misti 89 40
Bra
Firenze
9
5
93
97
Totali 102
71
102
102
Disgraziatamente le osservazioni del 1875 non datano tutte dal
1° maggio e non si protrassero fino ai 20 agosto come è di quelle
del 1876 sopra stampate; così è bene facciamo notare che per
Casale le osservazioni del 1875 partirono dal 1° maggio e si arre-
starono al 10 agosto; quelle di Asti si protrassero dal 1° giugno
al 10 agosto, infine quelle di Bra e di Firenze similmente alle casalesi.
Però è facile scorgere che, eccezione fatta per Firenze, a Casale
ad Asti ed a Bra le uve hanno potuto godere nel 1876 di
un maggior numero di giorni sereni che non nel 1875, e questo ci
spiega come il vino sia riescito migliore di quello dell'anno prece-
dente. Asti fu in special modo favorita, come la era stata, a petto
delle altre stazioni, nel precedente anno; infatti i vini del 75 riusci-
rono nell'astigiano molto migliori che altrove.
La temperatura non fu nel 1876 sensibilmente differente dal 1875;
le uve ricevettero cioè una somma di gradi di calore di poco supe-
riore a quella ricevuta nell'anno precedente: — pure riescirono più ric-
che di zucchero (in media 22 0[q nel Monferrato) e meno acido (8 per
O. Ottavi, Trattato di Viticoltura 17
242
CAPITOLO VI
mille in media, compreso il tartrato acido di potassa, che già sappiamo
aumentare coll'accrescersi dello zucchero e che perciò converrebbe
eliminare nel determinare le variazioni dell'acidità complessiva dei
mosti delle diverse annate: ritorneremo fra breve su di ciò).
Ecco ora i dati che si riferiscono al 1877.
CASALMONFERRATO — Osservazioni del Giornale Vinicolo.
Mesi
Giorni
Temperatura
media
Sereni
Misti
Coperti
Maggio
2
11
6
4
18
18
25
14
11
1
2
16° 14 C
Giugno
Luglio . .
Agosto (due
decadi)
Totali
23. 96
23.92
25.31
(aN.)
23
75
14
BRÀ — Osservatorio diretto dal Prof. Craveri.
Maggio ....
Giugno ....
Luglio
Agosto (due decadi)
2
24
5
4
25
1
2
29
—
2
18
—
10
96
6
FIRENZE
Totali
R. Musco di fisica e storia naturale.
Maggio ....
Giugno ....
Luglio
Agosto (due decadi)
Totali
ASTI — Osservazioni della R. Stazione Enologica.
14° C
22.17
22.64
23.39
28
3
—
30
—
3
28
—
3
17
—
6
103
3
17° 1
24,3
25,1
25,6
Giorni
Temperat. media
a m. 0,50 dal suolo
Mesi
piovosi
non piovosi
Giugno
6
7
4
24
21
16
25° 38 C
Luglio
Agosto (due decadi) . . .
Totali
25.48
26.01
17
61
METEOROLOGIA VITICOLA
243
Nel 1877 i giorni perfettamente sereni furono bensì inferiori in
numero a quelli del 1876; ma in compenso si ebbero pochissimi
giorni coperti e molti misti, fra cui parecchi con ad intervalli varie
ore di sole splendido. Per questo le uve del 1877 riescirono assai
ricche di principio dolce e povere di acidi, al che contribuì anche
l'elevata temperatura estiva. Intanto è facile intendere che, per fare
più accurate osservazioni non basta la suddivisione dei giorni nelle
tre categorie sereni misti e coperti, ma è indispensabile misurare
giornalmente l'intensità luminosa: di questo ci occuperemo tra poco.
Le osservazioni fatte negli anni 1878 e 1879 non possiamo qui
riferirle, essendo incomplete per quanto consone in massima alle pre-
cedenti: passiamo quindi al 1880.
Ecco i dati meteorologici che vi si riferiscono:
CASALMONFERRATO. — Osservazioni del Giornale Vinicolo.
Giorni
Temperatura
media
Mesi
Sereni
Misti
Coperti
Mastio
8
6
15
5
11
16
14
20
12
8
2
6
15°37C
Giugno
14. 60
Luglio
23.67
Agosto .
20 91
Totali
34
61
28
Maggio
Giugno
Luglio .
Agosto.
ASTI — Osservazioni della R. Staz. Enologica (Dr. F. Konig).
(Altezza degli strumenti — m. 0,50)
(1) Media delle osservazioni fatte alle ore 11 ed alle ore 3 p.
BRA — Osservatorio diretto dal Prof. Craveri.
(Altezza degli strumenti — m. 15)
Maggio
Giugno
Luglio .
Agosto
(1)
20°50C
23. 20
29.—
26. 20
Totali
5
20
6
3
25
2
11
20
—
8
21
2
27
86
10
20° 31 C
23.85
31.19
9"
03
244
CAPITOLO VI
FIRENZE — Osservatorio del R. Museo di fisica {Prof. F. Meucci)
Giorni
Temperatura
media
Mesi
Sereni
Misti
Coperti
Maggio
7
4
28
5
7
18
3
19
17
8
7
16. 8 C
Giugno
Luglio
20. 2
26. 8
Agosto
23. 1
Totali
44
47
32
Come si vede nel 1880 furono assai scarsi i giorni sereni dell'a-
gosto, e quantunque l'annata fosse trascorsa assai calda, si ven-
demmiarono uve povere di zucchero e ricche di acidi.
Per far rilevare come l'Italia Meridionale siasi trovata nel 1880
in condizioni assai migliori dell'Italia Settentrionale riguardo alla
luce solare, ed abbia quindi vendemmiato uve molto pregiate per
ricchezza zuccherina, riferiremo qui i dati fornitici da Palermo dal
compianto Dr. Macagno:
PALERMO — R Stazione Agraria - 1880 -
Giorni
Media mensile dei term.
ad 1 m. dal terreno
Data
Sereni
Coperti
all'ombra
al sole
Maggio
30
29
30
19
1
1
1
12
19.52
24.73
30.43
30.20
22 12
Giugno
Luglio
27.60
33.42
31 58
Agosto
Totali
108
15
Sono quindi 108 giorni sereni, mentre nello stesso periodo se ne
ebbero soli 34 in Monferrato.
Infine, da tutte queste osservazioni, proseguite sino al 1883 con
risultanze simili alle precedenti, risulta che la viva luce solare fa-
vorisce dal maggio all'agosto la formazione del glucosio nelle foglie,
il quale vi si immagazzina per poscia emigrare in copia nell'uva.
Ma è molto maggiore la quantità di glucosio che vi si forma nel
periodo della maturazione (da metà agosto a metà ottobre circa), e
questo vedremo ora, riferendo le ricerche del Dr. A. Levi e del
Prof. F. Craveri.
METEOROLOGIA VITICOLA
245
Il Dr. Levi intraprese sin dal 1877 accuratissime esperienze a
Villanova di Farra; partendo dal principio che per conoscere l'influenza
d'un agente metereologico qualsiasi sovra un fenomeno di fisiologia
vegetale, conviene nelle esperienze comparative eliminare quest'agente,
senza modificare però le altre condizioni fra cui il fenomeno si com-
pie naturalmente, il Dott. Levi costrusse un apparecchio che serve
ad isolare completamente dalla luce i grappoli d'uva destinati alle
esperienze, lasciandoli esposti alle stesse condizioni di temperatura e
di umidità dell'atmosfera.
Fig. 61.
Ecco la descrizione di questo apparecchio (fig. 61):
Esso è composto di una specie di botticella a in latta racchiusa in
altra botticella più grande b in legno di castagno o di rovere, per modo
che tra di esse vi sia in tutti i punti un vuoto d'un 15 mm.; l'aria,
che in questo vuoto si racchiude, serve ad isolare la botticella di latta
dagli agenti esterni che influiscono sulla botticella esterna; inoltre
per rendere completo questo isolamento si produce, a mezzo d'un tubo
aspiratore A D, una corrente continua d'aria nello spazio vuoto; così
la temperatura dell'aria racchiusa tra le due botticelle non differisce
dalla temperatura dell'aria esterna.
Un altro aspiratore B C in comunicazione coli' interno della bot-
ticella di latta vi produce una corrente d' aria dall' esterno e serve
così ad eguagliare la temperatura ed il grado igrometrico tra l'aria
esterna e l'aria interna, in mezzo alla quale si troverà il grappolo.
246 CAPITOLO VI
Ciascuno di questi aspiratori è costituito di due tubi colle pareti
interne annerite, ed esternamente invece tinte a biacca; l'uno supe-
riore A e B ripiegato più volte ad angolo retto finisce in una grossa
palla g di rame annerita al nero fumo, che porta superiormente un
tubo piegato orizzontalmente e rimpicciolito alla sua estremità: la
palla internamente é munita ai suoi due punti di congiuzione coi tubi
di due piccoli diaframmi i tenuti a distanza conveniente da supporti
in filo di ferro; l'altro inferiore C e D, esso pure piegato più volte
ad angolo retto, termina ad imbuto, di cui l'apertura è difesa da una
specie di coperchio l che l'avvolge co' suoi bordi senza chiuderlo,
cosicché lascia passar l'aria e non la luce. La corrente d'aria vi è
prodotta dal riscaldamento delle palle di rame annerite e battute dai
raggi del sole.
Sulla parete superiore della botticella in legno sono aperti due pic-
coli fori chiusi con un turacciolo di cautchouc, pel quale passano due ter-
mometri n, nr destinati a misurare le temperature interne; allo stesso
tempo un terzo termometro si trova^sospeso tra i rami della vite
all'altezza dei grappoli d'uva esposti all'aria aperta e che dovranno
poi servire nelle esperienze come termine di confronto.
Nella parte più bassa della botticella in latta vi è un piccolo tubo
o, che traversata la botticella in legno finisce in punta sottilissima
e serve a far scolare l'acqua di condensazione che un rapido abbas-
samento di temperatura avesse condensato sulle pareti interne della
botticella di latta.
Infine nella parte superiore della botticella vi ha una apertura,
per cui si introduce il grappolo, che deve sottrarsi alla luce; questa
apertura viene poi chiusa da un turacciolo e e in cautchouc , ta-
gliato in due nel senso della lunghezza e traversato in questo senso
da un piccolo canale destinato a ricevere il peduncolo del grappolo;
un po' di cotone vegetale cosparso d'un mastice, preparato con una
soluzione alcoolica di cera e di colofonia, serve a chiudere ogni in-
terstizio attorno al peduncolo, acciocché non possa entrare nell'in-
terno dell'apparecchio né aria né acqua.
In tal modo un grappolo che sia chiuso nella botticella trovasi com-
pletamente privo di luce, mentre per riguardo alla temperatura ed
alla umidità dell'aria si troverà nelle stesse condizioni dei grappoli
che trovansi all'aria aperta.
E così analizzando i gradi di zuccaro e di acidità dei grappoli
posti nel!' apparecchio ed i gradi di zucchero e di acidità di altri
METEOROLOGIA VITICOLA 247
grappoli lasciati in piena luce, ma, tranne ciò, posti nelle stesse con-
dizioni, e paragonandoli tra loro si avranno dati sufficienti per mi-
surare l'influenza della luce sulla maturazione, la quale appunto si
manifesta con 1' aumento dello zuccaro e con la diminuzione degli
acidi.
Il Dott. Levi aveva incominciato i suoi esperimenti nel 1879 con
17 degli apparecchi suddetti; ma nel 1880 ripetè gli stessi esperi-
menti più in grande ossia usando di 40 apparecchi, e quindi isolando
dalla luce 40 grappoli. Il vitigno, sul quale fu fatto 1' esperimento,
era il Pinot nero. I 40 grappoli furono chiusi negli apparecchi al 7
luglio, qualche giorno dopo la seconda solforazione. Le analisi di con-
fronto cominciarono al 26 agosto, e continuarono giornalmente fino
al 22 settembre, tempo della vendemmia.
Nessuna differenza apprezzabile si rimarcò all'aspetto esterno tra
i grappoli maturati all'oscuro e quelli maturati in piena luce, tranne
pel colore degli acini, i quali erano d'un rosso più pallido nei primi,
e tranne per l'aspetto dei peduncoli, i quali avevano in questi la loro
corteccia più legnosa, mentre che essa era ancora verde ed erbacea
al tempo dell'ultima analisi, nei peduncoli sottratti alla luce.
Ma analizzando i grappoli per rispetto all'acidità ed allo zuccaro,
si trovò sempre una maggior quantità di sostanza zuccherina e quasi
sempre una minor quantità di acidi nei grappoli esposti alla luce in
confronto dei grappoli sottratti completamente alla luce stessa; in me-
dia l'aumento della sostanza zuccherina, fu del 3,59 per cento e la
diminuzione degli acidi di 1,23 per cento; risultati che si erano anche
ottenuti quasi colle stesse cifre nelle esperienze del 1879.
Da ciò il Dott. Levi, e giustamente, potè trarre la conseguenza
che « i grappoli conservati dopo la fioritura in una profonda oscu-
rità, benché nelle stesse condizioni termometriche ed igrometriche di
quelli dello stesso ceppo, della stessa branca e dello stesso pampino
esposti alla luce, contengono in ogni tempo della loro maturanza,
meno di zuccaro e quasi sempre più di acidi di quest'ultimi; che la
luce la quale manca a quelli ed illumina questi è la vera causa
di tali differenze; che la luce esercita per conseguenza una in-
fluenza rimarchevole sul fenomeno della maturazione dell'uva ».
Osserveremo riguardo all' acidità, come già dicemmo brevemente
a pag. 242, che è indispensabile allorquando se ne studia l'accresci-
mento o la diminuzione nell'uva a seconda della maturità di quest'ul-
tima, distinguere gli acidi liberi (tartrico, malico, citrico ecc.) dal
248 CAPITOLO VI
tartrato acido di potassio. Quest'ultimo aumenta col progredire della
maturazione; e siccome dosando l'acidità complessiva non si distingue
generalmente questo sale acido dai detti acidi liberi, ne viene che
si può trovare un aumento nell'acidità in uve bene mature, come è
accaduto a qualche esperimentatore. Conviene quindi, in simili ri-
cerche, dosare anzitutto ed eliminare il bitartrato di potassio; le va-
riazioni nella rimanente acidità potranno allora porgere un sicuro
indizio del progresso della maturazione.
Il Prof. Federico Cr averi di Bra, ideava sino dal 1873 un istru-
mento per misurare e registrare approssimativamente la quantità, in
durata, dell'intensità dei raggi che il sole manda nel luogo dove si fa
l'esperienza. Questo istrumento, che il Craveri chiamò elio fotometro,
permette di fare osservazioni abbastanza esatte sull' influenza della
luce nella maturazione dell'uva. Descriviamolo colle parole stesse del-
l'inventore :
« L'idea di possedere una qualche misura della luce solare ger-
mogliò in me da più anni, allorquando provai che non è impossibile,
addizionando certi dati forniti dai termometri nei mesi dell'accresci-
mento dell'uva, il poter predire con qualche probabilità le qualità del
raccolto che si dovrà ottenere. Ognuno si persuaderà che, se la tem-
peratura è uno dei fattori principali della vegetazione, questa tut-
tavia dipende assolutamente dalla energia solare; e di più F effetto
della luce, che non ponno registrare i termometri, ha talvolta mag-
giore importanza pei vegetali che non i dati consueti della tempe-
ratura.
Credevo in allora essere necessario per la riescita dell'osservazione
sulla luce solare, di possedere un Eliostato, apparato troppo delicato
e costoso; epperò ne abbandonai l'idea. Non fu che all'incominciare
dell'anno 1873 che mi determinai ad intraprendere delle prove molto
facili ad eseguirsi. Racchiusi cioè delle cartoline fotografiche entro
una cassa, combinando in modo F imperfetto apparecchio, che pochi
raggi solari percuotessero le cartoline, mentre queste obbligavo a
camminare dando loro moto colla mano. Visto il buon esito dei primi
tentativi, mi decisi a far eseguire l'Eliofotometro quale passo a de-
scrivere.
Una cassa di legno forte fig. 62 (1), lunga mm. 280, larga mm. 145,
alta mm. 200 colle pareti spesse mm. 30, costituisce un parallelepipedo
(1) Le dimensioni dei due disegni (fig. 62 e 63) sono ì\6 dell'originale.
METEOROLOGIA VITICOLA
249
collocato su di un sostegno all'aperto, ove niente impedisce l'azione
diretta del sole.
Non può però la faccia superiore dell'apparato conservar sempre
ne' dodici mesi dell'anno la posizione orizzontale, perchè spostandosi
il sole durante l'inverno troppo al di sotto dell'equatore, i suoi raggi
cadrebbero su di essa troppo obliqui. È necessario perciò inclinarla
in modo da seguire in questo tempo, se non esattamente, almeno
con approssimazione il movimento del sole. Ciò si ottiene inclinando
poco a poco l'Eliofotometro verso il Sud, incominciando dal mese di
settembre sino al dicembre; poi si va diminuendo V inclinazione in
senso inverso sino al marzo, epoca nella quale ricomincia la posizione
orizzontale.
Fisr. 62.
A tal uopo la cassa si appoggia su di un sostegno o zoccolo di
legno: e per mezzo di una vite di pressione che questo attraversa,
se ne alza od abbassa la parte posteriore. Un arco graduato in ot-
tone, fìsso lateralmente allo zoccolo, fa conoscere l'angolo d'inclina-
zione.
Lo specchio che segue aiuta la memoria per eseguire le indicate
inclinazioni.
250
CAPITOLO VI
Periodo
dell' innalzamento
Periodo
dell'abbassamento
Settenib.
Ottobre
Novemb.
Dicemb.
Gennaio
Febbraio
Marzo
o M
no
©
1
CD
O M
.2
T3
^3
©
CD
o >-
3
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17
17
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9
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13
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11
23
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25
12
26
8
28
13
29
7
31
14
Una delle facce principali del parallelepipedo trovasi in posizione
normale alla suddetta faccia superiore; ed è l'apertura o porta, fis-
sata con cerniere in modo, che, aprendo la cassa, si ha libera en-
trata a tutta la cavità interna, come vedesi nella figura 63.
Alla parete opposta alla porta, ed al di dentro, vi si attaccò un
orologio a molla ed a spirale; ed aprendo un foro nel legno, si fece
presentare al lato esterno della cassa il suo quadrante Q (fig. 62)
munito d'un buon vetro, onde preservare il meccanismo dalle ingiurie
dell'atmosfera.
A quest' orologio si adattò una ruota dentata B (fig. 63), che
prende movimento da quella del suo tamburo O racchiudente la molla.
Questa ruota compie una sola rivoluzione nelle 24 ore. Al suo perno
vi si adatta, mediante una vite mobile, un grande cerchio d'ottone
C, la cui circonferenza è di 520 mm. ed il diametro è di 16 mm.
Sul contorno di questo cerchio si colloca una striscia di carta, come
si usa nel telegrafo Morse del nostro paese. I due suoi capi si fis-
sano in una fessura posta in M, per mezzo d'una molla scorrevole,
nel modo che si dirà appresso.
Mettendo il cerchio entro la cassa al suo posto, si trova in posi-
zione normale alla parete superiore, occupando la linea media della
cavità interna e la parte superiore del cerchio rimane pressoché
tangente alla suddetta parete interna, alla distanza d' una frazione
di millimetro, da un diaframma F (fig. 62 e 63) di platino, avente
un intaglio rettangolare, lungo mm. 3 e largo mm. 1, fissato sul
METEOROLOGIA VITICOLA
251
lato superiore della cassa; di guisa che la striscia di carta rimane
allo scoperto pel tratto libero lasciato dalla fessura, ed immediata-
mente sotto la medesima. Questo diaframma è difeso contro le in-
temperie da un vetro da orologio. I raggi solari, penetrando nella
fessura, percuotono la striscia della carta sensibile che avvolge il
cerchio, anche quando l'astro si trova vicino all'orizzonte sensibile.
Un bottone esterno D (fìg. 62) serve a far muovere una vite V
(fig. 63), la quale fa innalzare od abbassare il cerchio C, per ren-
derlo tangente alla fessura.
Fig. 63.
L'apparecchio deve avere dimora stabile sopra un terrazzo, un
balcone, ecc.; esposto al Sud in sito tale, che i primi raggi del sole
nascente e gli ultimi del tramonto, non vengano mai disturbati dal
loro contatto coll'apparecchio, durante i dodici mesi dell'anno.
Attiguo a questo luogo esposto al cielo aperto, deve trovarsi una
stanza, un ambiente qualunque, chiuso da imposte, il quale servirà
da laboratorio per eseguire tutte le sere le brevi operazioni del cam-
biamento e della fissazione delle strisele; per le quali operazioni si
trasporta la cassa, separandola dal suo zoccolo e collocandola sopra
una tavola nel laboratorio.
Sul terrazzo vi sarà un sostegno massiccio, solido, capace di ri-
cevere la tavola di legno forte, ben connessa dal falegname; e, per
252 CAPITOLO VI
maggior precauzione, munita di due lastre di ferro invitate sugli orli
proclivi al torcimento, per le ingiurie atmosferiche. Il tutto è rico-
perto con denso strato di biacca all'olio cotto.
Questa tavola porta nel suo mezzo la chiocciola, nella quale pe-
netra la vite che serve pel rialzamento dello zoccolo. È dunque ne-
cessario che, mentre la tavola posa sul sostegno, esista un vuoto al
disotto, affinchè si possa con una mano far muovere la vite.
La tavola vien collocata sul sostegno in perfetta posizione orizzon-
tale, valendosi del livello a bolla d'aria.
Il modo di fissare questa tavola può variare a seconda della na-
tura del sostegno (muratura, pietra, ferro,) in qualunque caso, devesi
curare alla sua immobilità, non dimenticando l'apertura al disotto pel
maneggio della vite.
Disposta la tavola, vi si traccia nella sua metà una linea meri-
diana. Non credo necessario dare le indicazioni per eseguire questa
operazione, troppo ovvia ai cultori della meteorologia.
È utile fissare in lontananza un punto di mira, per verificare, se
fia duopo, l'immobilità della tavola rispetto alla linea meridiana trac-
ciata.
Lo zoccolo porta una cerniera al suo lato anteriore. Si colloca
questo zoccolo in modo che coincida nella sua metà colla linea me-
ridiana tracciata sulla tavola. Fissando colle viti la cerniera alla ta-
vola, si ha lo zoccolo movibile in un solo senso; si può cioè incli-
narlo dal di dietro in avanti (facendo agire la sottostante vite), senza
che in questo movimento cambi il parallelismo col meridiano.
Collocando finalmente sullo zoccolo la cassa dell'apparecchio, que-
sta si troverà perfettamente orizzontale, ciò che si verificherà col
livello. La linea meridiana coinciderà colla metà della fessura, dove
penetrano i raggi della luce. Movendo la vite sottostante l'apparec-
chio s'inclinerà a volontà dell'operatore.
Da pochi anni, venne introdotto nell'arte grafica un ausiliare utile
assai, quando si abbisogna di ripetere varie copie dei disegni fatti
sulla carta non totalmente opaca. Questo ausiliare è il sale cono-
sciuto nei laboratori di chimica col nome di prussiato giallo di ferro;
il quale, convenientemente disteso sopra una delle superficie dei fo-
gli di carta, riesce un agente inalterabile finché lo si conserva fuori
dal contatto della luce solare; ma appena i raggi luminosi, anche
diffusi, lo percuotono per lo spazio di pochi secondi di tempo, il prus-
siato cambia il suo stato chimico, acquista un bel colore azzurro e
METEOROLOGIA VITICOLA 253
perde la sua primitiva solubilità nell'acqua. Questa alterazione chi-
mica permette di poterlo adoperare alla stessa guisa come nell'arte
fotografica si adopera la carta albuminata intrisa nel sale di argento;
il quale, se toccato dai raggi della luce del sole, s'imbrunisce e rie-
riesce insolubile nell'iposolfito di sodio; per cui, immergendo il foglio,
che fu esposto alla luce dietro alla prova negativa, nella soluzione
dell'iposolfito, quest'ultimo esporta il sale d'argento non alterato e
rimane quello oscuro: si ha in tal modo la prova positiva.
Colla carta spalmata di prussiato di ferro si consegue il medesimo
risultato, risparmiando l'iposolfito di sodio; giacché basta mettere in
un bagno di acqua tiepida a 30 gradi la carta, sulla quale agirono
i raggi luminosi, perchè l'acqua disciolga il prussiato inalterato, la-
sciando intatte quelle porzioni, sulle quali il sole non ebbe influenza.
La carta al prussiato ci viene da Londra. Si potrebbe talvolta
tentare la sua preparazione presso di noi; ma non credo che valga
la pena intraprenderne l'esperimento, almeno per l'uso dell'Eliofoto-
metro.
Da Londra si spedisce in rotoli, i quali sviluppati misurano circa
10 metri per 60 centim. di larghezza.
Tagliando coll'aiuto del tornio questi rotoli in tante porzioni larghe
7 mm., si hanno altrettanti anelli CI).
Da ogni anello sviluppato si ottengono 17 strisce utili per collo-
carle sul cerchio dell'apparecchio, cioè della lunghezza di 59 centim.
ciascheduna.
Non è prudente servirsi di queste strisce dopo un anno dalla loro
preparazione; imperocché ho notato che invecchiando perdono al-
quanto della loro sensibilità. Inutile l'avvertire che queste strisce si
devono conservare nella completa oscurità ed in luogo secco.
Per l'uso giornaliero è comodo tenerne una piccola provvista nella
cassettina a compartimenti. Quando si deve riempire la cassetta, si
opera colla luce artificiale, dividendo gli anelli sopra notati in tante
porzioni colla esatta misura voluta dal cerchio dell'apparecchio.
Scala dell'intensità e dei toni della tinta. — Affine di apprez-
zare la diversa intensità della tinta, corrispondente alla diversa e-
nergia dell'azione della luce solare, si è formata una scala di sette
(1) Presso il sig. Duroni, meccanico dell'Associazione Meteorologica Italiana in
Torino, si trovano questi anelli preparati e scrupolosamente conservati fuori dal
contatto della luce solare anche diffusa.
254 CAPITOLO VI
gradazioni di tinte, dal bianco, che corrisponde a mancanza di luce,
alla tinta più intensa, che indica il massimo dell'intensità luminosa.
Le sette gradazioni, o toni, si rappresentano coi numeri 1, 2, 3,... 7.
Ogni sera dopo le ore 8, l'incaricato delle osservazioni meteorolo-
giche, solleva l'apparecchio eliofotometrico dal suo zoccolo, dove ri-
mase nel corso della giornata, e lo trasporta nella stanza attigua
che serve quale laboratorio. Rischiarato da una lampada, apre l'ap-
parecchio, stacca il cerchio dal suo perno, svitando la chiocciola che
lo tien fermo; quindi facendo scorrere la molla, toglie via la striscia
che ha lavorato nella giornata, la quale ravvolge a grandi giri sopra
se stessa, e l'immerge nella cassula dove aveva preventivamente scal-
dato all'incirca 80 cent, cubici di acqua sino ai 30 gradi; tenendo a
tal uopo un termometro immerso nell'acqua.
Nel momento in cui la striscia entra nel bagno, è prudunte sepa-
rare la fiamma della lampada dalla cassula, per evitare il riscalda-
mento esagerato.
La striscia deve rimanere nel bagno quel tempo che basta perchè
il fondo si presenti senza colore, cioè come la carta bianca: mentre
l'azzurro dove operò il sole, appare più o meno intenso, a seconda
della quantità della luce ricevuta.
Colla carta sensibile recente, un minuto primo è bastevole per la
bagnatura; colla carta preparata da dodici mesi prima, abbisognano
circa 3 minuti.
Questa manipolazione la deve eseguire colui che fece alcune prove
per impratichirsi a conoscere il momento preciso, nel quale deve so-
spendere l'azione dell'acqua tiepida sulla striscia.
In certe giornate eccessivamente umide, si trova la striscia come
bagnata. Si deve in questi casi rari far essicare al fuoco la striscia
prima d'immergerla nel bagno tiepido. Senza questa precauzione, si
ottiene la prova col fondo giallognolo, di brutto aspetto e con poco
rilievo nelle tinte azzurre deboli.
Quando l'operatore considera giunto l'istante di sospendere l'azione
del bagno, afferra colle dita l'orlo della cassula, versa l'acqua in un
recipiente, mentre coli' aiuto del termometro agitatore impedisce lo
scivolamento della striscia. Rimette acqua fresca nella cassula, ed
agitando, risciacqua. Rigetta quest'acqua, e ripete la medesima ope-
razione con nuova acqua. Dopo la seconda lavatura sospende la stri-
scia, accavalcandola su d'un filo teso orizzontalmente, affinchè s' a-
sciughi.
METEOROLOGIA VITICOLA
zoo
È ovvio l'aggiungere che, dopo questo trattamento, la striscia può
venire esposta alla luce anche diretta del sole, senza tema che si
alterino le tinte.
Avrei forse dovuto far precedere questa descrizione all' antece-
dente; ma si ha V abitudine nella pratica di eseguire questa opera-
zione dopo la già descritta, ed io, fedele narratore, mi vi adatto.
Liberato il cerchio dalla striscia che funzionò nella giornata, fa
d'uopo rivestirlo con altra ancor vergine.
L'operatore prende dalla cassettina a compartimenti una delle due
striscie rotolata, la sviluppa, e ritaglia colle forbici i due capi, re-
stringendoli a pochi millimetri nella larghezza, per una lunghezza
all'incirca di due centimetri in isbieco.
Questo si fa perchè la fenditura, dove devono introdursi i due
capi, è un po' più stretta della larghezza totale della striscia.
Introdotto uno dei capi nella fenditura, adatta la striscia sul cer-
chio, ed introduce il secondo capo nella medesima, in guisa che la
superficie sensibile della carta rimanga all'esterno. Tenendo colle dita
i due capi alla parte dissotto, fa scorrere lo molla, la quale compri-
mendo questi capi, impedisce ogni movimento alla carta.
Con una matita si segna la carta sui due spigoli della fessura dove
venne piegata. Questo segno deve essere visibile, e servirà per ciò
che in seguito vedremo.
Si scrive pure colla matita la data del giorno seguente (quello
cioè nel quale la striscia riceverà la luce solare), nonché l'ora ed i
minuti, calcolando in previsione i pochi minuti che passeranno prima
di fissare il cerchio entro l'apparecchio. Questi segni fatti colla ma-
tita non sono alterati dalle lavature, alle quali si sottopone la striscia.
Rimesso il cerchio sul suo perno, s'invita la chiocciola, ma non la
si serra. Si fa girare il cerchio lentamente, onde portare la fendi-
tura al punto dove esiste 1' occhio dell' apparecchio. Il lume della
lucerna permette all' operatore lo scoprire questa coincidenza, ed i
segni della matita ne facilitano lo scoprimento. Tenendo fermo il
cerchio con una mano in tale postura, si guarderà l' orologio; e
quando la lancetta segnerà l'ora ed i minuti stati scritti sulla striscia,
si fa girare la chiocciola, e si fissa il cerchio in modo che più non
si muova attorno al perno.
L'apparecchio può venir subito ricollocato al suo posto, dove al-
l'indomani deve operare, ovvero lo si può lasciare nel laboratorio.
Io ho 1' abitudine di rimetterlo in sito nei mesi quando non nevica
256 CAPITOLO VI
e non gela, per evitare di alzarsi troppo presto al mattino; e lo
lascio nel laboratorio nelle notti d' inverno, bastando rimetterlo in
sito prima del levar del sole.
La striscia che nella giornata antecedente ha ricevuto la luce so-
lare, ebbe tempo ad essicare durante le ore notturne.
Questa striscia si stende sul regolo che porta disegnato lo sviluppo
del cerchio, diviso in ore, ed ogni ora in dodici parti di cinque mi-
nuti ciascheduna.
Il segno della matita che trovasi sulla striscia verso il lato sinistro,
corrispondeva alla sera, all' ora notata dall' operatore ; adesso si fa
coincidere questo segno colla corrispondente ora segnata sul regolo;
e si fissa con uno spillo, del pari che l'altro capo opposto, in modo
che la striscia rimanga ben tesa sul regolo.
Consultando le effemeridi del luogo dove si fa Y osservazione, si
trova l'ora ed i minuti in cui si levò il sole che lavorò la striscia.
Si fa un segno colla matita, dove il regolo indica tale momento,
avvertendo che pei minuti è bastevole tener conto da cinque in cin-
que. Ad esempio, 1' effemeride segna: levar del sole ore 7 min. 58,
io noto ore 8 min. 0; l'effemeride segna 7,56, io noto 7,55; e così
pel tramonto.
Notati i due estremi della giornata solare, si vedrà che la striscia
in queste due regioni non ha colore azzurro sensibile; il che vuol
dire che al levar del sole ed al suo tramontare i raggi luminosi non
furon tali da lasciare traccia visibile.
Continuando 1' esame verso la destra, là dove principia ad appa-
rire una lieve sfumatura azzurra, si fa una riga colla matita; e qui
comincia il n. 2 della scala, il quale va man mano acquistando forza
ed arriva al n. 3; in questo luogo si fa un altro segno colla matita.
Proseguendo con questo criterio si formano i sette toni, se esistono.
Tengasi per regola, che vale assai meglio il determinare prima di
tutto quale è stata la tinta più forte che si ebbe nella giornata, li-
mitando questa regione con duo segni di matita, Y uno a destra e
l'altro a sinistra; e quindi proseguire in appresso alle altre divisioni.
Sul margine bianco della striscia che trovasi in alto si segnano i
numeri corrispondenti ai toni coloriti; e sul margine inferiore si se-
gnano i tempi, cioè le ore ed i minuti che occupa ciaschedun tono
nel suo spazio.
Questi numeri, cioè i tempi ed i toni, si registrano a volontà del-
l'operatore, a norma dei dati che pretende ricavare dalle osserva-
zioni eliofotometriche.
METEOROLOGIA VITICOLA 257
Per suggerimento dell' egregio P. Denza, io seguii finora due si-
stemi; nel primo addiziono i tempi corrispondenti ai toni, e dico, ad
esempio: 2 ore al mattino del tono n. 2, più 1 ,30 alla sera, uguale ad
ore 3,30 del tono n. 2.
Nel secondo sistema dico, ad esempio: dalle ore 8 alle 9 mattina
tono 2, dalle 9 alle 10 tono 3, dalle 10 alle 11 tono 3, dalle 11
alle 12 tono 3, dalle 12 all'I tono 2; e così di seguito.
Questi due esempi di registrazione non sono i soli che potrebbero
adottarsi, come ora vedremo; ed è per tal ragione che io conservo
le striscie, per soddisfare alle ulteriori domande che potrebbero fare
i posteri su questo soggetto.
Fisso i due capi delle striscie con una goccia di gomma sopra un
cartone bristol. Questi fogli di cartone, lunghi 50 centim. e larghi
centim. 33 e 1{2, contengono 31 striscie.
Le striscie corrispondenti alle giornate più lunghe in ore solari,
le ripiego alquanto ai due estremi, per economizzare la larghezza
dei cartoni; i quali dovrebbero misurare 36 centimetri, e si spreche-
rebbero i fogli commerciali, non potendoli più dividere nella loro
metà ». —
Questa è adunque la descrizione che lo stesso Prof. Cr averi ci
dà del suo elio fotometro. Ora soggiungeremo che le indicazioni e-
liofotometriche dal 1875 in qua concordano con quelle, benché meno
precise, da noi fatte e più sopra riferite. Ad esempio nel 1875 l'in-
tensità luminosa fu quasi la metà di quella che era stata nel 1874
e perciò le uve riuscirono ancor meno ricche di principio dolce.
(V. pag. 239).
Lo stesso dicasi degli anni 1879 e 1880 di cui ecco un breve
confronto:
1879 1880
vi. VII. VI. Vii.
Maggio — 1.04 — 0.49 — 1.02 — 0.15
Giugno — 2.46 — 2.31 — 1.58 — 0.25
Luglio — 2,07 — 1.38 — 2.17 — 0.50
Agosto — 2.43 — 0.50 — 1.13 — 0.40
Settembre — 1.18 — 0.18 — 1.02 - 0.11
I numeri romani corrispondono alle due tinte di maggior forza
solare.
I numeri arabici indicano in media la quantità di luce solare, in
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura 18
258
CAPITOLO VI
ore e minuti, per ogni giornata del mese che ciascheduna ebbe. Cosi
nel giugno 1879 ogni giornata ebbe in media 2 ore e 31 minuti di
sole splendido; mentre nel 1880 le corrispondenti giornate di giugno,
ebbero appena 25 minuti della medesima luce.
Ora, le uve del 1879 riuscirono ottime per maturazione perfetta,
vale a dire molto ricche di zucchero, mentre quelle del 1880 lascia-
rono molto a desiderare.
Similmente, ecco i dati termometrici ed eliofotometrici che si ri-
feriscono agli anni 1883 e 1884.
Osservat07"io meteorologico di Brà. (Prof. Craveri).
1883
Maggio
Giugno
Luglio
Agosto
Settembre
Ottobre....
1884,
Maggio
Giugno
Luglio
Agosto
Settembre
Ottobre....
Temp.
media
16.98
19.67
23.04
23.03
18.09
12.19
18.20
17.87
24.17
23.35
17.79
11.48
Giorni
Sereni
4
2
4
10
4
3
Misti
23
25
26
21
21
26
20
27
24
26
24
19
Coperti
Eliofotometro
Intensità della luce solare in ore — Medie di oqni mese
1.51
2.06
1.39
1.22
1.26
1,25
1.49
2.12
1.37
1.43
1.43
1.27
3.27
3.43
2.57
2.33
3.11
2.25
3.22
3.14
2.34
2.36
2.54
1.57
HI
4.04
3.41
3.43
3.20
4.17
4.33
4.31
4.40
3.56
3.48
4.52
4.10
IV
2.01
1.24
1.39
1.50
1.44
1.31
2.03
2.01
2.00
2.04
1.25
2.27
1.31
1.21
1.38
1.42
1.23
0.59
2.09
1.37
1.58
1.44
0.44
0.48
vi
1.34
1.35
2.14
2.05
0.26
0.03
0.49
1.46
2.28
1.34
0.40
0.04
VII
0.19
1.39
1.21
1.09
0.01
0.06
0.11
0.35
0.29
0.09
Decimi di
cielo coper.
4.52
4.41
2.87
2.20
5.18
4.13
3.69
4.33
2.30
2.74
5.58
3.52
Facendo un parallelo fra i toni VI e VII dell' 83 e dell' 84 si
notano gravi differenze a danno dell' 84, infatti:
1883
1884
vi
7.57
7.21
VII
4.29
1.30
— 0.36 — 2.99
E nel 1884 i vini riuscirono meno che mediocri, certo inferiori a
quelli del 1883, che pure erano riesciti al disotto dei precedenti del
METEOROLOGIA VITICOLA 259
1882. I dati dell' eliof otometro spiegano molto bene cotali differenze
e confermano vieppiù i principii sovra esposti.
Per dare infine un' ultima prova della importanza grande della
luce nella produzione dello zucchero, diremo che la luce stessa può
entro certi limiti supplire alla deficienza di calore. Abbiamo
osservato molte volte che le giornate completamente serene della
seconda quindicina del settembre, anche se poco calde, sono assai
favorevoli alla formazione del principio dolce; anzi in alcuni casi
potendosi ritardare la vendemmia sino alla prima decade di ottobre,
se è molta l'intensità luminosa le uve si arricchiscono di zucchero così
da produrre vini contenenti circa l'uno per cento di più d'alcool che
non vendemmiando nella terza decade del settembre, e questo anche
se è relativamente deficiente il calore. Secondo una comunicazione
fatta all'Accademia delle scienze di Vienna (1) dal Dott. Richter, si po-
trebbe ritenere che la luce diretta si trasformi in calore; e già Hum-
boldt nel suo Cosmo s aveva richiamato l'attenzione dei fisiologi sul
calore che la luce diretta sviluppa nelle cellule della pianta.
Fatto è che il principio dolce può aumentare nell'uva mentre dimi-
nuisce la temperatura ma si mantiene elevata la intensità luminosa:
•ecco alcuni dati al riguardo raccolti nel 1877.
Moscatellone di Alessandria (2).
Zucchero Cielo Temp. a 1,50
p. Ojo dal suolo
media della decade
1 Agosto — — 23,°7 C.
20 » ......— — 23,4
30 » 12,31 — 25,4
10 Settembre 17,30 — 18, 4
20 » 17,91 — 20,9
30 » 19,62 serenissimo 15, 0
10 Ottobre 22,81 id. 13, 6
Sul finire del settembre e per tutta la prima decade di ottobre il
cielo, nel 1877, si mantenne neh" alto Novarese, dove furono fatte
(1) Addì 19 giugno 1879.
(2) Stazione Enologica di Gattinara (I. Macagno).
260 CAPITOLO VI
queste osservazioni, perfettamente sereno, per cui la intensità lumi-
nosa fu vivissima (1). Ora, è oramai dimostrato che la produzione
della materia organica (amido, zucchero, ecc.) è tanto più abbondante
quanto è maggiore l'intensità luminosa: più questa cresce e più cresce
eziandio l'emissione dell'ossigeno e contemporaneamente e propor-
zionatamente la produzione di materia organica: ciò fu dimostrato
con interessanti esperienze prima da Saussure poi dal fisiologo
Wollkoff.
Riassumendo quanto dicemmo sin qui relativamente alla luce, cre-
diamo di poter formulare le seguenti conclusioni: 1°) La luce solare
intensa e viva influisce notevolmente sulla produzione del prin-
cipio dolce nelle foglie, d'onde emigra nei grappoli; 2°) A pa-
rità di temperatura la quantità di principio dolce cresce col
crescere dell' intensità luminosa; 3°) L influenza benefica della
luce non si esercita soltanto nel periodo di maturanza dell'uva,
ma incomincia dal momento in cui la vite si copre di foglie,
per la qual cosa se il cielo si mantiene abitualmente sereno
dal giugno all'agosto, si può pronosticare che le uve saranno
ricche di glucosio; più o meno secondochè il sereno si sarà o non
mantenuto predominante in settembre ed ottobre; 4°) Entro certi
limiti la luce intensa può supplire alla deficienza di calore,
laddove un maggior calore non può supplire alla deficienza
della luce. (Veggasi la pag. 207).
§ 2. Il calore e la vite. — Gli è solo entro certi limiti, come
or'ora dicevamo, che la luce può supplire al calore; poiché questo
fluido è indispensabile alla vite se deve produrci quei frutti zuccherini
che da essa vogliamo.
L' importantissimo lavoro chimico-fisiologico della clorofilla, senza
del quale non si formerebbe il principio dolce dell'uva, non può ef-
fettuarsi quando manca un certo grado di calore; e ciò anche se
la luce è intensa. Il Dr. Cuboni ha potuto osservare che quando il
termometro, posto vicino alle foglie stesse, segna 17° C si forma an-
cora amido, che convertito poscia in zucchero emigra dalle foglie ai
grappoli; mentre se. il termometro segna circa 13° o meno di 13°,
non si forma più amido, anche se il cielo è sereno, cioè se vi ha
molta energia di raggi luminosi. Ma questi sono i limiti minimi, presso
(1) Yeggansi altri dettagli nel mio Giornale Vinicolo 1878 p. 40.
METEOROLOGIA VITICOLA 261
i quali si forma bensì amido, ma in quantità troppo piccole; onde
sotto tali condizioni di temperatura l'uva riescirebbe tanto povera di
zucchero da non poter servire agli usi enologici. Il lavoro della clo-
rofilla si fa invece attivissimo a più elevate temperature, special-
mente se l'intensità luminosa è molta; è massimo a 35° (pag. 158)
e poscia incomincia a scemare sinché si arriva ad una temperatura
così alta che non può più formarsi la clorofilla medesima.
Alla vite è però assai più confacente un moderato calore, il quale
cresca per gradi sino ad un dato punto, che or' ora determineremo,
che non una temperatura subitaneamente elevata e di durata breve:
vale a dire che la somma di gradi di calore i quali occorrono alla vite
per vegetare normalmente e portare a perfetta maturazione i suoi
frutti, deve esserle somministrata nello spazio di parecchi mesi, partendo
da 9° o 10° C. al momento della germogliazione, salendo a 17°, 18° o
20° C. al momento della fioritura (a seconda delle varietà) e poscia
gradatamente a 30° o 35° nel periodo più caldo dell'agosto ed a 0m,50
dal suolo (1). Questo calore crescente per gradi è favorevolissimo
alla produzione di molta uva di buona qualità, laddove un calore
elevato subitaneo, specie se favorito dall'umido, provoca un eccesso
di vegetazione erbacea, rende la pianta rigogliosa bensì ma non fe-
conda, e più ricca di legno che non di grappoli.
Havvi però un limite in questo periodo, poiché influisce molto sulla
qualità dell'uva e sulla sua ricchezza in principio dolce, il vario modo
con cui possono essere ripartiti i gradi di calore (in media 4000) occor-
renti alla vite dall'uscita dei germogli uviferi alla maturazione per-
fetta dell'uva. Cotale periodo infatti può durare soli 110 giorni ma può
protrarsi ai 170 circa, e si può ritenere che allorquando la somma
dei gradi di calore di cui la vite abbisogna è distribuita in un
troppo lungo periodo di giorni, le uve riescono meno ricche di
zucchero che non quando il periodo della fruttificazione e ma-
turazione è relativamente più breve. In questo caso però, cioè
quando il calore è molto elevato, la quantità del raccolto dimi-
nuisce, perchè il succo delle uve si fa più denso, più sciropposo, e
però meno acquoso, onde spesso occorrono più di 16 miriagrammi
d'uva per ottenere un ettolitro di mosto.
Abbiamo accennato ai 4000° di calore occorrenti in media alla vite,
(1) Questi dati si riferiscono specialmente al Monferrato ed all'Alta Italia in
genere: nell'Italia meridionale il periodo dell'agosto tocca temperature più elevate.
262 CAPITOLO VI
dallo spuntare dei germogli uviferi (sbucciamento delle gemme) alla
maturazione perfetta dell'uva: se consideriamo invece il periodo dalla
fioritura alla vendemmia troviamo in media soli 3000° circa per l'Eu-
ropa meridionale. Questi dati sono ottenuti col metodo di Gasparin,
moltiplicando cioè la temperatura media per il numero dei giorni
che trascorrono nei detti periodi; il metodo è lungi dal potersi
dire rigoroso, ma tuttavia è quello seguito generalmente, potendo
avere un certo valore per la pratica. D'altronde i suddetti dati non
possono avere nulla di assoluto, perchè la somma dei gradi di ca-
lore varia eziandio, e di molto, da vitigno a vitigno e converrebbe
perciò istituire numerosissime osservazioni tenendo calcolo anche di
questo importante elemento.
Alla Stazione Enologica di Asti, ad esempio, studiando la matura-
zione delle uve barbera, grignolino e fresia neh" anno 1878, nello
stesso vigneto, sr trovarono le seguenti differenze:
Barbera
Grignolino
Fresia
Dalla germogliazione'(22 aprile) alla
fioritura; giorni.
43
45
46
Temperatura a 0,50 dal suolo (1)
816° C.
861° C.
884° C
» a 0,25 nel suolo
771° C.
817° C.
839° C
Dalla fioritura alla maturazione per-
fetta; giorni ....
125
123
122
Temperatura a 0,50 dal suolo
2793° C.
2725° C.
2751° C
» a 0,25 nel suolo
3024° C.
2954° C.
2981° C
Presso l'Istituto Agrario Castelnuovo (Palermo) seguendo il me-
todo di Gasparin si trovarono nel 1879 i seguenti dati:
Fioritura: 22 maggio ( : d di ffiorni n6
Vendemmia: IG^settembre^10™ dl Sl0rni lib
Temperatura massima all'aria libera nel detto periodo 31,9° C.
» minima » » 24,6° C.
» media » » 28,2° C.
Che moltiplicata per 116 dà 3271° C.
Gasparin, per la vigna coltivata presso il limite della viticoltura
nel Nord della Francia (Parigi), trovò gradi 2676. Fra Parigi, Asti
(1) Diamo qui la somma dei gradi, come di consueto.
METEOROLOGIA VITICOLA
263
e Palermo vi ha quindi una notevolissima differenza nella quantità
di calore occorrente alla vite nel periodo dalla fioritura alla ven-
demmia. A Palermo le viti vogliono circa 600° di più; è vero però
che le uve riescono notevolmente meno acide e più ricche di prin-
cipio dolce, onde la maturità di cui parla Gasparin deve intendersi
in senso relativo.
Per dare un'idea più precisa dei rapporti che esistono fra la tem-
peratura e la produzione della vite, riporteremo qui una tabella di
Humboldt:
Latitudine
Temperature medie (centigrade)
Luoghi
<D
<D O
Osservazioni
dell'
dell'
della
dell'
dall'
2 -b'o
82
23
anno
invern.
prima-
estate
autun-
Z ^S
vera
a) Vi
■S'S,
Bordeaux...
44° 50'
13.9
6.1
13.4
21,7
14.4
5.0
22.8
Clima molto fa-
Francoforte
vorev. alla vite.
sul M
50° r
9.8
1.2
9.9
18.3
10.0
-0.4
10.8
Parisi
48° 50'
46° 31'
10.8
9.5
3.3
0.5
10.3
9.2
18.1
18.4
11.2
9.9
1.8
-1.0
18.9
18.7
Vino mediocre.
Losanna
Ginevra
46° 12'
9.7
1.2
9.5
17.9
10.2
-0.4
18.6
Berlino
52° 31'
8.6
-0.7
8.0
17.3
8.8
-2.4
18.0
Vino appena be-
vibile.
Cherbourg..
49° 39'
11.2
5.2
10.4
16.5
12.5
3.2
17.3
Senza viti.
Londra
51°31'
10.4
4.2
9.5
17.1
10.7
3.0
17.8
Id.
Dublino
53° 23'
9.5
4.6
8.4
15.3
9.8
4.3
16.0
Id.
Come vedesi nel clima di Bordeaux si verificano appunto le con-
dizioni di temperatura che dicemmo essere cotanto favorevoli alla
fruttificazione della vite. Quasi tutta l'Alta Italia si trova in condi-
zioni uguali se non migliori; ma si trova certo in condizioni migliori il
rimanente d'Italia, d'onde uve più zuccherine e vini più alcoolici.
Senonchè nel misurare la temperatura converrebbe eziandio tenere cal-
colo dell' altezza dei termometri dal livello del suolo, cosa che
non si fa sempre, dal che derivano i molti dati contraclditorii che si ri-
scontrano nei differenti autori: nell'anno 1876 la Stazione Enologica
d'Asti volle misurare le variazioni termometriche a seconda dell'al-
tezza degli istrumenti d' osservazione, ed ecco i dati che si riferi-
scono all'estate:
>64
CAPITOLO VI
Altezza dal suolo
Media
Media delle due
e ;
profondità in un vigneto
di luglio
prime decadi
di agosto
Termometro Cent.
al sole a lm,50
30,60 C.
31,13 C.
»
» 0m,50
32,36
33,01
»
nel suolo 0m,10
29,89
29,27
»
» 0m,20
28,74
28,99
»
» 0m,30
26,52
27,65
»
» 0m,40
25,31
26,67
È notevole la differenza fra la temperatura a 0m,50 e quella ad
lm,50; ed è pure notevole che nel terreno, se duro o poco smosso come
era quello dell'esperimento, anche a 0,40 di profondità la tempera-
tura può innalzarsi da 25° a quasi 27°, quando si innalza pure la
la temperatura dell'aria, per la qual cosa in terreni non scassati le
radici sono più esposte ai danni della siccità, come del resto è notorio.
Crediamo però opportuno di far notare che non in tutte le sta-
gioni si ha a 0,50 di altezza dal suolo una temperatura maggiore
che a lm,50; nei mesi più freddi, specialmente ai crepuscoli ed a
ciel sereno, la temperatura può farsi più bassa a 0m,50 come ha
constatato il Prof. Gaetano Cantoni. Le viti allevate basse nei
paesi ove V inverno ed il principio della primavera sono freddi,
sono infatti più danneggiate dalle brine che non le viti alte, perchè
basta qualche grado di meno di temperatura per determinare la for-
mazione della brina; diremo a suo luogo come possa evitarsi questo
grave inconveniente (1).
Ma se alla vite è indispensabile un adeguato calore, una tempe-
ratura la quale ecceda certi limiti può riescirle molto dannosa: fa-
cendo la somma dei gradi di calore solare che si hanno ora per ora
nei mesi di maggio, giugno, luglio, agosto e settembre si trova che
il numero 63.000 rappresenta il limite estremo, ed il numero 55.000
rappresenta la media più favorevole alla vegetazione ed alla frutti-
ficazione della vite.
I seguenti dati possono permettere al lettore di fare un parallelo
fra alcuni paesi viticoli:
Vienna
Mompellieri
Palermo
Guibar-Bou-Aoun (Algeria limite estremo)
49.900
55.900
56 500
63.000
(1) Vedi Viti a piramidi — ed il capitolo ove si parla delle brine.
METEOROLOGIA VITICOLA 265
Sotto i 50.000 gradi orarii bisogna proteggere la vite contro i geli,
sopra i 60.000 la vegetazione e la fruttificazione sono irregolari. Ac-
cade allora che l'uva si essica anziché maturare, e questo special-
mente nei vigneti esposti a mezzogiorno ed in terreni pietrosi. I raggi
calorifici che cadono sulla loro superficie sono allora riflessi, come
si vede nella fìg. 64, e vanno a colpire l'uva senza nulla aver per-
Fig. 64.
eluto della loro potenza; vale a dire che i raggi diretti a hanno u-
guale potenza calorifica dei raggi riflessi b, onde l'uva c> se non è
protetta da foglie, riceve per riflessione i raggi solari che giungono
alla superfìcie dei ciottoli, oltre a quelli che possono venirle diretta-
mente dalla parte superiore. In queste condizioni se il calore non ec-
cede i suaccennati limiti, l'uva matura completamente; anzi in alcuni
paesi ove il clima non è troppo favorevole alla vigna, si coadiuva
la maturazione dell'uva appunto circondando le ceppaie di grosse
pietre, che si riscaldano al sole e ne riflettono i raggi sui grappoli (1).
Ma, oltre quei limiti, si verifica la così detta scottatura dei grap-
poli, che i Francesi chiamano échaudage, fenomeno ben noto nel-
l'Italia e nella Francia meridionali. Si può ritenere che allorquando
il termometro centigrado segna intorno ai 40° all'ombra ed a nord,
gli acini si essicano, e ciò perchè essi vengono a trovarsi sotto Fin-
fluenza di una temperatura assai maggiore, appunto pel calore ri-
flesso dal suolo. Non si erra stabilendo che se il termometro nei-
CI) De Candolle. Pliysiologie vegetale, p. 1254.
266 CAPITOLO VI
l'aria segna 35° a 40°, l'uva può scaldarsi sino a 60°-65°, special-
mente se i grappoli sono poco distanti dalla superfìcie del suolo. Nel-
l'interno degli acini dei nostri vitigni coltivati ad alberello sui colli
di Casalmonferrato, abbiamo sempre riscontrato in giornate serene
di settembre 35° a 40° C.; ma questo in condizioni normali di calore.
Al capitolo Malattie della vite, studieremo in disteso quanto si rife-
risce alla scottatura.
Qui soggiungeremo soltanto che i perniciosi effetti della tempera-
tura soverchiamente elevata, sono temperati alquanto dall'umido e
dal vento, o per meglio dire dallo stato di movimento in cui può tro-
varsi l'aria; in altri termini se il tempo è molto secco e calmo non
è necessario un innalzamento di temperatura uguale a quello che si
richiede durante un tempo umido perchè l'uva abbia a soffrirne; la.
scottatura potrà allora verificarsi anche a 2 o 3 gradi al disotto del-
l'accennato limite.
§ 3. L'umido e la vite. — Le pioggie moderate sono senza
dubbio di giovamento alla vite, la quale non potrebbe vegetare, e
peggio poi fruttificare convenientemente, senza un adeguato umidore
nel suolo; ma a bello studio abbiamo parlato di pioggie moderate,
perchè poche piante risentono tanto quanto la vite gli effetti perni-
ciosi del soverchio umido.
Come ed in quale misura l'acqua giovi alla vite ed all'uva l'ab-
biamo già studiato a pag. 207, accennando alle nostre osservazioni
sulla grossezza degli acini a seconda della quantità d'acqua caduta
sul suolo. Senz'acqua non può esservi vino; né ciò deve parere un
paradosso per chi conosce solo gli elementi della fisiologia della vite
e la composizione del mosto.
Le piogge moderate nei mesi di agosto e di settembre giovano
eziandio a far aumentare la quantità del mosto, e sin dal 1846 il
sig. Vergnette Lamotte (1) asseriva di aver constatato con esperi-
menti esatti che « il giorno dopo una pioggia vi era néìYuva matura
un assorbimento d'acqua tanto meccanico che organico, il quale po-
teva elevarsi sino al 5 °/0 del peso primitivo. »
Una adeguata quantità d'umido è poi indispensabile per la matu-
razione dell'uva; senza l'acqua o con quantità troppo piccole d'acqua
non avverrebbero quelle trasformazioni dei componenti dell'acino che
(1) Congrès des vignerons, Dijon, p. 431,
METEOROLOGIA VITICOLA 267
da acerbo lo fanno maturo; e questo perchè l'acqua essendo uno fra
i più importanti solventi, specialmente considerata nei fenomeni ve-
getali, permette un più intimo contatto fra i suddetti componenti,
d'onde traggono origine nuovi composti. E di ciò pure abbiamo lun-
gamente detto studiando la maturazione dell'uva.
Ma è però vero di dire che la vite ama piuttosto la siccità che non
l'umido, e basterebbe a dimostrarlo il fatto a tutti notorio, che nei
paesi ove il cielo è abitualmente sereno da aprile a ottobre, con un
persistente alidore, le uve riescono esuberantemente ricche di zuc-
chero cioè perfette per dolcezza e profumo.
Abbiamo però altri fatti che ci provano come la vite si appaghi
di una limitata quantità d'umido, e sia allora più sana, oltre a produrre
frutto migliore. Anzitutto ogni viticultore ha osservato di certo che negli
anni secchi il vino è migliore, e che per contro negli anni umidi la vite
è facilmente infestata da crittogame, onde l'uva riesce mediocre e ciò
quand'anche si vincano questi parassiti. In simili condizioni, cioè se
le piogge sono abbondanti, si ha anzitutto un notevole abbassamento
di temperatura, per la qual cosa tutte le funzioni vitali della pianta
restano se non paralizzate di certo inceppate per deficienza di luce
e di calore.
Inoltre nelle annate umide il succo entra nei frutti troppo abbon-
dante e troppo acquoso, e le cellule destinate ad elaborarlo non pos-
sono farlo che in modo incompleto; il frutto diventa grosso, ma ac-
quoso ed insipido (1).
Quando poi le piogge sopraggiungono alla vigilia, se così possiamo
dire, della vendemmia, oltre al guasto ed al marcimento di molti grap-
poli, si hanno mosti che fermentano lentamente ed incompletamente, e
vini di poca stabilità. Accade allora che gli acini si gonfiano oltre
misura in un tempo relativamente breve, e le fiocine si screpolano;
di qui ha principio il marciume, e quindi sviluppasi la muffa speciale
di cui ci occuperemo studiando le crittogame degli acini.
È pure noto ai viticultori che se le pioggie abbondano durante
l'attecchimento degli acini, vale a dire dopo la fioritura, gli acini
cadono e si ha la cosidetta càscola di cui diremo studiando le ma-
lattie della vite. Qui ci limiteremo a notare che la càscola arreca
spesso danni assai gravi, specialmente se le piogge soverchie cadono
(1) De Candolle loc. cit. pag. 577.
268 CAPITOLO VI
nel mese di giugno e se, come accade quasi sempre, all'azione no-
civa dell'umido, associasi quella nocivissima del freddo.
Infine è pure noto che l'umido soverchio durante il periodo della
fioritura, cagiona 1' aborto dei fiori, di cui abbiamo già parlato stu-
diando la formazione dei viticci, e di cui diremo a lungo più in-
nanzi.
Un altro inconveniente delle piogge è l' abrasione delle foglie
dei tralci e dell'uva causata dalla subitanea comparsa del sole co-
cente: allora le goccioline d'acqua che stanno sulla pianta fanno l'uf-
ficio come d'una lente ustoria, concentrando sovra un solo punto i
raggi solari e causando una alterazione nei tessuti che si palesa poi
come una piccola macchia rosso- nerastra (1).
Infine il grande calore dopo un tempo umido prolungato, provoca
una soverchia evaporazione dalle foglie della vite, specialmente se
il vigneto è situato in esposizione calda e protetta dai venti; in queste
condizioni se perdura l'elevata temperatura le foglie ingialliscono a
poco a poco e finiscono col cadere.
Sono quindi parecchi e gravi gli inconvenienti causati da un ec-
cesso di umido: per precisare meglio la sinistra influenza delle
pioggie sulla qualità dell'uva, riferiremo i saggi comparativi fatti dal
Dr. F. Ravizza alla Stazione Enologica di Asti sui mosti di due anni,
l'uno secco, l'altro umido.
Questi due anni furono il 1877 ed il 1878: i vitigni sui quali si
esperimentò furono il Barbera, il Grignolino e la Fresia. Ecco le
quantità di pioggia cadute:
1877 . . . millimetri di pioggia 62
1878 .. . » 309
Adunque il 1877 fu molto asciutto ed il 1878 molto umido. Ad
onta di ciò i giorni passati dalla fioritura alla completa maturanza
non variarono di molto:
Barbera Grignolino Fresia
1877 . . . giorni 123 117 118
1878 ... » 125 123 122
Variò però sensibilmente la quantità di zucchero, sostanze estrat-
(1) Ne riparleremo al Cap. XXVIII studiando la melata o manna.
METEOROLOGIA VITICOLA
269
tive e tartrato potassico, che fu notevolmente maggiore nelF anno
asciutto, cioè nel 1877:
Densità
Grado Guyot
Zucchero
Tartrato
Acidi
Sostanze
estrattive
Barbera .
1877
1.101
23
200.0
8.52
6.38
242.7
»
1878
1.096
22.5
190.8
6,95
8.59
235.7
Grignolino
1877
1.101
24
208.3
8.12
7.37
242.6
»
1878
1.083
19
168.0
6.21
9.90
202.1
Fresia . .
1877
1.104
24
192.3
8.38
7.47 '
235.8
» . . 1878 1.086 19.5 172.4 6.10 10.00 209.3
Da questo specchietto si desume eziandio che negli anni piovos_
aumenta il per mille di acidi, la qual cosa è un indizio che la ma
turità dell'uva è imperfetta. Il tartrato di potassio aumenta invece
coll'aumentare dello zucchero, come già dicemmo a pag. 223.
Le pioggie abbondanti indussero nel 1878 una notevole diminuzione
nella temperatura misurata entro terra:
Totale dei gradi
dalla fioritura alla completa maturazione
Termometri nel suolo
a metri
0,25
a metri
0,45
a metri
0,65
Barbera
.
1877
3024
2910
2841
»
. . .
1878
2841
2875
2729
Grignolino
, .
1877
2954
2826
2749
»
. • •
1878
2791
2719
2682
Fresia
. .
1877
2981
2850
2772
»
#
. 1878
2766
2700
2658
La temperatura totale (dalla fioritura alla completa maturanza)
misurata a 25 centimetri di profondità fu notevolmente maggiore
nell'anno asciutto (1877) in cui ad esempio il barbera ebbe un to-
tale di 3024 gradi, cioè circa 200 di più che non nell' anno umido
(1878). È facile però intendere come queste differenze vadano di-
minuendo col crescere della profondità, perchè negli strati inferiori
è minore la evaporazione che è causa del raffreddamento del terreno:
nel 1878 ad ogni modo il terreno si raffreddò assai più che non nel
precedente anno, causa le molte piogge. Tutti questi fatti giovano
a dimostrare viemeglio quanto l'umido soverchio sia dannevole alla
vite.
270 CAPITOLO VI
§ 4. L'elettricità e la vite. — L'influenza grande che l'elet-
tricità esercita sulla vegetazione, ci induce a svolgere questo pa-
ragrafo con alquanti dettagli, tanto più che gli studii che hanno
tratto all'elettricità ne' suoi rapporti colla vite, sono abbastanza re-
centi e poco conosciuti.
L'illustre J. Sachs premesso che « colle radici nel suolo la pianta
terrestre svolge nell'atmosfera i suoi rami e le sue foglie e presenta
all'aria un'ampia superfìcie, e che il tessuto della pianta è imbevuto
intieramente di liquidi elettrolitici », ritiene che la pianta sia capace
di eguagliare le differenze elettriche che possono esistere tra il suolo
e l'atmosfera, a mezzo delle correnti che traversano dall'alto al basso
tutto il tessuto vegetale. Ora siccome Y atmosfera possiede d' or-
dinario una tensione elettrica differente dalla tensione elettrica del
terreno, e siccome questa differenza di tensione cambia secondo il
tempo che fa, si è tratti a credere che si operino continuamente at-
traverso alle piante degli scambi di elettricità. « Queste correnti con-
tinue esercitano esse un'azione favorevole sui fenomeni della vege-
tazione? Le improvvise e potenti scariche elettriche che hanno luogo
in occasione della caduta del fulmine attraverso gli alberi dimostrano
per lo meno che delle deboli differenze di tensione elettrica possono
egualmente neutralizzarsi con lentezza attraverso al corpo della
pianta ».
Nollet in Francia, Jallabert a Ginevra, Mambray ad Edimburgo
fecero fin dal secolo scorso esperienze in proposito su piante ed a-
nimali, caricando di elettricità con macchine a sfregamento V am-
biente in cui racchiudevano le une o gli altri, oppure in cui pone-
vano semi a germogliare; e ne dedussero che un aumento di ten-
sione elettrica accelerava le funzioni vitali.
Il prof. G. A. Ottavi mio padre scriveva nel suo Coltivatore (voi. 19,
pag. 160): « Le cose più meravigliose della natura, come la riso-
luzione dei problemi più diffìcili, pare siano inerenti a questo potente
fluido (l'elettricità). Ad esso perciò, se pure non mi illudo, si do-
vranno le maggiori scoperte dei secoli avvenire. »
Duhamel de Monceau nella sua Fisica delle piante insiste sul ra-
pido sviluppo delle piante stesse durante i tempi procellosi e sull'azione
benefica delle piogge, anche sulle piante acquatiche, « S'incominciano
a vedere nella natura, egli aggiunge, altri agenti potentissimi che
possono produrre questi effetti; la virtù magnetica e quella dell'e-
lettricità possono esser portate ad esempio: chi sa che non ve ne
METEOROLOGIA VITICOLA 271
sia una infinità d'altre? L'abate Nollet, il signor Le Mosnier il
medico e vari altri fisici, ci hanno fatto intravedere che l'elettricità
può influire sulla vegetazione. »
L'abate Bertolon è più reciso; « l'elettricità dell'atmosfera ha sulle
piante, come sopra tutti gli animali e particolarmente sull'uomo, una
influenza ben marcata. » E le sue esperienze provarono che codesta
influenza era delle più benefiche per la vegetazione.
Ma il merito di avere in questi ultimi tempi con esperimenti
esatti tratto conclusioni più precise, spetta al signor Grandeau in
Francia ed in Italia ai compianti nostri scienziati dott. Celi e dottor
Macagno.
Per constatare con un'esperienza diretta se l'elettricità atmosferica
esercita o no una influenza sulla vegetazione, il sig. Grandeau u-
sando di terreni più o meno differenti per origine, per ricchezza va-
riabile in principii nutritivi, per profondità diverse ecc., ma pren-
dendone sempre due identici per natura e condizioni esterne in cia-
scuna esperienza, in questi poneva due piante della stessa specie e
tanto eguali tra loro da potersi paragonare senza errore. Così queste
due piante si trovavano in condizioni assolutamente simili sotto ogni
riguardo: terreno, umidità, luce, ecc. Soltanto che una delle due
piante la lasciava crescere liberamente nell'aria a contatto di tutta
l'elettricità atmosferica; per l'altra invece l'aria circostante veniva
privata dell'elettricità atmosferica ed ecco come:
Due casse metalliche, munite di fori nella parte inferiore, conte-
nenti ciascuna 19 chilogr. della medesima terra, venivano infossate
nel terreno di un giardino ai ò\6 circa della loro altezza. Una delle
casse era posta all'aria libera; l'altra era superiormente coperta da
una leggiera gabbia in ferro alta metri 1,50 e larga lateralmente
metri 0,40, come si vede nella figura 65. Questa gabbia era
formata da quattro montanti in ferro di m. 0,01 di diametro, uniti
tra loro da una rete in filo di ferro fino (m. 0,0005) a maglie di
m. 0,15 su m. 0,10; questa gabbia lascia libero accesso all'aria, alla
luce, al calore, all'acqua, ecc.; essa non ha altro effetto che quello
di sopprimere intieramente per la pianta che vi sta dentro, l'azione
dell'elettricità atmosferica.
Le due casse erano poste a poca distanza l'una dall'altra; esse
ricevevano egualmente e durante lo stesso tempo, i raggi del sole,
la pioggia, ecc. In un angolo di ciascuna delle due casse, il Gran-
deau pose, al principio della esperienza, due scatole metalliche con-
272
CAPITOLO VI
tenenti lo stesso terreno delle casse; esse erano destinate a servir
di confronto per le variazioni che la terra senza piante subisce nella
sua composizione pel contatto prolungato con l'atmosfera ed a stu-
diare così la nitrificazione naturale del suolo nudo, sottratto o non
all'azione dell'elettricità.
Le esperienze furono fatte sul tabacco, sul mais caragua, e sul
frumento Chiddam.
Esperienze sul tabacco. — Il 7 aprile 1877 in ciascuna delle
due casse fu posto un piede di tabacco, proveniente dalla stessa
aiuola, pesante gr. 3,5 ed avente quattro foglie primordiali. Queste
piante affatto identiche avevano completamente attechito al 14 aprile.
A partire dal 20 dello stesso mese fino al giorno del raccolto (7 a-
gosto) si constatarono differenze assai notevoli nello sviluppo dei
due tabacchi: quello che vegetava all'aria libera si comportava come
METEOROLOGIA VITICOLA
273
le altre piante vegetanti vicino a lui in piena terra; quello invece
che era posto sotto la gabbia cresceva assai meno rapidamente in
altezza ed in diametro. Tutti e due erano vigorosi; le loro foglie,
assai verdi, dinotavano una regolare funzione, benché sensibilmente
differente in intensità, della cellula clorofilliana. Al 7 agosto la pianta
fuori gabbia aveva fiorito ed i grani incominciavano a formarsi,
mentre la pianta sotto gabbia assai in ritardo relativamente all'altra,
presentava appena qualche bottone, ma neanche un fiore.
Eccone i dati dei pesaggi e dell'analisi:
TABACCO
Altezza totale
Numero delle foglie . . .
Peso delle foglie fresche
Peso medio di una foglia .
Peso dei fusti e delle radici
Peso totale della raccolta
Peso della so- l foglie . .
stanza secca \ fusti e radici
Acqua
Materie azotate
Materie idrocarbonate . .
Ceneri (materie minerali)
fuori
m.
gr.
gabbia
1,05
14
107
7,64
106
273
13
17
243,000
2,269
24,629
3,102
sotto
m.
gr
30
gabbia
0,69
10
70
7
70
140
8,5
9,0
122,500
1,325
13,755
2,420
17,5
Per potere fare un paragone, supponendo eguale a 100 la quan-
tità delle sostanze della pianta in piena elettricità, avremo i seguenti
dati:
fuori gabbia sotto gabbia
Materia vivente totale 100 51,28
Materia azotata » 58,39
Materie idrocarbonate (cellulosa, amidacee) » 55,85
Ceneri » 98,02
Esperienze sul mais cavagna. — All' 8 agosto alle due piante
di tabacco furono sostituite due piante di mais in tutto paragona-
bili; misuravano m. 0,18 di altezza e pesavano ciascuna gr. 2,8; il
terreno fu concimato egualmente in tutte e due le casse; al 13 agosto
le piante avevano attecchito; al 21 dello stesso mese la differenza
nello sviluppo dei due mais era assai sensibile, poiché la pianta tolta all'e-
lettricità cresceva assai meno della pianta all'aria libera. All'8 ottobre
per tema delle brinate fu fatto il raccolto: la differenza apparente
O. Ottavi, Trattato di Viticoltura 19
274 CAPITOLO VI
tra le due raccolte si accentuò piuttosto nello sviluppo del diametro
del fusto e delle foglie, che sull' altezza delle piante.
Ecco i dati dell'analisi
MAIS
fuori gabbia sotto gabbia
Altezza totale m. 1,10 0,98
Numero delle foglie » 7 7
Peso dei fusti e foglie gr. 86 50
Circonf. del fusto ad 1 decim. dal colletto
delle radici ..*... cm. 5,3 4,1
Peso della raccolta secca gr. 7,922 5,428
Acqua » 78,078 44,572
Materie azotate » 1,084 0,673
Materie idrocarbonate » 5,696 3,693
Ceneri , . . . . » 1,142 1,062
Supponendo anche qui eguale a 100 la quantità delle sostanze
delle piante in piena elettricità, avremo i dati seguenti:
fuori gabbia sotto gabbia
Materia vivente totale 100 58,14
Materie azotate » 62,08
Materie idrocarbonate » 64,45
Materie minerali » 92,99
Esperienza sul frumento Chiddam. — Al 6 novembre 1877
dopo aver ben lavorato la terra delle due casse, vi fu seminato il
frumento; la nascita fu regolare e le piante si comportarono sensi-
bilmente nello stesso modo dal novembre alla fine di marzo. Al primo
aprile 1878 i frumenti delle due casse non presentavano alcuna dif-
ferenza marcata per l'altezza ed il vigore. Al 25 maggio i fusti del
frumento misuravano in ambo le casse da m. 0,38 a 0,40 di altezza,
ma il volume apparente dei fusti era assai differente; il frumento
cresciuto all'aria libera aveva maggior grossezza, mentre i fusti del
frumento sotto gabbia erano assai meschini.
Tolti sei gambi, tagliati rasente terra in ambedue le casse, si trovò :
Peso dei 6 fusti fuori gabbia gr/ 6,570
» sotto gabbia » 4,950
Un accidente impedì di proseguire 1' esperimento fino alla matu-
rarla ; ma il frumento rimasto sotto gabbia rimase intristito, fiori
METEOROLOGIA VITICOLA 275
difficimente, molti fiori abortirono e la raccolta in grano fu poco ab-
bondante.
Da queste sperienze il Grandeau trasse le seguenti conclusioni:
1° I vegetali sottoposti all' esperienza furono notevolmente in-
fluenzati nel loro accrescimento della soppressione della tensione e-
lettrica dell'atmosfera che li circondava. La proporzione dei tessuti
viventi formati in assenza dell' azione dell' elettricità atmosferica fu
inferiore del 27,09 per cento alla produzione normale.
2° Il tasso di materia secca elaborata dalla pianta si è abbas-
sato sotto la gabbia del 29,71 per cento; quello della materia azo-
tata del 20,28 per cento; il tasso delle materie amilacee (zuccaro,
amido, ecc.) fu specialmente influenzato dalla soppressione dello stato
elettrico dell'aria; si abbassò del 31,75 per cento sotto la gabbia.
3° Le piante vegetanti all'aria libera assorbirono un po' più di
azoto (0,06 per cento) ed assai meno di sostanze minerali.
Il compianto Dott. Celi fece esperienze consimili alle precedenti,
seminando alcuni semi di mais in ambienti elettrizzati, ed altri in
ambienti non eletrizzati. Germinati i semi, le piante si svolsero in
proporzioni assai differenti; al 10 agosto misurate le piante si eb-
bero le seguenti dimensioni:
Piante nell'aria elettrizzata, altezza metri 0,17
Id. non elettrizzata » » 0,08
Ma veniamo infine alla Vite, che fu essa pure sottoposta ad eguali
esperienze per cura del compianto nostro collega Dott. Macagno. Egli,
all'Istituto Agrario di Castelnuovo (Palermo) applicò a 16 viti l'ap-
parecchio indicato nella figura 66.
Un filo di rame M N, innestato mediante punta di platino nella
estremità superiore del tralcio frutticoso, era spinto verticalmente
nell' aria ad un' altezza di 80 centimetri circa sopra la linea A B,
che indica l'altezza cui arrivano le foglie e le punte dei tralci della
vite durante la sua vegetazione.
Questo filo fu fissato con sostegni isolatori al palo stesso, ove si
vengono ad attorcigliare e legare i tralci più lunghi, secondo il si-
stema del luogo. Alla base del tralcio frutticoso venne pure innestato
con punta di platino un altro filo di rame O P che andava nel suolo.
In tal modo le 16 viti si trovavano nella condizione di ricevere
più facilmente delle altre F influsso dell'elettricità atmosferica. L' ap-
276
CAPITOLO VI
parecchio venne applicato al 15 aprile e lo si lasciò fino al 20 set-
tembre, giorno della vendemmia. Raccolti allora i tralci frutticosi
Fip-. 06.
tanto di queste come di altre viti vicine lasciate in condizioni ordi-
narie per confronto, vennero analizzati, ed eccone i risultati:
METEOROLOGIA VITICOLA
277
Quantità per cento
Nel legno secco a 110°
Materie minerali
Potassa
Calce
Acido fosforico
Nelle foglie secche a 110°
Materie minerali
Potassa sotto forma di bitartrato
Potassa sotto altra forma . .
Calce
Acido fosforico
Bitartrato potassico
Acido malico
Acido tannico .......
Acido tartarico libero . . . .
Amido e destr
Glucosio , . .
Negli acini freschi
Mosto per cento
Acqua
Glucosio
Acido tartarico libero . . . .
Bitartrato di potassa . . . .
Acido tannico .......
Acido malico
Viti
Viti
aturali
con apparecchio
3,684
3,115
0,642
0,541
1,184
1,192
0,182
0,128
13,415
14,415
0,795 )
0,429 j
22! 0.871J
'~~X 0,390) V°
5,211
5,321
0,428
0,665
3,180
3,491
2.480
2,515
12,760
11,911
2,051
3,221
9,730
10,415
3,444
3,528
78,21
79,84
75,80
74,23
16,86
18,41
0,112
tracce
0,880
0,791
0,180
0,186
0,064
0,058
Considerando le sole materie minerali troviamo, siccome conchiude
il Macagno, che esse abbondano di preferenza nelle viti naturali
quando si consideri soltanto il loro peso totale. Nelle foglie invece
succede il rovescio, essendo maggiore la loro quantità nelle viti
che hanno subito maggiore influsso elettrico. Ciò indicherebbe una
certa accelerazione di forza vegetativa prodotta dall'elettricità, giac-
ché dove essa scarseggia sembra che le materie minerali stentino a
diffondersi per tutta la pianta.
Altro indizio di questa speciale tendenza indotta dall' elettricità è
la distribuzione della potassa. Nei tralci è maggiore per quelle viti
che rimasero in condizione naturale, per un ritardo forse di vege-
tazione, ma nelle foglie delle viti munite d'apparecchio metallico, non
solo essa è un po' maggiore, ma osservasi molto più pronunciata la
278 CAPITOLO VI
quantità combinata con acido tartarico. Il bitartrato di potassa è più
abbondante là dove è più facile l'accesso dell'elettricità ; ed oltre ciò
rispettivamente alla quantità totale della potassa è maggiore quella
trasformata in bitartrato, prodotto caratteristico dell' attività delle
foglie. Sopra 100 parti di potassa 65 nelle foglie delle viti naturali
stanno combinate coll'acido tartrico, mentre nelle altre ve ne sono 69.
Nessun' altra differenza rimarchevole si rileva nella composizione
delle foglie, tranne una certa tendenza a produrre maggiormente
amido e glucosio per quelle munite del suddetto apparecchio.
Ma dove le risultanze dell'esperimento danno una più chiara idea
dell' influenza che l'armatura metallica applicata alle viti può avervi
esercitato, è nell'esame dell'analisi degli acini freschi.
Quelli lasciati nelle condizioni naturali presentano un carattere di
maturanza ritardata rispetto agli altri che meglio poterono ricevere
elettricità dall'aria. Cioè-, troviamo nei primi meno mosto, meno glu-
cosio e maggior dose di acidi.
Le differenze sono molto sensibili, per cui se ne deve conchiudere
che l'elettricità facilita ed accelera lo sviluppo degli elementi
del grappolo, nel tempo stesso che porta maggior attività nelle
foglie della vite.
Di questi interessanti studii non venne fatta sin'ora veruna pratica ap-
plicazione; ma noi crediamo che in un avvenire non lontano si penserà
a trarre partito dell'influenza elettrica anche nella coltura della vite.
§ 5. La grandine e la vite. — Questa idrometeora è senza
dubbio uno fra i più terribili flagelli delle viti. Da osservazioni fatte
sino dal precedente secolo risulterebbe che gli è specialmente nel qua-
drimestre maggio-agosto che le grandinate sono più funeste, benché
si diano talvolta eccezioni.
La grandine reca danni diretti ed indiretti. I danni diretti sono
la percossa e le abrasioni dei tessuti, la rottura dei tralci, la scortec-
ciatura, infine la acciaccatura e lo sgranellamento dei grappoli, I
danni indiretti provengono dal notevole abbassamento di temperatura
che segue sempre la caduta della gragnuola.
I danni diretti sono più o meno gravi secondochè la grandine cade
accompagnata o non da acqua; tutti i viticultori sanno che la cosi
detta tempesta secca o asciutta è la più temibile, mentre se la gra-
gnuola è accompagnata dalla pioggia può anche arrecare danni in-
significanti.
METEOROLOGIA VITICOLA 279
Il guasto è poi maggiore se spira un forte vento, perchè in questo
caso i diacciuoli della grandine colpiscono, cadendo obbliquamente,
anche quelle parti della vite che probabilmente sarebbero rimaste il-
lese. Anche la grossezza dei diacciuoli influisce, come è naturale, a ren-
dere la percossa più o meno dannosa: il loro peso può raggiungere
proporzioni incredibili; si narra di palle di gragnuola che pesavano
oltre i cinque chilogrammi (1) e che formarono sul terreno uno strato
alto 25 centimetri. Certo queste sono rarissime eccezioni; ma diac-
cioli del peso di varii ettogrammi sono frequenti, e ne facemmo una
dolorosa esperienza nel 1884, specialmente alla funesta grandinata del
6 giugno. La grossezza dei diacciuoli dipende dalla violenta agita-
zione che sempre ha luogo nelle nubi temporalesche, per la quale i
granelli di grandine vengono sbattuti gli uni contro gli altri, e quasi
diremmo saldati, per modo che il loro volume si va mano mano ac-
crescendo; alcuni osservatori hanno potuto udire il rumore prodotto
dal cozzo dei diacciuoli fra di loro, come ci narra Marié-Davy (2)
accennando alle trombe che accompagnano sempre la formazione
della grandine nelle nubi.
Infine i danni della grandine sono gravissimi e senza rimedio se
essa cade quando la vite ha appena messo fuori i grappolini, perchè
allora una grandinata anche minuta può compromettere tutto il rac-
colto d'un vigneto. È noto infatti che molte Compagnie di assicura-
zione non accettano rischi anteriori al 15 di giugno.
Indirettamente la grandine arreca danno alle viti, come già di-
cemmo, per l'abbassamento notevole di temperatura che trae seco.
Dalle medie termometriche da noi raccolte prima e dopo le quattro
funestissime grandinate che nell'estate del decorso 1884 distrussero
i nove decimi del raccolto dell'uva nel basso Monferrato (circon-
dario di Casale) ci è risultato quanto segue:
Temperatura media Termom. sul suolo del vigneto (Esp. Sud.)
— in luogo soleggiato
Prima della grandine (a mezzodì) . 40° C.
Poche ore dopo la grandine . . 20° C.
La mattina successiva (ore 6) . . 16° C.
Il giorno dopo (a mezzodì) . . 25° C.
Due giorni dopo 35° C.
(1) Van Meeske. Grèle tombée à Koewacht (Fiandre Zélandaise) il 25 agosta
1853. (Citato da Berti-Pichat: Istituzioni: lib. II. Cap. I.)
(2) Meteorologie et Physique agricoles — 171.
280 CAPITOLO VI
Come vedesi il raffreddamento durò per molto tempo, recando senza
dubbio grave danno alle viti, le quali dopo le grandinate hanno invece
d'uopo di molto calore. Il compianto Dr. Macagno fece analoghe osser-
zioni a Gattinara (alto Novarese) nell'anno 1877 in cui ebbero luogo
colà tre grandinate addì 9, 18 e 22 maggio. Eccone i resultati:
Terni, nell'aria Termometro nel suolo
ci £L £b <X <X
50 centim. 10 e. 20 e. 30 e. 40 e.
Media delle temperature
osservate per cinque
giorni innanzi il tem-
porale del 22 maggio 20° C. 21° C. 18° C. 17° C. 17° C.
Media delle temperature
osservate per sette
giorni dopo il tempo-
rale del 22 . . . 16° C. 15° C. 16° C. 10° C. 16° C.
Da questi dati risulta che non bastarono sette giorni per rimet-
tere il terreno nelle primitive condizioni di temperatura: inoltre, l'ab-
bassamento di temperatura subito fu più marcato negli strati super-
ficiali e specialmente a 10 centim. di profondità, ove si ebbe un ab-
bassamento maggiore di quello che ebbe luogo nell'aria.
La grandine tuttavia sarebbe assai meno nociva di per sé stessa,
se discendesse placidamente dalle nubi come la neve; anzi come que-
st'ultima idrometeora, recherebbe un po' d'ammoniaca nel terreno,
siccome ha constatato il sig. Mene, analizzando i diacciuoli caduti
presso Parigi il 5 maggio 1851.
Diremo al capitolo XXVIII come sia possibile porre rimedio en-
tro certi limiti ai danni che cagiona la percossa della grandine. Qui
ci rimane solo a dire che la sua caduta è preannunciata da un
crepitìo speciale dovuto all'urto dei diacciuoli gli uni contro gli al-
tri, come già accennavamo or' ora. Inoltre le nubi assumono un a-
spetto rigonfio ed una tinta giallo -grigia; sono i così detti nembi dei
meteorologisti, situati a grandi altezze ove la temperatura è molto
bassa (sotto Io zero), d'onde la formazione della grandine, che poi
scende dagli alti strati delle nubi e si ingrossa vieppiù. Il nembo
temporalesco suole però terminare inferiormente assai basso, cioè
METEOROLOGIA VITICOLA
281
all'altezza di un miglia o poco più (1). « Se il nembo ha. piede, cioè
se insiste per lunga base sull'orizzonte e rapido se ne solleva, ma-
nifestando come un fremito nei nuvoli congregantisi, e manda fre-
quentissimi lampi e un continuo ma cupo rumore, a ragione temesi
allora il temporale con rovescii di pioggia e di gragnuola, tanto più
orrenda quanto più la stagione sarà stata calda ed asciutta. » Così
si esprime, e giustamente, il rinomato Nipote del Vestaverde, ac-
cennato dal Prof. Gaetano Cantoni nella sua Enciclopedia agraria.
La regione d'Italia ove sono più frequenti i temporali, e quindi
anche le grandinate, è la Valle del Po, come risulta dal seguente
specchio:
Giorni
TEMPORALESCHI
STAZIONI
o
ci
CD
>
o
0
u
c3
c3
0
CD
>
a
2
3
<
£
*
San Gottardo
0,4
1,6
0,8
2,8
Biella . .
4,4
9,8
0,4
14,6
Torino .
4,6
5,2
0,6
10,4
Moncalieri
8,6
14,2
2,0
24,8
Mondovì
4,0
10,4
2,2
16,2
Alessandria
4,8
10,8
2,8
18,4
Lugano .
3,0
9,2
2,8
15,0
Milano .
4,0
13,2
2 2
19,4
Pavia
0,2
3,2
10,6
2', 8
16,8
Guastalla
0,2
4,8
13,2
2,8
21,0
Modena .
—
3,6
8,8
2,2
14,6
Bologna .
—
2,4
12,6
3,4
18,4
Forlì . .
2,0
6,2
3,0
11,2
Firenze .
0,2
4,6
6,0
3,0
13,8
Siena . .
1,4
3,8
5,4
2,8
13,4
Urbino .
0,4
1,2
7,0
2,0
10,6
Perugia .
0,4
1,6
7,6
1,8
11,4
Roma
0,8
2,8
6,4
2,6
12,6
Napoli (S. R.)
2,0
3,6
5,4
5,2
16,2
Locorotondo
0,4
3,0
5,4
9 9
11,0
San Remo . .
0,4
1,8
2,9
1,8
6,9
Genova . .
1,6
4,8
10,0
3,2
19,6
Livorno . . .
0,2
3,0
5,8
2,4
11,4
Ancona . .
0,2
1.4
6.2
2,0
9,8
Napoli (0. U.)
1,6
3,2
7,6
4,6
17,0
Reggio (Calabi
iaj .
0.4
1,4
2,8
2,8
7,4
Palermo ....
2,0
3,0
3 9
3,0
11,2
(1) Enciclopedìa agraria. — Climatologia italica. Dott. Paolo Cantoni, p. 254.
282 CAPITOLO VI
§ 6. La brina e la vite. — La brina è pure una funesta i-
drometeora per la vite, benché possa tornare di giovamento all'uva,
come diremo tra poco: distingueremo intanto le brine primaverili
da quelle autunnali, essendo assai differenti i loro effetti sulla nostra
ampelidea.
Vediamo anzitutto come si formi la brina sulle viti e sui vege-
tali in genere. Man mano che il calore diminuisce per il tramonto
del sole, F atmosfera, specialmente ne' suoi strati inferiori, cioè
più caldi, va via deponendo del vapore allo stato acquoso, perchè
scemando la temperatura scema anche la quantità di vapore che l'a-
ria può tenere mescolata. Da accurate esperienze in proposito risultò
infatti, che ove la temperatura atmosferica durante la notte scendesse
da 25 a 20 gradi, ogni metro cubo di aria depositerebbe 584 cen-
tigrammi di vapore acqueo: che se da 20 scendesse a 15 gradi, cotale
deposito sarebbe di centigrammi 460 e cosi via via. Ma questa non
è la sola causa della produzione, durante la notte, del vapore acqueo:
ve n' ha un' altra, ed è l'irradiazione notturna della terra. Anche il
terreno, perdendo calore, produce vapor acqueo, benché in minor
proporzione di quanto ne producano i succitati strati atmosferici; il
dott. Wells lo dimostrò chiaramente a mezzo di due fiocchi di lana
di dieci grammi caduno collocati, durante quattro notti di seguito,
l'uno sopra un'asse lunga lm ,50, larga 0m,75 e spessa 0m,02 tenuta
con quattro sostegni ad un metro dal suolo, e l'altro subito al di-
sotto dell'asse istessa. Come si vede il fiocco di sopra era solo in
grado di ricevere il vapor acqueo condensato degli strati atmosferici,
mentre quello di sotto era esposto all'influenza dell'evaporazione del
suolo: ora, il dottor Wells ebbe a constatare ripetutamente che il
vapor acqueo del primo fiocco era il triplo e talvolta anche il quin-
tuplo di quello assorbito dal secondo.
Oltre alla terra vi sono pure i vegetali, nelle loro parti verdi, che
si coprono da loro stessi di una certa quantità di umido, il quale si
condensa tosto sulle foglie venendo in contatto con l'aria fredda dopo
il tramonto del sole. Ciò avviene per causa della traspirazione, la
quale non cessa subitamente col repentino mutarsi della temperatura
dell'aria quando fa notte, ma diminuisce invece grado a grado. E
naturale che se l'atmosfera è molto fredda quell'umidore assuma lo
stato di brina.
Ma ritornando al vapor acqueo che può trovarsi in più nell'at-
mosfera quando il sole è tramontato, diremo come, secondo la teoria
METEOROLOGIA VITICOLA 283
di Wells, esso vada a depositarsi e condensarsi sui corpi che hanno
la temperatura del gelo; e si deposita in tanto maggior copia quanto
più freddo è il corpo stesso: — infatti noi possiamo di leggieri per-
suadercene osservando che la brina non è egualmente intensa sopra
tutto che venga di notte tempo esposto all'aria libera. Come un ve-
getale possa venir coperto di brina si spiega facilmente riflettendo che
esso perde di notte tempo, per irradiazione, il calorico che ebbe dal
sole durante il giorno (1) e tende insomma ad equilibrare la sua tem-
peratura con «quella degli strati superiori atmosferici verso cui va ir-
radiando calore (fig. 67). La temperatura del suolo, nonché quella degli
strati dell'atmosfera ambiente, può essere anche superiore allo zero.
Fig. 67.
ma ciò non costituendo un ostacolo per l'irradiazione notturna, le
gemme delle viti, ad esempio, possono benissimo gelare, appunto per
aver perduto tanto calore da scendere sotto lo zero.
Da ciò è ovvio il dedurre che se — stando sempre nel caso nostro
speciale delle viti — si venisse a porre un ostacolo qualsiasi, come
un tetto, una larga stuoia di paglia, insomma un tramezzo purchessia
fra le gemme ed il cielo, esse non si raffredderebbero al segno da
condensarvisi e congelarvisi sopra del vapor atmosferico, vale a dire
da rimaner brinate. E questo è tanto vero che quando il cielo non
è completamente sereno non si hanno notti brinatose: le nubi interpo-
(1) A parte questo, è noto che il calore proprio delle piante nel verno è sem-
pre superiore all'atmosferico. Ha quindi luogo un'irradiazione forte nelle notti
serene e tranquille.
284 CAPITOLO VI
nendosi allora fra glispazii plaaetarii e la superfìcie della terra (fig. 68)
sono un potente ostacolo all'irradiazione, trattenendo il calore per-
duto dalla terra, dalle piante, ecc., fra esse ed il suolo stesso; però
notisi anche che le nubi hanno di per sé stesse una temperatura di
molto superiore a quella del firmamento.
mm.
Fig. 63.
Acciò possa formarsi la brina è poi altresì necessario che non vi
siano, di notte tempo, dei venti; i quali, oltreché diminuiscono l'umi-
dità dell'aria, inceppano altresì la suddetta irradiazione. Ma si badi
che parliamo qui di venti, poiché ognuno sa come nelle notti d'aprile
o di maggio si formino forti brinate anche in presenza di leggere
correnti d'aria, le quali costituiscono appunto uno fra i più serii o-
stacoli all'uso delle nubi artificiali contro le brine.
Conosciute così le cause che facilitano la formazione di questa i-
drometeora, è necessario che entriamo a discutere sulle osservazioni
termometriche che il viticultore deve sapere fare, per non essere
colto alla sprovvista. In generale si commette un grave errore, ed è
quello di collocare il termometro sotto una pianta, oppure appeso al
tronco o ad un muro o sulla finestra: ma lo strumento viene così ad
indicarci un grado che non è quello che noi abbiamo interesse di co-
noscere. Noi vogliamo avere la misura della irradiazione, per cono-
scere sino a qual segno la terra si vada raffreddando, mentre ci
importa poco della temperatura dell'aria; poiché abbiamo già detto
che l'ambiente può essere a 4, 5 e più gradi sopra lo zero, e tut-
tavia le gemme delle viti e la superficie del suolo ricoprirsi di brina.
METEOROLOGIA VITICOLA 285
Il termometro adunque si deve collocare alla superficie del suolo,
all'aria libera, in guisa che possa segnare un grado che sia in re-
lazione colla potenza dell'irradiazione notturna. Collocando allora al-
tro termometro contro un muro sarà facile accorgersi che in certe
notti mentre il primo segna 1-2 gradi sotto lo zero, il secondo può
indicarne 4°-5° sopra: senza dubbio allora, se si verificano le citate
condizioni, v'ha formazione di brina.
In Francia dove le viti hanno a soffrire, quasi annualmente, gravi
danni dalle brine, si sono costrutti speciali termometri con suoneria
elettrica che, collocati nella vigna, avvisano in tempo utile il vigna-
iuolo acciò dia mano ad accendere quei fuochi che producono le nubi
artificiali. Si dovette ricorrere a questi congegni perchè, quantunque
le brinate avvengano in un periodo di giorni abbastanza bene defi-
nito, pure spesse volte i viticultori si trovavano presi così all'improv-
visa, che più non era loro dato di porre un freno alla idrometeora
devastatrice (1).
Ed ora che sappiamo come si formi la brina, vediamo in qual
modo si renda cotanto dannosa alle gemme od alle teneri messe
della vite. Secondo l'opinione generale, i primi raggi del sole che
si leva, cagionano un disgelo precipitato che disorganizza i tessuti
vegetali; inoltre le goccioline di brina agiscono come lenti ustorie,
di cui già parlammo a pag. 268. Ma si è osservato che, anche te-
nendo all'ombra, sino dall'alba, le viti brinate, esse soffrono ugual-
mente come se fossero state colpite dai raggi del sole. Conviene
dunque ammettere che la brina sia tanto pregiudicievole per la
grande perdita di calore che i vegetali subiscono allorquando essa
si va formando: il calore è vita, e sottrarlo alle cellule vegetali vuol
dire ucciderle. Inoltre sotto l'influenza di temperature assai basse, il
succo della vite abbandona la sua aria (2) d'onde un disordine nei
tessuti. La morte delle parti colpite dalla brina e dal gelo è da at-
tribuirsi, secondo l'illustre Sachs, al disgelo repentino, il quale senza
dubbio è più a temersi del gelo stesso: secondo l'illustre fisiologo te-
desco le cellule delie piante gelate sono in uno stato particolare che
le rende molto più permeabili ai liquidi; le materie albuminoidi di
cui sono tapezzate e la cellulosa, di cui è formata la loro membrana,
(1) Si possono avere simili termometri dall'officina Galileo di Firenze.
(2) Allorquando l'acqua si congela, essa abbandona V aria che teneva disciolta.
Così J. Girardin.
286 CAPITOLO VI
si concretano per l'azione del freddo, e l'acqua di costituzione se ne
separa: esse hanno allora una grande tendenza a vuotarsi. La mag-
gior parte perdono questo stato anormale allorquando il disgelo è
assai lento; ma se la temperatura si rialza al punto da ristabilire
il movimento vitale innanzi a che le cellule abbiano ripreso il loro
stato normale,- esse si vuotano e muoiono.
La brina si forma più facilmente e più copiosa nei vigneti situati
presso le acque stagnanti, ove l'aria è assai tranquilla; oppure nelle
valli umide, o presso grandi masse di alberi che traspirano molto
vapor acqueo. La presenza delle piante erbacee e delle cereali nei
vigneti è pure una causa che facilita le brinate; conviene dunque
tenere mondo e lavorato il vigneto: ma in ciò non convengono
tutti i viticultori, come diremo più ampiamente al cap. XXVIII.
È invece difficile si forni la brina nei vigneti situati in luoghi
elevati, scoperti, ove l'aria circola liberamente e asciuga facilmente
il terreno, nonché presso i grandi corsi d' acqua soggetti al flusso
e riflusso, o meglio ancora presso al mare, appunto • perchè quivi
l'aria si può dire che è in movimento continuo.
Si sono fatte osservazioni tendenti a pronosticare nell'inverno se
la primavera sarà o non molto brinatosa; stimiamo utile di qui ri-
assumerle. Le condizioni meteorologiche dei mesi di gennaio e di
febbraio hanno senza dubbio una certa influenza: 1°) sull'andamento
della successiva primavera, nulla essendovi di più logico che di applicare
al caso nostro il detto del Laplace nel suo « Saggio sulla probabi-
lità », essere cioè lo stato presente dell'universo l'effetto del suo stato
anteriore, e la causa di quello che andrà a seguire; 2°) sui maggiori
o minori pericoli cui può andar esposta la vegetazione durante le
notti fredde di aprile o di maggio.
Hanno influenza sull'andamento dei mesi primaverili, perchè allor-
quando l'inverno trascorre molto nevoso, si hanno — parlandosi special-
mente della nostra Italia del nord e del centro — venti freddi dai monti,
e quindi notevoli abbassamenti di temperatura durante la notte. E
dove si è vicini a montagne coperte di neve, non c'è bisogno di venti
perchè s'abbia nelle notti d'aprile e maggio un sensibile abbassamento
al termometro. Siccome poi per la molta neve il suolo assorbe mag-
gior copia di umidore, così avviene che in seguito ne cede anche
molto all'aria durante l'irradiazione notturna: il suolo infatti si ri-
scalda al sole di aprile e maggio, ma dopo il tramonto irradia il ca-
lore ricevuto durante il giorno; ora perdendo calore perde anche
METEOROLOGIA VITICOLA 287
una parte della sua umidità, ed ecco che questo vapore acquoso si con-
densa in goccioline a cagione del raffreddarsi dell'atmosfera, e spesso,
a contatto di corpi freddi, passa allo stato di brina, che — nel caso
delle viti — trovasi poi tanto più abbondante quanto più le gemme
od i teneri germogli sonosi raffreddati di notte tempo. Può quindi
ritenersi che cadendo molta neve durante gennaio e febbraio, si hanno
facili brinate in primavera, tanto più quando non mancano nevicate
in marzo. Questa neve liquefacendosi, andrà infatti ad accrescere l'u-
midità del terreno. E qui noteremo di passaggio che i fossi di scolo
numerosi e ben nettigioverebbero a grand'uopo per smaltire più pron-
tamente ed in maggior copia cotale eccesso di acqua; si sappia quindi
trarne profitto.
I predetti mesi del verno hanno poi anche una certa influenza sull'entità
del danno che può dalle brinate derivarne alla vegetazione; infatti
quantunque si vada erroneamente dicendo che la vita vegetale tace
e riposa in gennaio e febbraio, deve invece ritenersi che essa prose -
gue, bene inteso più o meno attiva a seconda dell'andamento della
stagione j emale. Ora, se le brinate di primavera trovano una vege-
tazione che abbia già un certo sviluppo, ma che sia costituita da tes-
suti floscii, poco consistenti, diremmo quasi pletorici, recano serii
danni: se invece quella ha una costituzione meglio assodata, le con-
seguenze sono assai meno gravi.
Poiché parliamo di pronostici, accenneremo anche alle osservazioni
fatte sull'argomento da un antico ispettore forestale francese, il si-
gnor Millet, il quale da lunghi anni si è dedicato a studii molto serii
di meteorologia applicata. Siccome il signor Millet gode molta stima
in seno alla Società degli Agricoltori di Francia, così ci parve di dover
prendere atto dei suoi pronostici, per quanto curiosi e, almeno per
noi, inesplicabili.
Brevemente; egli aprì una inchiesta in tutta la Francia per con-
statare se veramente, secondo egli credeva, le nebbie che si produ-
cono in marzo sono generalmente seguite da brine alle date corrispon-
denti di maggio. A quanto pare sarebbe riuscito ne' suoi intenti, e solo
notò che le date non possono ritenersi come assolute, poiché in qual-
che località e per eccezione le brinate ebbero luogo un giorno prima
od un giorno dopo, e che se vi fu qualche previsione sbagliata di
pianta, dipese da ciò che si designarono col nome di nebbie gli ac-
cumulamenti di vapor acqueo che spesso osservansi presso i corsi
d'acqua o nelle vallate.
288 CAPITOLO VI
Sin qui abbiamo parlato più propriamente delle brine primaverili:
vediamo ora quanto si riferisce alle brine autunnali. La loro for-
mazione è determinata e favorita dalle stesse cause, ma i loro ef-
fetti sulla vite sono ben differenti. — Esse colgono le uve per così dire
alla vigilia della vendemmia e non recano loro verun nocumento;
anzi ne favoriscono vieppiù la maturazione. In alcune regioni viticole
dell'Italia superiore i viticultori desiderano infatti che le brinate col-
gano le uve prima della vendemmia, perchè allora il vino risulta più
amabile e più generoso, siccome essi asseriscono.
Già Columella aveva scritto che « l'uva si addolcisce col gelo
e colle brine », onde è antichissima questa credenza fra i coltivatori.
Ma anche gli studiosi sono oggidì dello stesso avviso, perchè le a-
nalisi comparative fra uve brinate e uve non brinate hanno accusato
per le prime una maggiore ricchezza in principio dolce. Il Prof. Gae-
tano Cantoni nelle sue Conferenze sul vino (pag. 23) dice che una
temperatura la quale anche per poco si abbassi sotto lo 0°, basta
ad indurre, per un diverso processo, la trasformazione dell'amido
e della fecola in destrina e glucosio. Ecco la media di tre prove in
proposito:
Glucosio
Mosto d'uva non gelata . . . 12.70 per cento
» gelata . . . 14.12 »
Alcool
Vino d'uva non gelata . . . 11.68 per cento
» gelata . . . 12.03 »
Lo stesso fenomeno avviene esponendo al gelo delle pere, dei pomi
di terra ed altri frutti consimili: all'azione del gelo la loro polpa
interna perde in totalità od in parte la proprietà di farsi violetta col-
l'iodio, ed acquista un sapore dolciastro, maggiore anche di quello
che aveva prima. La pratica di esporre alle brine i graticci sui quali
sta l'uva destinata a fare il così detto vin santo, è una applicazione
del suesposto principio.
Accurate esperienze su questo soggetto furono fatte dal Dr.
A. Carpenè e dal suo allievo Dr. TI, Benettì a Conegliano. In un
vigneto della Società Enotecnica Trivigiana si segnarono parecchie
viti di Raboso, tutte in vicinanza Y una all' altra e fra quelle che
avevano l'uva maturata più uniformemente ed i grappoli più regolari.
Alla vigilia della vendemmia, verso il 22 d'ottobre, quando l'uva era
METEOROLOGIA VITICOLA
289
considerata matura, si staccarono alcuni tralci con le rispettive foglie
e grappoli, in modo da permettere all'uva di continuare per qualche
po' di tempo ancora le sue funzioni fisiologiche, sebbene separata
dalla vite. Tolti alcuni grappoli dal tralcio con tutte le cautele,
perchè questi presentassero la stessa uniformità di maturazione di
quelli che rimasero sul tralcetto, si pigiarono con torchio a mano;
con la maggiore diligenza si determinò del mosto il quantitativo di
glucosio e l'acidità complessiva.
I grappoli rimasti sul tralcetto, aventi maturità uguale agli altri
pigiati, si immersero in un recipiente che a sua volta stava circon-
dato da una miscela frigorifera. D'intorno al grappolo si mantenne
per 6 ore una temperatura media di gradi 6 sotto lo zero e il re-
cipiente si riempì di vapor acqueo fino a che tutti i grappoli si co-
persero d'un velo d'acqua gelata rassomigliante alla brina.
Dopo 6 ore si tolsero dall'azione della bassa temperatura; i grap-
poli vennero asciugati diligentemente esponendoli per poco ad una
atmosfera d' aria secca e calda. Essi si mantennero intatti; le buc-
cie, essendo resistenti, non subirono lesione alcuna. Gli acini erano
morbidi e si staccavano più facilmente dal pedicello. Pigiati ugual-
mente agli altri simili non sottoposti all' azione del freddo, diedero
un mosto più carico di colore, che lasciò depositare con somma
prestezza, a differenza del mosto d'uva non agghiacciata, abbondanti
cristallini di tartrato di calcio. Ecco i risultati dell'analisi:
Glicosio per 100 (col reattivo
di Fehling)
Acidità per 1000 (coll'acqua di
calce)
Glicosio per 100 (col reattivo
di Fehling)
Acidità per 1000 (coll'acqua di
calce)
Glicosio per 100 (col reattivo
di Fehling)
Acidità per 1000 (coll'acqua di
calce)
Uva
Uva
non
agghiacc.
agghiacc.
la prova
12,230
13,870
16,800
15,900
12,850
14,100
17,850
16,320
12,960
14,600
17,930
Uva
agghiacc.
2a prova
13,960
15,580
13,850
15,660
14,520
17,150
O, Ottavi, Trattato di Viticoltura
20
290
CAPITOLO VI
Gli esperimentatori dubitando che la differenza potesse dipendere
da ineguaglianza di maturazione dei grappoli, quantunque i tre saggi
fatti fossero concordi, eseguirono un secondo esperimento.
Presero chilogr. 10 di uva ben scelta ed uniforme nella matura-
zione. Metà di quest'uva la collocarono in un mezzo frigorifero e la
sottoposero per 12 ore ad una temperatura media di gradi 5 sotto
zero.
Pigiarono in seguito nello stesso grado e condizioni, ma sepa-
ratamente, le due partitelle d'uva; i due mosti, senza graspi e buccie,
dopo analizzati li collocarono in due recipienti, la cui bocca si
chiuse con apparecchio di sicurezza. Ecco l'analisi dei due mosti:
Mosto d'uva non agghiacciata
Mosto d'uva agghiacciata . .
G licosio
p. 100
col reattivo
Fehling
Acidità
p. 1000
con F acqua
di calce
13,860
15,500
18.020
16.660
Il sapore dei due mosti non offriva differenze marcate, soltanto
il colorito era più carico nel mosto d'uva sottoposta al freddo.
Si abbandonarono i due mosti alla fermentazione, che si completò
in 12 giorni circa sotto una temperatura di gradi 12 a 16 cent.
La fermentazione proseguì ugualmente regolare in ambedue i mosti.
Dopo sei giorni di riposo, i vini si fecero sufficientemente limpidi e
vennero assaggiati. Nel sapore e nel profumo dei due vini non si
marcarono differenze, soltanto si sentiva meno austero e più ama-
bile quello d'uva agghiacciata, il quale era anche un po' più carico
di colore. Ecco l'analisi dei due vini:
Alcool
per 100 in
volume
Acidità
complessiva
per litro
Glicosio
indecomposto
Vino d' uva non agghiac-
ciata
Vino d'uva agghiacciata . .
9.500
10.600
15.910
15.300
traccie
traccie appe-
na sensibili
METEOROLOGIA VITICOLA 291
La conclusione dei signori Carpenè e Benetti fu questa: V uva,
per Vozione delle brine e del gelo, s arricchisce in materia zuc-
cherina e si spoglia leggermente della sua acidità.
Al capitolo XXVIII studieremo poi i varii modi di impedire la for-
mazione delle brine e di ovviare ai loro danni: qui dobbiamo limi-
tarci a pure considerazioni meteorologiche.
§ 7. Il gelo, la neve, la nebbia, la rugiada e le viti. —
Il gelo invernale può arrecare gravi danni alla vite; è però vero
che questa pianta sopporta anche temperature assai basse, ed in
speciali circostanze non perisce neppure se il termometro scende a
20° sotto lo zero. Ma a bello studio diciamo in speciali circostanze,
perchè talvolta anche a freddi meno intensi le ceppaie muoiono; ciò
accade nelle pianure, ove infatti si ha f abitudine di sotterrare le
viti nell'inverno. La ragione di ciò può trovarsi nel fatto che ivi i
tessuti delle viti sono più ricchi di succhi, ed il disgelo repentino
è assai più funesto.
Dalle numerose osservazioni e notizie da noi raccolte nel 1880,
dopo quel rigidissimo inverno, ci risultò che soffrono meno le viti
dei colli che non quelle delle pianure; a Stradella i vigneti della
pianura avevano sofferto a — 12°, mentre quelli del colle avevano re-
sistito a — 15°; inoltre soffrono molto le ceppaie vecchie, in vigneti
a tramontana, male tenuti ed in terreni leggieri nei quali possono pe-
rire anche giovani piante. Vi sono poi talune varietà che resistono
meglio delle altre, ed in generale può ritenersi che i vitigni del Nord
(Germania, Austria Sett.) resistono meglio di quelli del Sud (Italia,
Francia ecc.) alle basse temperature, la qual cosa è utile a sapersi
per chi possiede vigneti in pianure soggette a forti geli.
Il gelo può danneggiare le sole gemme senza uccidere la pianta.
Le gemme morte si riconoscono dal loro pronto distaccarsi e cadere
non appena si toccano col dito; tagliando poi una piccola porzione
dei serbatoi su cui esse stanno, non si vede il colore verde che
caratterizza i bottoni sani; — collo stesso mezzo si può ricono-
scere se, oltre agli occhi, hanno sofferto anche i sott' occhi. Se il
gelo sopraggiunge dopo un tempo umido, le gemme possono rima-
nere come ricoperte da uno strato di ghiaccio, massime nelle basse
piane; allora è diffìcile non periscano.
Il gelo può far perire i soli tralci pur rispettando le ceppaie: essi
allora appariscono come bruciati o arsicci, e le loro gemme sono
292 CAPITOLO VI
tutte quante male aderenti; nel 1880 abbiamo avuto occasione di
esaminare molti di questi casi.
Infine quando il gelo è molto intenso e di lunga durata, penetra
le parti legnose e vecchie della vite, e l'intera pianta può perire,
venendo allora a gelare anche le radici.
Si narra di freddi intensissimi avvenuti in Italia nel 1608, che
fecero perire viti e olivi; si narra pure dei danni gravi arrecati dal
gelo nel 1829. Questi freddi intensi si verificano sempre nel mese
di Gennaio che in Italia, eccezione fatta per la Sicilia (ove esso è
quasi simile al Febbraio) è il mese più freddo dell'anno. Neil' Italia
Centrale, ed eziandio nella Meridionale, sensibili abbassamenti di
temperatura sotto lo zero sono pure possibili, benché non nella stessa
misura dell' Italia superiore; ecco le minime assolute occorse dal-
l'anno 1865 al 1870.
Italia settentrionale — 17,° 7 (Alessandria, 12 gennaio 1868).
» centrale — 10,° 8 (Urbino, 23 gennaio 1869).
» meridionale — 12,° 8 (Camerino, 23 gennaio 1869).
Al capitolo XXVIII tratteremo del sotterramento delle viti per
evitarne il gelo, siccome praticasi in varie regioni d' Italia e d' altri
paesi vitiferi.
La neve non esercita veruna marcata influenza sulla pianta della
vite, e solo può nuocere quando liquefacendosi prontamente la poca
quantità rimasta sui rami, li inumidisce: quest'umido congelandosi du-
rante la notte, può danneggiare le gemme. Ma un po' di vento che agiti
i tralci, impedisce quasi sempre la formazione di questi piccoli strati
di ghiaccio. Del resto una neve copiosissima che copra totalmente
le viti basse nelle pianure e rimanga non squagliata dalle piogge,
agisce quale efficace copertura di terra. D'altra parte la neve reca
nel terreno sali ammoniacali e nitrati: Boussingaitlt trovò 4 milli-
grammi di acido nitrico per litro d'acqua di neve, e Marié-Davy
da 1 a 6 milligrammi di ammoniaca. Anche i signori Barrai e
Bence Jones trovarono acido nitrico nelle nevi, ed oramai non vi
ha più dubbio che questa idrometeora contiene più ammoniaca e
più acido nitrico che non la pioggia, anche perchè condensa, come
refrigerante, certe sostanze volatili (carbonato ammonico) che ema-
nano dal suolo. Però, se alla neve segue la pioggia, il terreno si
inzuppa d'acqua, che può nuocere molto alle viti ove non abbia un
pronto scolo: il danno sarà anche più grave in caso di gelo e di-
sgelo repentino.
METEOROLOGIA VITICOLA 293
La nebbia può arrecare danni gravissimi alle viti; ciò accade
quando le coglie al momento della fioritura. Il freddo umido da cui
vengono ad essere allora circondati i fiori può farli abortire; lo
stesso accade quando la nebbia si dirada d' un tratto ed un sole
cocente viene a colpire co' suoi raggi le infiorescenze : lo sbalzo
di temperatura che ne segue è dannosissimo ai fiori, che pronta-
mente cadono come essicati. Molti viticoltori attribuiscono alle nebbie
lo sviluppo di talune crittogame che infestano la vite, ma ciò è vero
soltanto sino ad un certo punto : Y oidio, ad esempio, si sviluppa
prontamente se l'atmosfera oltre ad essere calda è eziandio alquanto
umida, ed ecco come dopo una nebbia può vedersi la malattia in-
fierire con maggiore energia. Può dirsi lo stesso della peronospora.
In un vigneto sano però la nebbia non può mai essere la causa
prima dello sviluppo di crittogame; essa anzi può essere giovevole
nel senso che riesce giovevole la rugiada.
La rugiada infatti, per quanto rappresenti solo una tenue quan-
tità d'acqua (1), esercita pure una salutare influenza sulle parti verdi
della vite, specialmente allorquando queste sono esposte a forti sic-
cità: non tutti ammettono che le foglie possano approfittare diret-
tamente dell' acqua che si depone sovra di esse; ma noi abbiamo
provato varie volte, durante le arsure dell' agosto, a spruzzare di-
rettamente acqua sul fogliame delle viti che si mostravano come
sofferenti per difetto d' umido, e in breve d' ora le abbiamo sempre
viste farsi più rigogliose quasi si fossero dissetate. Conviene inoltre
tenere calcolo della rugiada che si forma sul suolo stesso, e che si
cangia poi in acqua utile alle radici, anche per le sostanze nutrienti
che tiene in dissoluzione. Certo però non si deve esagerare la in-
fluenza della rugiada tanto sulle viti quanto sulle altre piante.
§ 8. I venti e la vite. — Chaptal, studiando l'influenza dei
venti sulla vite, concludeva col dirli costantemente nocivi: « essi dis-
seccano i fusti, le uve ed il suolo; essi producono, sovratutto nelle
terre forti, uno strato duro e compatto che si oppone al libero pas-
saggio dell'aria e dell'acqua, e mantiene con ciò, attorno alla radice,
una umidità putrida che tende a corromperla » (L'art de faire le
vin, 41). Ciò è vero solo nel caso di venti continui, come è pure
(1) Racldi e Nacca trovarono, pel clima di Firenze, che 87 rugiade formatesi
in media nell'anno, corrispondevano a poco più di 6 millimetri d'acqua in media.
294 CAPITOLO VI
vero che là dove soffiano venti impetuosi a primavera, è quasi im-
possibile coltivare la vigna, le cui cacciate sono facilmente spezzate:
in questo caso conviene proteggere i vigneti con opportuni pianta-
menti di alberi, come pini e simili, ed è quanto si fa in alcuni
paesi.
Non sapremmo tuttavia disconoscere che i venti moderati possono
giovare alle viti in vario modo: anzitutto abbiamo già detto che se
l'aria è agitata è impossibile la formazione della brina, e questo è
già un notevole vantaggio indiretto; inoltre il vento agitando i tralci
inumiditi dalle pioggie o dalle nebbie, li asciuga prontamente ed il gelo
e disgelo sono allora quasi innocui del tutto: questo stesso movimento
dei tralci li fortifica, siccome ammetteva Gasparin (1): i venti in-
fine facilitano rincrociamento del polline, come dicevamo a pag. 191.
Tuttavia i venti possono portare abbassamenti di temperatura sfa-
vorevoli alla fioritura normale delle viti, (v. pag. 44); ed inoltre
sono spesso veicolo di insetti e crittogame; così il valente micro-
grafo A. F. Negri ritiene, per accurate osservazioni, che il vento
di sud-ovest sia quello che dissemina la peronospora nel Basso Mon-
ferrato, su di che diremo meglio studiando questo fungo microsco-
pico.
I venti infine possono portare seco loro principii deleterii per la
vite: quelli così detti salati vengono dal mare e portano cloruro di
sodio (sale), cloruro di potassio, magnesia, ecc. come dice Liebig
nella sua Chimica organica, danneggiando spesso le viti in primavera,
perchè abbruciano le giovani cacciate o danneggiano la fioritura. Il
sig. De Las Cases (2) accenna ad un vento africano caldissimo e
come carico di sabbia finissima, che addì 22 agosto 1815 distrusse
completamente il raccolto dell'uva a Madera: aveva però durato
circa due giorni consecutivi.
Questi fatti possono spiegare forse sino ad un certo punto l' opi-
nione dei pratici, i quali attribuiscono taluni malanni che incolgono
subitamente le viti, ai « colpi di vento ».
§ 9. Latitudine, altitudine ed esposizione. — Abbiamo già
accennato, alle pag. 28 e 39, all'influenza della latitudine, dell'altitu-
(1) Cours (VAyriculture, torn. second, 192. La stessa canapa coltivata in luoghi
ventosi <Jà una fibra più grossolana.
(2) Mémorial de Sainte-Hélène.
METEOROLOGIA VITICOLA 295
dine, dell'esposizione, ecc. sui limiti della stazione della vite: ora vo-
gliamo esaminare cotale influenza relativamente alla durata del periodo
vegetativo, dalla fioritura alla maturità dell' uva. Già sappiamo che
la zona della vite si estende in Europa fra il 30° ed il 50° di la-
titudine settentrionale; sarebbe però un errore di credere che do-
vunque, in questa zona, possa coltivarsi la vite; sono troppe le cause
che, a parte la latitudine, modificano il clima d'una data località, e
già ne enumerammo parecchie a pag. 39 e 41, ond'è che il viticul-
tore quando voglia studiare se un dato locale sia più o meno adat-
tato all'impianto d'un vigneto, deve esaminarne colla latitudine e l'al-
titudine, eziandio l'esposizione, l'inclinazione, la vicinanza delle acque,
la vicinanza delle masse di alberi, le pioggie, i venti dominanti, e via
via: rimandiamo intanto il lettore alle accennate pagine, non volendo
qui ripetere il già detto.
U altitudine influisce notevolmente sulla maturità delle uve, ed
anche a latitudini uguali le differenze sul periodo di vegetazione e
fruttificazione della vite possono essere ragguardevoli: citeremo un
esempio: — il piano di Renda trovasi a soli 15 chilometri (in pla-
nimetria) dalla piana di Palermo; però mentre quest' ultima sta fra
i 15 ed i 25 metri sul livello del mare, Renda invece è collocato a
550 metri circa; or bene, basta questa differenza di altitudine perchè
il clima della Conca d'Oro e delle terre dell'Agro Palermitano poste
a pochi metri sul livello del mare differisca notevolmente dalle terre
elevate, anche a pochi chilometri di distanza. E così a Palermo verso
la metà dell'agosto 1880 si stava vendemmiando lo zibibbo (che è di
natura precoce) mentre al piano di Renda la maturità era in ritardo
di due mesi circa: il Dott. Macagno parlò coi coloni di Renda, e tutti
gli attestarono che ivi la vendemmia non si può mai fare prima del
15 ottobre, e che d'altra parte tanto lo zibibbo quanto gli altri vi-
tigni siciliani colà non arrivano mai a maturanza completa. In simili
regioni conviene introdurre vitigni precoci del settentrione. — Ver-
g nette -Lamotte (1) studiando l'influenza dell'altitudine sui vini della
Borgogna trovò che i migliori si producono fra 15 e 78 metri sul
livello della pianura; più in basso si raccolgono vini meno delicati
e più deboli; più in alto vini duri, aspri e da collocarsi fra quelli di
seconda e terza qualità. Ciò può spiegarsi riflettendo che nelle parti
basse il terreno è sempre più fertile e più ricco di acqua (prove-
(1) Conyrès des vignerons de Dijon pag. 342,
296 CAPITOLO VI
niente dalla parte alta), quindi il vino riesce più acquoso laddove
nelle parti molto elevate vi ha relativamente deficienza di calore
solare, d'onde vini più ricchi di acidi.
U esposizione esercita essa pure una certa influenza sulla fioritura
e la fruttificazione della vite: si ritiene in generale che la migliore sia
quella di Sud, e poscia rispettivamente quelle di Ovest, d'Est e di Nord.
Però non si deve ritenere ciò come assoluto, perchè vi sono parecchie
cause che possono modificare sensibilmente la influenza della espo-
sizione. Già nelle Geoponiche greche si consigliava di scegliere pei
vigneti 1' esposizione nord nei climi caldi, e quella sud nei climi
freddi; e certamente là dove il calore è tale che le viti soffrono per
il soverchio ardore dei raggi solari è a preferirsi l'esposizione di
nord come accennano anche il conte Odart (nel suo Manuel du
Vigneron) e assai prima ancora Olivier de Serres e Columella che
ben conoscevano l' influenza del clima meridionale. Odart ritiene
pure che 1' esposizione nord è di poco inferiore alle altre ogni
qualvolta il suo angolo d'inclinazione non oltrepassa 20°; infatti più
quest'angolo si avvicina all'angolo retto e più il terreno può riscal-
darsi sotto l'azione del sole, come già accennammo a pag. 42. Tutti
poi sanno che vi sono vigneti rinomati sia all'esposizione nord che
aìVest ed aWovest, ond'è che alcuni autorevoli scrittori attribuiscono
all'esposizione stessa una mediocre importanza; Enrico Marès, distin-
tissimo agronomo francese, sostiene con validi argomenti che cotale
influenza è ben minore di quella del terreno e della situazione (1), e
noi pensiamo che sino ad un certo punto egli abbia ragione. Infatti
anche le pianure, se sono abbastanza elevate per non essere sog-
gette alle acque stagnanti, producono vini squisiti purché il terreno
lo permetta.
U inclinazione ed in genere la situazione influiscono molto sulla
produzione della vite: già Virgilio disse che Bacchus amai colles,
cioè i dolci declivii e le colline ove T aria circola liberamente ed i
raggi solari giungono efficacissimi; i luoghi troppo elevati e ripidi
non sono però troppo confacenti alla vite, in generale perchè so-
verchiamente esposti ai venti e ad un' aria sempre troppo cruda.
Abbiamo già detto che una pianura elevata e da cui le acque ab-
biano facile e pronto scolo è assai adattata alla vite. Riguardo alla
temperatura anche una piccola prominenza può influire favorevol-
(1) Des vignes du midi de la Franco p. 278.
METEOROLOGIA VITICOLA 297
mente sul prodotto della vite; infatti un osservatore inglese, il signor
Danieli, studiando la differenza di temperatura fra una valle ed un
leggero promontorio, trovò sensibili differenze, le quali durante la
notte raggiungevano varii gradi.
In queste situazioni leggermente elevate e che si potrebbero dire
esposte contemporaneamente ai quattro punti cardinali, la vite sbuccia,
fiorisce e fruttifica regolarmente; invece nei luoghi troppo bassi è
soggetta alle brine primaverili, al gelo ed al soverchio umido. In-
fine le viti dei pendìi danno uve più ricche di principio dolce, come
già avvertivamo a pag. 42.
§ 10. Linee isotermiche e punti climenologici. — Quanto
dicemmo a pag. 34 sulle isotermiche nei loro rapporti colla stazione
della vite, si attaglia pure alla vegetazione della vite stessa, ed alla
maturazione dell'uva; ripeteremo che le località tagliate da isochi-
mene di circa 4° a 8° e da isotere di 20° a 25° sono le più adatte
per la produzione di uva zuccherina, date però una altitudine ed
una situazione favorevoli, secondo quanto dicemmo or'ora. Come si
vede tutto si collega; ed errerebbe a partito chi volesse dettare
massime assolute riguardo a ciascuno dei numerosi fattori che concor-
rono alla regolare vegetazione e dalla buona fruttificazione della vite.
Ci rimane ora a parlare dei punti climenologici. Il compianto
Dr. Giulio Guyot (1) studiando nei vigneti francesi la influenza del-
l'altitudine e della latitudine, riconobbe che 60 metri d'altezza sul
livello del mare compensavano un grado di latitudine verso nord, e
questo più precisamente fra il 41° ed il 50°; in altri termini, la latitu-
dine di ogni luogo, espressa in minuti, a partire dal 41° preso come
zero, aggiunta all' altitudine espressa in metri, dà numeri paragonabili
ed abbastanza vicini al vero per stabilire i rapporti climatologici fra
i diversi vigneti e per determinare i differenti vitigni più o meno
precoci che possona coltivarvisi. Ma, soggiunge giustamente il Dr.
Guyot, colla condizione espressa che si tenga calcolo di tutti gli altri
elementi del clima, cioè esposizione, inclinazione, ripari, natura del
suolo, vicinanza delle acque, ecc. Il Dottor G. B. Belletti (2) ri-
fi) Ètude des vignobles de France, 2a edizione 1876, Tomo III, pag. 595.
(2) Il Belletti è il simpatico e valente scrittore del Nane Castaldo, prezioso
libro popolare di viticultura. — Veggasi la 3a edizione, pag-, 243 e seguenti. (Feti
tre 1884.)
298 CAPITOLO VI
chiamò pel primo l'attenzione dei viticultori italiani su queste osserva-
zioni del Dr. Guyot e denominò punti climenologici quelli appunto
che esprimono l'influenza combinata della latitudine coll'altitudine: il
Prof. G. Caruso (1) rilevando però che questi punti non esprimono
esattamente il clima locale, crede che in loro vece potrebbero con-
sultarsi le linee isotermiche, isochimeniche ed isoteriche, di cui ab-
biamo parlato a lungo a pag. 34. Ma a noi pare che neanche il semplice
esame delle isotermiche potrebbe consigliarsi, perchè non si terrebbe
calcolo di fattori importantissimi, quali la natura del suolo ed il suo
stato. Perciò bene osserva il Dr. Guyot, che il viticultore il quale voglia
impiantare un vigneto in una determinata località, prima di scegliere
i vitigni più o meno precoci e più o meno confacienti, deve anzi-
tutto determinare i punti climenologici e poscia tener calcolo degli
altri fattori (esposizione, inclinazione, terreno, ecc., ecc.) cosa che
gli riescirà abbastanza facile; questo precetto è senza dubbio saggio,
e può giovare molto al viticultore.
Ma veniamo a qualche applicazione ai vigneti italiani.
« Potrebbe essere interessante, dice il Dr. Belletti, conoscere i
punti climenologici dei paesi da cui ci vengono i vini più celebri
del mondo, come eziandio potrebbe essere utile rilevare che certe
località, quantunque poste in punti climenologici molto elevati, pure
producono vini eccellenti. Ma l'utilità maggiore l'otterremo quando
avremo il mezzo di sapere a quali paesi italiani corrispondano questi
medesimi punti climenologici; in allora chi sa che molti vignaiuoli di
quei luoghi, incoraggiati da un tale confronto, mirino a risultati ben
più felici di quelli ottenuti fin qui.
Per esempio, vari luoghi della provincia di Treviso si avvicinano
coi loro punti climenologici a quelli della Gironda (Bordeaux)
ed i paesi a vini famosi, come il Borgogna, il Reno e lo Sciampagna,
hanno i loro punti climenologici, chi lo crederebbe? compresi fra il
500 ed il 700 come lo sono appunto quelli della maggior parte dei
nostri paesi viticoli posti nelle vallate alpine.
Tali riflessi mi determinarono a segnare le prime traccie (quan-
tunque incomplete e non esatte quanto avrei desiderato, d'uno studio
simile a quello del Guyot, per la regione della media e dell' alta
Italia (2).
(\) Questioni urgenti di viticultura, 1871, pag. 14.
(2) ]aì altezze di livello che servirono di base ai calcoli delle unite tabelle mi
METEOROLOGIA VITICOLA 299
Il Guyot abbraccia nel suo lavoro circa l'estensione di 9 'gradi
di latitudine (540 miglia), vale a dire, quasi l' intera Francia. Egli
parte dal Capo Bonifacio in Corsica al gr. 41, dove fissa lo zero
della sua scala, ed arriva fino all'or troppo celebre Sédan (49° 52'),
estremo limite settentrionale della coltura della vite (in Francia).
Colà adunque dove il Capo Bonifacio si bagna nell'onda del Medi-
terraneo, cioè dov'è nulla l'elevazione sul livello del mare, colà se
vi fosse un paese, avrebbe zero per punto climenologico. Un altro
paese situato parimenti come il Capo Bonifacio 41° lat., ma che si
elevasse 100 metri sul livello del mare, avrebbe 100 per punto cli-
menologico: come avrebbe cento del pari quell'altro paese, bagnato
dal mare, che si allontanasse cento miglia verso settentrione dal
41°, ossia dal Capo Bonifacio: e 100 infine sarebbe il punto clime-
nologico di un'altra località che si discostasse 50 miglia (ossia 50
minuti) dal 41° latitudine, e che si elevasse 50 metri sul livello del
mare.
Esposta così la semplicissima teoria, vediamo di farne un'applica-
zione. Immaginiamo adunque una città di Francia posta al 44° 30'
lat., ed a 85 metri sul livello del mare; quale sarebbe il suo punto
climenologico?
A partire dallo zero della scala, ossia dal 41° lat, per arrivare
all'indicato paese bisognerebbe percorrere 3 gradi e 30 minuti.
Ora i tre gradi equivalgono a 180' (minuti) ossia a 180 miglia,
e quindi a punti climenologici 180
ed i trenta minuti corrispondono a trenta miglia, e perciò a
punti 30
Sommano punti . . 210
Se quel paese fosse a livello del mare, il suo punto climenologico
furono in parte gentilmente forniti dall'Osservatorio di Padova a mezzo del pro-
fessore cav. Legnazzi, dal dott. Locatelli ingegnere municipale di Udine e da altri
amici, ed in parte furono tratti dal Trinker (mis. delle Alt. della Prov. di Bel.
luno), dall'Ambrosi (Flora Tir. Aus) dal Mariani (Trìg. Vermessj, dal Monte-
rumici (Annali statistici della Provincia di Treviso pel 1870), dagli Annali pel
1870 (Bur. de Long.) ecc. ecc.
In alcuna di tali altezze di livello è indicato il punto preciso dove furono prese,
in altre no; per cui resta il dubbio se per qualche città situata in colle, l'altezza
data si riferisca al piede od alla cima del medesimo.
300 CAPITOLO VI
sarebbe semplicemente 210; ma siccome si eleva metri 85 sopra il
medesimo, così bisognerà aggiungervi 85
E allora il vero punto climenologico dell'indicato paese sarà . 295
Quindi si può stabilire che:
« Il punto climenologico d'un paese è un numero composto della
somma di due altri numeri, il primo dei quali esprima i minuti di
sua latitudine settentrionale a partire da quel grado che rappresenta
lo zero della scala previamente stabilita; ed il secondo numero la sua
elevazione sul livello del mare, espressa naturalmente in metri. »
Tale è la formola che, secondo gli studi del Guyot, serve per de-
terminare i punti climenologici in Francia.
Se ora si volesse trovare una formola analoga da applicarsi alla
intera Italia, che è compresa fra il 36° ed il 46° di latitudine, si
incontrerebbe una seria difficoltà per istabilire il punto di partenza,
ossia lo zero della scala.
Mentre il grado 41°, estremo limite sud della Francia, è per la
stessa una linea all' uopo opportunissima, perchè in quel punto la
temperatura è calda bensì, ma non eccessivamente; non si potrebbe
dire altrettanto riguardo al grado 36, estremo limite sud dell'Italia,
il quale e lì lì per uscire dalla zona vinifera, che, come abbiamo
veduto, si estende dal 35° al 50° ; in conseguenza di che retroce-
dendo dal 41° al 36° la condizione climenologica dei paesi che vi
sono compresi peggiorerebbe anziché migliorare; e se adottassimo il
37° per lo zero di nostra scala, avremmo risultati confusi e fallaci.
All'incontro, riflettendo che lo stesso 41° latitudine rasenta in Ita-
lia il paese che produsse un dì il celebrato Falerno, e che ci dà in
oggi quell'altro vino, il cui nome ne indica l'eccellenza, il Lamina
Cristi; e riflettendo altresì che il grado 41° passa fra Roma e Na-
poli, ossia percorre in Italia una linea centrale ed importante, ei par-
rebbe che quel grado medesimo potesse essere opportuno anche per
rappresentare una linea centrale enologica, una linea insomma che
costituisse lo zero della nostra scala, donde partissero i punti clime-
nologici riferibili almeno ai paesi della media e dell'alta Italia.
Una tal linea passa per Monopoli, città che per essere posta in
riva al mare (Adriatico) avrebbe in conseguenza zero per punto cli-
menologico.
Stabilito in questa guisa il nostro punto di partenza identico a
quello della Francia, ne verrà di necessaria conseguenza che i no-
METEOROLOGIA VITICOLA
301
stri punti climenologici corrisponderanno perfettamente a quelli esposti
nella Tabella del Guyot per la Francia medesima.
Data quindi la latitudine e 1' altezza di livello di ogni paese della
media e dell'alta Italia, mediante la stessa formola e le identiche re-
gole testé indicate per la Francia, sarà a noi facile trovarne il ri-
spettivo punto climenologico sempre riferibilmente al grado 41° lai,
ossia al grado che passa per Monopoli.
Dopo tali premesse, passiamo a tracciare i punti climenologici dei
paesi, di cui potemmo procurarci le altezze di livello, e che per mag-
gior chiarezza abbiamo divisi nelle seguenti tre tabelle ; in fine delle
quali ne collochiamo una quarta tratta dal Guyot che riporta i punti
climenologici di alcune principali località della Francia, coi quali
potrete a vostr'agio confrontare i punti climenologici de' paesi ita-
liani. »
TABELLA I.
Punti climenologici di alcuni fra i paesi italiani
posti al nord del grado 41 di latitudine
, - ^
7Z~~
._ 1 o
._ i 'o
._ i '«
Nomi dei Paesi
il'!
Nomi dei Paesi
3 S'5b
3 C O
Nomi dei Paesi
il*
£'■5 §
^'-8 §
0* og
Monopoli ....
0
Venezia ....
286
Rieti
495
Civitavecchia
67
Mantova ....
289
Moncalieri
498
Foggia . . .
69
Bologna ....
294
Pallanza .
513
Roma . .
103
Cremona ....
297
Torino .
514
Portoferraio
119
Alessandria .
331
Amelia .
525
Grosseto .
127
Verona ....
332
Assisi . .
534
Ancona . .
183
Magliano . . .
334
Todi . .
562
Livorno
185
Vicenza ....
336
Lugano .
575
San Remo
188
Foligno ....
346
Bergamo.
581
Pisa . . .
192
Pavia
348
Pinerolo .
618
Firenze . .
239
Casal Monferrato .
380
Città della l
^eve
623
Forlì . .
239
Velletri ....
392
Perugia .
656
Rimini . .
242
Urbino ....
414
Biella . .
658
Ferrara
245
Milano ....
415
Belluno .
691
Gubbio
245
Udine
419
Nocera .
701
Ravenna .
247
Chieti
429
Norcia
709
Genova . .
253
Brescia ....
437
Varallo .
729
Guastalla .
265
Narni
446
Montepulcia
LIO .
754
Jesi . . .
268
Trento ....
454
Mondovì .
758
Temi . .
272
Orvieto ....
459
Camerino
77<S
Padova . .
278
Città di Castello .
475
Aquila
822
Reggio (Emilia)
283
Siena
486
Aosta . .
884
Modena . .
283
Spoleto ....
487
302
CAPITOLO VI
TABELLA II.
Punti climenologici di alcuni paesi del Veneto, dell'Istria e del Trentino
._
._
—
Nomi dei Paesi
Nomi dei Paesi
Ili
Nomi dei Paesi
a 5.2
Oh-o o
Q-> o 2
0-1 o 2
Pola
240
Sacile
324
San Pietro degli
Legnago .
257
San Vito
324
Schiavi . . .
478
Dignano .
262
Pordenone .
326
Asolo
500
Chioggia .
263
Verona . .
332
Rovereto ....
509
Parenzo
269
Vicenza . .
336
Valdobbiadene . .
527
Fiume . .
275
Codroipo . .
337
San Daniele . .
528
Padova
278
Montebelluna
Chiavenna . . .
534
Pirano . .
284
Conegliano .
353
Moggio ....
543
Venezia
286
Riva di Trento
358
Morbegno . . .
565
Capo d'Istria
286
Gorizia . .
367
Feltre
568
Treviso
289
292
297
Arco .
370
419
428
Fonzaso ....
Sondrio ....
Borgo di Valsugana
630
Buie
Udine .
657
Muggia
Bassano .
664
Mon falcone
300
Vittorio . .
431
Belluno ....
691
Montona .
305
Spilimbergo
441
Tirano ....
771
Palmanova
321
Nabresina .
445
Levico ....
797
Castelfranco (Ven.)
322
Trento . .
454
TABELLA III.
Punti Climenologici di alcuni paesi e località della Provincia di Belluno.
Nomi dei Paesi
Fener .
Sanzan .
C esana .
Villapaiera
Vas . .
Rocca .
Lentiai .
Feltre .
Busche .
Quero .
Alano .
Bribano
Limana.
Arten .
-p Co
o
509
522
548
549
550
564
566
568
569
588
590
596
614
615
Nomi dei Paesi
Santa Lucia.
Sedico.
Arsiè .
Pat .
Marsiai
Fonzaso
Zermen
Visome
T richiana .
Villa di Villa
Mei . . .
Dussoi . .
Incin . . .
Pedavena
&■„,
619
623
626
628
629
630
631
639
641
649
651
658
668
669
NoMirDEi Paesi
Vi 11 ab runa .
Seren . . .
Porcen . .
Belluno . .
Menin . .
Cart . . .
Cesio . . .
San Diberal (B
luno) . .
San Gregorio
Lamen . ,
Sorriva . .
Lamon . .
el-
3 s SP
a<~.2
669
685
688
691
704
759
780
850
852
905
DOS
973
METEOROLOGIA VITICOLA
303
TABELLA IV.
Punti climenologici di alcuni paesi di Francia
estratti dalla Tabella del Guyot, Elude cles Vign. de France, t. Ili, p. 597.
Nomi dei Paesi
_ o
+3 CTS
a a àc
o
Nomi dei Paesi
-, o _
a a 6o
o
Nomi dei Paes^i
o
a § àn
Ajaccio
95
Paris
532
Chàtillon-sur-Seine
Bastia . .
131
Troyes ....
548
(Borgogna) . .
644
Marsiglia .
167
Chambery (Savoia)
549
Wissembourg (Bas-
Montpellier
201
Chalons-sur-Marne
so Reno . . .
646
Avignone .
232
(Sciampagna) .
559
Nancy ....
662
Bordeaux .
240
Chàteau-Thierry id.
560
Metz
664
La Réole (Bordeaux)
259
Epernay (id.) . .
564
S averne (Bass. Reno)
670
Lespare id.
264
Vitri - le - Francois
Sedan
680
Bazas id.
285
(id.)
565
Bar-le-Duc (Vino u-
Cognac ....
313
Beaune (Borgogna)
580
so Sciampagna)
705
La Rochelle
320
Versailles . . .
591
Commercy . . .
709
Tolosa . .
345
Strasburgo (Basso
Annecy (Savoia) .
748
Brignoles .
377
Reno) ....
599
S.t-Claude (Jura) .
760
Nantes . .
392
Chartres ....
605
Epinal (Vosgi) . .
771
Tours . .
439
Schelestadt (Basso
S.t-Jean-de-Mau-
Poitiers
453
Reno) ....
614
rienne (Savoia) .
830
Saint-Pons
465
Colmar (Alto Reno)
620
Gap (estremo limite
Mazon . .
508
Saint -Menehould
della vite) . .
964
Saint- Denis
509
(Sciampagna) .
623
Gex (estremo limite
Fontainebleau
523
Dijon (Borgogna) .
625
della vite)
967
Con queste tabelle del Dr. Belletti crediamo di aver dato al let-
tore un concetto esatto dei punti climenologici e dell' utilità che da
essi può venirne al viticoltore.
CAPITOLO VII
Pronostico della fruttificazione della vite.
(Carpoprognosia).
LT état présent de l'univers est
l'effet de son état antérieur et la
cause de celui qui va suivre.
(Laplace - Essai sur les pro-
babilitès).
§ 1 Generalità sulla carpoprognosia — § 2. Carpoprognosia e meteorognosia —
§ 3. Applicazioni generiche — §4. Applicazione speciale alle viti — § 5. In-
fluenza della primavera sulla formazione delle gemme frutticose — §6. In-
fluenza delle altre stagioni — § 7. Osservazioni e pronostici nel periodo 1855-
1883 — § 8. Deduzioni utili per la pratica.
§ 1. Generalità sulla carpoprognosia. — Sul finire del 1875
presentavamo al Congresso Enologico Italiano radunatosi in Verona
una nostra memoria, intitolata « Primi studii di Carpoprognosia
applicata alla viticoltura. » Detta memoria fu bene accolta dai
congregati ed ebbe 1' onore di essere stampata negli Atti del Con-
gresso: fu poi riprodotta da varii giornali agrarii, e però stimiamo
utile di qui ritornare sull'argomonto, con nuovi fatti e nuove osser-
vazioni.
La Carpoprognosia (parola che abbiamo formato dal greco carpós
frutto, e prógnosis prescienza, prognostico) dovrebbe essere, a no-
stro avviso, quella parte della meteorologia agricola che cercasse di
dedurre il valore, per rapporto alla quantità, della fruttificazione fu-
tura d'un vegetale, dall'osservazione dei fenomeni meteorologici pas-
sati e presenti di cui ebbe a subire l'influenza. Questa prescienza a-
dunque si riferisce unicamente alla quantità dei frutti; quanto ri-
guarda la loro qualità fu oggetto degli studii accennati nel capitolo
precedente.
PRONOSTICO DELLA FRUTTIFICAZIONE DELLA VITE 305
Noi già sappiamo che la meteorognosia cerca precisamente di
pronosticare i fenomeni atmosferici futuri, dietro 1' osservazione dei
fenomeni passati e presenti: or bene, la carpoprognosia sarebbe al*
cunchè di simile, inquantochè essa pure tenderebbe a leggere nel fu-
turo: se non che, invece di predire fatti meteorologici, predirebbe
fatti fisiologici. Così laddove la prima tenta ora di stabilire le pro-
babilità del tempo futuro, la seconda vorrebbe stabilire le probabilità
delle raccolte.
Naturalmente tanto 1' una che 1' altra non rappresentano che un
processo di induzione, per il quale studiate le svariate condizioni me-
teorologiche di una serie di anni ed esaminati attentamente i loro
differenti effetti negli anni susseguenti, coordinando cotali cause e
cotali effetti si viene ad indurre che ogni qualvolta si riprodurranno
quelle date condizioni si potranno attendere, con molta probabilità,
determinati fenomeni meteorologici o fisiologici.
Diciamo a bello studio « con molta probabilità » e non « con cer-
tezza » perchè (a parte le cause non prevedibili e delle quali non
si può quindi tener calcolo) ciò non è umanamente possibile, essendo
infinite le forze che animano la natura in questi fenomeni, e nessuna
mente potendo abbracciarle tutte, analizzandole prima, coordinandole
poscia e comprendendole infine in una sola formola. Se ci fosse dato
giungere a codesto, l'avvenire ci sarebbe tanto noto quanto il pre-
sente; l'astronomia ci porge al proposito alcuni esempii.
Un processo affatto opposto a quello della meteorognosia e della
carpoprognosia ce l'offre la geologia; poiché quantunque essa pure
si attenga alla non mai interrotta catena delle cause e degli effetti,
invece di andare come quelle dal presente al futuro, rifa la strada
e rimonta dal presente verso il passato. Così come la geologia non
è altro che la fisica, la chimica, la geografìa, la zoologia, la bota-
nica del passato, la carpoprognosia dovrebbe essere, per una data
pianta, la fisiologia del futuro.
§ 2. Carpoprognosia e meteorognosia. — La carpoprognosia
costituisce una novità, volendosi farne un complesso di cognizioni a
pane per cercare poscia di desumere alcune leggi sull'influenza delle
condizioni meteorologiche del ieri e dell'oggi sulla fruttificazione del
domani. Però i prognostici sull'abbondanza o non dei singoli raccolti
datano dai tempi i più remoti, precisamente come sono remotissimi
i prognostici sul tempo.
<è. Ottavi, Trattato di Viticoltura 21
306 CAPITOLO VII
Ed a quest' ultimo proposito diremo non essere molto che queste
sparse cognizioni di meteorognosia si vennero raggruppando e coor-
dinando fra di loro: il Gasparin se ne occupò con amore; ma questo
illustre agronomo non potè addentrarsi molto in simili studii, es-
sendo ancor troppo bambina questa parte della meteorologia. Si po-
trebbe invero affermare che al proposito noi non siamo ora molto più
innanzi di quel che lo fossero Virgilio {Georgiche) e Plinio {Storia
naturale).
Il Gasparin si limitò quindi a fare una scelta fra tutti i progno-
stici tramandati fino a noi, riassumendoli poscia, dopo aver sceve-
rato i più attendibili.
Invece gli studii sulla carpoprognosia sono ancora quasi tutti da
farsi; e nessuno poi tentò fin' ora di raccogliere le poche nozioni
che sono sparse qua e là nei libri agrarii, nonché i pronostici che
si ripetono da padre in figlio fra i contadini, per rapporto alla frut-
tificazione delle principali piante coltivate.
Eppure a noi pare che tali studii abbiano una grandissima impor-
tanza economico -agricola, poiché potrebbero servir di guida al col-
tinatore non solo nel governo delle proprie colture, ma altresì e
sopratutto nell' esitare col maggior lucro possibile i suoi prodotti;
diremo anzi che noi ce ne gioviamo appunto in questo senso da
varii anni. (v. § 8)
Oltre a ciò ci pare che, senza di essi, la stessa meteorognosia ri-
marrebbe sempre incompleta. Si dice, per esempio, che colla scorta
di quest'ultima potendosi (forse in un giorno non lontano) prevedere
il carattere generale d' un anno prossimo venturo, si potranno mo-
dificare le colture od il loro governo a seconda di cotesta prescienza.
Ciò è per certo di incontestabile utilità; ma potrebbe benissimo darsi
che, ad onta delle modificazioni introdotte nelle colture, le piante des-
sero meschini frutti a cagione delle poco favorevoli condizioni di ca-
lore, luce, umidità, ecc. in cui si vennero formando ed organizzando
i loro semi. Di ciò non tiene calcolo la meteorognosia, la quale sup-
pone che tutte le piante coltivate nascano da ottimi semi, tutti i
frutti da ottime gemme e nelle migliori condizioni, e si accrescano
senza alcun vizio di costituzione congenito, contratto cioè colla na-
scita, dal seme, dalla gemma, ecc.
La carpoprognosia invece tiene calcolo grandissimo di ciò (è questo
anzi il suo scopo precipuo) e tenta così pronosticare che i frutti sa-
ranno copiosi, poco abbondanti o quasi nulli, alquanto tempo innanzi
PRONOSTICO DELLA FRUTTIFICAZIONE DELLA VITE 307
la loro raccolta : naturalmente poi la meteorognosia viene in suo
aiuto, potendo soggiungere che codesti frutti saranno veramente co-
piosi perchè le stagioni trascorreranno favorevoli alla fruttificazione;
oppure che saranno meno copiosi di quello che le nozioni di carpo-
prognosia danno a sperare, perchè le condizioni climatologiche li con-
trareranno alquanto in determinate stagioni e via dicendo.
Come si vede questi due ordini di nozioni si completano a vicenda,
mentre presi isolatamente sarebbero insufficienti a conferire alle con-
ghietture quella utilità pratica che noi ci ripromettiamo da questi
calcoli di probabilità
§ 3. Applicazioni generiche. — Senonchè è facile prevedere
come gli studii sulla carpoprognosia non siano applicabili che ad un
dato ordine di piante coltivate; quelle cioè che per produrre frutti
debbono percorrere un ciclo vegetativo molto lungo, o per dir meglio
abbastanza prolungato da risentire l' influenza di varie stagioni a
partire dalla formazione del seme o della gemma fruttificatrice, ve-
nendo insino alla costituzione dei frutti stessi. La vite, l'ulivo e tutte
le piante così dette vivaci; la barbabietola, la carota e molte altre
piante dette biennali; infine quelle fra le annuali che, come il fru-
mento, si rendono biennali ad arte seminandole nell'autunno anziché
in primavera; tutte queste piante possono dar oggetto a studii più
o meno importanti di carpoprognosia.
I problemi che questa deve risolvere potrebbero, per ragion d'e-
sempio, così formularsi:
« Date delle gemme di viti formatesi prima e sviluppatesi poi sotto
« determinate condizioni climatologiche e sopra una pianta più o
« meno rigogliosa, quale sarà il loro prodotto in uva nell'anno sus-
« seguente? »
Oppure:
« Dati dei semi di frumento provenienti da piante cresciute in
« determinate condizioni climatologiche e telluriche, e seminati sotto
« altre determinate condizioni che favorirono o contrariarono il tal-
« limento delle giovani piantine, quale prodotto in granelle sarà le-
« cito sperare per l'anno successivo? »
In questo caso del frumento così detto autunnale, si tratterebbe,
per causa di esempio,
1° Di tener calcolo (come già fanno i più accorti agricoltori)
della costituzione fisiologica delle sementi adoperate;
308 CAPITOLO VII
2° Di tener calcolo se i semi in terra già sviluppati furono sor-
presi dal gelo, e se questo si approfondì nel suolo tanto da farne
perire un certo numero;
3° Di tener calcolo se dopo la seminagione i semi ebbero a su-
bire alternative di leggera umidità e di secchezza, perchè il dissec-
camento, se si ripete varie volte, nuoce ai germi sviluppantisi e rende
problematica una messe copiosa;
4° Di tener calcolo se in primavera (aprile) i grani sono tristi
0 no; perchè nel primo caso, anche se la stagione si mettesse al
bello, anche se la vegetazione apparisse in seguito rigogliosa, anche
se si concimasse il suolo, le spighe sono già formate, la loro lun-
ghezza ed il numero delle loro spighette sono già determinati, e
nessuno potrà mai accrescerne il numero, fosse pure d' una sola di
esse;
5° Di tener calcolo, in conseguenza di quanto si è detto testé,
dell'andamento del mese di marzo, perchè, come dice l'adagio, « marzo
asciutto, gran per tutto. »
Ben ponderate queste condizioni di successo, ed altre che per bre-
vità ommettiamo, si potranno predire, con grande probabilità di co-
gliere nel segno, una copiosa raccolta od una meschina messe; ed
in caso di cattivi prognostici il coltivatore potrà regolarsi non solo per
favorire in tempo utile la fruttificazione, ma altresì nella vendita dei
frumenti in magazzeno, per attendere forse un quasi certo rialzo,
e via dicendo. (Trattandosi di frumento marzuolo la carpoprognosia
non può venire diremmo quasi in nessun aiuto all'agricoltore).
Altri quesiti si potrebbero formulare per altre piante coltivate; ma
1 due qui sopra dettati bastano a nostro avviso per dare una idea
esatta dello scopo di questa nuova parte della meteorologia appli-
cata, la quale in conclusione dovrebbe prendere come elementi es-
senziali de' suoi calcoli di probabilità:
1° Le influenze climatologiche sotto le quali si andarono costi-
tuendo i semi o le gemme;
2° Quelle altre che ebbero influenza sul loro germogliamento e sul
primo periodo di accrescimento della nuova pianta o del germoglio
fruttifero, dalla fioritura alla pubertà, e da questa alla costituzione
del frutto.
Supponendo (tanto per concretizzare meglio la cosa) che in nn
numero e di casi nei quali si verificarono certe speciali condizioni
s' abbia avuto un numero b di prodotti abbondanti, la probabilità del ri-
PRONOSTICO DELLA FRUTTIFICAZIONE DELLA VITE 309
torno di questo prodotto, quando si ripresentano le suddette condi-
zioni, ci sarà dato dalla forinola:
_b_
e
Così se in 100 casi di cotali condizioni si ebbe 90 volte un co-
pioso prodotto, la probabilità che si abbia in quest'anno un analago
prodotto, essendosi verificate quelle stesse condizioni, ci è dato da
cioè una grande probabilità, la quale sta alla certezza come 0,90
sta ad 1.
Riassumendo: la fruttificazione presente ha la sua ragione di es-
sere nel passato della pianta e del seme, oppure della pianta e della
gemma; risalendo dal presente al passato l'agricoltore potrebbe ren-
dersi ragione — sino nei più minuti particolari — del perchè la
pianta fruttificò male in quest' anno, bene invece neh' anno prece-
dente, e via dicendo.
Infatti, quello che è oggi una pianta, non è altro che la conse-
guenza di quello che fu ieri; e quello che fu ieri è 1' effetto di ciò
che fu ieri 1' altro, e così di seguito. È una catena non mai inter-
rotta, senza soluzioni di continuità; una serie di anelli che rappre-
sentano tanti effetti. Potendosi studiarli a fondo uno ad uno e per
lunga serie d'anni, si potrebbero fissare con grande esattezza gli in-
timi rapporti che esistono fra il progresso delle stagioni e quello
della vegetazione.
§ 4. Applicazione speciale alle viti. — Eccoci ora a fare
noti i nostri studii speciali applicati alle viti.
Già sappiamo che i fiori della vite si presentano quasi sempre su
germogli spuntati in primavera da gemme di tralci che hanno un
anno di vita, di tralci cioè dell'anno avanti.
A questa regola si danno, per quello che ci fu dato constatare,
due eccezioni: 1° talvolta portano qualche raro grappolo quei pol-
loni che nascono sul ceppo o vecchio tronco della vite, specialmente
nei nostri paesi meridionali od in qualche vite a pergolato; 2° tal
310 CAPITOLO VII
altra vedonsi grappolini sui getti estivi (sulle femminelle) che spun-
tano all'ascella delle foglie dei getti primaverili.
Ma in rarissimi casi si è potuto trarre reale partito da queste
fruttificazioni che chiameremo anormali; per cui non ne diremo al-
tro, e ci occuperemo solo dei veri frutti dei getti primaverili
spuntati su rami di un anno.
Abbiamo detto che questi nascono da gemme; vuol dire dunque
che il loro vigore, la loro potenza fruttificatrice, sarà anzitutto in
relazione diretta colla fecondità delle singole gemme madri.
Infatti qui siamo neh' identico caso, ad esempio, del frumento, il
quale cresce tanto più sano, è tanto più fecondo e dà granelle tanto
più pregevoli, quanto più robusto e turgido e di buona provenienza
era il seme da cui nacque.
Ma ciò non basta. Il frumento potrebbe fallire se il suolo sul quale
vegeta non lo coadiuvasse durante il periodo della sua vegetazione:
or bene, lo stesso dobbiamo dire della gemma della vite, la quale
se non troverà nel legno del tralcio (alburno) e nel succo ascendente
quella copia di elementi che le tornano indispensabili, specialmente
durante i primi momenti del suo sviluppo e della cresciuta del pro-
prio germoglio, darà un getto meschinello e poco fruttifero.
Dunque, quello che è il suolo per il seme di frumento, è il tralcio
di un anno per la gemma.
Qui però si chiederà se noi non teniamo conto delle radici: ri-
sponderemo che non crediamo abbiano grande influenza nei primi
momenti della germogliazione e della cresciuta dei teneri germogli.
La mancanza di foglie ci fa persuasi che la gemma debba germo-
gliare, e debba altresì svilupparsi il nuovo getto, senza il concorso
delle radici. Ma meglio delle congetture, ci persuadono i seguenti
fatti:
Se si pone in terra un pezzetto di tralcio munito di alcune gemme,
queste danno piccoli germogli anche prima d'aver cacciato radici le
quali possano elaborare materiali del terreno; — se una ceppaia
muore nel verno, può talora dare getti in primavera da' suoi tralci
a frutto, getti però che giunti ad un certo punto del loro sviluppo,
muoiono perchè le radici non vengono in loro soccorso; — se in
primavera si sradica una pianta, un gelso ad esempio, prima che
siansi dischiuse le gemme, queste daranno tuttavia brevi germogli
quantunque le radici dell'albero più non sieno entro il suolo ; — se
gli alberi muoiono in piedi, cioè sul posto, portano ciò non ostante
PRONOSTICO DELLA FRUTTIFICAZIONE DELLA VITE 311
germogli, che vivono a spese del loro legno e li rendono meno ap-
prezzati dai commercianti di legnami; — se le talee di pioppi e di
ontano si tagliano verdi e si abbandonano a sé in lungo fresco,
danno germogli.
Dunque il tralcio frutticoso di un anno è proprio, per così dire,
il terreno nel quale deve nascere e indi vegetare per un poco di
tempo il tenero germoglio spuntato dalle gemme del tralcio mede-
simo. A suo tempo poi, e col comparire delle foglie, le radici inco-
mincieranno la loro opera alimentatrice, perchè allora le fibre radicali
della gemma stessa si saranno già intrecciate, o diremo meglio ana-
stomizzate, colle fibre corticali del libro preesistente. Da questo punto
il germoglio cessa di essere un parassita, un vero succhione svilup-
patosi a spese del tralcio a frutto, ma fa parte attiva del vegeta-
bile, perchè le sue parti verdi incominciano ad assorbire acido car-
bonico e fors'anche ossigeno. Come si vede, havvi un periodo ab-
bastanza lungo durante il quale la pianta madre deve alimentare del
proprio non pochi parassiti: sono dessi i bottoni (veri svernatoj di
Linneo) che spuntano all'ascella delle foglie in primavera sui rametti
dell'annata. Essi vivono a spese della madre tutto l'estate, l'autunno
ed il verno successivi, nonché una parte della primavera, benché già
sviluppatisi in teneri germogli; e non cessano dal loro parassitismo
che allorquando questi ultimi, per la loro corteccia recente (che è
verde) e poi per le prime foglioline, incominciano ad assorbire acido
carbonico e fors'anche ossigeno in presenza della luce.
Durante tutto questo periodo si forma pertanto la fruttifica-
zione delVanno agrario successivo, fruttificazione che sarà più o
meno abbondante a seconda delle condizioni meteorologiche alle quali
sarà stata soggetta la pianta madre nell'anno agrario precedente.
Le gemme infatti avranno risentito esse pure V influenza di queste
condizioni atmosferiche, e se la madre sarà stata contrariata nella
sua vegetazione, anche le gemme dovranno crescere mal costituite
e dare l'anno dopo germogli o poco o punto fruttiferi.
E tutto ciò perchè ogni influenza meteorologica alquanto costante
si traduce in un fatto fisiologico più o meno importante. La frutti-
ficazione futura non sarà quindi altro che la risultante delle varie
influenze meteorologiche dell'anno anteriore, tenendo ben' inteso cal-
colo della cooperazione del suolo e dei concimi che noi possiamo già
valutare in anticipazione con grande certezza. Anzi ci preme di in-
sistere su quest'ultimo punto, acciò non si creda che siamo ciechi
312 CAPITOLO VÌI
seguaci dell'antica massima annus fructifìcat, non tellus, che pecca
alquanto d'assolutismo, tuttoché sia in parte giustissima.
In conclusione, e ritornando al nostro assunto, la fruttificazione
che in maggio vediamo sulle nostre viti è il frutto d'un lavorìo in-
terno della pianta madre, il quale ebbe a durare 12 mesi, o poco
meno.
Queste gemme spuntate su tralci dell'annata, che più propriamente
si debbono dire germogli, e che mettono quasi un anno a costi-
tuirsi, possono dare al loro schiudersi getti molto, poco o punto frut-
icosi: — le gemme invece che sorgono sul legno di soli 2, di 3,
di 4 e più anni, non possono (tolte rarissime eccezioni) dare getti
fruttiferi per quanto siano bene costituite sino dalla loro origine.
Queste ultime pertanto non ci interessano affatto.
Le prime invece, che sono anche le più numerose, debbono atti-
rare tutta la nostra attenzione in questi tentativi di carpoprognosia,
poiché se noi arriveremo a studiare bene come si vadano costituendo,
sapremo anche predire, già prima che si schiudano, se i frutti sa-
ranno copiosi o no.
Siccome questa prescienza potremo acquistarla tra la fine dell'in-
verno ed il principio della primavera (circa nel dodicesimo mese di
vita delle gemme in questione), ne segue che da sette ad otto mesi prima
della vendemmia noi saremo in grado di accertare che i frutti sa-
ranno, per ragion d' esempio, abbondanti. Aggiungeremo che le
cause (meteore-parassiti) che possono influire sulle pigne già formate,
rare volte sono tali da modificare V entità della vendemmia in una
intera plaga vitifera ; l'influenza loro è grave relativamente a piccoli
predii, ma il prodotto medio generale d' un dato paese non subisce
per esse che in rari casi marcate diminuzioni (1).
E ritornando alla suddetta prescienza non solo noi possiamo ac-
quistarla da 7 ad 8 mesi prima della vendemmia, ma anche molto
tempo prima e così alla fine dell' estate (almeno 12 mesi innanzi) ;
perchè la influenza di questa stagione e della primavera che la pre-
cede può essere spesso rilevantissima, come vedremo.
Intanto incomincieremo a premettere che (come già dicemmo di
passsggio pel frumento), giunti ad un certo punto nel ciclo vegeta-
(1) Uno di questi rari casi si è verificato nel 1884 in cui in molte regioni del-
l'Italia Superiore un ubertoso raccolto d'uva fu ridotto quasi a nulla dalle gra-
gnuole, dalle pioggie soverchie e dalla peronospora.
PRONOSTICO DELLA FRUTTIFICAZIONE DELLA VITE 313
tivo delle gemme frutticose, torna affatto impossibile al viticultore
l'aumentare la vendemmia ; esso potrà solo contribuire a serbare in-
tatta la maggior parte possibile dei tirsi che si presentano in prima-
vera, e nulla più. Cotale punto coincide ad un dipresso col dodice-
simo mese di vita della gemma del tralcio disteso a frutto ; cotale
ciclo vegetativo, come già dicemmo, comprende il seguente periodo :
primavera,
estate,
autunno,
inverno.
Prima di giungere alla raccolta delle uve occorrerebbero ancora
una primavera, un' estate e parte dell' autunno, cioè all' incirca otto
mesi. Or bene in quest'ultimo periodo faccia pure il viticultore quanto
gli è possibile in favore della quantità dei grappoli; ari pure, e van-
ghi pure e zappi e concimi in primavera, od anche nel febbraio o
nel marzo; vanghi pure e zappi nel seguito della primavera e nella
state; egli non rinscirà mai ad accrescere d'un solo grappolo il pro-
dotto che gli sta dinnanzi, il prodotto pendente. Egli potrà far in-
grossare meglio gli acini delle singole pigne, potrà farne anticipare
la maturanza, potrà recar giovamento grande alla pianta madre; ma
questa per quell'anno non gli porterà, in premio delle sue fatiche, un
numero di grappoli maggiore di quelli segnati in primavera.
Si obbietterà che le femminelle, come già dicemmo, recano talvolta
grappolini ; ma oltre che quest'uva in rarissimi casi giunge a matu-
ranza, essa non rappresenta che una produzione eccezionale di viti
molto vigorose. Sarebbe una vera pazzia Y arrestarsi a considerare
quest' uva come possibile prodotto rinumeratore di quei lavori che
si fanno nella vigna durante l'anno.
Questi ultimi hanno uno scopo ben più importante; si fanno anzi
con duplice intento:
1°) quello di giovare ai frutti pendenti,
2°) quello di giovare alle gemme ascellari che nell'anno succes-
sivo dovranno dare i germogli fruttiferi.
Ma a noi non preme per queste ricerche che il secondo.
Diremo pertanto che se, colle opere di coltura (lavori e concimi),
si giova alle gemme della fruttificazione avvenire, ciò dipende da
questo fatto: che per esse si aumentano i materiali utili alla pianta
madre cotanto spossata a cagione dei frutti pendenti. Questi infatti
314 CAPITOLO VII
sono i più accaniti parassiti del vecchio ceppo: essi non fanno altro
che consumare senza pagargli alcun tributo di principii utili; essi in
sostanza non si comportano molto diversamente di quanto fa il te-
muto oidio. Crescono e maturano bene, se la pianta loro provvede
buona copia di alimenti convenientemente elaborati ; vivono invece
rachitici e non si completano mai se la pianta non ha questi mate-
riali nelle volute dosi : può darsi benissimo, e si dà spesso, che essi
prosperino a detrimento della madre, ma non si dà mai che la ma-
dre li sacrifichi a suo prò. Infatti se la pianta si trova in mediocri
condizioni e può assimilare poco, non sono già i frutti che ne risen-
tono maggiormente, ma è la parte legnosa della madre, cioè la pianta
stessa, che in parte sacrificasi a prò della costituzione del frutto.
Dopo una fruttificazione molto abbondante i ceppi trovansi quasi
estenuati, e ci vuole almeno un anno, e cure adatte, per rimetterli in
vigore.
Giunge per verità un certo punto in cui la pianta non toglie che
pochissimo (e fors'anche nulla) al terreno, come avviene per le piante
annuali dopo la fecondazione {Isidoro Pierre); allora i frutti vivono
proprio esclusivamente a spese dei materiali che costituiscono quella.
Abbiamo già accennato a pag. 207 ad una nostra vignala quale
non poteva maturare i suoi frutti per difetto di umidità, e che fu
inutilmente annacquata al piede d'ogni ceppo; le radici non funzio-
navano quasi più a beneficio dei frutti. Avendo provato ad asper-
gere direttamente i grappoli, la maturanza si fece pronta e completa;
l'acqua era penetrata forse per endosmosi, come proverebbero le belle
esperienze di /. Boussingault fatte per altro scopo.
Se pertanto il frutto è così dannoso alla pianta madre, come non
lo sarà egualmente alle delicate gemme latenti o visibili, che si vanno
appunto formando su di essa mentre crescono e maturano i grappoli ?
Queste gemme saranno anzi le prime a risentire Y influenza del
parassitismo dei frutti, di loro molto più potenti; ed ove questi ul-
timi fossero veramente molto numerosi le gemme potrebbero con-
trarre una organizzazione quasi diremmo rachitica, e non portare
Fanno dopo che getti infruttuosi o poco fruttiferi.
E così avviene. È cosa notoria a tutti i viticultori che due annate
di grande vendemmia non si succedono può dirsi mai, o solo in certe
condizioni affatto eccezionali di cui ci occuperemo in appresso ; le quali
condizioni però hanno sempre per effetto di favorire il miglior svi-
luppo delle gemme in quistione.
PRONOSTICO DELLA FRUTTIFICAZIONE DELLA VITE 3115
Dopo le gemme, risentiranno V effetto del parassitismo dei frutti i
tralci (il terreno per il primo sviluppo dei bottoni nell'anno susse-
guente), i quali saranno meno ricchi di sostanze utili alle gemme
stesse.
Dunque ne avremo un danno alle gemme ed un danno ai tralci
frutticosi per l'anno che segue.
Naturalmente dal fin qui detto desumesi il primo e più ovvio cri-
terio per prognosticare l'entità d'una vendemmia, anche più d'un anno
prima. E la carpoprognosia non può certo sprezzare questo primo in-
dizio, per cui noi lo terremo in nota.
§ 5. Influenza della primavera sulla formazione delle
gemme frutticose. — Quello che ora dobbiamo anzitutto studiare
è l'influenza della primavera sulle gemme che nel successivo anno
dovranno darci i germogli più o meno frutticosi. È in questa sta-
gione che si vanno formando cotali gemme, che noi vediamo dise-
gnarsi all'ascella delle giovani foglie ; è quindi naturale che le con-
dizioni meteorologiche di essa abbiano una marcatissima influenza sui
bottoncelli nascenti.
Già sappiamo che la gemma è in origine una cellula vegetale, cioè
un corpicciuolo tondeggiante formato da una membrana (cellulosa)
racchiudente un nocciolo di sostanza più consistente il quale nuota
in un liquido : — quando poi il bottone è costituito ed ha perforato
la corteccia, presenta nel suo interno (cioè entro Y involucro delle
scaglie protettrici) un embrione di germoglio del quale tutte le parti
laterali — i rudimenti delle foglie, e fors' anche delle gemme fiori-
fere, foglifere o miste — stanno per così dire rannicchiati, pieghettati
attorno ad un cortissimo asse (H. De Jussieu) per modo da occu-
pare il minor spazio possibile.
Come avvenga che da una semplice cellula si formi grado grado
questo bottone, noi non lo sappiamo fin'ora-: possiamo solo ammet-
tere con Raspail che la gemma si costituisca a spese degli strati
esterni dell'alburno, e che per segmentazioni incessanti (strozzature)
della cellula madre da cui trasse origine, essa finisca per allungarsi
sotto la corteccia, rendendosi infine esterna.
Ora se è vero — come già dicemmo studiando la fruttificazione
delle vite — che consentaneamente alle razionali idee di Raspati,
al ritorno della primavera l'alburno dovrà nutrire gli organi più in-
terni, fra cui cotali bottoni latenti, nessun dubbio che esso si andrà
316 CAPITOLO VII
esaurendo, passando in parte allo stato di libro, e confondendosi per
tal maniera col libro degli anni antecedenti, per poi passare allo
stato di corteccia ed infine essicarsi affatto.
Quindi è che la pianta sentirà un potente bisogno di riparare a
queste perdite per le quali il legno si fa alburno, l'alburno libro, ed
il libro corteccia.
Se la pianta si troverà in condizioni di provvedere a questo suo
accrescimento per intuscezione, vuol dire che avrà un alburno ricco
di materiali atti alla buona costituzione delle gemme ed al loro ac-
crescimento; per cui ognuna di esse, uscita che sia di sotto la cor-
teccia, conterrà nel suo interno un embrione di germoglio provvisto
di parecchie gemme fiorifere.
Allungatosi poi il germoglio a primavera, cotali gemme ci daranno
i grappoli. Ogni gemma ne contiene, allo stato rudimentale, due o
tre: è raro che non ve ne siano affatto; ma non è ugualmente raro
il loro aborto, per cui il germoglio nasce e si sviluppa senza por-
tare frutti. Così quando la gemma si costituisce sotto cattive con-
dizioni, sovratutto perchè la pianta è contrariata dal cattivo anda-
mento delle stagioni, questi embrioni di grappoli possono benissimo
fallire completamente o ridursi ad un solo per bottone.
Ricordato tutto ciò e volendosi ora studiare per tutta la nostra
penisola l' influenza della primavera sulla formazione delle gemme, bi-
sognerebbe distinguere vari casi, cioè :
« viti rigogliose, in terre fertili, ben tenute, nell'alta e media Italia
« nonché in tutte le regioni alte e fresche dell'Italia meridionale »;
« viti poco rigogliose, in terre poco fertili, in paesi assai caldi e
« secchi nell'estate » e via dicendo.
Noi però, per amor di chiarezza ed anche per deficienza di dati
sperimentali meteorologici e fisiologici, non ci occuperemo che del
primo fra i due casi citati. Date quindi le accennate condizioni, diciamo
che una primavera calda e poco piovosa sarà molto favorevole
alla buona organizzazione delle gemme ascellari suddette che, come
sappiamo, si formano appena mostransi le foglioline, tra l'aprile ed
il maggio.
Nel caso di abbondanti pioggie si ha nel terreno come dire una solu-
zione nella quale le viti vegetano a grande stento; si ha un soverchio as-
sorbimento di acqua che non può smaltirsi se non in piccola parte
per evaporazione, essendo poche le foglie: si ha altresì una scarsa
provvista di materiali inorganici; infine una produzione di germogli
PRONOSTICO DELLA FRUTTIFICAZIONE DELLA VITE 317
esili eà allungati, e quindi delle gemme rachitide, mal conformate
già dal loro nascere; quasi diremmo una cattiva gestazione nella pianta
madre.
Ma, come abbiamo notato, se la stagione oltre a trascorrere poco
piovosa, o meglio asciutta, fosse altresì calda, tanto meglio: allora
potendosi durante il giorno raggiungere, specialmente in maggio, 26
o 27 gradi di calore all'altezza di 0m,50 ad lra dal suolo (cioè nell'am-
biente in cui si trovano ad un dipresso le viti basse o mediane) riesce
di molto coadiuvata la formazione del legno, quindi le gemme na-
scono da un alburno ben provvisto di principii utili, e si vanno di
poi sempre più perfezionando nel maggio, nel giugno, e nei mesi
successivi, se l'estate non le contraria.
Vedremo in fine che le osservazioni fatte nel periodo 1855-83
confermano pienamente questo fatto:
« Che durante una primavera calda e sopratutto poco piovosa,
« nelle viti rigogliose, in terre fertili, ben tenute, dell'Alta e Media
« Italia nonché nelle regioni alte e fresche del Mezzodì, le gemme
« ascellari primaverili che debbono svolgersi nel successivo anno si
« organizzano bene ».
Ed è questo il 2° indizio di cui si giova la carpoprognosia appli-
cata alla viticultura.
§ 6. Influenza delle altre stagioni. — Abbiamo già detto più
sopra che dopo l'influenza della primavera sulle gemme nascenti,
conveniva studiare l'influenza dell'estate susseguente.
L'osservazione del citato periodo 1855-83 ci condusse a concludere
che ima estate poco piovosa e calda è a sua posta favorevolissima
alla buona cresciuta delle gemme ascellari ed alla provvigione, se
così possiamo esprimerci, dei loro serbatoi.
Poiché abbiamo già detto che ogni bottone reca sotto di sé un rigon-
fiamento del legno, una specie di mensoletta, o cuscinetto polputo, rac-
chiudente una sostanza di apparenza amilacea, la quale funge la stessa
parte che fungono nei semi i cotiledoni ; cioè deve alimentare il
tenero germoglio nella successiva primavera sino a che esso non
abbia cacciato le foglie, ed intrecciate le sue fibre radicali colle fibre
corticali del libro. Oltre a ciò anche alla base delle scaglie carnose
protettrici delle gemme delle viti, si trova immagazzinata sostanza
nutritizia.
Or bene, questa provvista si fa copiosa in un'estate calda e poco
318 CAPITOLO VII
umida, od anche asciuttissima: se 1' estate trascorre piovosa accade
che le viti continuando senza posa a cacciare femminelle e foglie e
bottoni ascellari e persino femminelle sulle femminelle (esempio, il
1875) non può provvedere siccome converrebbe ai suddetti serbatoi.
Accade poi anche un fatto pochissimo considerato sin qui, ma
pure importante ed è che « le gemme meglio sviluppate sono, in
tali casi, quelle della punta dei germogli primaverili. » Infatti o-
gnuno avrà notato che all'ascella della foglia ove trovasi la gemma
sorge spesso, per non dire sempre, una femminella, per cui il bot-
toncello rimane collocato tra questa ed il picciuolo della accennata
foglia. Ora, tanto quest'ultima che la femminella concorrono a nutrire
meglio cotale gemma ascellare, la quale, trovandosi per di più in punta
ove i succhi nutritori riescono meglio elaborati (essendo queste parti
dei tralci penzoloni ed esposte meglio alla luce ed al calore) finisce
infine per essere assai preferibile ai bottoni spuntati alla base del
tralcio; i quali, come sanno benissimo gli uomini della pratica, sono
poco appariscenti, piccoli, foggiati a punta e forieri di scarsa ven-
demmia per il successivo anno.
Da queste osservazioni è facile dedurre, che all'atto della potagione
recidendosi la punta di così fatti tralci, si reciderà né più né meno
che la loro parte migliore; quindi alla germogliazione nella prossima
ventura primavera si verificheranno questi fatti:
1°). cotali gemme poste sopra serbatoi scarsamente provvisti della
necessaria scorta di materiali nutritizii si svilupperanno male, e non
troveranno neppure il necessario alimento nel tralcio, esso pure
male organizzato, e di costituzione quasi diremmo erbacea e floscia;
quindi l'aborto di molti grappolini in viticci:
2°). quelli, fra i suddetti bottoni dell' anno avanti, i quali si
troveranno collocati verso la parte superiore del tralcio, siccome da-
ranno i loro germogli solo quando le radici della pianta madre già
funzionano, porteranno pur tuttavia un qualche grappolo.
Concludendo : V estate piovosa contraria la buona cresciuta dei
bottoni ascellari formatisi nella precedente primavera; contraria la
copiosa provvigione dei loro serbatoi; contraria la perfetta forma-
zione del legno dei nuovi getti, cioè dei futuri tralci a frutto; con-
traria la buona alimentazione di quelli fra cotesti bottoni che sono
posti nella parte inferiore dei getti.
In sostanza e come appunto si vedrà nelle osservazioni sopra ci-
tate, è contraria ad una copiosa vendemmia per il successivo anno.
PRONOSTICO DELLA FRUTTIFICAZIONE DELLA VITE 319
«
Ed è questo il 3° indizio o criterio che si deve tener a calcolo
per la carpoprognosia.
Ma lo studio dell'influenza della primavera e dell'estate {tuttoché
importantissimo e che tale basterebbe forse da solo in certi casi
al nostro intento) non è completo in ogni emergenza: ad esso deve
pure accoppiarsi Tesarne dell' andamento dell'autunno.
Una gemma formatasi sotto buone condizioni in primavera, cre-
sciuta bene e provvista d'un ricco serbatoio nell'estate, ha poco da
temere dall'autunno e dal verno susseguenti: e quasi si potrebbero,
come dicevamo, troncare a questo punto, in settembre cioè, le os-
servazioni per la carpoprognosia.
Se non che l'osservazione ci ha dimostrato che quando l'autunno
trascorre secco ed abitualmente sereno il raccolto futuro è viem-
meglio assicurato, e si potrebbe allora con una tal quale sicurezza
affermare che sarà veramente ubertoso ; (bene inteso si parla qui
della vendemmia dell'anno susseguente).
Infatti, se sono molte le giornate a sole vivo e cocente e se il
terreno non è inzuppato da piogge, si possono facilmente trovare,
specialmente durante l'intero mese di settembre, le condizioni neces-
sarie perchè la cellulosa si converta in sostanza legnosa od amilacea
coadiuvando così la perfetta formazione del legno e dei serbatoi sud-
detti, nonché delle gemme. Secondo il Prof. Gaetano Cantoni bisogna
per ciò che la temperatura atmosferica arrivi a -f- 27° C. e quella
del terreno a circa 25°; or se il suolo è umido, si riscalda troppo
difficilmente, e quando anche giungano in settembre giornate nelle
quali la temperatura di cui godono i tralci delle viti sia di 27 a 30
e più gradi, non si hanno le preziose trasformazioni sopra accennate.
In caso opposto e specialmente trattandosi di viti basse (le quali
perciò vivono negli strati più caldi dell'atmosfera, che sono quelli che
più avvicinano il terreno) l'autunno secco ed abitualmente sereno può
giovare assai, e nel settembre intero, ed anche spesso nell'ottobre.
Ma oltre a ciò l'autunno secco e caldo può giovare anche a ri-
mediare in parte ai danni della precedente estate, supponendo che
sia trascorsa umida, ed in ogni caso poi a migliorare le condi-
zioni dei tessuti della pianta. In tal caso questi ultimi saranno so-
verchiamente acquosi; ma se l'aria è in autunno secca e calda, può
contenere più vapor acqueo che non a temperature più basse, quindi
l'evaporazione dai tessuti stessi può riescire più attiva, e questi mi-
gliorare così sensibilmente la loro costituzione.
320 CAPITOLO VII
Infine, dato un autunno umidiccio, i tessuti essendo per l'appunto
troppo acquosi, nel successivo inverno potrebbero riescire assai più
fatali i danni dei disgeli; i quali, come è noto, sono poco a temersi
se la pianta non è impregnata d'acqua. È superfluo soggiungere che
questi disgeli riescono talvolta a distruggere molte gemme, facendo
scemare sensibilmente il prodotto dell'annata.
Infine ci rimane a studiare l'influenza dell'inverno, la stagione
che precede il momento dello sbocciamento di queste gemme, che allora
formerebbero già da un anno circa l'oggetto delle nostre osservazioni.
I fatti hanno provato che anche questa stagione, se deve essere
favorevole alla fruttificazione avvenire, deve trascorrere secca, con
molte giornate a cielo sereno. Certo l'influenza dell'inverno non è
da paragonarsi a quella della primavera, e tanto meno poi a quella
dell'estate, per le addotte ragioni; ma pure può essere utile una sta-
gione non umidiccia, a cielo abitualmente scoperto. Ed eccone i motivi.
Anche nel verno può attivarsi per qualche ora del giorno la ve-
getazione e ciò accade {Gaetano Cantoni) quando la temperatura
del terreno esplorato dalle radici, sia almeno di -f- 5° C. e quella dell'a-
ria, superiore a -f- 7° C. Ora noi abbiamo potuto constatare che
nelle giornate affatto serene e quando non vi sono venti freddi, il
tralcio delle viti basse (alla latina, ad alberello, alla casalese, alla
Guyot ecc.) può godere d'una temperatura maggiore di 7 gradi du-
rante alcune ore dopo il mezzodì: e così pure può il terreno, se non
è gelato, portarsi a 5° negli strati suoi che sono in contatto colle
radici, strati compresi all'ingrosso fra 0m,30 e 0m,50 di profondità.
Dunque durante un inverno secco ed a cielo poco nuvoloso vi pos-
sono essere parecchi giorni non del tutto perduti per la vegetazione.
Or bene, in queste ore utili di risveglio vegetativo si ha una leg-
gera evaporazione per la corteccia, ed un cotal perfezionamento nei
tessuti, come ammetteva anche Giusto Liebig. Che se non si avrà vera
evaporazione, certamente si dovrà avere la traspirazione, che quasi
diremmo cutanea, dagli stomi dell'epidermide, fenomeno fisiologico che
si produce specialmente sotto l'influenza della viva luce solare, in-
dipendentemente, secondo alcuni, dall'umidità dell'aria e dalla sua tem-
peratura (Guettard e DehérainJ.
Senza voler fare sforzi di induzione per dimostrare come da questa
traspirazione invernale possa derivare un utile per le vite, poiché è
meglio non spiegare che spiegare male, diremo solo che le osservazioni
che seguono, dimostrano veramente 1' utilità d' un inverno quale lo
abbiamo più sopra indicato.
PRONOSTICO DELLA FRUTTIFICAZIONE DELLA VITE 321
§ 7. Osservazioni e pronostici nel periodo 1855-1884. —
Premesse tutte queste considerazioni, indispensabili a formarsi un
criterio esatto di ciò che noi chiamammo Carpoprognosia, radu-
neremo in uno specchio i risultati delle osservazioni che si riferi-
scono ad un periodo di 30 anni, cioè dal 1855 al 1884, osserva-
zioni che confermano ampiamente tutto quanto precede e dimostrano
come questi pronostici della fruttificazione della vite abbiano un serio
fondamento.
Come si è visto per le viti rigogliose dell'alta e media Italia, poste
in terre fertili ecc., Vanno secco è in generale più giovevole che
Vanno amido, e ciò riescirà evidente a chi rifletta alle ragioni e-
sposte al § 5. Però non si vuol con ciò inferire che sia bene ab-
biano a mancare affatto le pioggie; allora si cadrebbe in eccessi op-
posti.
« Che esse siano quindi moderale durante le suddette sta-
« gioni — ma specialmente in primavera e nella state — e nel
« rimanente sia il cielo sereno, e perciò potente V azione della
« luce e del calore solare, e poi (data una vigna coltivata con
« qualche cura ed a parte i possibili danni dell'oidio, della grandine
« ecc.) si potrà andar sicuri di avere nelVanno successivo una
« abbondante vendemmia. »
Ed ecco ora la suddetta tabella nella pagina seguente.
L' inverno comprende, secondo queste osservazioni, i tre mesi di
dicembre, gennaio e febbraio, e così di seguito di tre in tre per le
altre stagioni.
L'esame di questa tabella convincerà, come noi crediamo, lo studioso
delle verità delle cose sin qui esposte. Le quali potranno mancare
di una più soddisfacente spiegazione fisiologica (la fisiologia vegetale
essendo tanto bambina), ma non per questo cessano di essere vere.
Gli anni ottimi per la vendemmia (parliamo sempre ed unicamente
dell' alta e media Italia e delle viti che si trovano nelle condizioni
altrove designate), cioè il 1862 ed 1871, nei quali si raccolsero co-
piosissime quantità d'uva, li vediamo preceduti da quattro stagioni
pressoché identiche per condizioni di calore e di umidità; il secco
predominò tanto nella primavera che nell'estate e nell'autunno, e se
nell'estate del 1870 si ebbe qualche pioggia di più che nel 1861 ciò
non nocque (come non poteva nuocere) al prodotto del successivo
1871, perchè anzitutto le pioggie moderate sono pur esse utili, eppoi
poiché l'autunno dello stesso 1870 fu asciutto.
0. Ottavi, Trattolo di Viticoltura 22,
322
CAPITOLO VII
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Abbreviazioni. — s. piov., semi piovoso — <j. nonn
— s. aorm.j semi o quasi aormale.
quasi normale — s. asciutto, semi asciutto
(1) Ku invece scarsa a. cagione della primavera umilia, e fredda del 1876 — (2) Fu invece b a
soltanto perchè le piogge della primavera del 1878 furono cagione di molta cascola. — f.i) Nonio fu
dappertutto. Nell'Alta Italia vi era bensi poca uva, ma in varii locali dopo tre mesi di siccità, se-
guita da aleune piogge moderate, essa ingrossò mollo e il reddito ivi fu buono. — (4) Fu itero dan-
neggiata moltissimo dalla peronospora e dall'antracnosi. — (5) Danneggiato dalla peronospora. — (6) Fu
pei'o quasi distrutto dalla peronospora e dalle grandini. Ma la promessa in primavera era assai beila
PRONOSTICO DELLA FRUTTIFICAZIONE DELLA VITE 323
Al contrario gli anni di scarsa vendemmia si mostrano in tutti i
casi preannunciati da primavere umide nell'anno precedente; e certo
questa stagione, che è quella come vedemmo in cui formansi i bot-
toni, deve avere una marcatissima influenza, tale che, come accadde
nel 1860, neppure un' estate caldissima può modificarla a prò della
fruttificazione avvenire.
In nessun caso poi una primavera umida e fredda ha permesso
nell'anno successivo una vendemmia soltanto buona; essa fu sempre
scarsa o mediocre, a seconda che fu molto umida e fredda, o umida
e calda e via dicendo.
Del resto non bisogna mai perdere di vista l'entità della vendemmia
precedente: così se il 1864 potè (benché piovosissima la primavera
del 1863) vantare una raccolta buona, si fu perchè nel 1863 se ne
ebbe una mediocre: la vigna quindi non doveva essere molto esausta,
e le gemme benché formatesi sotto condizioni poco buone, poterono
crescere bene e perfezionarsi; ciò tanto più se si riflette che la pri-
mavera del 1863 fu calda — tuttoché piovosissima — e calde fu-
rono pure le stagioni susseguenti; l'eccesso d'umido potè quindi es-
sere comodamente smaltito.
Gli anni buoni, cioè di vendemmia ubertosa senza essere abbon-
dantissima, succedono sempre a stagioni normali, tanto per calore
che per umidità, e ciò conferma viemmeglio le cose anzidette.
Ma quello su cui ci preme maggiormente di insistere egli è sulla
necessità di raggruppare fra loro, e confrontare e coordinare
i cinque criterii suddetti, la. vendemmia cioè, la primavera,
l'estate e l'autunno delV anno pcecedente e V inverno dell' anno
stesso, se si vuole formarne un unico criterio attendibile. Ed
egli è soltanto con questa, quasi diremo, compensazione, che esami-
nando la tabella suddetta si potrà trovare la conferma del fin qui
detto.
§ 8. Deduzioni utili per la pratica. — Ci rimangono a
trattare, a guisa di appendice a questi studi, due argomenti assai
importanti:
1.) accennare alle pratiche che sono oggi in nostro potere per
ovviare almeno in parte ai cattivi influssi delle condizioni meteoriche
d'un'annata, sulla vendemmia dell'anno susseguente;
2.) accennare alla questione economica cosi felicemente risolta
324 CAPITOLO VII
col mezzo della carpoprognosia, quella cioè di esitare sempre il proprio
vino a prezzi rimuneratori, anche nelle annate d'ubertosissima ven-
demmia.
È indispensabile svolgere anche questi due punti, prima di porre
termine a questo capitolo.
Consideriamo brevemente il primo fra i due: — quando il viti-
cultore, tutto ben ponderato, è quasi certo che l'anno successivo la
vendemmia sarà scarsa, non dovrà rassegnarvisi, ma invece vedrà
ogni maniera per venire coll'arte sua in soccorso alle proprie viti.
È un fatto degno di rimarco che per i bravi viticultori quasi non
esistono le male annate; per costoro questi studii di carpoprognosia
tornano pressocchè inutili perchè a dispetto dell'andamento delle sta-
gioni essi riescono a mantenere le proprie viti in condizioni normali
ad un dispresso, e la fruttificazione vi è almeno discreta anche nelle
annate così dette cattive. Siccome però questi viticultori sono pochi
assai, e siccome d'altra parte essi pure, per la migliore vendita dei
loro prodotti possono, come diremo fra breve, trarre grande giovamento
da questi prognostici, così anche per essi non riesciranno affatto i-
nutili, come parrebbe a primo aspetto.
Intanto però, attenendoci alle condizioni generali di quasi tutti i
nostri vigneti, i cui ceppi si lasciano crescere a benefizio di natura,
(tolte poche pratiche di cui non sarebbe possibile fare a meno) di-
remo succitamente che:
a) Durante gli anni di abbondanza si deve provvedere la vite
di buona copia di opportuni concimi, acciò possa riparare alle gravi
perdite cui la fa soggiacere il frutto e si predisponga bene colle sue
gemme ascellari ad una copiosa fruttificazione nell'anno successivo;
b) Trascorrendo umida assai la primavera, ad evitare i gra-
vissimi inconvenienti che già accennammo, fa mestieri porre in pra-
tica tutti quei mezzi (fognatura, fossi di scolo, ecc. ecc.) che gio-
vano a dare pronto smaltimento alle acque piovane; e nel tempo i-
stesso praticare il « salasso primaverile » delle viti, operazione
viticola di cui parleremo al cap. XXVIII. Il salasso ha per iscopo non
solo di frastornare i gravissimi danni dell'aborto nei fiori dell'annata,
ma quello altresì di cooperare in modo assai efficace al buon sviluppo
delle gemme ascellari che formano oggetto precipuo di queste ri-
cerche.
Non vogliamo qui entrare a descrivere il salasso delle viti perchè
non è questo il luogo opportuno; ci basti l'accennare che se la pri-
PRONOSTICO DELLA FRUTTIFICAZIONE DELLA VITE 325
mavera (maggio) trascorre molto umida, se non si provvede a questo
guajo, l'anno dopo le gemme danno quasi sempre fiori che aborti-
scono. Naturalmente poi trascorrendo la primavera molto secca e
calda queste pratiche non sono punto da consigliarsi specialmente
se le viti sono poco rigogliose perchè attempate;
e) Avendosi un' estate . umida assai bisogna praticare — con
molto discernimento però — quelle operazioni che, come le cima-
ture, le ricimature dei getti e delle femminelle, la scacchiatura o
spollonatura, in una parola la potatura verde, hanno per iscopo di
impedire gli inconvenienti che già accennammo; si badi però che di-
cemmo a bello studio « con molto discernimento » perchè è noto,
tanto per citare un esempio, che trattandosi di viti ricche di umori,
rigogliose e giovani, le scacchiature vogliono essere moderate assai,
se non si vuole che l'eccesso di umore danneggi le gemme ascellari;
d) Che infine, trascorrendo umidi l'autunno e l'inverno, giove-
ranno moltissimo a queste gemme e la fognatura ed i fossi di scolo
già accennati. Oltre a ciò gioverà pure il ritardare la potatura, a
fine di provocare il pianto delle viti che è cotanto giovevole in
ispecial modo alle piante robuste, rigogliose, giovani che crescono
in terreni pingui. Infine in certe condizioni gioverà altresì — per
ovviare agli inconvenienti delle due suddette stagioni, se umidicce
— la potatura ricca, cioè o con più tralci frutticosi ovvero con tralci
frutticosi più lunghi del consueto, tanto per avere un maggior fra-
zionamento del succo.
Ma, lo ripetiamo, qui non intendiamo entrare nel vasto campo
della pratica viticola, che sarà oggetto dei capitoli seguenti; abbiamo
solo voluto porre sotto gli occhi di chi legge, come possano questi
studii di carpoprognosia giovare anche al viticultare, servendogli di
guida nelle svariate operazioni dell'arte sua.
Ora veniamo alla questione economica, che interessa assai da vi-
cino l'enologo.
Le annate di grande abbondanza d'uva si può ben dire che non
si seguono mai; rare volte poi accade che ad un'annata buona, un'altra
ne segua pure tale; ma con tutto ciò il caso si dà, e ne ebbimo
un esempio nel 1874 e nel 1875. Tolti questi casi eccezionali si può
stabilire, in tesi generale, che le vendemmie buone e le mediocri o
le cattive si alternano d'anno in anno; così ne viene che il prezzo
del vino segue la stessa curva, le stesse oscillazioni. Nel Basso Mon-
ferrato si alternano generalmente parlando questi prezzi:
326 CAPITOLO VII
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40 ,>() ali ettolitro
Possono capitare due anni consecutivi nei quali il vino valga 60
lire, come
1854 L. 66 in media all'ettolitro
1855 » 67 » »
e possono capitare invece due anni di seguito in cui non valga che
da 20 a 30 lire, come
1865 L. 23 in media all'ettolitro
1866 » 27 » »
Ma tre anni consecutivi di prezzi bassi, inferiori cioè alle 30 lire,
nella citata plaga non si sono verificati in questi 30 anni, e ciò non
ci pare difficile a spiegarsi dietro quanto dicemmo sulla fruttifica-
zione delle viti.
Ora egli è evidente che chi sapesse approfittare dei prezzi suddetti
di 50 oppure 60 lire Y ettolitro, offrendo ai compratori nelle annate
di scarsa, o solo di mediocre vendemmia, del vino prodotto a 20
o 30 lire nelle annate abbondanti o buone, ricaverebbe tale utile
dalla sua industria da persuaderlo di leggieri che l'industria del vino,
esercitata con criterio ed accortezza, è la più lucrosa di quante si
conoscono e si esercitano in paese.
Ma per giungere a tale risultato, fa mestieri non solo fabbricare
bene il vino, in guisa da saperlo serbare anche per 24 mesi in cantina;
ma saper anche prevedere con una certa quale approssimazione come
andrà la vendemmia nell'anno susseguente. E così, prevedendosi —
dietro i criterii della carpoprognosia — una vendemmia copiosa per
l'anno dopo, si potrà esitare il proprio vino ai prezzi correnti, senza
attendere un rialzo impossibile, ed anche per non lasciarsi cogliere
da una straordinaria raccolta colle cantine tuttavia occupate dal
vino vecchio: oppure prevedendosi una assai scarsa raccolta si potrà
serbare il proprio vino colla certezza di rivenderlo fra 10 o 12 mesi
al doppio del suo valore, e lucrare cosi il 100 per 100, come già
accade a qualche accortissimo enologo, che pur opera così a caso,
cioè senza i criterii di quella prescienza che noi qui tentammo di sta-
bilire.
Né ci si venga a parlare degli interessi del capitale che si ter-
PRONOSTICO DELLA FRUTTIFICAZIONE DELLA VITE 327
rebbe infruttuoso, per un anno e forse più, in cantina; poiché il gua-
dagno sarebbe tale, in ogni caso, da pagare a grande esuberanza i
frutti, come si potrebbe vedere dietro un calcolo semplicissimo che
ognuno può istituire da sé.
I produttori di vino sono generalmente le vere vittime delle oscil-
lazioni che subiscono i prezzi della preziosa bevanda, specialmente
nelle annate assai ubertose. Dall' altro canto vediamo i consumatori
costretti a pagare il vino a carissimi prezzi quando le vendemmie
sono scarse.
Ma tutto ciò scomparirebbe, e si avrebbe il tanto desiderato « li-
vellamento nei prezzi » ove almeno i più ricchi enologi serbassero
una parte o tutto il loro vino (secondo i casi) nelle annate d'abbon-
danza per esitarlo solo in quelle di poca raccolta. Essi vi farebbero
grassi guadagni ed i consumatori avrebbero a loro disposizione una
maggior copia di vino che non pagherebbero mai a prezzi esorbi-
tanti; poiché noi chiamiamo esorbitante il prezzo di 70 lire l'etto-
litro per vino da pasto buono (senza essere poi di qualità speciale)
quale si ebbe non di rado a verificare qui in Monferrato.
Oltre a tutto ciò la carpoprognosia potrebbe giovare moltissimo
nelle annate di copiosa vendemmia nelle quali l'uva scende talvolta
a prezzi vili: infatti allora, essendo già trascorse e la primavera e
l'estate e conoscendosi 1' entità della vendemmia presente si hanno
di già tre fra i più importanti criterii sui quali si basano queste
nostre previsioni; e per questo si può con grande approssimazione
predire se l'anno successivo sarà di nuovo ubertoso o non.
Ma in quest'ultimo caso è evidente che niuna miglior speculazione
vi sarebbe di quella del fabbricare molto vino colle uve suddette a
prezzi bassissimi, per poi rivenderlo l'anno dopo al doppio ed anche
più del suo valore.
Così accadde per esempio nel 1871. L'uva nel basso Monferrato si
vendeva a 10 o 12 soldi il miriagramma, ed il vino si produsse perciò
al massimo a 12 lire l'ettolitro (vino ottimo, mercantile, da pasto): —
nell'anno successivo 1872 il vino ebbe, dopo la vendemmia, un va-
lore maggiore del doppio, e coloro che avevano vino del 1871 lu-
crarono il 100 per 100: nel 1873 poi, essendo l'uva salita a 4 lire il
miriagramma, il vino toccò le 60 — 70 lire per ettolitro. Ora sa-
rebbe stato facile — mediante questi nostri studii — prevedere la
scarsità d'uva del 1873, poiché i due anni precedenti erano stati ab-
bondanti, anzi il 1871 abbondantissimo, e sopratutto perchè il 1872
328 CAPITOLO VII
era trascorso pochissimo favorevole alla fruttificazione del successivo
anno (veggasi la tabella): siccome il vino buono del 1872 si era
prodotto a circa 30 lire l'ettolitro, così vendendolo nel 1873 anche
a sole 60 lire (prezzo dei vini usuali, poiché i scelti toccarono le
70) si sarebbe anche qui lucrato comodamente il 100 per 100. Non
parliamo poi dei guadagni che avrebbe potuto fare chi avesse avuto
scorte del vino del 1871 prodotto a 12 lire l'ettol.: gli interessi dei
capitali nei due anni circa d'infruttuosità sarebbero stati pagati più
che comodamente e l'industria avrebbe pur tuttavia reso più del 100
per 100.
Sotto questo aspetto nessuna industria può reggere il confronto
con quella del vino, e se si costituissero Associazioni per questo
unico scopo, gli azionisti ne ritrarrebbero i più lauti guadagni.
Qui poniamo termine a questi studii e tentativi di Carpoprognosia,
nutrendo fiducia che troveremo per essi dei seguaci, acciò, in un
tempo non lontano, possa questo ramo della meteorologia agricola
poggiare su più solide ed ampie basi.
CAPITOLO Vili
Il terreno per la vite,
Après avoir passe en revue la nature du
sol d'un" grand noinbre de vignobles
renommés, il est impossible de trouver une
seule nature de terrain qui ne fournisse
un exeinple d'un vin célèbre naissant à
sa sur face.
Gasparin — Cours d'Agriculturej
T. IV, p. 638.
1. Il terreno per la vite — § 2. Natura chimica del terreno — § 3. Influenza
della natura chimica del terreno sui fenomeni d'assorbimento — § 4. Compo-
posizione delle ceneri della vite — § 5. I quattro elementi immediati e loro
influenza sulla quantità e qualità del prodotto della vite — § %. Riassunto
sull'influenza della natura chimica del suolo — § 7. Natura fisica del terreno
— § 8. Riassunto sulle proprietà chimiche e fisiche del terreno in relazione
colla vite — § 9. Esposizione — § 10. Giacitura.
§ 1. Il terreno per la vite. — Tutti gli autori che scrissero
di viticultura pongono la vite tra le piante meno esigenti in quanto
al terreno. La vite quando trovi a sé confaciente il clima, facilmente
si contenta del terreno. Nello studio che faremo su quest'argomento
cominceremo dal considerare la composizione chimica, per venire poi
a quello ben più importante della struttura e delle proprietà fìsiche.
Completeremo infine le notizie sulla esposizione e sulla inclinazione
del terreno date nel capitolo VI. Come si vedrà, questi diversi
coefficienti che contribuiscono a formare la maggiore o minore bontà
del terreno per la vite, sono strettamente legati fra di loro, e si
330 CAPITOLO Vili
influenzano a vicenda in modo, che nessuno di essi è tale da non
poter essere dagli altri modificato nei suoi effetti.
§ 2. Natura chimica del terreno. — È stato detto e cre-
diamo con ragione, che la composizione chimica del terreno non è
mai un ostacolo alla formazione d'un buon prodotto. Questo potrebbe
dispensarci dal trattare della natura chimica del terreno per la vite,
e potremmo passare senz'altro alla trattazione delle proprietà fisiche
le quali sono al contrario della più alta importanza nella coltura
che ci occupa.
Ma tuttavia, acciocché quella proposizione non riesca a qualcuno
troppo assoluta e avventata, daremo innanzitutto qualche esempio che
varrà, meglio d'ogni dimostrazione, a dimostrarne la verità. Osser-
viamo i vini celebri italiani, francesi e d'altri paesi; ci persuaderemo
che non v'ha natura di terreno che non si possa con vantaggio appli-
care alla coltura della* vigna. Noi troveremo che un terreno calcare
è quello che più si acconcia alla produzione del Nebbiolo, che i ter-
reni vulcanici producono prodotti in vino abbondantissimi nella re-
gione Etnea e del Vesuvio e nei colli Laziali, troviamo un terreno
granitico pei vini famosi dell'Hermitage, un terreno sabbioso o ciot-
toloso nel Médoc, terre calcari e marnose nella Costa d'Oro, sabbie
quarzose a Xeres, schisti argillosi a Malaga, terre cretose nella
Sciampagna, sabbie nere e ricche di humus a Tokai.
Le sabbie calcari leggere, come ne ha molte la provincia d'Ales-
sandria, sono eccellenti. I terreni calcari sono buoni anche pel fatto
che resistono meglio alla siccità e ai calori estivi, mentre i terreni
neri basaltici di cui si trovano esempi nella provincia di Vicenza,
non riflettendo i raggi solari, fanno sì che la vigna soffra assai i
danni del secco. — Nel compartimento francese della Marne i ter-
reni che danno i prodotti più rinomati hanno uno strato poco pro-
fondo di terra vegetale e sotto di esso un sottosuolo calcare cretoso.
Infine abbiamo in Italia il proverbio la vite nel sasso, e lo studio
dei vigneti di regioni le più disparate, di cui abbiamo numerosi esempi
in Guyot, in Ladrey e in altri autori di viticoltura, ci ricorda una quan-
tità di plaghe vitifere a produzione abbondantissima e in cui la vite
cresce e prospera tra le pietre. Sono queste regioni per lo più le calde,
ma anche le centrali ne porgono esempii. Abbiamo in Francia le piane,
che Guyot chiama desolate, della Crau, le pietre e le roccie quasi senza
terra delle garrigues dei Pirenei Orientali, della Dròme, dell'Hérault,
IL TERRENO PER LA VITE 331
abbiamo in Spagna una regione tra la Sierra Morena e le Cordi-
gliere di Moclin tutta a sabbie e ciottoli, affatto sterile, e che pare
non si possa prestare a vegetazione alcuna, la quale pure si adatta
assai bene alla vite. Terreni consimili si trovano all'isola di Madera e
alle isole Azorre, nelle quali la vigna costituisce uno dei prodotti
più importanti.
V'è però un'altra considerazione a farsi, ed è che gli effetti della
composizione chimica del suolo possono essere notevolmente modi-
ficati dalla composizione fìsica del suolo stesso. L'illustre agronomo
Gasparin studiò V influenza che poteva avere su terreni di eguale
natura chimica, la facilità più o meno grande colla quale il terreno
trattiene l'acqua: ne concluse che da un terreno secco si ottiene
uva ricca assai di zucchero ma relativamente sprovvista d' acidi,
mentre in un terreno fresco la proporzione di acidi era maggiore.
Da un terreno umido si otterrebbe un frutto in cui predominano gli
acidi, l'albumina e le mucillagini a pregiudizio della proporzione dello
zucchero.
Si aggiunga che sulle proprietà del terreno relative ai fenomeni
d'assorbimento la composizione chimica ha una notevole influenza. Di
qui la necessità di far precedere un breve studio sui componenti del
terreno; poiché è evidente lo stretto legame tra le proprietà del ter-
reno e la sua composizione chimica, per quanto la conoscenza di
quest'ultima non possa fornire argomento a conchiusioni assolute
sulla fertilità del suolo stesso — come vedremo in seguito.
§ 3. Influenza della natura chimica del terreno sui fe-
nomeni d'assorbimento. — Le esperienze del Dr. Way dimostrarono
che tutte le argille, i silicati idrati d'allumina, esercitano una grande
influenza sui fenomeni d'assorbimento, mentre poca ne esercitano le
terre calcaree e pochissimo le terre sabbiose. Ne nasce da ciò che se
noi confideremo al terreno elementi fertilizzanti, la loro soluzione,
attraversando lo strato coltivabile cederà più o meno di questi ele-
menti a seconda del predominio del terreno dell' alimento argilloso,
calcare o siliceo.
Aggiungendo al terreno del cloruro di potassio e del. solfato d'am-
moniaca avviene un mutuo scambio tra i silicati doppi (zeolitici) con-
tenuti nel terreno e il sale aggiunto. La potassa e l'ammoniaca oc-
cupano il posto della calce nel zeolite, mentre la calce si combina
coli' acido cloridrico del cloruro o solforico del solfato. Tutto ciò
332
CAPITOLO Vili
gioverebbe adunque a quel complesso d'azioni che contribuiscono alla
formazione dell'argilla. Ed è nell'argilla che trovansi gli alcali e spe-
cialmente la potassa che un terreno può abbandonare alle piante.
Ma anche un altro elemento importantissimo viene assorbito, ed è
l'acido fosforico. Il Dr. Wólcher dimostrò che se esso trovasi nelle so-
luzioni allo stato di fosfato d'ammoniaca o di potassa, viene dal
terreno trattenuto tutto il sale, mentre se si tratta di fosfato sodico
solo l'acido fosforico viene trattenuto, mentre la soda esce dal ter-
reno stesso.
La conclusione di tutto ciò è che sarà interessante il conoscere
se in un terreno predomina l'elemento argilloso, poiché 1°) in questo
caso saremo certi che in tale terreno sarà grande la facoltà assor-
bente, ossia il potere di assorbire e trattenere delle sostanze dalle
soluzioni che lo attraversano; 2°) Perchè si sa che i terreni argillosi
formati dalla disgregazione delle roccie feldspatiche contengono na-
turalmente più potassa degli altri. Gli ultimi progressi della chimica a-
graria ci permettono di affermare questo fatto. Si provò infatti a
trattare un terreno con acido cloridrico concentrato e quindi privato
di silicati zeolitici, i quali come abbiamo veduto possono dar luogo
ad uno scambio chimico delle rispettive basi; orbene ne risultò che
facendo attraversare delle soluzioni di cloruri, nitrati e solfati per
quel terreno non vi era più assorbimento di basi alcaline (potassa,
ammoniaca) o terro-alcaline (calce, magnesia).
§ 4. Composizione delle ceneri della vite. — Dimostrata
cogli argomenti svolti al cap. V, nonché nei precedenti paragrafi, l'op-
portunità — se non la necessità — di conoscere le principali ma-
terie occorrenti alla nutrizione della vite, daremo le seguenti cifre
del Wolff le quali si riferiscono a 100 in peso di ceneri :
Principali sostanze
componenti le ceneri
Foglie
verdi
Tralci
44,1
36,0
4,8
7,1
1,8
1,2
Semi
Bucce
Mosto
d'uva
acerba
Mosto
d'uva
matura
Potassa
Calce
Magnesia
Acido fosforico . . .
» solforico . . .
Silice
23,9
20, 3
8,1
15,1
3,1
5,0
27,4
32,2
8,5
27,0
2,4
1,0
41,9
21,7
4,4
15, C)
3,8
2,6
66,3
5,2
3,2
15,4
5,2
2,0
65,0
3,4
4,7
16,6
5,5
2,1
IL TERRENO PER LA VITE 333
Basta dare uno sguardo alla tabella del Wo///"per rendersi ragione
di ciò che si dice comunemente, che cioè la vite è una pianta a po-
tassa. La potassa infatti, come già dicemmo al Cap. V, è l'elemento
che in proporzione maggiore concorre nella vite a formare la parte
erbacea, la legnosa, e specialmente il frutto.
Ma ad evitare che da questa rilevante proporzione di potassa con-
tenuta nella vite si traggano conseguenze troppo assolute, sottopor-
remo due fatti di singolare importanza, i quali fra le altre cose var-
ranno anche a dimostrare quanto sia limitata Y importanza che si
deve attribuire all' analisi chimica di un terreno.
Le esperienze di Boussingault e di Vergnefte hanno dimostrato
che la vigna non esige nel terreno una quantità di materie alcaline
(la potassa è appunto una sostanza alcalina) più grande di quella
assorbita da altri raccolti: non ostante la grande quantità di alcali
esistente in qualcuno dei suoi prodotti (specialmente nel frutto), la
vigna non toglie alla terra più di quello che tolgano altre piante (1).
Queste esperienze di Boussingault e di Vergnette giovarono a
prevenire un errore in cui si poteva troppo facilmente incorrere.
Era naturale che si credesse necessaria nel terreno una quantità
grandissima di potassa, specialmente anche dopo le esperienze di
Gueymard, le quali dimostrarono che le ceneri dei tralci sono più
ricche in sali alcalini ed in fosfati che quelle del ceppo: quelle della
vinaccia sono più ricche di quelle del tralcio, quelle del vino più
ricche ancora. Adunque le parti più alcaline sono quelle che servono
alla produzione del vino, onde quella credenza era naturale. Eppure
si provò che la barbabietola, la patata, il frumento tolgono al
terreno più alcali di quanto ne toglie la vigna nelle medesime con-
dizioni. La causa di questa apparente contraddizione sta in ciò, che
parte dei sali alcalini contenuti nelle foglie della vite resta nel ter-
reno. E poi si consideri che se le ceneri del vino sono più ricche di
potassa, esse ceneri sono per altro in piccolissima quantità. Si può
quindi conchiudere che la vigna esige meno potassa ed elementi mi-
nerali in genere delle altre colture. (2) S'aggiunga che essa occupa
un cubo di terreno non determinato, perchè può estendere assai le
sue radici, e ciò spiega in parte perchè la vite spesso trovi il suo
nutrimento anche in terreni aridissimi.
(1) Vedi Cap. V, pag. 126.
(2) JoiUie, pag. 348 (Engrais Chimiques),
334 CAPITOLO Vili
Ma vi è un'altra circostanza da considerare ed è il diverso grado
di assimilabilità della potassa e qui sta il secondo dei fatti che
volevamo osservare.
Esso si lega al principio, ormai accettato dai chimici agronomi, che
l'analisi chimica non basta a dare un'idea della fertilità d'un terreno.
E poiché siamo a parlare della potassa esistente nel suolo, gio-
viamoci di questo esempio, il quale ci semplificherà alquanto il cam-
mino da percorrere.
Quando non si avevano ancora idee esatte sulF assorbimento delle
sostanze contenute nel terreno per parte dei vegetali, e sulle condi-
zioni che lo regolano, si attribuiva all' analisi chimica una grande
importanza. La si riteneva un dato sufficiente per giudicare della
fertilità di un terreno. Ma in seguito si osservò che un terreno pro-
veniente da micaschisto, ricco cioè di potassa, non fa prosperare
piante esigenti potassa, come sarebbe appunto la vite. E si osservò
contemporaneamente che certi terreni poveri di potassa lo possono
fare, e lo fanno realmente per il solo motivo che in quel terreno
la potassa esiste sotto forma assimilabile. Si cita ad esempio il ter-
reno della foce del Nilo, poverissimo di potassa, ma che si presta
benissimo alla coltura di piante così dette potassiche, perchè questa
base in esso è contenuta allo stato assimilabile.
Se adunque siamo a questo punto, che una concimazione
potassica avrà esito favorevole in un terreno di micaschisto
mentre avrà pochissima influenza sul terreno del Nilo, dovremo
conchiudere che Y analisi chimica del terreno ci dà solo un' idea
sulla fertilità possibile di esso, ma non ci porge un esatto e giusto
criterio sulla sua attitudine a questa piuttosto che a quella coltiva-
zione.
Una conclusione sicura per quanto indiretta può trarsi dall'analisi
chimica ed è questa: se l'analisi ci dice che un terreno è ricco di
potassa e tuttavia vediamo che la vite od altra pianta potassica
non vi prosperano, noi conchiuderemo che questo elemento non si trova
nel terreno allo stato assimilabile, ed in tal caso bisognerà ricorrere
a concimazioni o a ripetute lavorazioni, le quali rendendo la terra
maggiormente esposta all'azione simultanea degli agenti atmosferici,
riducono la potassa allo stato assimilabile. Ecco adunque sino a qual
punto l'analisi chimica può servire di guida all'agricoltore. L'analisi
chimica ci dice quale è la ricchezza del terreno, cioè la quantità
di materiali utili contenuti in esso, mentre l'analisi unita alle espe-
IL TERRENO PER LA VITE 335
rienze di coltura ci conduce ad avere un' idea prossima al vero
sulla fertilità.
§ 5. I quattro elementi immediati (argilla, silice, calce ed
humus) e loro influenza sulla quantità e qualità del prodotto
della vite. — Le considerazioni teoriche sull'importanza dell'argilla nel
terreno per la vite trovano nella pratica una dimostrazione e una
conferma. Abbiamo veduto infatti come la chimica agraria moderna
spiega il legame che unisce l'elemento argilla all'elemento potassa.
E la pratica così dice per bocca dell'illustre H. Marès (1): « I ter-
reni argillosi formati dalla disgregazione delle roccie feldspatiche con-
tengono naturalmente più potassa degli altri. Il feldspato è un mi-
nerale alluminoso a base di potassa, di soda, di calce ecc. La po-
tassa che esso contiene la si ritrova nelle argille e dà molta forza
e vigore alla vegetazione della vite. I terreni puramente calcari o
silicei mancano di elementi potassici e non danno mai prodotti così
abbondanti. Il miscuglio degli elementi argilloso e calcare che tro-
vasi in certi terreni e sottosuoli marnosi, è una delle migliori con-
dizioni per assicurare la durata della vigna e l'abbondanza dei suoi
prodotti. »
Vediamo ora altre cause per cui il predominio di uno dei quattro
materiali immediati suddetti, possa influire sul prodotto finale.
I terreni argillosi — specialmente se ricchi d'ossido di ferrò —
danno vini più colorati e più stabili per essere più ricchi d'alcool.
Il Petit-Lafitte nel suo pregiato lavoro La vigne dans le Borde-
lais, dice che talvolta si dà colpa alla natura troppo argillosa del
terreno, di quel sapore speciale terroso del vino che i Francesi chia-
mano goùt de terroir.
Ciò è confermato anche dal Marès, il quale aggiunge che quei
medesimi terreni forti, assai argillosi dai quali si ottiene il vino col
gusto di terroir, danno invece con vitigni ad uva bianca, un vino
distintissimo.
I terreni in cui v'ha giusta armonia tra la silice ed il calcare
danno vini meno colorati, ma più fini e più suscettibili d'acquistare
il profumo {bouquet). Tali terreni trovansi nel mezzogiorno della
Francia in piane più o meno ondulate tra il mare e le montagne,
(1) Bes vignes chi midi de la Franca \
336 CAPITOLO Vili
In terreni di poggio, coperti di ciottoli qua calcari, là mescolati con
quarzo e silice, si ottengono — da vitigni ad uva molto colorata —
i vini più carichi di colore, che il commercio desidera pel taglio coi
vini inferiori.
Del resto la silice in particolare agisce sull'aroma, sulle qualità
che diremo brillanti del vino. Il Marès mette in dubbio la serbevo-
lezza dei vini ottenuti da terreni silicei: se non che molte osserva-
zioni fatte nella nostra Italia dicono che il vino dei terreni silicei è
leggero ma serbevole (1).
Il calcare o carbonato di calce esercita un'azione marcata sulla
solidità, sulla durata del vino e anche sulla sua ricchezza in al-
cool. Secondo alcuni osservatori i terreni calcari, a misura che in
essi predomina l','elemento siliceo o l'argilloso, partecipano della na-
tura dei terreni sabbiosi o argillosi.
Ultimo e non meno importante tra gli elementi immediati del ter-
reno agrario è 1' humus. — Esso, come pure il ferro, pare che au-
menti il colore del vino. Pare anche che comunichi a questo più a-
sprezza e maggiore conservabilità.
Una singolare importanza si attribuisce dagli autori quest'humus
(sostanza organica). Fra gli altri Guyot nell'accennare ai requisiti che
deve avere il terreno per la vigna nei paesi non meridionali, dice
che le terre leggere e permeabili, vulcaniche, calcari, giurassiche e
cretacee, sabbiose e silicee, a ciottoli, a frammenti sono le migliori,
ma alla condizione di essere mol'o profonde ed assai ricche di prin-
cipii vegetali (2). Ivi 1' humus supplirebbe all' azione stimolante
del calore, secondo il Guyot stesso; e ci pare che egli si apponga
al vero.
Si capisce che si dia notevole importanza sl\Y humus anche nei paesi
soggetti ai calori ed alla siccità: questa materia vegetale rende il
terreno assai proprio ad assorbire e a trattenere una quantità suffi-
ciente d'umidità anche durante il cuore dell'estate. Nello studio in-
teressante sui vigneti d'America fatto dal Ladrey si citano esempi
di questi terreni vegetali e ricchi anche assai di calcare magnesiaco
(centro e sud del Missouri).
(1) G. A. Ottavi. La Chiave dei Campi.
(2) Guyot. Elude des vignobles de France. Tome III. p. 605.
IL TERRENO PER LA VITE 337
È noto del resto che — passate le esagerazioni sulle pretese pro-
prietà fertilizzanti dell'humus — questa sostanza si ritiene ancora
d'un valore grandissimo e costituisce tuttavia uno dei mezzi per ri-
conoscere la fertilità di un terreno. In grazia all' humus il terreno
acquista non solo la igroscopicità, come abbiamo detto, ma anche
altre preziose proprietà fìsiche quali la porosità, il potere di assor-
bire e trattenere con più energia i materiali utili, e infine la facoltà
di assorbire una quantità più rilevante di calore, appunto per la
tinta oscura che esso ha naturalmente.
L'humus poi è sede di importanti reazioni chimiche, le quali av-
vengono ancorché la composizione di esso varii; e varia diffatti a
seconda della diversa natura dei vegetali che hanno vissuto su quel
dato terreno. L' humus è il generatore continuo nel terreno dell'a-
cido nitrico e dell'anidride carbonica (volgarmente acido carbonico).
Ed ecco in qual modo i chimici moderni spiegano la di lui benefica
azione nel terreno. L' acqua carbonicata che deriva dall' azione di
esso, scioglie una piccola quantità di fosfato neutro di calce (fosfato
tricalcico) il quale, come si sa, sarebbe insolubile nell'acqua pura.
Adunque l'humus provoca l'assorbimento di materiali che altrimenti
non sarebbero assimilabili. Contenendo poi esso sostanze azotate, dà
luogo a sviluppo d' ammoniaca, la quale genera poi l'acido ni-
trico.
Dall'analisi del Wolff abbiamo veduto che anche la calce e l'acido
fosforico sono contenuti in proporzioni rilevanti nelle ceneri della
vite.
G. A. Ottavi osservò (1) che si ottengono vini più colorati dove
esiste in abbondanza nel terreno il calcare (Casale, Acqui, Alessandria,
Bergamo, molte provincie del Veneto e Napoletano massime nel lito-
rale est, ecc), mentre dove non esiste calcare (Biella, Ivrea, Pinerolo)
si hanno vini più scolorati.
Un valente chimico agronomo francese, il sig. Joulie, ha coordinato
la seguente tabella, nella quale si confrontano gli elementi minerali
contenuti nei prodotti della vigna con quelli di altre coltivazioni,
prendendo per unità l'acido fosforico:
(l) Lezioni d'Agricoltura pei Contadini, voi. III.
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura 23
338
CAPITOLO Vili
Acido
fosforico
Potassa
Soda
Calce
Magnesia
Vite
2,28
0,021
1,79
0,46
Frumento
maturo 1
1,28
»
0,52
0,36
»
in fiore 1
2,25
0,305
1,18
0,52
Pomi di terra (tubercoli) 1
3,30
0,048
0,12
0,24
Barbabietole (radici) 1
3,65
0,725
0,45
0,63
Fieno di
prateria 1
4,18
1,145
1,83
0,80
Da queste cifre il Joulie conchiude che per una medesima quan-
tità d'acido fosforico la vigna assorbe più di calce e meno di po-
tassa che la maggior parte delle altre colture. Per la calce essa è
quasi al livello del fieno di prateria, e per la potassa scende a quello
del frumento in fiore, che certo non ha la potassa come elemento
dominante. Dunque i viticultori neh' esame del terreno per la loro
vigna devono preoccuparsi almeno tanto dell'acido fosforico e della
potassa quanto della calce e degli altri elementi immediati.
§ 6. Riassunto sull'influenza della natura chimica del ter-
reno. — Riassumendo tutto ciò che abbiamo detto sin qui nella com-
posizione chimica del terreno per la vite diremo che, quantunque la
nostra ampelidea prosperi in terreni di natura diversissima, pure al-
cuni terreni ci sono che ad essa si confanno di più, ed è dimostrato
che la natura chimica del suolo esercita una sentita influenza sulla
qualità del prodotto. È noto a tutti come nei terreni grassi ed ar-
gillosi abbiasi per riguardo alla vegetazione uno sviluppo vigoroso
del legno, un prodotto abbondante, ma un vino di qualità non sempre
sceltissima, mentre nei terreni magri e secchi il prodotto della vite,
assai meno considerevole per riguardo alla quantità, sarà sempre su-
periore per la qualità. Si può ritenere che i terreni tipi per la
coltura della vite — dal punto di vista della fertilità — sono
quelli in cui si trovano sottosuoli formati di ceneri vulcaniche,
e ciò perchè tali sottosuoli più degli altri si prestano al disgre-
gamento delle roccie di cui sono composti, disgregamento che for-
nisce costantemente alla pianta tutti gli elementi che essa ha ten-
denza ad assimilarsi. I terreni primitivi più antichi che si avvicinano
ai precedenti per la loro composi/Jone ed origine, e che loro somi-
gliano nelle proprietà per i detriti che contengono mescolati alla terra
vegetale, sono buoni altrettanto quanto i terreni vulcanici. Vengono
IL TERRENO PER LA VITE 339
dopo — sempre riguardo alla fertilità — i terreni argillosi, in cui
l'elemento alcalino non esiste più che nei detriti che sfuggirono alle
decomposizioni anteriori; seguono infine le formazioni calcari e sab-
bionose.
Ma, lo ripetiamo, la vite è tra i vegetali uno di quelli che meno
esigono per quel che è della fertilità del suolo, e per darne una
idea, citeremo noi pure il fatto ricordato dal Ladreij che le an-
tiche leggi della Provenza non permettevano di piantar la vigna se
non dopo aver constatato con un'inchiesta che il suolo era realmente
sterile !
§ 7 Natura fisica del terreno. — La natura fisica del ter-
reno, e le proprietà che ne conseguono, relative al vario grado di
porosità, di umidità, di capillarità, di disgregamento più o meno a-
vanzato delle molecole terrose, per tacer d'altro, hanno sulla quan-
tità e sulla qualità del prodotto della vite una influenza più rimar-
chevole che non la composizione chimica.
Premettiamo che anche per quel che è della natura fisica del ter-
reno, la vigna è assai meno esigente delle altre piante coltivate. Veri
suoli ingrati per essa non esistono. Enumereremo colla scorta del
citato sig. Marès e delle osservazioni da noi fatte, i terreni che
meno si prestano alla coltura della vite, diremo poi dell' influenza
dell'umidità nel terreno, e verremo infine a conclusioni generali.
Suoli ingrati per la vite si potrebbero considerare quelli in cui
v' è eccesso di sabbia, il tufo, le ghiaie ed arene dilavate dalle acque,
i depositi di piccolo spessore sopra roccie compatte, gli strati d'ar-
gilla tenace. Suoli ingrati si possono considerare eziandio quelli
umidi e soggetti alle inondazioni.
Questi terreni presentano gli uni e gli altri le condizioni estreme
le più opposte. Cosi le sabbie, le ghiaie che tra loro non hanno alcun
elemento che le leghi, come ad esempio la marna o l' argilla, non
offrono consistenza alcuna. La vite in esse soffre e mal sopporta i
grandi calori, massime nei nostri paesi meridionali, e compie imperfet-
tamente la fioritura e la fruttificazione. Sopra il tufo le condizioni
sono ancora peggiori; in tali terreni la vigna produce poco e dura
poco. Dicasi lo stesso dei depositi in istrato sottile sulla roccia
compatta.
Negli strati d'argilla tenace la vigna si trova ancora peggio al-
lorché il terreno è orizzontale e non vi può quindi essere sfogo per
lo scolo delle acque, cosa che ognuno avrà potuto osservare.
340 CAPITOLO Vili
In questi casi vale meglio abbandonare affatto la coltura della vite:
un simile terreno, continuamente umido d'inverno, disseccato e con
larghi e profondi crepacci nella state, non può dar vita che a miseri
ceppi esposti ad ogni sorta di accidenti atmosferici, i quali danno
luogo poi alla colatura, al carbone, al marciume, ecc.
Quando le argille sono inclinate e possono essere prosciugate me-
diante la fognatura, le condizioni sono meno cattive (1).
Una massima che si vede ripetuta nei trattati di viticoltura è la
seguente, che la vite prospera bene in qualunque terreno purché
non sia umido.
La vite soffre il freddo ai piedi ha detto con frase felice il nostro
Prof. Cantoni, il quale ha conchiuso cogli altri che le bassure ed i
luoghi umidicci vogliono essere destinati ad altre colture.
Il precetto è adunque giusto, e non vi si può fare che qualche
eccezione come vedremo più sotto. La vite che vegeta in terreni
umidi non solo dà prodotti scarsi, ma dà uve meno zuccherine, più
ricche di albuminoidi e di sostanze mucillaginose, che sono poi di
pregiudizio alla buona conservazione del vino. Dà infine uve più a-
cide.
Lo stato arabile attivo del terreno si sovracarica di umidità quando
sotto di sé ha un sottosuolo impermeabile, il quale non permetta d'in-
verno l' infiltramento delle acque piovane. Conseguenza di ciò si è
che il terreno d'inverno è come pieno d'acqua stagnante e d' estate
diventa troppo asciutto, perchè, specialmente nei terreni sabbiosi,
l'acqua evaporandosi rapidamente lascia lo strato arabile affatto secco.
Il miglior sottosuolo sarebbe adunque quello composto d'uno strato
permeabile come sabbia, ma piuttosto alto, sovrapposto ad uno strato
impermeabile. Però quest'ultimo sarebbe invece dannoso se lo strato
permeabile di mezzo fosse di piccolo spessore. Qualora, essendovi
il sottosuolo impermeabile, esso sarà a 70-80 cent, almeno della su-
perficie, si potrà egualmente conchiudere in favore della bontà del
terreno, perchè quella distanza, oltre al non darci più a temere per
l'umidità, ci dinoterà che lo strato vergine è piuttosto spesso, e ciò
è della massima importanza, massime nel caso speciale della vite.
Ne risulta la necessità pel viticultore di farsi un'idea sulla natura
del sottosuolo, per potervi, occorrendo il caso, praticare gli opportuni,
-anzi indispensabili ammendamenti. Questa cognizione la si acquista nello
(!) II. Marès, op. cii. p. 273.
IL TERRENO PER LA VITE 311
scavar le fosse per le piantagioni o anche mercè opportuni trafori.
Quando si trova un sottosuolo formato di elementi grossolani come
ciottoli,' arena ecc. si avrà un indizio di terreno permeabile. Poco
permeabile sarà invece il sottosuolo formato di particelle finissime,
specie di argilla, ovvero formato di vero sasso.
Una proprietà importante da considerarsi nel sottosuolo è eziandìo
la forza di capillarità, quella proprietà cioè del terreno per cui
l'acqua esistente negli strati del suolo sale alla superficie.
Carattere del sottosuolo a molta forza di capillarità è l' essere
composto di particelle minute come in forma di fine sabbietta. —
In certi luoghi, di primavera e d' estate, alla superficie del terreno,
massime se il suolo è soffice, vangato e zappato, si vedono delle
efflorescenze saline. Questi sali, fra cui specialmente il salnitro ed il
sai di cucina, sono prova della capillarità del terreno, poiché vengono
trasportati alla superficie di esso dall'acqua, che sale appunto per la
forza di capillarità. La salita di essi si manifesta con maggiore e-
nergia allorché dopo le piogge succede un tempo bello e caldo, e
che il terreno non sia né asciutto ne molto freddo.
Nel sottosuolo la sabbia vera ha capillarità di pronto effetto, ma
talvolta di poco rilievo: la terra finissima invece come 1' argilla ha
capillarità d'effetto assai lento, ma più potente.
Veniamo ora alle eccezioni che avevamo accennato poco fa ri-
guardo alla natura del sottosuolo.
La prima di esse la troviamo nei paesi caldi, nei quali — quando
si ha ragione di temere la siccità — può ritenersi che un sottosuolo
di natura argillosa eserciti una vantaggiosa influenza sullo strato
arabile attivo. Esso infatti trattiene tra le radici una certa dose di umi-
dità, che viene certo utilizzata durante la stagione del secco; ma è sempre
necessario però che il terreno non sia di per sé stesso troppo com-
patto e che la circolazione dell'aria sia facile. Il signor Ladrey
nel citato suo Traile de Viticulture, senza neppure farne un caso
pei climi molto caldi, afferma senz'altro che le terre forti le quali
soddisferanno alle condizioni più sopra accennate, provocheranno nella
vigna un grande vigore di vegetazione.
A dimostrare che 1' umidità sotterranea può avere una vantag-
giosa influenza sulla vegetazione, purché non resti stagnante, cite-
remo un esempio che ci darà anche una bella applicazione di quanto
esponemmo sulla forza di capillarità.
In Francia, nella regione del basso Rodano, trovasi una zona di
342 CAPITOLO VITI
terreno dell'estensione di 6000 ettari, che prese il nome delle sabbie
di Aigues-Mortes. Quivi dal 1873 si vanno piantando alacremente
nuove vigne, poiché si scoprì in quelle sabbie la preziosa proprietà
di tenere la vigna illesa dagli attacchi della fillossera.
Infatti le sabbie di Aigues-Mortes sono eminentemente quarzifere,
costituite di granelli sottilissimi che scorrono assai facilmente gli uni
sugli altri, si asciugano prontamente dopo le pioggie, e mancano af-
fatto di miscugli plastici- Non possono quindi aver coerenza, e per
questa loro grandissima mobilità e scioltezza la fillossera non vi si
può muovere.
Ad Aigues-Mortes si ottengono prodotti favolosi; parlasi di 150 a
200 ettolitri di vino ad ettare. Il signor Barrai, illustre agronomo
francese, nello studiare le cause di sì splendidi raccolti in quella re-
gione, nella quale non cade quasi mai acqua meteorica dall' aprile
al settembre, non volle attribuire tutta la importanza al concime, e
specialmente al letame di stalla che colà si sparge sino alla bella
cifra di 100 m. e. per ettaro: ci doveva essere un' altra cagione.
Il sig. Barrai percorse l'intiera regione studiandone il terreno, e
trovò che i primi 20 cent, di sabbia contenevano l'I 0[q di umidità,
la quale umidità andava man mano aumentando sino a raggiungere
il 6, e il 12 0[o alla profondità d'un metro, e il 18-22 0[q a 2 metri
di profondità. Sotto le sabbie di Aigues-Mortes havvi dunque una
corrente di acqua dolce che, per capillarità, è portata in alto sino
a raggiungere le radici delle viti, e vi mantiene, ad onta della manc-
anza di pioggia, quella rigogliosa vegetazione.
Per provar ciò, un vagone di questa sabbia fu trasportata al capo
Pinède {Marsiglia) e vi furono piantate alcune viti in una fossa lunga
6 metri e larga 2. Le v'iti si mostrarono immuni alla fillossera, ma
vegetarono con molto minor vigore, perchè nella loro nuova località
l'acqua mancò assolutamente, non potendola esse assorbire dal sot-
tosuolo.
A questo punto, richiamativi anche dall'argomento della fillossera,
crediamo dover rispondere ad una obbiezione che si può fare a
quello che dicemmo sugli effetti dell'umido nel terreno. È noto come
uno dei metodi suggeriti per combattere V invasione fillosserica sia
la sommersione, mezzo energico e sicuro e del quale si fece strenuo
propugnatore in Francia il sig. Faucon. Si tratta di allagare il vigneto
durante 40 o 45 giorni. Si aggiunga che questa operazione va ri-
petuta tutti gli anni sul tardo autunno o nell'inverno, e che si pone
IL TERRENO PER LA VITE 343
per condizione della sua completa riescita la presenza di un sotto-
suolo impermeabile. Infatti se il sottosuolo lasciasse facile scolo al-
l' acqua, bisognerebbe rinnovare quest' ultima continuamente, e in
questo rinnovo si porterebbe naturalmente nel terreno anche una
certa quantità d'aria, la quale sarebbe sufficiente al funesto insetto
per respirare e per vivere.
Quest'obbiezione ha certo un valore, e noi ammettiamo che il pri-
vare il terreno della vite della sua aria, durante l'inverno, non può
che nuocere alla prosperità della vite stessa, benché questa sia al-
lora nel periodo del riposo. Ad ovviare in parte a questi inconvenienti
bisogna far seguire all' allagamento una buona concimazione con in-
grassi azotati e con potassa, ciò che supplirà ai materiali di fertilità
esportati dall'acqua, nonché frequenti lavorature del terreno, in pri-
mavera ed in estate, per ridonargli l'aria.
Veniamo ora alla struttura propriamente detta della terra.
Ad essa si attribuisce importanza massima. È constatato dall'os-
servazione che per tutto dove si produce vino di qualità superiore,
cioè vino rinomato, il terreno offre questa particolarità di trovarsi
mescolato a frammenti rocciosi, variabili in numero, in forma e in
grossezza, ma tali, sotto questi tre rapporti, che diminuirebbero assai,
e fors'anche ridurrebbero a zero il valore di questo terreno, ove ve-
nisse destinato ad altra coltura. Esempi di terre pietrose e ciottolose
producenti ottimi vini si trovano in Sicilia, in quel di Marsala, in
Francia nella Borgogna, nell'Hérault, in Spagna nei dintorni di Gra-
nata. Pare però da osservazioni raccolte in Italia (I) che le terre a
cui sono misti ciottoli e ghiaie, per quanto ottime a dar frutto ec-
cellente e vino veramente prelibato, siano in qualche modo di pre-
giudizio alla vitalità della pianta, la quale in esse avrebbe una breve
durata.
Ma ad ogni modo l'influenza di una simile struttura del terreno sul
vino è innegabile. Potremmo citare molti autori di viticoltura che la af-
fermano; ci limiteremo a ricordare il Conte Odart che afferma come
essa basti a prevenire l'alterazione del vino conosciuta sotto il nome
di grassume fgraissej. Il medesimo autore propone anzi un procedi-
mento fondato su questa proprietà per prevenire nei vini la detta
malattia; esso consisterebbe nel coprire di uno strato di ciottoli o
pietre stritolate la superfìcie del vigneto.
(1) V. giornale il Coltivatore voi. XXXII.
344 CAPITOLO Vili
§ 8. Riassunto sulle proprietà chimiche e fisiche del ter-
reno. — Da tutto quello che abbiamo detto si può conchiudere in
tesi generale che la vite vive e dà frutto in qualsiasi terreno anche
se situato in bassure e non perfetttamente asciutto, come quello della
classica Vernaccia di Oristano: però il viticultore non deve badare
soltanto ad ottenere frutti, ma ad ottenerne molti, di buona qualità
e nello stesso tempo di non nuocere soverchiamente alla longevità
della pianta. Studiando la questione sotto questo triplice aspetto, si
può stabilire un principio fondamentale invariabile; cioè che i terreni
umidi sono poco convenienti alla vite.
Allorquando poi i terreni non umidi sono composti di sabbie cal-
cari, sono leggieri, permeabili, ciottolosi, magri e via dicendo, la vite
ci dà vini secchi, ricchi di alcool, di eteri, poveri di albuminoidi e
di facile conservazione. Invece se i terreni sono compatti e fertili,
ci dà vini in maggior copia, colorati, più nutrienti, meno fini e meno
facili a conservarsi. Concludendo, la finezza del prodotto è pro-
porzionale alla scioltezza e magrezza del suolo; la sua quantità
invece aumenta nei suoli fertili. Il viticultore intelligente deve poi,
considerando la cosa dal lato economico, scegliere quel terréno che
naturalmente, o corretto con opportuni ammendamenti, potrà dargli
un prodotto discretamente copioso e con quelle buone qualità che il
commercio desidera: lo ripetiamo, noi qui parliamo in generale, perchè
non possiamo considerare i casi speciali in cui il viticultore può tro-
varsi.
§ 9. Esposizione. — Poco ci resta a dire sull'esposizione più
conveniente per la vite, già avendone parlato nel capitolo della Me-
teorologia viticola.
Rimandiamo innanzitutto il lettore alle idee generali esposte a pa-
gina 296, ed insisteremo nell'avvertire che la scala delle esposizioni
da noi stabilita, cominciando dalla migliore per venire alla meno fe-
lice, è tutt'altro che assoluta. Noi abbiamo detto che in generale la
miglior esposizione è quella di Sud, e che seguono poi rispettiva-
mente quelle di Ovest, di Est e di Nord. Ora, non solo le condizioni di
clima e di terreno possono cambiare o4 anche affatto invertire l'or-
dine da noi stabilito, ma ripari naturali particolari ad ogni regione,
operazioni speciali condotte dall'uomo, possono radicalmente modifi-
care gli effetti di una data esposizione.
Noi abbiamo visto infatti che, quantunque la vite resista al freddo
IL TERRENO PER LA VITE 345
più di molti altri vegetali, pure la esposizione Nord era per essa la
meno conveniente, essendo quella che riceve la minor quantità di
raggi solari diretti. Ma si è detto pure che var ii agronomi dell' età
antica e media, i quali scrissero sulla vite da regioni meridionali, ci
tramandarono il precetto che l'esposizione Nord era buona nei climi
caldi. — Magone Cartaginese, per aggiungerne un altro a quelli già
citati, scrivendo per l'Africa consigliava decisamente l'esposizione
Nord, la medesima d'altronde che si preferisce ora in Egitto, nei din-
torni di Alessandria. Queste differenze trovano la loro ragione special-
mente nel clima.
Si sa che nei paesi caldi le vigne hanno spesso a soffrire gli ar-
dori del sole, ed i loro frutti in certe annate sorpassano anche il
giusto grado della maturità. E così, quantunque la vite rifugga quanto
mai dall'ombra, spesso si è costretti a procurargliela correggendo
così in certa guisa il difetto dell'esposizione. Il sig. T. Carnevale da
Lipari ci scriveva che in molti vigneti di quell'isola negli anni di calore
eccessivo si provvede ad aumentare l'ombra al frutto per mezzo di
vegetali (ad esempio felci) coi quali si copre l'uva tanto dalla parte
superiore, quanto da quella cui da riceve il calore riflesso. (1)
Per quello che è dell' esposizione Ovest, se dovessimo accettare le
conclusioni dei molti fatti raccolti dal Guyot, dovremmo affermare
che essa sia la peggiore. Veramente essa presenta qualche difetto;
ad esempio è più umida di quella di levante non essendo colpita
dai raggi solari altro che nelle ore pomeridiane. Si aggiunga che
in questa esposizione e in quella di Sud Ovest può avvenire d'estate,
specialmente dall'una alle tre pomeridiane, che l'evaporazione e la tra-
spirazione delle piante si facciano eccessive. In tali casi l'umidità di
cui la pianta può disporre, e quella che essa toglie naturalmente al
suolo, non bastano a compensare le perdite prodotte dall'evaporazione
e ne nasce uno squilibrio nelle funzioni dalla pianta, il quale produce
la caduta delle foglie e l'essiccamento dei frutti.
Ma tuttavia anche tenuto calcolo di ciò noi abbiamo moltissimi
fatti che ci provano come in Italia alla esposizione ovest si otten-
gono ottime uve a frutto zuccherino; tanto che si può dire che in
tutte le parti d'Italia il sud e l'ovest danno i vini più generosi.
Neppure ha valore assoluto l'appunto che si fa alle vigne esposte
al levante di andar soggette alle brine. Innanzitutto la brina reca
(1) Giornale Vinicolo Italiano 1884, pag. 345.
346 CAPITOLO Vili
pochi danni se il suolo è asciutto, permeabile, sassoso o selcioso. E
d'altronde si sa che l'esposizione di levante è buona dove formasi
abbondante la rugiada, venendo questa dissipata dal sole nelle prime
ore del mattino. (1)
Sugli alti colli poi all' esposizione est il passaggio dal caldo al
freddo e viceversa non nuoce. Il danno è dunque limitato alle basse
valli ed alle piane.
L'esempio infine di vitigni celebri provenienti da terreni situati
ad esposizioni le più opposte, finirà per persuaderci della limitata
importanza che vuoisi dare all' esposizione. Abbiamo in Italia Ba-
roli squisiti provenienti da terre esposte al Nord del circondario
d'Alba, abbiamo in Francia il SaiUerne proveniente da vigneti
esposti quasi del tutto ad Est, e per tacer d'altri il Médoc esposto
al Nord-est.
Questi vini — il Médoc (Bordeaux) e il Nebbiolo — per quanto
abbiano una fama mondiale, non sono certo tra i più generosi, mentre
sono generosissimi i vini provenienti dalle esposizioni sud e ovest della
nostra Italia e dai paesi caldi specialmente. Questo fatto può aiutarci
a formulare un precetto o un consiglio pratico per le regioni calde
che può essere generalizzato secondo noi senza incontrare eccezioni
molto gravi. Nelle regioni calde oltre alle esposizioni sud e ovest
che danno vini generosissimi, possono convenire moltissimo le espo-
sizioni est e nord le quali in generale danno vini meno generosi;
ciò specialmente negli alti colli e anche al piede o alle falde dei più
alti monti dove si ottengono vini un po' acerbi, ma gustosi e ser-
bevoli.
Il sig. Petit- Lafltte nel libro da noi già ricordato, dedica un ca-
pitolo ad un argomento nuovo o almeno sin'ora pochissimo studiato:
l'influenza sulla vite della vicinanza di masse d'acqua, di montagne
e di foreste. Egli non cita che fatti, confessandosi incapace a spie-
garli, e questi fatti starebbero a dimostrare che realmente cotale vi-
cinanza esercita una influenza favorevole. Il conte Odart scrive nel
suo Manuel du Vigneron: « il corso dell' Ebro essendosi allontanato
dalla città di Emos in Tracia, le vigne di quei pressi perdettero la
loro fama » (pag. 64). Nelle Geoponiche greche si trova scritto che
l'aria, il calore e anche i venti di mare sono favoreroli alle vigne.
Il Pelit-Lafitle fa seguire a queste citazioni il nome di molte regioni
(1) F. Garelli. Viticoltura, pag. 24.
IL TERRENO PER LA VITE 347
celebri pel vino, e che risiedono presso grandi masse d'acqua. E così
il Tokai presso alla Theiss affluente del Danubio, il Porto non lontano
dall'Oceano e dal Douro, Malaga che domina il Mediterraneo, VHer-
mitage che ha vicini il Rodano, e nella Gironda, Lafitte, Latour e
Margaux sono vicinissimi al fiume del medesimo nome.
Esempi consimili potremmo trovare in Italia, nei nostri vini delle
isole, nel Marsala e nei Moscati Siciliani e Sardi, nella Vernaccia di
Oristano, nel Lacryma Cristi presso il Golfo di Napoli, e mille altri.
L'influenza delle montagne vicine può avere una spiegazione nel
fatto che esse servono di riparo contro i venti, e modificano affatto
l'influenza dell'esposizione. Le catene di montagne che riparano dai venti
del nord concorrono infatti a rendere più caldo il clima. — In Italia
ne abbiamo molti esempi. Pisa che è difesa dai suoi colli Pisani dai
venti di tramontana, quando questi spirano, è più calda di Livorno.
E la Riviera ligure deve in parte alla catena degli Appennini le sue
vegetazioni di agrumi e di palme.
E infine, riguardo all'influenza delle foreste, afferma il Petit La-
fitte che essa esiste realmente ed è dannosa. « La cura che si pone
a tenerne lontane le vigne — aggiunge egli — e i numerosi esempi
che si hanno nel Bordolese della loro pericolosa influenza, special-
mente riguardo ai geli, ci mostrano quanto sia prudente questo modo
di agire. »
Un solo fatto egli cita, che farebbe sotto un certo rispetto eccezione
alla massima data, fatto antico e che ha una conferma nella Gi-
ronda. Racconta Plutarco che a Bacco fu consacrato il pino come
quello che dà al vino la dolcezza, ed il nostro autore conferma ciò
applicandolo al Médoc. È un fatto costante che quei vini i quali
vengon si può dire all' ombra dei pini, hanno tra le loro preziose
qualità anche quella della dolcezza. Non la dolcezza che risulta uni-
camente dallo zucchero, ma quella che risulta dall' assenza di ogni
principio di sapore che domini gli altri. I vini del Médoc sono per
vero perfettamente equilibrati nei loro componenti.
§ 10. Giacitura. — Anche su quest'argomento rimandiamo il
lettore alla pag. 296. Bacco ama il colle e anche le gole più soleg-
giate degli alti monti purché abbia un terreno asciutto. Si trova più
a disagio nelle valli e nelle piane, ma vi vegeta e vi può prospe-
rare, purché queste valli e piane non siano a sottosuolo impermeabile.
La valle del Po conta numerosissimi vigneti, i quali sono in maggior
348 CAPITOLO Vili
numero alla destra di questo fiume dove vi hanno terre forti e ar-
gillo- calcari, che non alla sinistra dove abbondano la ghiaia e la
sabbia, elementi che contribuiscono a dare al terreno quella strut-
tura fisica che, come vedemmo, è per la vite la più adattata. Adunque
molte sono le piane della sinistra del Po che si potrebbero adattare
alla coltura della vite, perchè abbiamo appunto ghiaia e sabbia nelle
piane di Cuneo, di Torino, di Novara, di Milano, di Bergamo, di
Brescia e sovratutto di Verona, di Treviso e di Udine.
Le piane che veramente e assolutamente sono inadatte alla col-
tivazione della vite sono quelle soggette alle nebbie ed alle inonda-
zioni, nonché quelle in cui 1' acqua soggiorna d' inverno. Il nemico
principale della vite in pianura è Tumido, e quest'umido le viene e
dal terreno, e dall' evaporazione dei poggi vicini. Innanzitutto l'ec-
cesso d' acqua che la vite trova nell' aria e nel suolo produce un
raffreddamento; ciò perchè il vapore acqueo che scende a guisa di
nebbia alla pianura, assorbe molto del calore solare, e parte di
quest'ultimo è anche impiegato per l'evaporazione dell'umidità della
terra. È adunque una notevolissima quantità di calore che si sottrae
alla vite.
Venendo all'eccesso opposto diremo che difficoltà non meno gravi,
quantunque di diversa natura, la vite trova nelle erte pendici e nei
luoghi troppo alti. Le prime essendo troppo inclinate vengono dalle
acque di pioggia denudate della loro parte superficiale, ed essendo
esposte troppo direttamente ai raggi del sole perdono gran parte
della loro freschezza. Le alte cime sono esposte a tutti i venti e
continuamente da essi se cosi possiamo dire spazzate, onde vanno
poi soggette non solo ai grandi geli, ma anche alle brinate tardive,
alle nebbie della primavera, agli uragani dell' estate, alla grandine,
alle piogge.
Concluderemo adunque, per quel che è della situazione, che questa
è sempre conveniente, date però quelle condizioni di terreno che ab-
biamo più sopra stabilite.
CAPITOLO IX
Lavori preparatorii per l'impianto
del vigneto.
§ 1. Due modi di preparazione del terreno. Scasso reale — § 2. Fosse — § 3. Li-
vellazione del terreno — § 4. Disposizione del terreno a banchine — § 5. Am-
mendamenti. Marnatura. Terra vergine. Aggiunta di sali di ferro ai terreni
bianchi — § 6. Arrotto. Fognatura — § 7. Concimi per l'impianto.
§ 1. Due modi di preparazione del terreno. Scasso reale.
— Per facilitarci la trattazione dell'interessante tema che si riferisce
alla preparazione del terreno cominceremo a stabilire tre casi diffe-
renti che il terreno stesso ci può presentare, ed a seconda dei quali
diverse saranno le operazioni da eseguirsi dal viticultore.
Come primo caso supporremo quello più comune di un terreno
pianeggiante o leggermente inclinato, già da gran tempo coltivato
a prato, cereali, alberi da frutta o da olio o da legno, e che si voglia
ridurre per la coltivazione della vite.
Un secondo caso lo ammetteremo in un terreno già coltivato a
vigna, e che, estirpata questa, voglia essere di nuovo ripiantato
a viti.
Terzo ed ultimo caso quello d'un terreno a grandependenza sino
ad ora mai coltivato, o tenuto a boscaglie — terreno che si vuol
ridurre a vigneto.
Partendo dal primo caso ed ammettendo che il vigneto voglia es-
sere specializzato e cioè colla distanza tra i filari non maggiore di
tre metri, l'esperienza, la pratica più illuminata, ci dicono che il metodo,
350 . CAPITOLO IX
migliore di preparare il terreno è quello dello scasso generale o reale
come dicesi comunemente, e che vuol dire rimuovimento profondo
di tutto quanto il terreno che si destina alla coltura della vite. Mercè
lo scasso si supplisce alla concimazione per qualche anno, perchè si
recano alla portata delle radici, e si rendono assimilabili, molti ele-
menti che giacevano inerti negli strati profondi del suolo coltivabile:
la vite si giova in modo singolare di questi elementi, il suo le-
gno ingrossa prontamente, le gemme si fanno feconde a partire
dal terzo, e talvolta dal secondo anno; in conclusione, la pianta
immagazzina sin dai suoi primi anni molti elementi utili, e ciò
giova molto e ad una copiosa fruttificazione annuale ed alla longevità
della pianta stessa. Non v'ha provincia d'Italia nella quale, nella gran
maggioranza dei casi, lo scasso non si possa consigliare. Solo vi sarebbe
a fare qualche differenza in quanto alla profondità; ad esempio nel
Mezzodì esso vorrebbe esser profondo da 60 centimetri a un metro
per dare allo strato attivo del terreno quella porosità e quella fre-
schezza che sono indispensabili nei paesi caldi. Nel Nord invece, ove
di rado si hanno a lamentare la siccità e gli altri effetti del calore
soverchio, può bastare lo scasso a 50, 00 centimetri.
L'importanza grandissima dello scasso — la vera necessità in certi
casi — è già stata ovunque sancita dalla pratica viticola in Italia. Nel
trattato La Chiave dei Campi di G. A. Ottavi (1) si racconta come
collo scasso reale molti viticultori ottennero già nel terzo anno da 15
sino a 40 ettolitri di vino ad ettare. Un tale risultato fu sorpassato
al nostro podere sperimentale La Cardella in un vigneto a terreno
argillo-calcare piantato nel 1874 sopra scasso di 60 centimetri.
Questa vigna neh' annata fortunosa 1876 diede 44 ettolitri di vino.
La profondità utile per lo scasso varia non solo secondo il clima ma
anche secondo le proprietà del terreno. Nelle terre buone argillo-cal-
cari è sufficiente uno scasso a 60 centimetri e non sarebbe sempre
utile uno a 80 od a 100 centimetri. Molti in un terreno così profon-
damente scassato si crederebbero forse obbligati a piantarvi magliuoli
e barbatelle alla enorme profondità di 50, 60 q più centimetri, cosa
che come vedremo può divenir fatale alla vitalità della pianta. Se
poi il terreno fosse ghiaioso, selcioso ecc., sarà buona cosa spingere
lo scasso da 70 sino a 100 centimetri. Invero si comprende di leg-
gieri come più il terreno è magro ed arido, più lo si faccia fecondo
(1) V. ivi pag. 434.
[,AVOR[ PREPARATOMI PER L'IMPIANTO PEL VIGNETO 351
per la vigna a misura che si scende più al basso nel suolo inerte,
e se è di buona natura, anche nel sottosuolo.
Questa profondità non è necessaria nei suoli feraci. Nel compar-
timento dell' Hérault troviamo le vigne più produttive del mondo, ma
ivi non si parla guari di scassi molto profondi. Ivi gli scassi sono
quasi sempre operati col mezzo di semplici aratri. Nell'Economia
Rurale di G. A. Ottavi (1) è raccontato il fatto del Senatore
G. Bazile di Mompellieri il quale fece fare in una sua vigna lo scasso a
soli 35 cent, di profondità e ne ottenne risultati favolosi; cento un-
dici ettolitri di vino ad ettare nel sesto anno.
Tuttavia, se collo scasso profondo la vigna mette con maggior
forza, si fa più prosperosa, meglio resiste alle siccità estive ed ha,
almeno per qualche anno, meno bisogno d'ingrasso, può andare in-
contro, in casi speciali, ad inconvenienti non piccoli.
Prima di tutto mettiamo la questione economica. Uno scasso cosi
profondo sarebbe costosissimo, mentre lo scasso a media profondità
operato da un semplice aratro coll'aiuto di qualche bracciante che lo
segue per voltar meglio le zolle e nettare il solco, non richiede che
una piccola spesa.
Bisogna considerare poi che la vite piantata sopra scasso profondo
da 80 a 100 cent, e in terreno buono, mette con troppo rigoglio, e
male capiterebbe allora all' inesperto viticultore che non la sapesse
domare in tempo. Essa non darebbe che pochissima uva, ed una parte
di questa la perderebbe poi all'atto della fioritura in maggio.
Vero è che il viticultore istrutto e previdente sa prevenir ciò colla
piegatura dei tralci e con altre pratiche di cui si parlerà a suo tempo
diffusamente.
Altro studio interessante è quello del momento migliore per pra-
ticare lo scasso.
La stagione preferibile è l'estate, primo perchè la terra nuova o
vergine portata alla superfìcie, si ingentilisce sotto l'azione del po-
tente calor solare, secondo perchè le pioggie autunnali sono assai
bene trattenute, e per molto tempo, nel terreno scassato, locchè co-
stituisce un importante magazzino di umidità, massimamente pei paesi
meridionali.
Lo scasso fatto in autunno è pure buono ma è ben lungi dal dare
gli effetti dello scasso estivo. Un'esperimento comparativo fu fatto
(1) Ivi p. 30.
352 CAPITOLO IX
da noi al citato podere sperimentale tra una vigna in cui lo scasso
fu fatto nel novembre e dicembre, ed un'altro in cui fu fatto tre
mesi prima.
Nella vigna collo scasso estivo, piantata l'aprile susseguente, tro-
vammo nell'ottobre, e cioè dopo sei mesi di vegetazione, che buona
parte delle viti avevano getti di un metro di lunghezza, alcune di
due, e altre poche perfino di tre metri. Scoperta una radice trovammo
che aveva due metri e mezzo di lunghezza. Risultati assai meno
belli ne diede la vigna su scasso autunnale.
Prima di passare ai diversi modi di eseguire lo scasso, toccheremo
una questione alla quale abbiamo accennato di volo dicendo che lo
scasso era utile, necessario anzi nella gran maggioranza dei casi.
V ha adunque qualche terreno in cui quest' operazione è dan-
nosa?
Le nozioni che abbiamo fatto precedere sulla struttura e sulla na-
tura chimica dei terreni ci dicono come lo scasso è in taluni casi
impossibile, come sarebbe quello di un sottosuolo di nuda roccia a
pochissima distanza dallo strato attivo, e in taluni altri inopportuno.
Ad esempio se si trattasse di terre affatto ciottolose con poca terra
sfatta sopra, la miglior cosa da farsi pel viticultore sarebbe di limi-
tarsi a smuovere questa terra senza scendere a toccare le pietre.
In certi terreni lo scasso non è sufficiente ad apportare al ter-
reno tutti quei vantaggi che sono conseguenza diretta della porosità.
Sono questi i terreni pochissimo permeabili. In essi lo scasso dà buoni
risultati per qualche anno, poi la porosità si perde quasi del tutto.
Questi terreni hanno bisogno di essere anche drenati. Il più volte
citato Marès va assai più in là nell'attribuire alla fognatura del vi-
gneto grande importanza: egli ammette spesso nei terreni forti che il
drenaggio possa supplire lo scasso. Ma non si tratta che di casi spe-
ciali sui quali ecco come scrive TA:
« Nei terreni argillosi o a sottosuoli di marna tenace, alla super-
ficie dei quali si trova una grande quantità di pietre o di grossi ciot-
toli che sono d'ostacolo alla coltura, il modo migliore di sbarazzar-
sene è quello di aprire nel terreno delle fosse di drenaggio ampie e
profonde tanto da dar ricetto a tutte queste pietre. Così mentre si
fanno scomparire queste, si trasforma nel modo più vantaggioso la
natura del suolo. Terreni cattivi, freddi ed umidi possono diventare
buoni. In simili terreni gli scassi sono pericolosi, poiché portano alla
superfìcie del suolo delle argille o delle marne crude, le quali per
LAVORI PREPARATORII PER L'IMPIANTO DEL VIGNETO 353
sverginarsi all' azione dell' aria e del sole adoperano diversi
anni (1). »
Le idee dell'egregio scrittore francese possono nei casi da lui esposti
essere accettate. Invero se ci facciamo a considerare gli effetti che in
genere apportano i lavori profondi e quelli del drenaggio, noi li vediamo
in gran parte identici. Ambedue aumentando l'altezza dello strato col-
tivabile permettono alle radici di svilupparsi facilmente ed ampia-
mente, — introducendo molt'aria nel terreno vi arrecano un elemento
necessario alla respirazione delle radici, — introducendo molt'aria re-
golano eziandio la temperatura del terreno, rendendolo più fresco d'e-
state e più caldo durante i rigori del verno. Anche gli effetti chimici di
ossidazione e nitrifìcazione sono gli stessi, perchè col drenaggio come
colle arature profonde introducendo coll'aria, l'ossigeno, si arreca al
terreno un agente attivissimo per trasformare le sostanze inerti del
suolo in sostanze atte alla nutrizione.
Le idee del Marès hanno adunque un fondamento logico e nei casi
speciali da lui ammessi sono accettabili anche nella pratica. Ma in-
fine colla più parte dei nostri terreni italiani la pratica e l'osserva-
zione ci dicono che lo scasso è possibile ed utile. E lo stesso autore
francese conchiude d'altronde, anche a proposito dei terreni in cui
l'infertilità del sottosuolo dipende dalla sua impermeabilità, che questi
vorrebbero almeno essere drenati prima d'essere scassati.
Nelle sue escursioni nella Capitanata G. A. Ottavi ebbe ad osser-
vare un fatto che apparentemente viene a contraddire tutto ciò che
sinora dicemmo a favore degli scassi. Questo fatto si è che in Ca-
pitanata la vigna piantata sopra scasso reale non dà un prodotto
maggiore di quella piantata col palo di ferro. Questo sistema, prea-
damitico nel vero senso della parola, e adottato anche in qualche
provincia della Sicilia consiste in ciò: si fa un foro profondo 80 cen-
timetri con un palo di ferro, vi si immette subito il magliuolo spin-
gendolo fino in fondo, e si comprime attorno ad esso la terra, o me-
glio se si vuole, vi si mette un po' di vecchio terriccio. Infine si dà
una buona zappatura profonda circa 25 centimetri, tra l'uno e l'altro
filare.
Come si spiega adunque che una vigna piantata su scasso reale
non dà in Capitanata risultati migliori di quelle piantate col sistema del
palo? La ragione trovasi nei trattamenti successivi che si fanno subire
(1) Des vigties du Midi de la France, pag. 305.
0. Ottavi, Trattalo di Viticoltura
354
CAPITOLO IX
alla vite, trattamenti certo degni di essere modificati. Quelle vigne
piantate su scasso reale hanno molto, troppo vigore; e tuttavia le si
potano a due soli speroni con due gemme. Qui la pianta si fa ple-
torica, mette cioè dei getti molto vigorosi, ma appunto per questo il
succo non si elabora abbastanza bene e non vi feconda le gemme.
Un altro errore che si commette in Capitanata è quello di scacchiare
prima della fioritura le vigne vigorose fatte su scasso reale. Una
tale operazione fatta in tale momento è dannevolissima ai frutti
pendenti ed eziandio ai futuri.
Dati questi esempi, i quali ci dimostrano come bisogna andar molto
guardinghi prima di condannare la pratica dello scasso, veniamo ai
modi più semplici e più comuni di praticarlo.
Lo scasso si può fare a mano; e allora è un'opera piuttosto co-
stosa, o si può fare coi buoi a scalinata, scendendo gradatamente
anche ad un metro di profondità, e capovolgendo esattamente la terra,
e in questo caso la spesa è relativamente assai piccola.
Gli strumenti che servono a far lo scasso a mano sono principal-
mente la vanga, e nei paesi dove trovansi molte pietre, tufo duro
ecc., il zappone e il bidente uncinato. — Questi due ultimi arnesi
servono quasi come la vanga a capovolgere esattamente la terra che
si smuove: essi sono usati nel Genovesato, in Terra di Lavoro, nel
Salernitano, nel Brindisino, nell'Ascolitano, in Sicilia e altrove.
Lo scasso colla vanga si fa nel seguente modo:
M
X
z
e
I)
A
B
Fig. 69.
Sia M N il campo che si vuol scassare. Si comincia ad aprire una
fossa A H ad una delle estremità del campo. Questa fossa la si farà
larga per es. 50 centim. e profonda altrettanto. La detta terra si
potrebbe spargere qua e là per il campo. Volendo procedere rego-
larmente sarà bene però trasportarla colle carrette in P Q. Si apre
poi una seconda fossa C D, accanto alla A B, in modo che la prima
puntata della vanga riempia la parte inferiore di quest'ultima fossa,
LAVORI PREPARATORI! PER L'IMPIANTO DEL VIGNETO 355
mentre la parte superiore deve essere occupata dalla seconda pun-
tata, cioè dalla terra vergine. Si procede così fino alla fine del campo,
dove l'ultima fossa X Z si chiuderà colla terra di A B portata in P Q.
Con due fitte di vanga si scende alla media profondità di 50 cen-
timetri. Se il lavoro è fatto in maniera che la terra della seconda
puntata (terra vergine) sia posta sopra la terra della prima puntata,
il capovolgimento sarà completo e la spesa oscillerà tra le 300 e
500 lire per ettare, più o meno secondo il prezzo della mano d'opera,
che varia nei differenti paesi.
Lo zappone usato specialmente nel Brindisino ha una lama lunga
e larga. Il Prof. Meloni lo descrive nel suo lavoro: Brani dell'in-
ventario dell' agricoltura italiana (1) e dice che con esso si fanno
a Brindisi ottimi lavori, capovolgendo la terra quasi altrettanto bene
quanto colla vanga. Non solo con esso si fanno colà le scatene o
scassi profondi a 60, 70 centimetri, ma anche fosse per piantare
alberi e non pochi lavori di maggese.
Il bidente uncinato è fatto come il zappone, ma ha due denti
piatti, larghi tre dita traverse, lunghi circa 20 centim. e separati
tra loro da uno spazio di circa altre tre dita.
Il contadino apre anzitutto davanti a sé un solchetto, poi, come
fanno gli ortolani, scrosta alla profondità di pochi centimetri la co-
tica superficiale del suolo col suo bidente e fa cadere in fondo nel
detto solchetto, unitamente ad un po' di terra, al concio e alle fronde
delle leguminose coltivate per sovescio. Allora, e con replicati colpi,
smuove il terreno a quel modo scrostato, lo capovolge quasi e-
saltamente, trae alla superfìcie la terra vergine e infine la frantuma.
In questo modo egli apre davanti a sé un secondo solchetto profondo
da 25 a 35 centimetri per ricominciare come sopra il suo scasso, e
cosi di seguito sino all'estremo lembo superiore del campo.
Ed ora veniamo a descrivere in qual modo si pratichi lo scasso
a gradinata.
Si apre in fondo al tratto di terra che si vuole scassare un fos-
satello a scalinata, alla profondità voluta e di cui diamo il profilo
nella fìg. 70.
Ciò si fa coi bovi seguiti da uomini armati di badili, che versano
questa terra smossa al disotto, cioè in fondo al tratto suddetto o la
spargono nella parte di sopra ancora da scassare. Indi si apre col-
li) 11 Coltivatore voi. 23 p. 168.
356
CAPITOLO IX
l'aratro un solco in C, con un paio di buoi, e la terra cade in B:
un altro solco si apre pure in C e la terra occupa allora il posto di
B
C C
A
F.g. 70.
quella che era in C. Ciò fatto gli uomini coi badili versano il tutto
(la terra mossa dello strato arabile) in A, e qui il profilo si cambia
presso a poco in quest'altro (fig. 71).
C C D
Fig. 71.
In seguito si apre un altro solco in C sotto il primo e un quarto
si apre in C e la terra mossa (la terra vergine questa volta) gli
uomini la versano sull'arativa in A.
Quindi il profilo prende quest'altra figura (fig. 72).
E
1)
Fig. 72.
Lo scasso ora in A è ultimato, e lo è pure in C e C; solo qui
si dovrà farvi scendere (come sopra si fece in A) la terra di E e
di E' poi (sempre come sopra) 1' altra sottostante e così di seguito,
capovolgendo esattamente le fette, smosse colla forza dei bovi, e po-
nendo alla superficie coi badili la terra vergine.
11 gradino B nella prima figura e quello D nella terza, e succes-
sivamente negli altri corrispondenti a misura che lo scasso progre-
LAVORI PREPARATORI! PER L'IMPIANTO DEL VIGNETO
disce, sono necessarii perchè sopra di essi passa il bue di destra e
non dunque in fondo allo scassato, perchè allora il tiro riescirebbe
malagevole per essere un bue troppo alto e l' altro posto troppo
in basso.
Fu in una delle tante Escursioni in zig-zag che G. A. Ottavi fece
per l'Italia, che egli apprese lo scasso a gradinata e lo vide a pra-
ticare — sempre coi bovi — anche ad un metro di profondità. Nel-
l'opera Y Economia rurale è descritto il modo con cui fa questo
scasso appunto a un metro il Conte Saverio Bernetti di Fermo,
nella provincia d'Ascoli Piceno. Lo riportiamo trascrivendo letteral-
mente quanto si dice a pag. 219 della detta opera.
« Nella parte più bassa del tratto di terra che vuoisi scassare fa
aprire, passando e ripassando coll'aratro, una fossa M (fìg. 73) larga
Fiar. 73.
due metri, e la terra mossa, quella pur anche dei gradini A A, la
fa trar su coi badili e la versa dalla parte di sotto della fossa stessa,
e così in A' (1). Fatto ciò si fa passare l'aratro (tirato da due buoni
bovi) per aprire un solco al punto 1, per cui un bue passa qui sul
sodo, cioè nella linea notata colla cifra 4 e 1' altro passa sul primo
gradino superiore notato colla lettera A. La terra mossa del tratto
1 rotola giù quasi tutta nella fossa M, da dove gli uomini, che
sempre seguono 1' aratro, V accumulano col badile in 1'. Con altro
solco, ritornando indietro, si fa cadere nella fossa la fetta 2, e dagli
uomini si rovescia sulla prima, e cosi in 2'. Con altro solco ancora,
si smuove la striscia n.° 3 e questa coi badili si pone in 3'.
Infine allo stesso modo ancora, si fanno, sempre a gradinata, i
solchi 4, 5 e 6 e la terra di essi si versa nei siti corrispondenti,
(1) La figura non fu bene incisa. Essa suppone almeno che 1' aratro versi la
terra a sinistra e non a destra; come accade quasi sempre,
358 CAPITOLO IX
cioè in 4' 5' e 6'. E così procedendo si giunge infine a scassare
tutto il tratto, che a questo modo vuoisi smuovere, e dappertutto
la terra rimane perfettamente capovolta. Cosa essenziale questa per
lo sverginamento delle parti inerti di essa terra e la successiva sua
fecondazione.
Qui dunque il maggior lavoro si fa coi bovi (1); ma suppone che
la terra di sotto non sia tufo durissimo o peggio sasso. La durezza,
in casi opposti, non è insuperabile, e con un buon paio di buoi si
scende benissimo a oltre a 30 centimetri per volta, che le fette of-
frono poca resistenza e sdrucciolano facilmente nella fossa.
Ad ogni modo ecco le cifre relative al costo di questo scasso, e
che devo alla cortesia del signor conte Bernetti.
Con 18 uomini e un paio di buoi per ogni solco lungo 100 metri,
in una giornata di 8 ore (giornata dunque d' inverno), si scassano
500 metri superficiali a un metro di profondità.
Per ettare occorrono pertanto 20 giornate dei detti bovi e 360
di uomini. Se si valuta la giornata di questi a 80 centesimi, il costo,
per tale superficie, sarebbe di sole L. 288, e compreso il lavoro dei
bovi, circa L. 370, e così infine tre volte meno, approssimativamente,
degli scassi fatti a mano ».
Quanto costa lo scasso? Già abbiamo avvertito che quello prati-
cato a mano a un metro e anche a mezzo metro viene a costar
moltissimo. Per cinquanta centimetri fatto con due fitte di vanga ne
calcolammo il costo in lire 400 sino a 600 1' ettare — viene poi a
costare da L. 800 a 1000 quando lo si fa ad 1 metro e ciò ancora
nella supposizione che la giornata di lavoro si paghi solo da L. 1
a L. 1,20. Fatto nell'inverno e quindi col prezzo della giornata assai
minore, il costo dello scasso scema in proporzione. Togliamo questi
dati dal trattato La chiave dei campi; ivi lo scasso a gradinata
più sopra descritto, si calcola che costi non più di L. 290 Tettare non
compreso il lavoro dei bovi e, comprendendo anche questo, L. 370.
Vi sarebbero altri modi di far gli scassi, ad esempio quello con-
sigliato dal Marès pei suoli sani e profondi delle piane e delle valli,
di far scassinare il terreno per la vigna da un forte aratro seguito
da un ravagliatore.
In questo caso si tratterebbe di scassi alla profondità di 40 o 50
(1) lui solo paio, perchè tra molti si coi're rischio di vederne a sdrucciolare
qualcuno nella l'ossa sottoposta
LAVORI PREPARATORI 1 PER L'IMPIANTO DEL VIGNETO 359
centimetri al più. L'aratro in questo caso vorrebbe essere trascinato
da sei bovi almeno, il ravagliatore sarebbe quello Bonnet, secondo
il citato autore. Noi in Italia ci potremmo servire benissimo di quello
Certani che crediamo migliore.
Ma se volessimo occuparci della descrizione dei diversi sistemi di
scassinare il terreno usati nelle diverse provinole italiane e stra-
niere, ci dilungheremmo di troppo, e basta per ciò Taver accennato
ai principali.
Facciamoci ora a considerare brevemente il secondo dei casi da
noi ammessi in principio di questo capitolo, quello cioè in cui si tratti,
dopo aver estirpato una vigna, di ripiantarla nel medesimo terreno.
In questo caso bisognerà regolarsi secondo la natura del terreno
stesso, tenendo calcolo dell' ultima volta in cui fu scassato o lavo-
rato profondamente. Se trattasi di terreni affatto mancanti di uno
o più dei materiali utili, che si spossino facilmente e presto, bisognerà
letamarli e scassarli, estirpando ogni vecchia ceppaia e non ripian-
tando che dopo qualche anno. E nel frattempo si faranno gli oppor-
tuni ammendamenti, come V insabbiamento se 1' elemento che scar-
seggia è la silice, la marnatura se scarseggia 1' elemento calcare e
se i terreni sono troppo sabbiosi e sciolti. Si praticherà la vera
fognatura inglese o drenaggio se sono troppo argillosi o impermeabli.
Si potrà allora sperare che la nuova vigna avrà sorti più prospere
della precedente.
Quando il terreno invece sarà di buona natura, ma stanco, im-
poverito, basterà un buon divelto profondo con una concimazione nei
modi che diremo. Crediamo di poter dare con sicurezza questo con-
siglio quantunque diversi autori, specialmente francesi, insistano nel-
1' ammettere la necessità di un riposo per la vigna. Il est sage et
prudent — dice il Petit-Lafìtte — quand une terre a dejà porte
de la vigne et quand on veut en remettre de nouveau d'accorder
quelques temps à des cultures diffèrentes. (1) Pure il medesimo
autore ammette che dovunque lo strato attivo è profondo, e do-
vunque si può tirare alla superficie un buon sottosuolo, il ripiantar
vigna su vigna si possa fare. E cita il Mécloc in cui vide esempi
di ciò, alla sola condizione di far precedere al nuovo pianta-
mento uno scasso del terreno. Ma di ciò ci occuperemo di nuovo
(1) Op. cit., pag. 112.
360 CAPITOLO IX
quando parleremo dei modi migliori di ringiovanire un vigneto
vecchio.
E infine venendo al terzo caso da noi supposto, quello dei ripidi
pendìi, dovremmo ora studiare il modo di ridurre questi terreni a
banchine, terrazze, ed è quello che faremo diffusamente nel § 4.
Prima ci preme dire due parole sulla seconda e meno buona maniera
di preparare il terreno per la vite, quella cioè delle fosse. — Non ci
fermeremo a parlare d'un terzo sistema, invero pessimo e pur usato in
molte provincie dove la vite si marita ad alberi. Ivi — nel Veneto e
neh' Emilia specialmente — non si fa altro che aprire tante buche
della larghezza di 1 metro quadrato e profonde da 70 ad 80 cen-
timetri, ed ivi piantar Y albero vivo e attorno ad esso le talee. (I)
Con questo sistema le radici della vite si trovano come imprigio-
nate, né è loro possibile espandersi siccome è necessario per avere
viti robuste, feconde e longeve.
§ 2. Preparazione del terreno colle fosse. — Questo se-
condo metodo è usato da coloro che tengono tra i filari delle viti
distanze maggiori di tre, quattro e più metri, e nell'interfilarc colti-
vano poi cereali, baccelline, e, peggio, patate. È usato quindi anche in
quelle provincie dove la vite si appoggia a sostegno vivo, e dove
pure non si crede sufficiente di limitarsi a quelle semplici buche di
cui parlavamo testé, nelle quali si mette poi la vite come si pianterebbe
un fiore in un vaso. Queste fosse si sogliono aprire neh11 autunno
tra novembre e dicembre, e il piantamento si fa poi in primavera;
è molto meglio però aprire le fosse in primavera e piantare all'au-
tunno successivo. E ciò per dare agio alla terra vergine che si
estrae e si sparge alla superficie (si noti che abbiamo detto si
sparge e non si accumula) di ricevere durante tutta l'estate l'azione
riunita degli agenti atmosferici e quindi di sverginarsi. — In Toscana
molti viticoltori sono persuasi di ciò, secondo ci racconta il Fonseca (2),
e aprono le fosse in aprile per poi piantarle, o, come dicesi, riti-
rarle nel venturo novembre. I vignaiuoli toscani pare che siano ben
compresi dell'importanza che hanno i mesi estivi nello sverginamento
della terra inerte, perchè cercano di aumentare tale beneficio, di-
(1) V. / sostegni per le riti di E. Ottavi, pag. 27 e il giornale il Campagnolo
(Dr. G. Vecchi), anno 1883.
(2) La viticoltura nel Fiorentino, cap, lu.
LAVORI PREPARATORI! PER L'IMPIANTO DEL VIGNETO 361
sponendo il terreno cavato dalla fossa in due larghi argini lateral-
mente alla fossa stessa e così esponendo all'aria una più ampia su-
perficie di terreno.
Tanto ricaviamo dal citato Fonseca, il quale dice pure che nel
piantamento di vigneti promiscui in collina, le fosse hanno in media
una larghezza ed una profondità di metri 1,20, mentre in piano
la larghezza è di m. 1,50 e la profondità di m. 0,90.
Nel Veneto le fosse si aprono alla fine di settembre o in ottobre,
larghe un metro e mezzo e profonde 70 a 80 centimetri. Troviamo
dimensioni che poco si discostano da queste, nelle altre provincie ove
la vite si marita agli alberi vivi. Ivi nelle fosse si piantano gli al-
beretti (aceri, olmi) presi dal vivaio e tra Y uno e l'altro poi si
sdraiano le talee di vite. Ma neh1' impianto di veri vigneti specializ-
zati bastano fosse di dimensioni minori. Nei terreni buoni con sot-
tosuolo permeabile basta una profondità di 50 a 60 centimetri, stando
però sempre la larghezza ad un metro e mezzo, e non meno.
Come si deve procedere nell'apertura delle fosse?
Vi sono diversi buoni metodi da seguire. Scavato nel terreno un
primo tratto tanto ampio che vi possa star entro il vangatore,
questi continuando ad aprire la fossa, da una parte getta la terra
arativa, dall' altra la vergine, in modo, come abbiamo detto, che
questa sia piuttosto sparsa, perchè meglio possa profittare degli
agenti atmosferici. Ricordiamo qui di passaggio come nella mas-
sima parte dei terreni lo strato arabile si divide in strato attivo e
strato inerte da non confondersi col sottosuolo, il quale sta da sé
ed è di natura chimico-fisica diversa dal soprasuolo. In generale
lo strato inerte (che sta tra lo strato attivo e il sottosuolo) è meno
oscuro dello strato attivo ma è più scuro del sottosuolo. E così pure
possiamo dire che in generale lo strato arabile attivo ha uno spes-
sore di 10 a circa 30 centim. mentre lo strato inerte può essere
alto da 10 a 100 e più centimetri.
Torniamo alle fosse aperte e che così stanno tutta 1* estate, du^
rante la quale stagione sarà cosa ottima aiutare lo sverginamento
della terra vergine con zappature frequenti. Giunto V autunno, nel
riempir di nuovo la fossa, si porrà in fondo Y antico strato super-
ficiale, e si terrà invece alla superfìcie quello che prima era sotto*
Il Garelli nel suo Manuale di viticoltura e di vinificazione
propone un metodo che egli dice più economico di quello dello scavar
le fosse e lasciarle aperte. Anch' egli vuol rovesciare completamente
3(32 CAPITOLO IX
lo strato arabile, esponendo all'aria, al calore, all'elettrico, all' umido
quello che prima era strato inerte; ma egli la fossa la colmerebbe
subito, contemporaneamente alla pratica di questo rovesciamento.
È adunque un vero scasso che il Garelli vuol fare della striscia di
terreno destinata a ricevere il filare di viti; ma; secondo il nostro
avviso, questo sistema, che pure è buono, non giova tanto quanto
il nostro a procurare alla terra inerte un completo sverginamento*
Ecco come si pratica lo scasso parziale consigliato dal Garelli:
si scava in capo al filare tanta terra che basti perchè un uomo scen-
dendo nel tratto scavato possa maneggiare la vanga. « La terra
del primo tratto si porta all'altro capo del filare. Dappoi continuando
Tescavazione, il vangatore getta dinanzi a sé la terra superficiale
sul fondo della fossa già scavata, e la ricolma colla terra inferiore
del tratto in cui lavora; e così procede fino all'estremità del filare,
dove riempie l'ultimo tratto con la terra trasportata all'altro capo. »
Contemporaneamente alla preparazione del terreno, si sogliono
fare, specialmente nei terreni a sottosuolo impermeabile, lavori spe-
ciali per dare aria agli strati inferiori del terreno, e per facilitare
lo scolo delle acque. Questi lavori sono la fognatura con pietre, o
con veri tubi, o con fascine, pratica quest'ultima conosciuta da lungo
tempo nel Monferrato sotto il nome di ar rotto. Di tutto ciò parle-
remo al § 6, come pure parleremo al § 7 dei concimi che si so-
gliono mescolare al terreno neh1' atto del riempimento delle fossA.
Per ora l'ordine del nostro sommario ci conduce a parlare della li-
vellazione del terreno e della sua disposizione a banchine.
§ 3. Livellazione del terreno. — A rendere completo il no-
stro lavoro ci conviene considerare il caso in cui avendosi una por-
zione di terreno sano, asciutto, ma leggermente ondulato e si voglia
appianare per ridurlo a vigneto. Vi sono certe operazioni della geo-
metria pratica che sono facili ad effettuarsi coll'aiuto di pochi e semplici
strumenti come lo squadro, il livello, e che ogni agricoltore dovrebbe
conoscere per non dover ricorrere troppo spesso al perito. Trattan-
dosi dello spianamento d'una porzione di terreno basterà possedere
un livello ad acqua detto anche a tubi comunicanti, il cui uso è
semplicissimo. Ricorderemo che per riconoscere di quanto un punto
dei terreno si trova al disotto della linea orizzontale determinata
dal livello, si può servirsi come mira di una canna comune sulla
quale il porta mira farà scorrere colla mano un pezzo di carta
LAVORI PREPARATOMI PER L'IMPIANTO DEL VIGNETO 36*3
bianca rettangolare detta scopo. Ricorderemo pure che la visuale
orizzontale diretta dall'osservatore mediante il livello deve colpire il
lembo superiore dello scopo, detto linea di fede, e che in generale
quel numero che si legge sulla mira, e che indica di quanto un
punto del terreno è al disotto dell'orizzontale determinata col livello,
dicesi quota di livello.
Ciò premesso ecco come deve condursi l' agronomo che voglia
spianare una porzione di terreno.
Si abbia un piccolo appezzamento del quale si vogliono portare
tutti i punti al medesimo piano. Qui, servendosi della livellazione
raggiante, si fa stazione col livello in un punto che permetta di ve-
dere la massima parte degli altri e si manda il porta-mira nel punte»
all'altezza del quale si vogliono portare tutti gli altri, e se ne trova
la quota di livello.
Si tiene la linea di fede dello scopo fìssa a questo punto ed il
porta-mira recandosi nei diversi punti dove varia l'andamento della
superficie scaverà od innalzerà il terreno sino a che la visuale oriz-
zontale diretta dal livello alla mira colpisca la linea di fede.
In tal modo si potrà valutare di quanto il terreno vuol essere
innalzato o scavato, per mezzo di quantità che si ottengono facendo
la differenza di livello di ogni singolo punto con quello che si era
preso come punto di partenza.
Livellato così il terreno, si potrà , procedere agli accennati lavori
per l'impianto del vigneto come scasso, fognatura e via dicendo.
§ 4. Disposizione del terreno a terrazze o banchine. —
Nel nostro giornale TI Coltivatore è soventi ripetuto che nei colli del
basso Piemonte coltivati a vite trovasi, coll'arbusto di Bacco, la ric-
chi zza e in apparenza per un nonnulla. Questo nonnulla sono i
piantamene fatti, a distanza non minore di 3 metri tra le file, in
senso trasversale alla pendenza del suolo. Accade con simili pian-
tamene che aran lo poi la terra anch'essa trasversalmente, massime
se cogli aratri a volta orecchia, questa a poco a poco comincia a
rialzarsi nelle parti basse degli interfilari e cioè vicino al filare, e si
abbassa invece dall'altro lato che restava più sollevato. In tal modo co-
mincia a tratteggiarsi una specie di banchina colla sua scarpa, la quale
presenta il vantaggio di rendere il vigneto più accessibile a tutti,
uomini e bovi coi carri, e di rendere il terreno più sodo, e meno sog-
getto alle frane. — È questo a nostro avviso il nonnulla che dà l'a-
giatezza ai colli del basso Piemonte.
364
CAPITOLO IX
Chi poi si facesse a visitare le diverse regioni dell' Italia viticola trove-
rebbe che queste banchine, fatte appositamente e perfettamente oriz-
zontali o inclinate verso il poggio (cioè da m ad n come nella figura 74)
trovansi in diverse regioni, ove per la pendenza troppo ripida dei
colli e pel bisogno di frenare il corso delle acque, il terreno vitato
è tutto disposto a terrazze. Ne hanno esempi la Liguria, la Brianza, la
Pie:. 71.
Valle di S. Martino nella Bergamasca, il Lucchese, il Salernitano ecc.
Colle banchine l'acqua si arresta dove cade e non dà luogo a frane,
o, grazie all'inclinazione che abbiamo detto, si porta verso un sol-
chetto che si può praticare a' piedi d'ogni scarpa, e da questo sol-
chetto è poi portata in un canale più grosso che la raccoglie tutta
e la conduce fuori del vigneto.
Esponiamo il principio su cui si fonda questa riduzione del terreno
a terrazze; passeremo quindi all'applicazione pratica. Sia A B il terreno
inclinato che si vuol ridurre a terrazze. Si comincia a fare una
generale lavorazione o scasso in pieno, poi si divide l'intera super-
Pig. 75.
llcie del terreno in tanti piccoli appezzamenti, indicandoli colla zappa
o colla vanga. In ogni appezzamento, e coll'aiuto dei detti strumenti
si fanno i trasporti di terreno dalla metà superiore alla metà infe-
LAVORI PREPARATORI! PER IMPIANTO DEL VIGNETO 805
riore. Quindi, come vedesi nella figura, 75 si comincia a scavare la
terra dei triangoli a, a, a\ versandola nel sottostante terreno e for-
mando così i triangoli b, b, b.
In tal modo si ottengono i ripiani o banchine le quali, lo ripetiamo,
debbono avere una leggera pendenza verso il poggio, in modo che le
acque si raccolgano tutte precisamente al piede della scarpa della
banchina superiore, e non possano produrre guasti alle inferiori.
Anzi al piede d'ogni banchina e dove si raccoglie i' acqua, è bene
praticare addirittura un fossetto a lieve pendenza. In tal modo l'acqua
scorre e va a sboccare in un acquidoccio generale o fossato più
grande, acquidoccio che si fa tortuoso per allungare e rallentare
così il cammino dell'acqua.
Se si incontrano dei sassi nella formazione delle banchine, questi
si possono utilizzare facendone muriccioli che rinforzino la scarpa
delle banchine stesse.
Nei terreni molto ripidi, è naturale che l'altezza della scarpa voglia
essere più ampia della larghezza delle banchine stesse. Avendosi ad
esempio una inclinazione di 45 gradi, quell' inclinazione cioè che è
equidistante dalla linea orizzontale e dalla verticale, la scarpa dovrà
essere almeno di 3 metri per 2 della banchina. Con una inclinazione
invece assai minore, la scarpa non ha spesso più di 60 ad 80 cen-
timetri di altezza, essendo la larghezza del ripiano di due metri
e più.
G. A. Odavi che scrisse molte opere e articoli di viticoltura e
mise in pratica in diverse occasioni il piantamento delle viti in ban-
chine orizzontali, ce ne addita i precetti principali nell' opera La
Chiave dei Campi. È da questo libro che noi riassumiamo le se-
guenti norme.
Nel tracciare le banchine bisogna sempre seguire la perpendico-
lare alla pendenza del suolo; e ciò spesso a pregiudizio della lun-
ghezza d'alcune banchine, dovendone spesso, per averle tutte oriz-
zontali, farne qualcuna più corta.
Spesso, progredendo nel tracciamento e nella esecuzione pratica
delle banchine, si trova improvvisamente un cangiamento nelle pen-
denze del suolo, onde volendo conservare 1' orizzontalità in tutta
la lunghezza del ripiano (sia A B nella fìg. 76) è giuocoforza farlo
precedere da uno o più ripiani corti. Ecco come è spiegato questo,
caso nell'opera citata:
« Supposto infatti (è una supposizione, che questa figura male
366
CAPITOLO IX
« rende il concetto), che oltre la china principale del terreno da
« M in N, un'altra ne sorga da B in A, allora per dare alla ban-
« china ABI' orizzontalità in tutta la sua lunghezza si è costretti
« di farla precedere da due o più banchine o p q r s t, dando a
M
Fi£. 76
« queste una lunghezza tale che le distanze p x e r y ecc. (mi-
« nori di certo di u o , o q) siano tali da permettere, come dissi
« qui sopra, il passaggio dei buoi coi carri, ecc. »
Ed ecco infine ora un modo pratico per tracciare queste banchine.
Continuiamo a servirci della Chiave dei Campi.
Tutti sanno che cosa sono le paline, quelle asticciuole, cannette,
o rami ben diritti della lunghezza di metri 1 a 2,' aguzzate ad un
estremo e fesse nell'altro per inserirvi un pezzetto di carta che le
rende meglio visibili.
Queste paline, che servono comunemente nel tracciare gli allinea-
menti, si collocano a posto innanzi tutto sul terreno, in senso tra-
sversale alla pendenza delle terre, ponendole alla base della futura
Fig. 77.
scarpa delle banchine, le quali, si le lunghe che le corte, avranno tutte
la medesima larghezza,
LAVORI PREPARATORI! PER L'IMPIANTO DEL VIGNETO 367
Siano p p le paline. (Fig. 77).
Allora, non volendo far tutto a mano, si fa passare, cominciando
dalla parte più alta del campo, tre volte l'aratro volta orecchia,
versando la terra sempre a basso nel tratto A B. Quindi cogli
uomini armati di badili, si fanno togliere le ultime due fette smosse
dall'aratro facendole versare sulla prima, nonché sulla linea delle
paline p p p. In tal modo si ha un solco largo circa mezzo metro
alla profondità a cui è sceso l'aratro. In questo solco per approfon-
dirlo si fa passare, una volta o due, secondo la profondità che si
vuol raggiungere, un ripuntatore americano tirato da 4 buoi. (Fig. 78).
Fig. 78.
Dietro al solco profondo lasciato dal ripuntatore seguono operai ar-
mati di badili, i quali tirano su la terra vergine mossa dal potente
aratro e la versano sopra quella già smossa dal volta -orecchia e
messa a posto come dicemmo.
Fatto ciò si avrà (Fig. 79) un cumulo di terra m n verso la
scarpa e un fossetto A B largo 30 centim. e profondo da 40 a 50.
A
1 rl 1 f!
0 P
Fiar. 79.
In questo fossetto si fa scendere parte colla vanga e parte col volta-
orecchia tutto lo strato arabile del tratto 0 P che tocca la base della
scarpa della banchina di sopra q q q, e si fa smuovere poi la terra
368 CAPITOLO IX
vergine di sotto che servì ad appianare la banchina e a sotterrare
il detto tratto arabile. Infine si dà un colpo di badile alla scarpa
per lisciarla ed ultimarla, e la banchina a questo modo è fatta, colla
leggera pendenza in a monte che avevamo consigliato e applicando
a dovere la teoria della terra vergine (1).
Abbiamo detto che era cosa buona, per dare all'acqua piovana un
corso lento e tale da non produrre franamenti, di praticare presso
la base d'ogni argine un fossetto con lieve pendenza verso gli scoli
maestri praticati nel colle dall' alto in basso, in modo da condurre
poi l'acqua fuori del vigneto. In questa strada che deve fare l'acqua
essa può nondimeno trascinar via molta terra. Ad ovviare a questo
inconveniente è buona cosa aprire dei pescajuoli o piccole buche
nelle quali V acqua abbandoni le particelle terrose, ciò che si fa da
taluno con buon esito negli alti colli del Monferrato.
§ 5. Ammendamenti — Marnatura — Terra vergine —
Aggiunta di sali di ferro ai terreni bianchi. — Sulla esatta
definizione della parola ammendamento non si accordano gli autori
che scrissero di agronomia. — Il Cantoni vuole compresi tra gli
ammendamenti i lavori, il debbio, la fognatura, solo quei modi cioè
di preparare il terreno che nessun materiale sensibile aggiungono al
terreno. — G. A. Ottavi invece si attiene al significato che pare
espresso nella parola stessa, e chiama ammendamento tutto ciò che
può togliere alla terra una o più mende. E così egli vi comprende
pure le aggiunte di calce, marna, silice, torba e le concimazioni in
una parola. Siccome pare che quest'ultima maniera di vedere sia più
generalmente ammessa, ad essa ci atterremo, senza pretendere però
che sia rigorosamente scientifica. E comincieremo a parlare di quelle
aggiunte che possono correggere e modificare profondamente la na-
tura fisico- chimica del suolo: queste vertono specialmente sui mate-
riali immediati del suolo stesso.
La marnatura, ossia l'aggiunta di marna al terreno, si pratica per
rendere più consistenti le terre sabbiose, per rendere più porose
quelle argillose, e per dare più corpo e calore alle terre vegetali
fredde. Essa è possibile economicamente quando la marna trovasi
nel sottosuolo, o almeno sul pendio o sui fianchi di colle assai vi-
cino. Da noi si usa poco la marnatura nei vigneti, molto invece in
(I) V. La Chiave dei Campi, % 136.
LAVORI PREPARATORII PER L'IMPIANTO DEL VIGNETO 369
Francia. Nella Gironda, scrive il Petit Lafitte, si applica sovente
la marna alle vigne e con felicissimi successi. Vigne vecchie e spos-
sate, furono con quest' ammendamento ricondotte ad uno stato di
fiorente vegetazione, ed egli cita diversi fatti al proposito; come pure
parla della correzione di terre silicee e leggere coll'aggiunta di altre
più argillose, della correzione di terre forti e compatte coli' appli-
cazione di sabbia.
La marna è una terra vergine, ed è anche per questo che por-
tata alla superficie dagli strati più bassi del terreno dove trovavasi,
e opportunamente sverginata, fa prodigi nei suoli sprovvisti di
calcare (1). E la terra vergine applicata alle vigne come ammenda-
mento è una fra le migliori pratiche che onorano la viticoltura italiana.
L'alternanza della terra vergine al pedale delle viti, che da secoli si usa
nel Bresciano, il così detto colturone del Vogherese, e moltissimi
altri fatti raccolti da G. A. Ottavi nell' alta e bassa Italia ne sono
un esempio (2). Del modo di portare la terra vergine alla superficie,
all'atto dell'impianto del vigneto già abbiamo discorso; delle belle ap-
plicazioni di essa colle cure successive di coltura parleremo a suo
tempo.
Un ammendamento che si rende importantissimo in certi casi è
l'aggiunta al terreno della soluzione di sali di ferro.
In Francia hanno trovato che le viti americane sono più delle
Europee soggette al giallume, anzi ad una infermità spesso più
complicata, per la quale le foglie si deformano offrendo una dentel-
latura più profonda, e si produce nella vite una quantità stragrande
di piccoli rami secondarii, il cui ufficio è di far da parassiti ai tralci
fecondi. Questa malattia è chiamata dai francesi le cottis de la vigne
o anche la potesse en or lille.
Essa fu osservata più volte nella Charentes e il dott. Guyot ne
diede una esatta descrizione. Si manifesta specialmente nelle terre
bianche, cretacee, ed è ammesso che risulti da mancanza di ferro
nei principii minerali del suolo. Il Planchon, che ha segnalato testé
questa malattia nelle viti americane, dice che nel suo vivaio il Clinton
soccombette a questa specie di giallume nel primo anno del pianta-
mento, mentre il Taylor ne fu invaso solo al quarto anno, ma il
(1) V. Marcon, Le cidtivateur Chareniais.
(2) V. giornale il Coltivatore voi. XI, XII, XIII, XIV, XXII ecc.
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 25
370 CAPITOLO IX
male si estese però anche all'innesto di vite indigena, da due anni
posto sul ceppo americano.
Cercò il Planchon di scoprire se una qualche crittogama non con-
tribuisse a produrre ed allargare il male; egli sospettava questo, a-
vendo notato che il piede della vite morta era coperto di una muffa
biancastra; ma tale produzione non si trovò che sulle radici già
morte, mentre, neppure nell'ultima fase della malattia, sulla pianta
viva non fu osservata.
Ed è così ch'egli ammette definitivamente che le cause del Cottis
si devono ricercare nel suolo; e queste cause, secondo il Planchon,
sono due: povertà in ferro, e mancanza di calore. È adunque una
malattia clorotica della pianta, malattia che, come è noto, si cura
dando al terreno il ferro che gli manca. La proporzione consigliata
da Guyot contro la clorosi è di 5 chilogr. di solfato di ferro in 100
litri d' acqua da adoperarsi poi alla dose di 2 a 5 litri per pianta:
venti a venticinque chilogrammi di solfato bastano però per un et-
tare a vigneto in condizioni normali di vegetazione, cioè non affetto
da clorosi.
Ed ecco perchè abbiamo messo il ferro tra gli elementi che tal-
volta concorrono ad ammendare il terreno.
§ 6. Arrotto, fognatura o drenaggio. — Varrotto o fogna
del Monferrato, detto contrafosso nello Stradellese, è un'operazione
che si fa o all'impianto del vigneto, o negli anni successivi, per dare
aria agli strati inferiori del terreno. È una specie di fognatura con
fascine. Nelle fosse che si aprono pel piantamento, nel modo che di-
cemmo, si sdrajano all'epoca di questo piantamento fascine di canna,
o fasci d'erba legati; vi si aggiunge, potendo, del letame misto a cal-
cinacci, cenere, rottami, ghiaia ecc. e si copre poi il tutto con terra.
L'arrotto è una pratica buona per l'aria che introduce nel terreno;
ma è evidente che essa non è affatto necessaria per chi prepara il
terreno collo scasso reale, ed è poi meno necessaria ancora per co-
loro che hanno la buona abitudine di piantare superficialmente. È una
vera necessità invece per i viticultori Casalesi, gli Astigiani e tutti
quegli altri che avendo terreni compatti piantano tuttavia la vite a
50, 60 e ben anche 70 centimetri di profondità.
In altre provincie d'Italia la fognatura si fa mettendo in fondo
alla fossa uno strato di ghiaia di circa o0 o 10 centimetri di spes-
sore, coprendo il tutto con terra e comprimendo.
LAVORI PREPARATORII PER L'IMPIANTO DEL VIGNETO 371
Altri fanno di meglio: stabiliscono in un fosso, un canaletto fatto
con pietre piane o con tegoli, e mettono su di esso un po' di ghiaia
e quindi la terra come sopra (fig. 80).
Fig. 80.
(Profondità del fosso lm,50: altezza delle pietre 0,50).
Meglio assai dell'arrotto, come quello che non ha bisogno d'esser
rinnovato ogni tre o quattro anni, e meglio anche della fognatura
fatta cogli antichissimi metodi italiani è il vero drenaggio coi tubi
poco diffuso sin'ora in Italia, molto in Inghilterra e in Francia. Nei
locali in cui il terreno è per natura compatto ed umidiccio in tutte
le stagioni, chi volesse impiantarvi una vigna dovrebbe pensare, come
prima opera, all' impianto del drenaggio, per non trovarsi poi nel
caso doloroso di avere buona annata solamente negli anni secchi.
La metà, se non di più, dei nostri viticoltori degli Apennini, dove
abbondano le terre forti argillo-calcari, potrebbe col drenaggio, se
non duplicare quasi ogni anno il prodotto della vigna, accrescerlo
almeno di molto, averlo di miglior qualità e pagare così largamente
la spesa. Inoltre si potrebbero lavorare e zappare assai meglio le
terre drenate, e far ciò più presto in tutti i momenti dell' anno. Ci
troviamo qui dunque di fronte ad un prodotto maggiore e migliore
e ad una diminuzione di spesa nei lavori del suolo vitato.
In Francia (nella Gironde, a Lagrange) il conte Buchatel fece dre-
nare ottanta ettari a vigna, vi spese lire 275 ad ettare e l'aumento
del prodotto fu tale che in un anno solo egli pagò la spesa.
Nello stesso dipartimento il marchese di Bryas fece drenare una
sua vigna di sei ettari, la quale dava il reddito medio appena di 60
ettolitri di vino. Or dopo che vi fu eseguito il drenaggio, il prodotto
ascese a 208 ettolitri.
Chaptal cita in una sua opera il caso di tre campicelli attigui
ed a vigneto, dove lo strato arabile era di natura eguale in tutti e
372
CAPITOLO IX
tre; per tutti e tre si seguiva lo stesso processo di coltura della
vite prima, e quello della vinificazione poi, e solo differiva in essi il
sottosuolo. Per la qual cosa dal campicello primo si ottenevano in
media L. 1200 di prodotto, dal secondo 800 e dal terzo sole 400.
Ivi c'era il sottosuolo impermeabile ed il drenaggio sarebbe tornato
utilissimo.
Vediamo ora alcuni sistemi spegnali di fognatura.
Nei vigneti le fosse da drenaggio si possono aprire anche tra un
filare ed un altro di viti, e basta che in fondo ad esse, per il lungo,
vi sia la pendenza di circa due o tre millimetri per metro. Ognuna
di queste fosse deve avere la media profondità d'un metro, dove dif-
ficilmente giungono le radiche delle viti. Con tale profondità la di-
Kte. 81.
stanza media tra una e l'altra fossa può essere di dieci metri. O-
gnuna infine deve por capo in un emissario comune, nel quale versa
le sue acque e questo a sua volta le conduce in un qualunque fosso
o roggia di scarico. Le fosse vogliono essere ben spazzate e livellate
(fig. 81 a e d) onde i tubi vi si adagino per bene.
Posti i tubi uno a capo dell'altro in fondo alle dette fosse, dopo
averne regolarizzata la pendenza, si cuoprono con terra, il che si fa
un po' per volta, poi la si comprime ben bene coi piedi e colle maz-
zeranghe; e ciò onde i tubi non abbiano poi a spostarsi menoma-
mente.
Queste sono le avvertenze principali che voglionsi avere nel fare
il drenaggio. I dettagli è d'uopo studiarli nei trattati speciali di fo-
gnatura.
LAVORI PREPARATOMI PER L'IMPIANTO DEL VIGNETO 373
Per chi abbia terreni umidi l'impianto del drenaggio non è cosa
da poco: si calcolano in media L. 100 ad ettare per l'acquisto dei tubi
e altre L. 100 per i lavori necessarii all'impianto. V'è però un altro
sistema, assai più economico, quello dei pozzi assorbenti. Ma essi non
si possono praticare che ad una condizione, che cioè al disotto dello
strato impermeabile si trovi, ad una profondità ancora accessibile,
uno strato permeabile di sabbia, d' alluvioni antiche, di roccie di-
sgregate ecc. Allora l'acqua dello strato superficiale condotta a que-
sti strati più profondi e permeabili per mezzo di uno o più appositi
pozzi assorbenti, troverà uno scolo (v. fig. 82).
Il pozzo assorbente si può praticare con profitto anche nelle co-
struzioni delle case di campagna per liberarle dalle acque.
0
Pie. 82.
Si comincia dal praticare una vasta apertura cogli ordinarli stru-
menti, la quale si fa per tutto lo strato superficiale, arrivando così
al banco impermeabile. Quest'apertura segnata con A nel figura 82
potrà avere un diametro di 3 a 5 metri all' orifizio, restringentesi
sempre più. Giunti allo strato impermeabile, colla trivella si pratica
un foro 0 che traversa il banco in tutta la sua altezza, mettendo così
in comunicazi'one lo strato superficiale con quello selcioso o ghiaioso;
basterà far tanti di questi fori a seconda dell'effetto che si vuol ot-
tenere.
Se lo strato impermeabile è molto alto, l'ostruzione dei fori pra-
ticati è facilissima, e allora bisogna pensare a tenerli aperti artifi-
cialmente. Si consiglia di collocare nel foro fatto dalla trivella un
tubo di legno di ontano, di olmo o di quercia. E per impedire l'in-
374 CAPITOLO IX
tasamento di questo tubo è bene coprirne Y apertura con fascetti
di spine, sopra i quali si dispone una grossa pietra D, sostenuta
da due altre laterali. Finalmente si riempirà tutta 1' escavazione di
pietre sino al livello del fondo delle fosse che devono portar l'acqua
al pozzo assorbente.
Un'ultima avvertenza per chi vuol risanare i suoi terreni con questo
metodo, è quella di praticare le fosse leggermente inclinate col
loro fondo verso il pozzo. Ma solo leggermente per impedire che
al momento delle grandi piogge queste trasportino al pozzo stesso
materiali troppo grossolani, i quali potrebbero otturarlo.
Un drenaggio eziandio economico applicabile non solo per dar aria,
ma per facilitare lo scolo dell'acqua, è quello d'invenzione italiana prati-
cato da circa 10 anni alla Scuola agraria di Brusegana nella provincia di
Padova. Le fosse si scavano colle ordinarie distanze e profondità, e in
fondo ad esse si collocano i tubi che si piazzano gli uni vicini agli altri
precisamente come nel vero drenaggio all'inglese; ad ogni 10, 15, 20
metri si stabiliscono delle prese d'aria o caminetti, i quali altro non
sono che tubi comunicanti con quelli orizzontali e che vengono a
sporgere di qualche centimetro sulla superficie del suolo.
Ecco come il Prof. Niccoli, che pratica questo sistema di drenaggio
a Brusegana, lo descrive:
« I caminetti favoriscono la circolazione dell'aria se un po' elevati sul
suolo, se semplici, cioè di pareti sottili e di sezione un po' piccola, a mo'
anzi dei fumaioli dei nostri comuni camini; infine se dipartonsi dai punti
più salienti dei condotti sotterranei, oppure dal punto del loro inter-
secamento. Perchè poi non riescano di ostacolo ai lavori e siano per
quanto è possibile immuni da danni, devono pur costruirsi ove non
agisce l'aratro e simili istrumenti, e dove altri danni sono poco proba-
bili. E i nostri caminetti altro non piccolo beneficio arrecano, col de-
terminare esattamente sul terreno la posizione dei sottoposti condotti;
ed ancora col dar sentore della condizione in cui essi si trovano.
Così tanto più forte è all' estremità superiore della torretta la cor-
rente dell'aria (fatto che col sistema adottato a Brusegana colla sola
mano e in breve momento facilmente si riscontra) quanto più attiva
è l'azione della fogna: tanto più debole è la detta corrente, quanto
più debole è pure 1' azione dell' acqua nella fogna. Pertanto, se in
tempo di gran caldo o di gran freddo, nei quali casi la detta cor-
rente dovrebbe essere maggiore, fosse invece nulla, sarebbe segno
manifesto che altrettanto avverrebbe nello scolo del liquido; vale a
LAVORI PREPARATORII PER L'IMPIANTO DEL VIGNETO 375
dire che il condotto è inattivo perchè in qualche luogo otturato o
guasto ».
Drenaggio aereo del terreno col sistema Hooinbrenk. Il signor
Hooinbrenh è autore di un sistema d'aerazione del terreno il cui prin-
cipio non si scosta da quello del sistema Niccoli, ma che è più perfe-
zionato per quel che è del richiamo dell'aria; inoltre in esso non si tiene
calcolo delle pendenze, poiché tale drenaggio è puramente aereo. Siamo
alle solite fosse nel cui fondo si collocano i tubi da drenaggio; questi
si fanno arrivare in un condotto primario che va a terminare nell'a-
pertura d'un piccolo fornello (v. fìg. 83) il quale funge da macchina
Fig. 83.
per fare il vuoto e può essere situato nel terreno stesso da drenare
in modo che ad esso non abbia assolutamente accesso altr'aria all'in-
fuori di quella che viene dai tubi collettori. A questo scopo il for-
nello ha in alto un'apertura (f nella fìg. 83) per la quale si fa en-
trare il combustibile, apertura che poi si chiude accuratamente. —
Malgrado questa completa esclusione dell' aria esterna il tiraggio è
talmente energico che pare un mantice da fucina: se vi si gettasse
entro un pezzo di ferro non starebbe molto ad arroventarsi.
Quando la temperatura dell' aria è inferiore a quella del terreno
non converrà eccitare questo rapido movimento sotterraneo dell'aria
stessa e non si farà quindi fuoco, non solo, ma non si apriranno
neppure le prese d'aria (fig. 83 e fig. 84 h h). E così pure non è ne-
cessario di far sempre fuoco; tre o quattro volte per settimana, e
spesso solo durante qualche ora, sono sufficienti.
Se il terreno che si vuol aerare trovasi presso l'abitazione si po-
trebbe fare arrivare il tubo collettore nel focolare della cucina as-
sicurando così il tiraggio, poiché è certo che quel fuoco che si fa
di quando in quando sarà sufficiente a fare il vuoto in tutti i con-
dotti e ad avere così un vivace richiamo d'aria.
Nella fig. 83 si vedono le fosse (a, a) scavate, in fondo alle quali
376
CAPITOLO IX
stanno i tubi che — non l'avevamo ancora avvertito — sarà bene
siano traforati da molti buchi perchè l'aria vi si possa più facilmente
introdurre: (b, b) è la fossa in cui è situato il tubo collettore che arriva
al focolare e\ in d vi ha la griglia ed in f l'apertura da cui, come di-
cemmo, si introduce il combustibile. Vi è poi un tubo che serve per l'uscita
del fumo. Passiamo alla fig. 84 la quale ci dà a volo d'uccello un'idea
sulla disposizione delle fosse. Quivi g g g g indicano i limiti del ter-
reno, h h i tubi di presa d' aria che, piazzati verticalmente, vanno
#^^g^^^^^$$^%$g^^$^^^^^^^^^^
84.
a corrispondere con quelli che sono in fondo alle fosse. Quando non
si fa fuoco, questi tubi verticali si lasciano aperti, perchè si stabi-
lisce allora una corrente d'aria che rinnova quella contenuta nel
terreno: queste bocche o prese d'aria possono avere tra loro la di-
stanza di 20 metri. Quando l'aria di fuori è troppo fredda si chiu-
dono con una calotta di zinco o con altro mezzo qualunque. È inu-
tile poi l'avvertire che quando si fa fuoco nel focolare si chiudono
ermeticamente tutte le aperture che comunicano coll'aria esterna.
E passiamo infine ai concimi propriamente detti.
LAVORI PREPARATOMI PER L'IMPIANTO DEL VIGNETO 377
§ 7. Concimi per l'impianto. — Noi crediamo che la conci-
mazione del vigneto debba variare secondochè si tratta dell'impianto
oppure del vigneto già formato. Occupiamoci quindi del solo primo
caso. Non v'ha dubbio che allorquando una pianticella di vite riesce,
sin da' suoi primi anni, a formarsi un ampio sistema radicale, non
solo si mantiene per lunghi anni in un soddisfacente stato di robu-
stezza, ma si fa fruttifera precocemente e produce di poi abbondanti
grappoli, senza estenuarsi di soverchio, e costantemente, per poco che
il viticultore le venga in aiuto coi lavori e coi concimi.
Adunque il piantamento delle talee, dei maglioli o delle barbatelle
deve essere fatto in terreno lautamente concimato, con ingrassi ricchi
di azoto, poiché le radichette appena nate lo usufrutteranno, cre-
scendo e moltiplicandosi prontamente; alla fine del primo anno a-
vremo così, senza dubbio, una pianticella provvista d'un ampio ca-
pellamento, locchè è quanto desideriamo per l'avvenire del nostro
vigneto.
Fra i detti ingrassi citeremo anzi tutto il letame di stalla bene
sfatto, nonché gli escrementi umani e la pollina; quest'ultima è in
ispecie attivissima, ma il suo effetto utile cessa dopo il primo anno:
tutti questi concimi si mescolino con terra, così da fare un terric-
ciato ricchissimo, che si spargerà alla dose media di 5000 miria-
grammi per ettare, salendo anche a 6000 e più nelle tèrre magre.
Gioverà pure a rendere più attivo il terricciato l'aggiunta del sale
agrario alla dose di 600 chilogrammi per ogni 30 carri di letame.
Fra i concimi chimici merita la preferenza il nitrato di potassa
(acido azotico e potassa) detto comunemente nitro, che è il più po-
tente fra i sali azotati; a questo riguardo noi sappiamo, per le ac-
curate esperienze di Boussingault, che le piante fissano nei loro tes-
suti l'azoto che è loro fornito allo stato di nitrato (azotato). Anche
gli altri nitrati (di soda, di calce, ecc.) possono giovare al nuovo
piantamento, ma il salnitro deve, se si può, essere preferito a tutti.
Oltre ai detti concimi dobbiamo accennare al buon guano, al
guano cioè ricco di azoto, il quale è ottimo per l'impianto del vi-
gneto. Il guano si unisce al suddetto' terricciato, ma si può benis-
simo usarlo anche da solo; la dose può essere di due ettogrammi
per ogni pianta, con molto profìtto di questa, poiché caccierà fuori
una vegetazione rigogliosa, quale appunto noi la desideriamo.
Le vinaccie non giovano molto nell'impianto del vigneto, perchè
adoperate talquali escono dalla cantina o dalla distilleria, sono un in-
378 CAPITOLO IX
grasso di decomposizione relativamente lenta, mentre al nuovo pian-
tamelo occorrono concimi attivi. Bisognerà quindi (siano esse di-
stillate o non, perchè in ambedue i casi la loro composizione chimica
non muta gran fatto) farle prima fermentare col letame, alternan-
dole nella concimaia cogli strati del letame stesso ed inaffiandole o
con colaticci, o con escrementi umani liquidi: però la pratica ha di-
mostrato che conviene far passare la vinaccia pel corpo dell'animale,
che così se ne ottiene un ottimo letame, adattatissimo all'impianto
del vigneto.
Infine per quest'ultimo scopo sono consigliabili le acque dei fossi
maceratoi del lino e della canapa (perchè ricche assai in azoto) la
fuliggine ad alte dosi, le carni, il sangue, l'orina (per inumidire
i terricciati o il letame), la colombina, gli avanzi di pesci e tutto
ciò insomma che si sa essere molto azotato, molto attivo e pronta-
mente utilizzabile dalle piante.
Adunque, quando si impianta il vigneto si debbono usare concimi
molto azotati e di pronta assimilazione: vedremo poi al Cap. XII
quale debba essere la concimazione periodica del vigneto già formato.
CAPITOLO X
Formazione del vigneto.
§ 1. Seminagione della vite europea — § 2. Seminagione della vite americana
— § 3. Moltiplicazione per mezzo di gemme — § 4. Scelta, conservazione, di-
sinfezione e piantamento delle talee nel vivaio o a dimora — § 5. Pianta-
mento dei magliuoli — § 6. Piantamento delle barbatelle: confronto colle talee
— § 7. Età delle barbatelle — § 8. Scelta dei vitigni a seconda del clima, del
terreno, della situazione e delle esigenze del mercato.
§ 1* Seminagione della vite europea. — Il vigneto può for-
marsi in due modi diversi; o traendo partito della generazione ses^
suale (seminagione dei vinacciuoli) oppure giovandosi della moltipli-
cazione agamica (talee, barbatelle, propaggini, ecc.) È legge natu^
rale invariabile che i ceppi provenienti dal seme sono più robusti
e più longevi di quelli nati da barbatelle o tralci o gemme; tuttavia
industrialmente non si potrebbe consigliare l' impianto d' un vigneto
per mezzo della seminagione, inquantochè si andrebbe incontro so^
vratutto a due gravi inconvenienti; il primo, che solo dopo sette od
otto anni la vite sarebbe in fruttificazione, il secondo, che si avrebbe
nel vigneto un miscuglio di varietà diverse (pag. 192) con predo-
minio di piante sterili o di poco valore, spesso nella proporzione
dell' ottanta per cento, siccome constatava il valente ampelografo
Barone Antonio Mendola.
Sarebbe però un errore il condannare recisamente la seminagione
della vite europea; — lasciando per ora in disparte quanto si rife-
risce ai semi di viti americane, di cui diremo nel paragrafo seguente,
380 CAPITOLO X
è certo che anche dai vinacciuoli, che diremo nostrani, i viticultari
possono ricavare non poco beneficio nella riforma dei loro vigneti.
Noi non crediamo menomamente che la vite europea sia degene-
rata, siccome scrisse taluno, perchè sin qui si pensò solo a moltipli-
carla per mezzo di tralci; anche le viti nate da seme possono perire
per la fillossera e sono poi esse pure soggette all' oidio (detto crit-
togama per antonomasia), alla peronospora ed alle altre crittogame
che infestano i vigneti. D'altra parte il piantamento della vite data
da Noè, il quale precisamente piantò e non seminò la preziosa am-
pelidea; ed il suo metodo, se così possiamo esprimerci, fu sempre
adottato, da quei tempi primitivi insino a noi, senza che la vite abbia
dato indizii di degenerazione; infatti la riproduzione agamica coi
tralci è tanto naturale e razionale quanto quella sessuale coi vi-
nacciuoli. E certo però che i vitigni provenienti da seme sono assai
rusticani, robusti e longevi; essi portano con sé come una energia
novella, quasi rinfrescata dall' atto generativo, come felicemente si
esprime il Mendola. Per questo consigliamo quei viticultari i cui
vigneti per mala coltivazione fossero in deperimento, di seminare, in
apposita aiuola, una certa quantità di vinacciuoli europei opportuna-
mente scelti e poscia al secondo o terzo anno di innestarli: ne otter-
ranno, come già fa taluno, piante assai robuste, a legno più Consi-
stente e di tardo invecchiamento.
Ma abbiamo già osservato che, seminando i vinacciuoli, si ottengono
piante assai dissimili e si perde generalmente la varietà del vitigno
da cui fu preso il seme; per ovviare a questi inconvenienti si deve
trarre partito della ibridazione o fecondazione artificiale di cui parle-
remo al Capitolo XVII; allora si ottengono vinacciuoli che non danno
varietà protee, ma bensì varietà costanti, cioè coi caratteri dei pro-
genitori. Questo però succede talvolta seminando i vinacciuoli dello
stesso grappolo, i cui nati sono allora rassomiglianti, se non iden-
tici; ma non tutte le varietà coltivate permettono di ottenere questo
risultato, anzi in generale si ricavano soggetti disparatissimi non solo
per la forma ed il sapore ma anche pel colore del frutto; per questo
deve adottarsi esclusivamente il metodo della ibridazione.
L'impianto del vigneto col mezzo della seminagione non è adun-
que consigliabile, inquantochè se ne avrebbe un vero caos di ceppi
eterogenei e senza verun pregio, cosa che invece non accade colle
barbatelle o colle talee e via via. Sono interessanti a questo pro-
posito le esperienze del Mendola, il quale avendo riseminato per ben
FORMAZIONE DEL VIGNETO 381
cinque volte i semi dell'uva Greca di Somma ne ebbe non soltanto
soggetti dissimilissimi dai genitori, ma dissimilissimi altresì tra loro
stessi. Però dalla Golletta bianca egli ottenne soggetti assai somi-
glianti, benché non mai identici, locchè concorda con quanto dice-
vamo poco fa.
Accade però, seminando i vinacciuoli, che accidentalmente, fra
migliaia e migliaia di soggetti selvaggi, ne sorgono altri allo stato
perfetto, capaci cioè di dare eccellenti frutti; le nuove varietà, talvolta
pregevolissime, che si hanno colla seminagione, prendono appunto ori-
gine da questi fortunati casi. Scegliendo queste, si potrebbero rite-
nere come porta-innesti i restanti soggetti selvaggi e rinvigorire così
poco per volta ed anzi rifare di pianta le varietà coltivate, formando
per ultimo un vigneto molto rusticano, molto produttivo e con grap-
poli di buona qualità per sapore e volume.
La seminagione dei vinacciuoli vuole essere preceduta da una
oculata scelta dei medesimi: essi devono presentare una cotale tur-
gidezza, essere cioè ben nutriti, voluminosi, duri, ed avere un colore
piuttosto oscuro. In tal caso si potrà sperare di avere generalmente
soggetti robusti. Alcuni credono che una vite rigogliosa dia semi
ottimi per aver soggetti rigogliosi; la cosa non si verifica sempre.
La seminagione si deve fare tanto più tardi quanto più freddo è
il clima: in aprile e maggio nei paesi del nord, in marzo od anche
in febbraio in quelli del sud. È pure talvolta efficace la seminagione
in ottobre, cioè nell'autunno. In questo caso appena raccolti i vinac-
ciuoli di grappoli maturissimi, si confidano ad un semenzaio fatto
con terra assai fertile e soffice: in esso apronsi solchettini poco
profondi, distanti 30 centim. gli uni dagli altri, ed il seminato rico-
presi con 3 o 4 centimetri di sabbia. In primavera spuntano le pian-
tine; allora si tengono sempre nette dalle male erbe e si bagna il
suolo di tanto in tanto per aiutare viemmeglio le piantine stesse nel
loro sviluppo. Alla successiva primavera si trapiantano a dimora le
più belle viti del semenzaio. Dopo sei, sette e più anni la vite inco-
mincierà a dar frutti e quanto più tarderà tanto più sarà robusta
quale appunto noi la desideriamo dal seme.
Ma a questo metodo, che non sempre riesce molto bene, prefe-
riamo il seguente altro che è più accurato; quello cioè del Barone
Antonio Mendola.
Il vinacciuolo egli lo raccoglie maturo, cioè quando più non pre-
senta certe tinte verdastre o bianchiccie e giallastre, e quando si è
382 CAPITOLO X
fatto duro; per raggiungere questo stato conviene talvolta attendere
che il grappolo sia stramaturo od anche fradicio.
Ciò fatto il Mendola lava bene i vinacciuoli per spogliarli della
mucillaggine zuccherina e conservarli meglio; asciutti che siano, li
avvolge in cartoline, varietà per varietà, segnandovi sopra tutti i
dati che reputa utili a' suoi studii ampelografìci. La terra cui con-
fida i semi la suol comporre con metà terra fertile e metà terriccio
di vinaccie sfatte, con un po' di cenere e concime pecorino. La se-
mina la fa in vasi e sparge semi a josa.
Il vinacciuolo non lo sotterra troppo; basta qualche centimetro,
mantenendo sempre umida la terra con frequenti e leggere bagna-
ture segnatamente nei giorni e nelle ore molto caldi. In Sicilia dopo
40 o 50 giorni i semi spiegano all'aria i cotiledoni in foglioline, seb-
bene non manchino casi di germinazione in soli 20 giorni, secondo
la varietà dell'uva ed il corso delle stagioni. Se le pianticelle nascono
tutte e vengono troppo affollate, egli le dirada togliendo le piccine
e deboli e conservando le rigogliose e meglio appariscenti. Venuto
il verno il Mendola trapianta in altri vasi le viti che vuol allevare,
ponendone al più due per vaso: dopo due anni le colloca a dimora
nella sua bellissima collezione ampelografica.
Chi volesse invece allevare tutte le piante nate, potrebbe trapian-
tarle in un'aiuola speciale: dopo quattro anni circa si collocherebbero
a dimora nel vigneto ove, trascorsi altri tre o più anni, incomincie-
rebbero a maturare i primi grappoli.
Abbiamo quindi, come vedesi, anzitutto il germinatolo (il vaso)
poi il semenzaio (l'aiuola) infine la dimora (il vigneto). — Richie-
donsi poi molti anni (nove, dieci o più) prima di avere frutti in di-
screta quantità, e d' altra parte, come dicemmo, quasi tutti i sog-
getti conviene, anzi è necessario, innestarli.
Con tutto questo però stimiamo utile di richiamare 1' attenzione
dei viticultori sulla seminagione della vite, siccome quella che ci può
dare ottime e gagliarde varietà da sostituire — in gravi emergenze
— alle attuali snervate dalla coltura irrazionale, già accennata a
pag. 180.
Seminagione dei granelli d\iva avvizziti. A titolo di curiosità
riferiremo quanto leggemmo anni sono negli Annalen der Oenologie
del Dr. Blanhenhorn (1870, p. 10) di un vecchio scrittore di viticol-
tura il sig. Ilórler, il quale fin dal 1825 nel suo Catechismo del Vi-
licullore raccomandava il seguente processo di seminagione dei granelli
FORMAZIONE DEL VIGNETO 383
d'uva avvizziti: « Si raccolgono in autunno dalle piante più fruttifere
e più belle di diverse specie, le uve meglio conformate, più sane,
più succulenti e più mature, e si serbano in luogo temperato fino
alla primavera. Nel mese di aprile, se non v' ha più a temere il
freddo, si collocano gli acini d' uva avvizziti con i semi, che vi si
trovan dentro, (profondi 2-3 pollici e distanti 1-2 piedi un dall'altro)
nel terreno asciutto del vivaio, dove essi, mercè favorevoli condi-
zioni di temperatura, tosto germogliano; ma se il secco dominasse,
converrebbe annacquare il suolo. » Le piante ricavate dai semi, se-
condo Hòrter, tengono meglio i fiori in caso di temperatura sfa-
vorevole, soffrono meno i freddi invernali nonché quelli tardivi
di primavera, infine danno nuove varietà non di rado eccel-
lenti.
§ 2. Seminagione della vite americana. — La seminagione
dei vinacciuoli ha un' importanza molto maggiore ne' suoi rapporti
colla quistione fillosserica, perchè confidando al suolo i semi di ta-
lune specie selvaggie si possono ottenere soggetti da innesto non solo
di grande robustezza e rusticità, ma eziandio resistenti alle punture
della fillossera stessa. Per ciò abbiamo creduto necessario dedicare
a queste seminagioni uno speciale paragrafo.
Anzitutto ci si affaccia il seguente quesito: si deve dare la pre-
ferenza ai vinacciuoli di viti americane coltivate in Europa, oppure
a quelli provenienti direttamente dal Nord-America? Alcuni, fra cui
il Dott- Blankenhorn, ritengono che i primi si debbano scartare,
perchè a loro avviso le viti americane coltivate in Europa sono in-
debolite « dai dolci inverni » e perciò i loro vinacciuoli hanno per-
duto di energia: invece altri, fra cui il Barone Mendola, sosten-
gono con validi argomenti che il vinacciuolo delle viti americane
resistenti raccolto in Europa, invece di perdere, acquista molto nella
potenza germinativa e produce piante più robuste e più sane: su
100 vinacciuoli originarli americani in media soli 10 germinano, e
di questi 10 pochissimi attecchiscono; invece in 100 vinacciuoli delle
stesse viti, però raccolti in Europa, quasi tutti germinano ed attec-
chiscono. Per la nostra non breve esperienza in fatto di semicultura
ci accostiamo alle idee del Barone Mendola, in questo senso, che
noi seminiamo, come seminammo sempre fin qui, esclusivamente vi-
nacciuoli di specie selvatiche, prese di preferenza non già nel luogo
384 CAPITOLO X
d'origine in America ma bensì in Francia (1); i risultati che ne ot-
tenemmo furono sin qui ottimi.
Alla seminagione dei vinacciuoli americani si fanno due gravi ap-
punti: il primo è quello che essi germinano troppo difficilmente, il
secondo che i loro prodotti si discostano dal vitigno che si vuole
moltiplicare assai di più di quanto accade seminando vinacciuoli della
vite nostrana: ma noi abbiamo ovviato a questi due gravi inconve-
nienti seminando, nel modo che ora diremo, esclusivamente Riparia
selvatica selezionata in Francia, cioè d'una unica varietà, essendo-
vene in America oltre a trecento a cagione della continua ibrida-
zione che avviene nelle foreste vergini del Missouri. Tutti coloro che
hanno seminato vinacciuoli di Riparia selvatica oyHginarii ne hanno
ottenuto differenti varietà; è vero che si tratta sempre di vizzati che
hanno i caratteri specifici del tipo Riparia selvatica, ma il miscuglio
esiste ed è un inconveniente; perchè queste varietà hanno pregi di-
versi e diverse esigenze per natura del terreno, situazione e via di-
cendo.
Infine i semi franco -americani sono di più facile germogliazione,
come abbiamo noi pure esperimentato. Non è questo il luogo di di-
scutere sulla preferenza da noi accordata alla Riparia; ne parleremo
diffusamente al Cap. XXXI {Le viti americane in Europa)', qui
dobbiamo solo studiare quanto si riferisce alla semina dei vinacciuoli
americani in genere.
Come abbiamo già detto a pag. 157 non è indispensabile il letto
caldo di letame, quale usasi negli orti pel pomodoro ed altri or-
taggi, a fine di ottenere la germinazione dei vinacciuoli ; tuttavia
per certi semi (Aestivalis e Cordi fo Ha) la nascita in piena terra è
alquanto difficile e però i letti caldi sono assai raccomandabili; le
piantine passeranno allora dal germinatolo nel vivaio collocandole a
25 o 30 centim. per ogni verso.
Nel timore — che noi riteniamo però assolutamente infondato — che
i semi d'uva siano infetti da fillossera, usano taluni semicultori di-
sinfettarli prima di metterli a germogliare: il Dott. Giulio Cocchi
esperimentò, senza nocumento, il bagno di cloruro di calce sciolto
in acqua, nel quale tenne durante 48 ore dei semi di Cordi fb Ha;
li passò poscia per altre ore 48 in acqua pura, indi li seminò in
(1) Dal valente americanista sig\ Aimo Champin (Dròme) — Salettes près Mon*
télimar,
FORMAZIONE DEL VIGNETO 385
terra molto sciolta ricoperta di minuzzoli di paglia, innaffiando questo
germinatolo mattina e sera durante tutta Testate; ciò avvenne nel-
l'aprile del 1879: la nascita ebbe luogo copiosa, ma soltanto un anno
dopo, cioè nell'aprile del 1880. A pag. 154 abbiamo già descritte le
nostre esperienze colla soluzione quasi satura di soda, che non riu-
scirono troppo bene; crediamo quindi non si debba fare troppo a fi-
danza con questi bagni preventivi di sostanze caustiche: d'altra parte
essi non sono strettamente necessarii.
Che se si tratta di affrettare l'azione rammollitrice dell'acqua sull'in-
volucro dei vinacciuoli abbiamo visto che basta riscaldare 1' acqua
stessa (pag. 154).
Ma quello a cui si deve piuttosto badare, prima di confidare al
suolo i vinacciuoli, si è la loro età; è un fatto che quelli di due
anni germinano in una proporzione sensibilmente più debole che non
quelli di un anno, ed il Prof. Millardet, che ha fatto tante belle
esperienze sulla semicultura, assevera che passato il secondo anno
si può ritenere perduta la facoltà germinatrice se non totalmente
quasi totalmente, cosicché le nascite diventano scarsissime. È anche
prudente non seminare quei vinacciuoli i quali hanno fermentato col
mosto, perchè talvolta, se non sempre, germinano male.
I vinacciuoli debitamente sceltisi pongono nell'acqua durante quattro,
sei o otto giorni, se l'acqua è alla temperatura ordinaria, cioè non ri-
scaldata, oppure nella sabbia umida; ma allora conviene tenerveli anche
per un mese di seguito. Intanto si prepara il terreno con lavoro
profondo, si sgretola accuratamente e si concima con letame; indi
si tracciano le file cioè i solchi superficiali, come si pratica per se-
minare i piselli, e si collocano i vinacciuoli a 10 centim. di distanza
nelle file ; infine si coprono con soli 3 cent, di terricciato fino.
Sortite le giovani pianticelle si debbono proteggere con ripari dal
sole cocente di maggio o giugno : esse si possono anche trapiantare
a dimora scegliendo un tempo piovoso e coperto e proteggendole
contro la luce solare troppo viva; — in ogni caso si avverta che al
primo anno le pianticelle si possono collocare a 10 centimetri di di-
distanza 1' una dall' altra nelle file, mentre al secondo anno è indi-
spensabile portarle a 20 centimetri, colle file a 25 o 30 centimetri,
se si vuole che acquistino tutto il loro sviluppo. Noi abbiamo adot-
tato questo trapiantamento, che diremo precoce, senza inconvenienti;
dope aver tenuti i semi {Riparia) per due giorni nell'acqua, li po-
niamo in sabbia umida, indi mano mano che germinano, li trapiantiamo.
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura, 26
386 CAPITOLO X
Siccome poi queste seminagioni di vinacciuoli americani si fanno
essenzialmente per avere dei porta-innesti, così si usa in Francia di
impedire la ramificazione delle pianticelle nei primi due anni, al di-
sotto del punto ove vuoisi applicare l'innesto. Questa precauzione
ha per iscopo di forzare il giovane fusto a prendere tutto il pos-
sibile sviluppo in ispessore fino all'altezza di 25-30 centim. in modo
che sia capace di adattarsi perfettamente al legno della marza. (1)
Porremo termine a questi precetti avvertendo che in generale
nella nostra Italia, il momento più opportuno per seminare i vinac-
ciuoli è l'ultima decade di marzo o la prima di aprile; alcuni hanno
esperimentato la seminagione in gennaio o febbraio ma con risul-
tati poco soddisfacenti, certo per il soverchio umido e per la defi-
cienza di calore.
§ 3. Moltiplicazione per mezzo di gemme. — Abbiamo già
detto, nella fisiologia della vite, che la gemma può paragonarsi al
seme, inquantochè contiene i rudimenti della pianta (pag. 193); con-
fidando quindi al suolo in opportune condizioni una gemma, essa deve
darci una pianta di vite, come la dà il vinacciuolo. Ed è ciò che ac-
cade, perchè la gemma ha vita propria, indipendente affatto dal tral-
cio su cui è collocata: ricorderemo a questo riguardo la brillante
esperienza di Duchartre (2), il quale introdusse, durante l'inverno,
un tralcio di vite entro una serra calda alla temperatura costante
di 20° C, lasciando la parte posteriore e la estremità dello stesso
tralcio esposte alla temperatura esterna, che si mantenne a lungo
in quell'inverno a — 8° e — 12°: or avvenne che le gemme della
porzione di tralcio tenuta al caldo si schiusero prontamente, mentre
le altre non incominciarono a svilupparsi che al momento della or-
dinaria vegetazione.
Possiamo adunque impiantare il nostro vigneto eziandio colle gemme,
seguendo il processo che usano taluni orticultori per le viti dei giardini:
senoncbè si calcola che delle gemme confidate al suolo ne perisca
non meno del 50 per cento, ond'è che sarà prudente seminarle in
apposito germinato] o od anche in vivaio, ma non mai direttamente
in piena terra. I risultati saranno allora molto migliori.
Questo sistema di moltiplicare la vite si suole attribuire dai Fran-
(1) Messager Agricole du Midi, 1881 A. Millardet.
(2) Descritta dal Bott. A. Levi {Moltiplicazione <lcil<<. vite ecc. pag. 13).
FORMAZIONE DEL VIGNETO
387
cesi, al viticultare Gian Giuseppe Hudelot della Franca-Contea,
cui Napoleone III infatti nel 1863 conferì una medaglia ed un pre-
mio; ma i Tedeschi ne danno invece tutto il merito all' inglese
Hackley; invece le ricerche nei vecchi libri hanno dimostrato che questo
processo è noto da moltissimi anni, e si cita anzi una memoria a-
vente la data del 1777 scritta su tale argomento in Germania.
Ad ogni modo è certo che ora — dopo la invasione fillosserica —
la riproduzione per gemme è venuta molto in voga, allo scopo di
moltiplicare rapidamente ed in grande numero le viti americane re-
sistenti.
Si possono piantare le sole gemme (fig. 85) oppure piccole talee
Fig. 85.
Fiff.
Fiff. 87.
ad una, due o tre gemme (fig. 86 e 87) od anche lunghi tralci (fig. 88)
isolati oppure non separati dal ceppo come nelle propaggini.
Fig. 88.
Quando si piantano le sole gemme bisogna distaccarle con cura
dal tralcio, che allora presenta l'aspetto della fig. 89 ove da b si è
388
CAPITOLO X
tolta la gemma che in a (fig. 85) è rappresenta vista per disopra
ed in b vista per disotto. Però questo sistema non è da raccoman-
darsi perchè di esito assai dubbio.
Piantando invece le piccole talee ad una gemma l'esito è più si-
curo: però si consiglia di lasciare poco legno da una parte e dal-
l' altra dell' occhio, acciò non vada soggetto a marcire alle due e-
Fig. 89.
Fi- 90
Fig 91
Fig. 92.
stremità. La gemma, sviluppata che sia, assume l' aspetto della
fig. 90 ove bb è il pezzo di tralcio ed a il sarmento uscito dal bot-
tone. Alcuni tagliano longitudinalmente la piccola talea e piantano
soltanto la parte che porta la gemma (fig. 91); si ottiene allora una
pianticella che ha l'aspetto della lig. 92; ma questo sistema è d'esito
molto incerto.
Infine se si corica un tralcio (fig. 88) si deve aver l'avvertenza di la-
FORMAZIONE DEL VIGNETO
389
sciare fuori terra due occhi; da questi nascono i due sarmenti a a (fìg. 03)
che secondo Carrière agiscono quali eccitanti della vegetazione, co-
sicché dalle varie gemme sotterrate in un piccolo fossatello, vengono
fuori altrettanti sarmenti con radici; tagliando il tralcio in varie parti
si hanno allora varie pianticelle distinte, da trapiantarsi a dimora al
secondo anno, non essendo conveniente separarle subito al primo anno.
Fiff. 93.
Le gemme su piccole talee (fig. 87) hanno bisogno di cure speciali:
noi usiamo anzitutto sceglierle da buone talee ben colorate e sane;
potiamo la vite in febbraio e queste talee le collochiamo in cantina
entro sabbia; a marzo le tagliamo a pezzetti di una, due o tre gemme
al più, indi procediamo al piantamento, tenendole però sempre nella
sabbia umida durante l'operazione. Noi le piantiamo in piena terra, ma
nell'orto e non già subito nel vigneto; facciamo cioè un vivaio. Il terreno
lo lavoriamo profondamente e con cura, lo concimiamo bene con in-
grassi azotati e poscia vi tracciamo dei solchetti profondi cinque cen-
timetri; in questi solchetti collochiamo le gemme — rivolte all'insù —
alla distanza di circa 5 centimetri una dall'altra, indi le copriamo
con sabbia e terricciato bene sminuzzato, oppure con terra fina da
orto; infine vi passiamo sopra coi piedi per comprimere un poco la
terra sulla gemma.
Se le piccole talee hanno due o tre gemme i solchetti vogliono
essere più. distanti; inoltre, le talee si piantano allora diritte in appo-
siti fori, lasciando un occhio fuori terra. Ciò fatto si comprime un po'
390
CAPITOLO X
la terra attorno alla talea stessa e si copre la gemma fuori terra
con un po' di terra fina, perchè non abbia a soffrire i freddi tardivi;
non dobbiamo infatti scordare che questo piantamento si fa in marzo.
La gemma fuori terra dà a suo tempo un getto che attraversa facil-
mente la poca terra che vi sta sopra, ed intanto le gemme sotto
terra gettano radici.
Alcuni piantano le gemme in buche (fig. 94): queste debbono avere
la profondità di 15 centimetri e la larghezza di 20; sotto le gemme
si collocano 10 centimetri di terra fina e sopra si pone la gemma,
che si ricopre con cinque centimetri di altra terra; la buca non ri-
mane piena, ma ciò da taluni si fa ad arte per serbarvi l'acqua pio-
vana; è preferibile però riempirla con terra vegetale.
Fig. 94.
La seminagione delle gemme di vite ebbe grandi ammiratori (fra
cui il Dr. Guyot) e grandi detrattori; oggi però che si è studiata
meglio questa maniera di moltiplicare le viti non è più lecito metterne
in dubbio i vantaggi, specialmente, lo ripetiamo, per quanto riguarda
la moltiplicazione rapida delle viti americane. E per dimostrare che
questo processo non è più relegato ai giardini, ma è entrato nel
vasto campo della viticoltura, accenneremo alle grandi seminagioni
di gemme fatte-in Francia {nel Gard) dalla Duchessa di Fitz-James;
questa esimia viticoltrice si accinse da qualche anno a questa parte
a ricostituire con viti americane i suoi ottocento ettari di vigna di
strutti dal vorace afide, e perciò, vedendo che molte di esse diffidi
mente attecchivano da magliuolo, pensò alla seminagione delle gemme
destinandovi 12 ettari, che costituiscono un colossale vivaio irrigabile
L' esito fu completo. Il Doti. A. Levi, che fu a visitare questi la-
vori, attesta che la Duchessa Fitz-James ottiene da tali gemme di
vite, già nel primo anno della semina, piante di una vegetazione e
robustezza sorprendenti. — Del resto anche il sig. Luigi Oudart
FORMAZIONE DEL VIGNETO
391
seminò con profitto gemme di viti europee, assicurando di avere avuto
pieno raccolto d'uva al 6° anno (1).
§ 4. Scelta, conservazione , clisinfezione e piantamento
delle talee nel vivaio e nel vigneto. — Premettiamo alcune de-
finizioni indispensabili: si chiama talea un pezzo di tralcio di un
anno e qualche volta anche dell'annata, con varie gemme, e si po-
trebbe anche dire marza (fig. 95 b): se il tralcio di un anno b porta
Fig. 95.
alla sua estremità un pezzo di legno di due anni a a guisa di maglio
o martello, abbiamo il magliolo (fig. 96): se si taglia con precauzione
(1) Il sig. Oudart fece un vero vivaio di gemme; alla primavera del secondo
anno potò le giovani piante a una gemma buona; al terzo anno potò il tralcio
uscito ancora ad una gemma; verso la fine di novembre trapiantò a dimora.
(V. il nostro Giornale Vinicolo del 1876).
392
CAPITOLO X
la parte a del magliolo rispettando le gemme che stanno là dove il
legno di un anno sorge da quello di due, si ha la zampa di ca-
vallo (1) (fig. 95 a), perchè la talea assomiglia allora realmente ad
una zampa di cavallo: infine se piantiamo la talea, il magliolo o la
zampa di cavallo così da far loro mettere radici, abbiamo la bar-
batella a tutti nota.
Fig. 96
Esaminiamo anzitutto ora quanto si riferisce alle talee.
È legge invariabile questa: che una talea ben organizzala e fe-
conda dà una pianta essa pure feconda. La scelta della talea,
come è facile ad intendersi, ha quindi un' importanza assai grande
nella riuscita del vigneto che si vuole impiantare. La regola generale
che seguono tutti i viticultori intelligenti in detta scelta è la seguente:
la miglior talea è quella che faceva parte d'un tralcio il quale,
se si fosse lasciato sulla pianta madre, avrebbe daloy nell'anno
stesso, maggior copia d'uva. L'occhio del pratico è tutto in simile
scelta; i meno pratici usano scegliere quelle talee le quali provengono
da tralci che hanno dato molta uva. Le loro gemme devono essere
(1) Questo nomo le fu imposto dall'egregio Doli. Belletti e noi lo accettiamo
di buon grado, mancandoci nella lingua italiana la parola corrispondente a eros-
sette ilei Francesi.
FORMAZIONE DEL VIGNETO 393
turgide, gli internodi corti (1), il colore vivo e rossigno, ed il mi-
dollo poca cosa. — Nell'Italia superiore queste talee si trovano spe-
cialmente in quella porzione di tralcio che venne piegata ad arco e
che restò meglio esposta ai raggi del sole: la talea composta della
punta del tralcio è generalmente meno buona di quella che si taglia
alla sua parte inferiore. Nell'Italia meridionale, massimamente colà
dove le viti sono vecchie ed esauste, conviene spesso attenersi a re-
gole affatto opposte: ma il precetto che demmo in principio si applica a
tutte le regioni. Solo faremo notare che si deve anche tenere calcolo,
nella scelta delle talee, delle condizioni climatologiche dell'annata: infatti
se Vestale trascorre molto umida, accade che le gemme 'meglio
sviluppate sono quelle della punta dei germoglii primaverili:
queste punte stanno generalmente penzoloni e son meglio esposte
alla luce ed al calore solare, per cui le loro gemme son più turgide
e feconde di quelle della base, fattesi poco pregevoli appunto a ca-
gione dell'umidore estivo. Ritorneremo più tardi su questo punto.
Veniamo ora alla conservazione delle talee.
La cagione per cui tante talee e tanti maglioli dopo il piantamento
non rappigliano, deve cercarsi specialmente nella cattiva loro con-
servazione : allorquando si fa la raccolta delle talee dalle viti madri,
è d'uopo anzitutto non lasciarle né al sole né all'aria come fanno i
poco esperti; è invece indispensabile farne dei piccoli fascii, che si
collocano col calcio nell'acqua o che si sotterrano se non si pian-
tano subito.
Noi seguiamo questo sistema, con ottimo successo: distacchiamo
le talee neh' inverno od in principio della primavera, ne facciamo
dei piccoli pacchi di 30 caduno, che poscia sotterriamo neh' orto o
nella vigna stessa, ma in luogo sano, scavando ivi una fossa pro-
fonda mezzo metro. In questa noi collochiamo coricati uno accanto
all'altro i pacchi di talee sul fondo della fossa stessa, che tosto
riempiamo di nuovo colla sua terra senza comprimerla. Così abbiamo
sempre conservato le talee anche sino alla fine di maggio, se questo
(1) La brevità degli internodi, cioè l'abbondanza delle gemme, dinota una mag-
gior fecondità, (v. pag. 187), mentre la lunghezza loro dinota rigoglio: — ma è
noto che il rigoglio è contrario alla fruttificazione; lo dice bene un proverbio
sardo: silva manna, fructu minore (stelo grande, frutto piccolo). Quando poi lo
gemme sono turgide e grosse, vuol dire che hanno altresì de' serbatoi riccamente
forniti: sull'ufficio di questi serbatoi (quasi li diremmo cotiledoni), abbiamo detto
a lungo parlando della fruttificazione delle ri/i. (Cap. IV).
394 CAPITOLO X
ci è stato necessario; essendo l'ambiente fresco e sano le talee si con-
servano esse pure tali. Noteremo però che nei paesi caldi, ove si tenes-
sero sino al finire dell'aprile le talee in buche siffatte, e spingendosi fino
al maggio nei locali freschi, le gemme si muoverebbero, mettendo fuori
dei germogli bianchicci e tenerissimi, cosicché scuoprendo le talee e
scuotendole essi cadrebbero facilmente: ma ciò non accade tenendo
smosso e zappato il terreno che ricopre le talee, perchè allora esso
si fa cattivo conduttore del calore e le talee stesse non germogliano
Ma d'altra parte abbiamo osservato che quelle talee, piantate a di-
mora, rappigliano tuttavia assai bene.
Il Prof. Carlo Hugues ha fatto nel 1881 alcune interessanti espe-
rienze sulla conservazione delle talee, suggeritegli dalla lettura di
questo brano del Gasparin: — « si potrebbe prevenire la dissec-
cazione del sarmento, col carbonizzarne la parte inferiore. E noto
che fu soltanto dopo di avere presa questa precauzione, che si po-
terono fare riuscire le viti trasportate dalla Borgogna al Capo di
Buona Speranza (Kolbe) » (1).
Ecco le esperienze in quistione:
1.° Al 15 febbraio dell'anno suddetto il Prof. Hugues prese 100
talee di Marzemino, tagliate al primo nodo della base del sarmento,
di peso, lunghezza e grossezza quasi uniformi, che divise in due lotti
di 50 talee V uno. Il lotto A venne conservato intatto; le talee del
lotto B vennero carbonizzate all'estremità inferiore, passandole una
ad una sopra una fiamma ad alcool, in modo da abbruciarne un
anello largo circa 1 centimetro e da carbonizzare il legno fino al
midollo.
Dopo questa operazione il peso del lotto A fu di grammi 1375,
quello del lotto B fu di grammi 1300. I due lotti vennero collocati
in un locale chiuso e riscaldato con una stufa, sopra un medesimo
tavolo, all'ombra e colle talee sciolte, cioè non legate a mazzo. La
temperatura del locale oscillò tra 10° e 12° centig.
Ogni 24 ore si pesarono i due lotti, ed ecco le cifre che se ne
ebbero :
(1) Cours d'agriculture par le conte De Gasparin, Tome IV, pag. 651.
FORMAZIONE DEL VIGNETO 395
peso in grammi
A B
16 Febbraio 1375 1300
17 » 1348 1282
18 » 1328 1269
19 » 1309 1254
20 » 1292 1242
25 » 1209 1184
2 Marzo 1144 1128
Dunque nel periodo 16 febbraio 2 marzo, la perdita in peso, do-
vuta alla evaporazione, fu di grammi 231 pel lotto A, e di grammi
172 pel lotto B; e riducendo questa diminuzione di peso a 100 del
peso rispettivo iniziale dei singoli lotti, la perdita in peso del lotto
A risulta del 16,80 0[q, e quella del lotto B del 13,23 0[Q. Laonde
una perdita in meno di peso del 3,57 0[Q a vantaggio delle talee
carbonizzate all'estremo inferiore.
2.° Il Prof. Hugues volle riprendere 1' esperienza mettendo in
confronto i seguenti trattamenti:
Lotto A Carbonizzazione dell'estremità inferiore delle talee.
» B Incatramazione » » »
» C Incatramazione di ambedue le estremità delle talee.
» D Testimonio non trattato.
Egli si servì di talee di Kaukà. Per la carbonizzazione usò il pro-
cesso già descritto, per Fincatramazione fece uso di catrame liquido
delle usine del gaz, immergendovi l'estremità delle singole talee per
circa 1 centimetro. I lotti furono composti di 20 talee ognuno, scelte
di dimensioni quasi uniformi, in guisa che ogni lotto pesasse esatta-
mente grammi 383. Ogni lotto venne fatto a mazzo e legato; i mazzi
si collocarono all'ombra in un locale non riscaldato, l'uno vicino al-
l'altro su d'uno stesso tavolo, conservando i mazzi sempre legati.
La temperatura media del locale fa di circa 9° cent. Eseguiti i re-
spettivi trattamenti e pesato si ebbero le seguenti indicazioni:
peso del lotto A grammi 359
»
»
B » 399
C » 417
D » 383
306 CAPITOLO X
Le rispettive perdite di peso risultano dal seguente prospetto:
peso in
grammi
11 Marzo
12 Marzo
16 Marzo
23 Marzo
)tt(
) A
359
352
338
308
»
B
399
386
362
322
»
C
417
402
383
349
»
D
383
371
344
310
Nel periodo 11-23 marzo si ebbero perciò le seguenti perdite in peso:
Lotto A grammi 51 cioè 14.20 0[q del peso iniziale di grammi 359
» E » 77 20.10 0[Q » » » 399
» C » 68 17.75 0[Q » » » 417
» D » 73 19.06 0[o » » » 383
La carbonizzazione dell'estremità inferiore delle talee condusse
pertanto alla minima perdita di peso} in confronto dei singoli
trattamenti e del testimonio non trattato, confermando in tal modo
Vutilità di questa pratica per la conservazione delle talee di viti.
Queste esperienze ci richiamano alla memoria alcune norme sul-
Y imballaggio delle talee e dei mag Itoli, desunte dalle osservazioni
fatte dal sig. G. Ermens, direttore dei lavori agricoli e viticoli di
S. M. il Maharajah di Kaschmir, in occasione dei trasporti di viti
fatti dall'Europa nell'Asia centrale, trasporti che durarono novanta
giorni: le talee imballate nella polvere di carbone di legna si con-
servarono perfettamente bene, e neppure una si essiccò; quelle im-
ballate nel muschio secco diedero risultati ottimi, ma meno completi
della polvere eli carbone; fallirono invece quasi del tutto le talee
poste nel muschio secco, nella segatura di legno secca, e sovratutto
quelle messe entro casse di zinco chiuse ermeticamente; in queste
casse le talee si essicarono completamente.
La disinfezione delle talee ha oggi una grande importanza di
fronte all'invasione fillosserica, ed è per questo che si fecero in
questi ultimi anni varie esperienze al riguardo. Si tratta qui di uc-
cidere le fillossere o le ova delle fillossere senza recare nocumento
alla talea stessa; a tal'uopo si esperimentò l'azione del calore e quella
del solfuro di carbonio.
FORMAZIONE DEL VIGNETO 397
Il compianto Dr. I. Maccagno, dopo accurate esperienze trovò
come in un ambiente di aria mantenuta satura di umidità e scaldata
costantemente fra i 41°,5 ed i 43° centigradi nello spazio di 4 ore
tutte le fillossere muoiono e le ova si guastano (come già aveva
constatato l'illustre Balbianì nel 1876) prendendo queste ultime lo
stesso aspetto di quelle trattate col sulfuro di carbonio ad elevata
dose e che divengono improprie allo sviluppo di nuovi insetti (1):
— l'azione di questa elevata temperatura sulle talee non è meno-
mamente nociva. Infatti il Dr. Maccagno raccolse 22 talee addì 15
novembre 1881, con 3 gemme caduna, e ad undici di esse fece su-
bire durante 5 ore e 1[2 una temperatura di 44° a 45°; dopo di che
tutte quante le 22 talee vennero piantate in terreno appropriato; a
suo tempo rappigliarono tutte contemporaneamente. Altre talee scal-
date a 45° 40° durante 6 ore, piantate che furono, rappigliarono
normalmente. Si può quindi essere sicuri di disinfettare assai bene
le talee, senza danneggiarle, tenendole per alcune ore in una sfufa
od in un forno, avvertendo o ad immergerne una estremità nell'acqua
oppure badando a che l'ambiente sia saturo di umidità.
Anche il sulfuro di carbonio è micidiale tanto per la fillossera
quanto per le sue ova: lo hanno dimostrato nel 1876 i signori Comic
e Mouillefert, e più tardi Lérault, Balbiani e Dumas, infine il
Dr. Maccagno, che esperimentò nello stesso tempo la resistenza
delle talee ai vapori di sulfuro: egli assoggettò piccole talee di tre
gemme caduna, poste entro palloni di vetro ben chiusi, ai vapori di
sulfuro a varie dosi (grammi 214, 241 e 322 per metro cubo) la-
sciandovele durante 36 ore; orbene, tanto queste talee quanto altre
tenute fuori dai palloni come termini di confronto, poste in terra rap-
pigliarono ugualmente presto e bene. È inutile adoperare quantità
maggiori di solfuro perchè alle dosi esperimentate niuna fillossera e
nessun ovo può resistere; è vero però che le talee potrebbero soppor-
tare quantità di vapore anche maggiori. — La disinfezione in grande
si potrebbe fare in una camera ben chiusa, munita nel suo interno
di un agitatore a palette per facilitare e rendere uniforme la diffu-
sione del sulfuro; le talee si disporrebbero su graticci sul genere di
quelli dei bachi da seta, e poscia altro non si avrebbe a fare che gettare
sul pavimento quella quantità in peso di solfuro di carbonio che è
(1) Targioni-Tozzetti — Relazione sui lavori di Valmadera — Annali dell'Agri-
coltura 1880, n. 25, pag. 170.
398 CAPITOLO X
necessaria perchè l'ambiente venga caricato di vapore alla dose di
250 a 300 grammi per metro cibo.
Veniamo infine al pian lamento delle talee, operazione che ha
tanta influenza sulla riuscita del vigneto.
Le talee si possono piantare in vivaio oppure subito a dimora. Noi
pensiamo che ogni viticultare deve avere il suo vivaio, perchè l'ac-
quisto delle barbatelle dalle apposite piantonaie non è totalmente
scevro da inconvenienti; vi sono certamente i venditori scrupolosi
che tengono rigorosamente divise le singole varietà, ma pure quasi
non vi ha viticultore il quale non si dolga di essere stato servito
male. D'altra parte, il far viaggiare talvolta per non brevi percorsi
le piantine di vite, non è sempre senza inconvenienti. Infine è sempre
molto più economico prepararsi da sé stessi le proprie barbatelle
che non comperarle ai vivai pubblici, come or' ora dimostreremo.
Per fare un buon vivaio noi seguiamo questo metodo : in estate
pratichiamo uno scasso a 60 centimetri nel terreno a ciò destinato,
e dopo le prime pioggie di ottobre piantiamo le talee (oppure fac-
ciamo lo scasso in ottobre o novembre ed allora non piantiamo che
in maggio (1)). Ma noi preferiamo fare lo scasso in estate; è bene
notare intanto che sarebbe un errore di piantare in febbraio o marzo
su scasso reale fatto poco tempo prima, perchè la terra così lavo-
rata si mantiene più fredda dell'ambiente esterno, per la qual cosa
le gemme fuori terra germoglierebbero ma quelle sotto terra non
caccierebbero radici, e la talea dopo venti o trenta giorni perirebbe.
È per questo che alcuni avveduti viticultori usano di comprimere il
suolo e poi incalzare le talee così da ricoprirle intieramente con terra;
le scoprono poi leggermente solo all'apparire dei primi germogli.
Le talee noi le tagliamo della lunghezza di 40 centimetri, altri in-
vece si limita a 20 o 25 centimetri, il che certo non offre inconve-
nienti, poiché abbiamo visto riescire bene vivai fatti con talee di
sole 2 gemme. Le talee noi le teniamo nell'acqua durante 5 ore e
poi le piantiamo. Per segnare con regolarità le linee, distanti 20 o
25 centim. una dall'altra, si adopera generalmente il molinello fìg. 97
che tiene avvolto un cordone: indi col foraterra si praticano i fori
piantandovi le talee e poi si comprime la terra attorno ad esse col
foraterra stesso e coi piedi; fra una talea e l'altra deve intercedere
(lj Nei paesi caldi si potrebbe benissimo fare il piantamento in aprile.
FORMAZIONE DEL VIGNETO
399
una distanza non minore di dieci centimetri: fuori terra si lasce-
ranno due gemme od anche una sola. Si possono anche praticare
sul terreno scassato, lunghesso il cordone, delle piccole fosse larghe
e profonde un piede, collocandovi entro le talee in linea e ricolmando
Fie. 97
poscia il fossatello con terra ^fig. 98: questo sistema è abbastanza
spiccio ma certo non quanto l'altro. Il vivajo si tiene sempre mondo
dalle male erbe e bene zappato. Per fare molto presto noi usiamo
spesso far tracciare i solchi dall'aratro, cui segue tosto l'operaio che
*4dHfek
Fig. 98.
colloca le talee in fila nel piccolo fosso. Questo sistema ci dà ottimi
risultati.
Quanto costano le barbatelle ottenute da queste talee ?
Un ragazzo in una giornata di lavoro secondo i nostri calcoli ne
400 CAPITOLO X
può piantare in media 3000: colle distanze di 25 centina, fra le file
e 10 fra le pianticelle, in un ettare se ne potrebbero collocare 400
mila. Supponiamo che si voglia lasciare alle talee maggior spazio e
piantarne sole 300 mila: ecco la spesa
Scasso reale a 65 centim. (in Monferrato) L. 500
Trecento mila talee ...» 3000
Immersione nell'acqua, piantamento » 150
Zappatura » 150
Svenimento dopo un anno .. . » 350
Fitto terreno ed altre spese . . » 400
Totale . . L. 4550
Supponiamo che 100 mila talee falliscano; nondimeno avremo per
L. 4550 ben 200 mila barbatelle di qualità garantita, al tenue prezzo
di 2 centesimi caduna.
Coloro poi che hanno mezzo di vendere le barbatelle possono
comodamente esitarle a centesimi 5 caduna, ed in questo caso rea-
lizzerebbero un guadagno netto di 5000 lire 1' ettare: solo che non
è tanto facile smerciare grosse quantità di barbatelle e perciò questo
calcolo, per quanto esatto, non potrebbe trovare applicazione pratica
che in casi speciali (1).
Passiamo ora al piantamento delle talee a dimora.
Non diremo nulla delle distanze, volendo dedicare a questo im-
portante argomento l'intero capitolo seguente: verremo quindi diret-
tamente al momento ed al modo di piantare.
Secondo noi il metodo più razionale e più economico è quello di
piantare le talee in autunno, perchè come dice l'adagio, chi pianta
in autunno guadagna un anno: altri invece vuole che le talee
si piantino soltanto in primavera, e le barbatelle in autunno. Pos-
siamo però assicurare che anche le talee piantate in autunno
riescono assai bene : a tal'uopo si staccano ordinariamente le talee
in novembre, e si piantano subito: si può tardare due o tre giorni
tenendole, legate a piccoli fasci, col calcio nell'acqua o sotterrandole.
Il suolo del vigneto deve essere stato lavorato sei mesi prima, o
(1) Noi che abbiamo vivai di viti appunto per la vendita lo possiamo dire di
certa scienza.
FORMAZIONE DEL VIGNETO 401
nella peggiore delle ipotesi, almeno un mese innanzi: un piantamento
fatto in queste condizioni difficilmente riesce male. Ma allorquando
si staccano i maglioli nel verno o in principio di primavera, si fanno
a piccoli pacchi di 40 cadauno, e subito si vanno a sotterrare in
una fossa profonda mezzo metro, scavata in luogo sanissimo, collo-
cando i fascetti uno accanto all'altro in posizione orizzontale e co-
prendoli poi colla terra estratta, senza però comprimerla di troppo.
In maggio si può poi fare il piantamento con tutta sicurezza. Il pian-
tamento primaverile non deve essere fatto ohe in maggio nelle
regioni fresche e in aprile nelle calde; facendolo prima accade,
specialmente nelle terre soffici, epperò poco conduttrici del calore,
che la parte sotterrata della talea si trova ad una temperatura in-
feriore a quella di cui gode la parte aerea, esposta ai caldi raggi
solari; ed ecco che le gemme di quest'ultima porzione di talea danno
tosto germogli, mentre le gemme sotterranee quasi non si muo-
vono (1); senonchè quei germogli si allungano finché la talea può
da sé stessa nutrirli, e poi, mancando il concorso delle radici, essi
finiscono per morire. La pratica ci porge di ciò migliaia di esempii.
Bisogna dunque tardare a far il piantamento in primavera; e non
potendolo, fa mestieri coprire tutta quanta la talea, in guisa che
la gemma superiore abbia su di sé un piccolo strato di terra che
possa poi facilmente perforare col suo tenero germoglio (2).
La talea nel suolo scassato si pianta in due modi; o col foraterra
o entro una piccola buca aperta mercè una fitta di vanga. Col fo-
raterra, o palo di ferro, non si riesce sempre bene: siccome con
questo sistema, "fatto il foro vi si immette il magliolo, o la talea, ed
è poi necessario di comprimere ben bene la terra tutt'attorno al ma-
gliolo stesso e per tutta la sua lunghezza, così accade spesso che
si arreca danno alle gemme, e non sempre d' altronde si riesce a
farle combaciare colla terra, come è indispensabile. Per queste ra-
gioni il piantamento col palo di ferro, se il viticoltore non è esperto,
riesce meno bene di quello che si opera sullo scassato mercè una
piccola buca fatta o colla vanga o colla zappa.
In questo caso, fatto il foro, vi si collocano entro la talea, il ma-
(1) È noto che le gemme fuori terra sbucciano e danno piccoli germogli uni-
camente a spese del loro serbatoio e della taira, prima cioè che sianvi le radi-
chette ad elaborare materiali del terreno.
(2) In certi casi giova levare delicatamente colle mani questo piccolo strato di
terra in maggio.
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 21
402 CAPITOLO X
gliolo o la barbatella; se si tratta di quest'ultima, si deve avere l'av-
vertenza di distenderne le radici in ogni senso. Il foro si ricolma
poi con terra, che si comprime colle mani e coi piedi.
Se si vuol aggiungere concime, si versa questo sopra e non sotto
il magliolo, si versa cioè sulla prima terra che si è fatta scendere
sulle radici. / conci non vanno mai posti a contatto colla vite;
sibbene o sopra un primo strato di terra, ovvero all' intorno a
qualche distanza dalle radici. Del resto è meglio spargerli prima li
scassare il suolo.
Quando infine si opera il piantamento entro fosse aperte, più
o meno distanti una dall'altra, si usa collocare sdrajato o inclinato il
magliolo o la barbatella in fondo ad esse, vi si versa sopra alquanta
terra, poi il concime, poi ancora nuova terra, senza però riempire
d'un tratto le dette fosse.
Abbiamo qui parlato di collocamento dei maglioli (o delle barba-
telle) in posizione inclinata: diremo ora che ciò non sempre devesi
fare. Il magliolo sdraiato conviene nelle contrade fresche d' Italia,
nelle terre pingui e nelle piantagioni a molta distanza fra fila e fila,
e tra pianta e pianta nelle file. Non conviene invece in condizioni
opposte, cioè nelle regioni molto calde, nelle terre mediocri, e con
piantamenti molto fitti. Infine conviene sempre un po' di inclinazione
pel magliolo nelle condizioni medie. Con viti rigogliose, come accade
nelle terre pingui dei paesi non troppo caldi, col ceppo sdraiato o al-
meno inclinato, si ha un cotal rallentamento nel succo che viene dalle
radici; e questo rallentamento come tutti sanno, giova alla fruttifica-
zione, i fiori della vite non abortiscono se la primavera è umida, ed i
grappolini attecchiscono assai meglio. Ma nei paesi caldi, ove le terre
siano mediocri, l'aborto non reca che pochi danni, e la vite non è quasi
mai pletorica; costì, se la ceppaia fosse sdraiata, si avrebbe un ral-
lentamento nocivo al succo, il quale giungendo in minor copia ai
frutti, non potrebbe provocarne un adeguato ingrossamento; infatti
allora essi resterebbero picoolini e quasi raggrinziti.
Ciò è tanto vero che nelle regioni molto calde i tralci inclinati od
orizzontali danno grappoli ad acini più piccoli e meno zuccherini che
non gli speroni diritti. Concludendo, la piegatura o sdrajatura con-
viene colà dove la vite è pletorica.
La fig. 99 ci mostra il piantamento fatto con talea alquanto ri-
curva; ma in Monferrato si usa ripiegarla assai di più entro la fossa,
comprimendola coi piedi per tenerla ferma mentre le si fa scendere
sopra la terra.
FORMAZIONE DEL VIGNETO 403
In Monferrato usano taluni, con molto successo, un modo di pian-
tamelo mercè il quale si può dire che non una talea fallisce; la
talea anzitutto viene tagliata, dalla parte che deve andare sotterra, sin
sotto l'ultima gemma; cosicché questa non ha legno dell' internodo
sotto di essa, ma resta però intatta: tutte le talee, ventiquattro ore
prima di piantarle, sono collocate diritte entro un mastello conte-
Fig. 99.
nente succo di letame in guisa che le talee stesse peschino per un
decimetro della loro base nel liquido: al momento di levarle dal ma-
stello per confidarle al suolo, l'o[ eraio prende un po' di terra argil-
losa ed avvolge la suddetta gemma inferiore facendo come un pomo
attorno ad essa, della grossezza d' un ovo. poscia pianta come al
solito. Con questo sistema le talee rappigliano assai bene, ma si ri-
chiede qualche tempo per prepararle.
Allorquando l'estate trascorre molto arida conviene mantenere un
certo grado di umidità attorno alle giovani pianticelle; le zappature
frequenti sono ottime, ed è pure ottima V innaffia tur a; ma non sempre
si può praticarla. Consigliamo perciò, in questi casi, l'uso della se-
gatura di legno che in pratica dà ottimi resultati: il sig. M. Voli
vi richiamava sopra, non è molto, Y attenzione dei viticultori consi-
gliando loro di spargere, all'atto del piantamento, lungo i filari ed
al piede delle talee, una manata di segatura di legno lasciandovela per
tutta l'estate. Ben dice il Voli che questa sostanza, conservandosi
sciolta, lascia passare l'aria e nel tempo istesso coprendo il terreno
ne impedisce lo indurimento: essa inoltre, siccome assai igroscopica,
assorbe nella notte la rugiada e mantiene durante il giorno un certo
grado di umidità attorno alle giovani pianticelle. Soggiungeremo che
la segatura di legno agisce come corpo coibente ed impedisce al ca-
lore solare di riscaldare soverchiamente il suolo; perciò si potrebbe
rimpiazzarla con terra fina, ed è appunto in questo senso che giovano
le zappature delle quali si suol dire che « valgono una innaffìatura »
per la ragione che sminuzzando la superficie del suolo ne fanno di-
minuire la conduttività termica interna, come dicono i fisici, cioè la
rendono meno atta a scaldarsi.
404 CAPITOLO X
Vuoisi pure considerare la direzione dei piantamenti e la loro
disposizione.
In quanto alla direzione si avverta a dirigere i filari possibilmente
da nord a sud, acciò possano godere per un maggior numero di
ore il beneficio della luce solare diretta
Allorquando si pianta un vigneto specializzato, cioè senza conso-
ciazione di altre culture, e se le piante sono molto vicine e potate
a speroni, sarà bene disporle a cinquonce (fig. 100) ossia a scac-
IXXXXXXXXX XI
f v v v * x y x y v >
i\ / \ / \ / \ / \ / \ / \ /' \ / \ / \ / !
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L_^'. & V-«—- ¥■ ài- -»'- JL V~~-£ — .:..]
Fig. 100.
chiera od a rombo, oppure in quadrato (fig. 101). Ma là dove le
viti sono lussureggianti ed a vegetazione precoce è preferibile il si-
stema delle file (fig. 102).
Nei piantamenti a cinquonce (che taluno dice anche quinconce) o
in quadrato, le radici d'ogni singola pianta si sviluppano bene senza
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I | | j I | | I ] ! |
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Fig. 101.
troppo danneggiarsi le une e le altre; ma fra i due sistemi è pre-
feribile quello a scacchiera (1) perchè permette di lavorare la vigna
(1) Guyot (op cit. Voi. I, 586) die»! che a suo avviso la disposizione a cin-
quonce non giova u nulla: troviamo ciò alquanto esagerato. Sin dai tempi di
FORMAZIONE DFX VIGNETO
40o
in tre direzioni sempre con interfilarc di uguale larghezza, onde si
realizza così una notevole economia nei lavori di vangatura e zap-
patura, che si possono fare assai bene e cogli aratri; inoltre dato che
si volesse rimpiazzare un ceppo con propaggine, si avrebbero molte
piante a propria disposizione per la scelta del ramo; infine nei pian-
tamenti a rombo vi sta un. maggior numero di piante per ettare.
Infatti supponiamo che si adotti la distanza di lra,50 in tutti i sensi;
nel sistema in quadrato avremo 2m,25 di superficie per ogni ceppo,
ossia 4444 piante per ettare — invece nel sistema a quinconce ab-
biamo altrettanti rombi di lm,50 di base per lm,25 di altezza, cioè
lm,875 di superficie, per cui in un ettare vi saranno 5204 piante.
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Vis. 102.
Col sistema delle file (fig. 102) se si mettono queste a 2ra,50 e le
piante ad 1 metro, occorrono 4000 talee ad ettare, e bastano 3880
se le file stanno a 2m,35 e le talee a 1,10. Con queste distanze, che,
come vedremo nel capitolo seguente, possono anche essere maggiori,
la cultura coll'aratro è assai più facile, e questo è da tenersi a cal-
colo là dove, essendo scarsa e cara la mano d'opera, non è troppo
conveniente né sempre possibile la cultura a braccia.
Vediamo ora quanto concerne la profondità del piantamento.
Piantando una vite a 50, 60, 80 centimetri di profondità — come
fanno molti erroneamente — in terreno semi-consistente o peggio
compatto, si osserva che le migliori radici sono superficiali, e così a 25,
30 od al massimo a 40 centimetri di profondità, laddove le altre sono
assai più esili e meschine, .e talvolta mancano affatto.
Oltre a ciò il ceppo (l'antico magliolo o la talea o la barbatella)
Columella (op. cit. 159) la si trovava utile per la facile e completa lavorazione
del vigneto;
406
CAPITOLO X
si serba sottile a poco presso come quando fa piantato, ed infine
tarda molto a dar frutto. Ciò vuol dire che il piantamento fu fatto
contrariando le esigenze della pianticella. In Monferrato, nell'Astigiano
ed in molti altri luoghi, si commette Terrore del piantamento troppo
profondo. Ma nel Monferrato, dove i viticoltori sono edotti da lunga
e bellissima pratica, siccome si sa benissimo che le viti così piantate
non riescirebbero bene, allargasi (uno o due anni dopo il piantamento)
la fossa primitiva, e ciò mercè due fossette laterali larghe 60 cen-
timetri e profonde altrettanto, ed in fondo a queste si pone un buon
strato di letame e di fascine di viti, di rovere o d'altro, superposte
come le tegole di un tetto. Quest'opera, detta fogna o arrotto
(v. pag. 370), è fatta per rimediare al difetto del piantamento troppo
in basso, ma costa da 400 sino a 2000 lire 1' ettare, come diremo
più in disteso al Gap. XXIL
Anche sul suolo lavorato a scasso reale non bisogna collocare le
talee troppo al basso : facendolo, si osserva rhe la prima corona di
radici (vedi fig. 103, tolta dal vero in un piantamento da noi fatto
a 0,60) a circa 15 centimetri di profondità ha una direzione al-
l'ingiù; le altre corone sono orizzontali, o quasi: mentre 1' ultima
Fiff. 103.
corona (a 0,50 di profondità) ha le sue radici rivolte all' insù, in
cerca di aria. Certamente ciò non accadrà nelle terre leggiere
o ciottolose; e questo spiega come nelle terre lapillari sofficissime dei
dintorni di Napoli, si possano con profitto piantare i maglioli ad oltre
un metro di profondità. Ma nelle terre compatte la cosa è differente.
FORMAZIONE DEL VIGNETO 407
La pratica quindi, e la fisiologia vegetale, ci dicono che la vite
deve essere piantata superficialmente [a 20 o 25 centim.) nei
climi freschi e nelle terre compatte; a 30 o 35 nei climi medii
e nelle terre 'meno consistenti; da 35 a 40 od anche di più nei
paesi caldi, purché però le tet^re siano molto permeabili e soffici.
Non dobbiamo però tacere che il piantamento a 35 centimetri di
profondità nei paesi caldi, anche se il terreno è molto permeabile, ha
qualche oppositore, e primo fra essi il Senatore Devincenzi, l'ono-
rando Presidente della Società dei Viticultori italiani, che coltiva ot-
tanta ettari a vigna a Giulianova nell'Abruzzo Ulteriore 1° su colline,
e precisamente in provincia di Teramo, quasi nel centro d'Italia. Egli è
partigiano nel modo più assoluto del piantamento superficiale, quan-
tunque saggiamente usi di farlo in terreno lavorato a scasso reale:
inoltre egli, per la sua non breve esperienza, non vuole né talee,
né maglioli, ma barbatelle ad un solo palco di radici, barbatelle
cioè provenienti da talee di due sole gemme : una sola essendo
allora la gemma sotterrata, si ha un solo palco di radici, cosa cui
il Senatore Devincenzi attribuisce grande importanza (1). Egli pianta
in tal modo le sue vigne, cioè molto superficialmente, perchè adopera
simili barbatelle, onde fra la gemma esterna ed il palco delle radici
havvi la distanza di un semplice internodo ; la corona delle radici
viene quindi a trovarsi a pochi centimetri dalla superficie del suolo.
Il vigneto lo pianta — essendo il terreno esausto — su soverscio
di sulla, sotterrata quando sta per fiorire, a 50 od al massimo 60
centimetri di profondità mercè lo scasso reale; egli soggiunge (2):
« la piccola profondità dello scassato opponendosi allo sprofondarsi
delle radici, mi fa ottenere una produzione più precoce, una mag-
giore quantità ed una migliore qualità del vino. » È noto però che
nei paesi caldi le radici superficiali soffrono molto l'aridità del clima,
quindi è indispensabile, seguendo il metodo Devincenzi, di tenere
sempre il terreno del vigneto bene smosso e lavorato, per renderlo
cattivo conduttore del calore (pag. 403). D'altra parte essendosi fatto il
(1) A suo avviso, quando si hanno varii palchi di radici (come accade colle talee,
i maglioli e le barbatelle usualmente adoperate) si hanno anche varii movimenti
vegetativi a seconda della differente profondità dei palchi stessi; ad ogni movi-
mento, dice egli, si hanno succhi diversi e quindi una mescolanza assai dannosa
alla qualità e quantità del vino. Confessiamo di non intendere bene quanto af-
ferma il Sen. Devincenzi.
(2) V. Indirizzo alla Società dei Viticultori italiani, 1885, pag. 19.
408 CAPITOLO X
piantamento su scasso reale, una parte delle radici capillari si dirige
all'ingiù e si abbassa in guisa da permettere i lavori colturali, che sa-
rebbero quasi impossibili ove la radici si mantenessero troppo su-
perficiali.
Per ultimare questo paragrafo dovremmo anche accennare al
piantamento delle talee nelle sabbie; ma di ciò diremo studiando la
coltura delle viti nelle dune e nelle terre sabbiose al capo XXII.
§ 5. Piantamento dei maglioli. — Tutto quanto dicemmo
nel precedente paragrafo sulla scelta, disinfezione, conservazione e
piantamento delle talee, si applica perfettamente ai magliuoli, detti
anticamente malleoli (1). Abbiamo quindi poco da soggiungere al
riguardo.
Se noi tagliamo (fig. 104) il legno di due anni fra le inserzioni dei
rami dell' annata, avremo i maglioli, che se bene scelti, cioè con
occhi bene sviluppati, ci daranno piante robuste e longeve; tuttavia
il vecchio legno è spesso un ostacolo al rappigliamene, ed è per
questo che molti viticoltori usano esportarlo, lasciando solo la men-
soletta di legno che si trova all' inserzione della talea, in altri ter-
Fig. 101.
mini mutano il magliolo in una zampa di cavallo (pag. 392). Da
quella mensoletta, che è un nucleo di sostanza nutriente, come già
dicemmo studiando la fisiologia della vite, e dalle gemme che vi
stanno sopra, partono numerose radici vigorosissime, onde se ne ha
una pianta robusta e ben costituita.
Allorquando si debbono piantare i maglioli in terreno arido, è bene
tenerli immersi nell'acqua, per 20 centimetri dalla loro base, durante
(1) Malleus, martello — Malleoli is, magliolo cioè martellino.
FORMAZIONE DEL VIGNETO 401)
varii giorni; alcuni usano per di più di scortecciare gli internodi in
questi 20 centimetri penetrando sino al libro: pare che tutto ciò fa-
ciliti di molto il rappigliamento.
Fatto è che il magliolo, specie se ridotto a zampa di cavallo,
costituisce un ottimo mezzo per moltiplicare la vite; quando invece
si pianta il magliolo intatto, il legno vecchio può marcire con danno
grave della futura pianticella. Tuttavia il Dr. Guyot è contrariis-
simo ai maglioli; egli non vuole vecchio legno attaccato alla talea,
e dopo aver visitato tutti i dipartimenti viticoli francesi conclude (1)
« la boutare avec vieux bois est lamoins bonne ». Dice egli che,
ad esempio, sopra un sarmento lungo 1 metro ben formato e bene
maturo, la sommità è più precoce, più vigorosa e più fertile che
non la parte mediana, e questa la vince sulla parte che è più vi-
cina al vecchio legno; a suo avviso quindi le talee si dovrebbero
prendere tagliando i sarmenti dell'annata all'altezza di 20 centimetri
dal legno vecchio su cui sono inseriti, Senonchè abbiamo già visto
a pag 392 che quanto dice Guyot non può costituire una regola ge-
nerale, poiché vi sono casi in cui la base del sarmento è preferibile
alla punta.
Il metodo Oudart per piantare i maglioli merita di essere riferito:
è minuzioso ma 1' esito è sicuro. Prima di mettere mano alla pian-
tagione fa d'uopo preparare i tre composti seguenti:
1. In un vaso qualunque, ma abbastanza profondo per immer-
gervi tutta la parte inferiore dei magliuoli che va sotterrata, (cen-
timetri 25 all' incirca) si mescoleranno assieme:
l[3a parte di cenere vergine di legno
» » di sterco bovino
» » di terriccio, o di terra buona senza ghiaia.
Con queste tre sostanze e acqua a sufficienza si farà una melma
della consistenza d'un fango liquido.
2. Si mescolerà con 1|4 di cenere vergine di legno, 3[4 di ter-
riccio asciutto o di terra buona, fina, ben sminuzzata e senza al-
cuna ghiaia, nemmeno piccola. Questa composta dovrà servire per
empiere, all' intorno dei magliuoli, i buchi nei quali si piantano.
3. In una tinozza che si riempie di acqua si fa disciogliere un
(1) Étude des vignobles de Francc: T. Ili, pag. 615.
410 CAPITOLO X
poco di sterco bovino, all'incirca chilog. 2 a 3 per ogni ettolitro dì
acqua.
Fatte queste preparazioni, si principierà la piantagione. Si leverà
dal fosso dove sono sotterrati i magliuoli in deposito, solamente la
quantità che farà d'uopo pel lavoro della giornata e si ricopriranno
con un po' di terra i magliuoli che resteranno nel fosso.
Nel trasportare al campo quelli da piantare, si avrà cura di co-
prirli con qualche panno, o con paglia, o con qualunque altro riparo,
capace di difenderli dal contatto dell'aria e si lascieranno coperti fino
al momento di adoperarli.
Allora, un vignaiuolo esperto, reciderà con un ferro di taglio fino,
i pezzetti di legno vecchio che saranno stati conservati al piede dei
magliuoli, ai quali lascierà accuratamente la corona intiera (zampa
di cavallo), avvertendo anche di non discoprirne il midollo. A misura
che sono così preparati s' immergono nel vaso della melma : quelli
che non hanno più di legno vecchio, perchè furono già preparati,
si mettono a dirittura a bagno nella melma, ma in ogni caso non
si deve immergere che la parte inferiore del magliuolo che va in
terra.
Si tenderà un cordone sulla linea per guidare il piantatore, il quale,
con un palo di ferro, praticherà dei buchi lungo la linea alla di-
stanza richiesta: questi buchi — secondo Oudart — saranno pro-
fondi centimetri 25 nei terreni compatti, e centim. 30 in quelli sab-
binosi, leggieri e molto permeabili. Affinchè tutti i buchi siano re-
golarmente dell' istessa profondità, si farà una marca sul palo per
norma del lavorante.
Un ragazzo prenderà dei magliuoli nel vaso della melma e ne in-
trodurrà uno in ogni buco, fin in fondo, mantenendolo dritto in mezzo
del buco : nell' istesso tempo un altro ragazzo, portando con sé in
un sacchetto della composta di cenere e terra ed un bastone a punta
ottusa, insinuerà intorno al magliuolo, questa composta per empire
completamente il buco e comprimerà poi energicamente questa terra
colla punta ottusa del suo bastone affinchè non resti alcun vuoto
all' intorno della pianta.
Si lasciano sole due gemme al magliuolo, compresa quella che sta
a fior di terra, e si taglia in mezzo del terzo nodo per non disco-
prire il midollo del meritallo superiore alla seconda gemma e non
indebolirla (v. pag. 127). S'innaffiano poi le piante con, all'incirca
per caduna, mezzo litro della suddetta acqua (preparazione n. 3). Si
FORMAZIONE DEL VIGNETO 411
coprono allora intieramente con terra magra, ben sminuzza, o an-
cora meglio con sabbia, formando all'intorno delle piante mucchietti
o montagnine che si spianano quando il magliolo si è fatto pianta,
cioè nel mese di settembre quando i caldi ardenti dell1 estate non
sono più da temere.
Questa pratica non ha solo per iscopo di preservare i maglioli
dalla siccità, ma ancora di ritardare lo schiudimento delle gemme
fin'a tanto che i magliuoli abbiano cacciato radici, perchè quando le
gemme si schiudono prima della nascita delle radici, non potendo
ricevere alcun alimento per sostenere e continuare il loro sviluppo,
si disseccano e il magliolo perisce. Cosi piantati, i maglioli riescono
tutti, afferma Oudart, anche nei climi i più caldi; formano viti molto
più robuste che le barbatelle provenienti dai vivai, durano più tempo
e si mettono più presto a fruttificare. Oltre questi vantaggi v'è an-
cora molta economia nella spesa per la piantagione: due uomini e
due ragazzi intelligenti, una volta avvezzati all'ordine di questo la-
voro, possono, in una giornata, piantar a dovere maglioli 1000, quando
non potrebb ro nell'istesso tempo piantare più di quattro o cinque-
cento barbatelle.
I maglioli dell'annata, che diremo verdi, possono pure servire per
il piantamento: essi si staccano nel mese di giugno, esportando con
cura la loro base, o piede, cioè quella specie di protuberanza dalla
quale sorgono sul legno vecchio. Si vengono così ad avere delle zampe
di cavallo (pag. 391 fig. 95 a) le quali però sono tuttora verdi ed er-
bacee. È facile supporre che questi maglioli si devono piantare su-
bito appena tagliati, in terreno molto soffice e fertile: dalla loro base
cacciano allora radici; ma appena piantati è necessario potarli o di-
remo meglio cimarli, tagliando anche metà circa delle loro foglie.
Perchè il rappigliamento sia sicuro è indispensabile tenerli ri[ arati
dal sole ed innaffiarli spesso: alcuni li tengono da principio in una
semi-oscurità e quando sono certi che hanno cacciato radici, allora
grado grado li scoprono per lasciarli poi all' aria libera. Non vo-
gliamo scordare di avvertire che il rappigliamento di questi maglioli
erbacei è molto difficile, per cui in nessun caso il sistema accennato
potrebbe consigliarsi per l'impianto di un vigneto di qualche im-
portanza.
II Dr. Aloi ci faceva conoscere sin dai 1877 un nuovo magliolo
che si usa da tempi antichissimi nell'Agrigentino ove è detto cor-
dazzo. Crediamo utile di farne qui cenno. Il cordazzo è lungo quanto
412
CAPITOLO X
il magliolo ordinario, ma è formato di due pezzi eguali uno del
tralcio di due anni e l'altro del tralcio di un anno, attaccati fra
loro (fig. 105).
Il cordazzo secondo YAloi merita di essere preferito al magliuolo
ordinario ed alle barbatelle, dappoiché riunisce in sé i pregi di tutte
e due e va esente dei difetti che questi presentano.
Fig. 105
« L'esperienza ha dimostrato generalmente, (non sempre però, mas-
sime nei paesi settentrionali) che la maggior quantità di grappoli ed
i migliori si trovano sui germogli sviluppatisi sul primo terzo del
tralcio dell'anno antecedente, e che tutte le varietà di viti portano i
maggiori ed i migliori grappoli sull' istessa porzione di quel primo
terzo del tralcio. Ordinariamente dunque la parte più produttiva del
FORMAZIONE DEL VIGNETO 413
tralcio è quella del primo terzo, che germogliò per la prima fino
a tutto maggio, che ha nodi brevi e gemme ravvicinate, più pro-
nunziate e tondeggianti, avendo esse avuto tempo di costituirsi nor-
malmente. Nel terzo estremo del tralcio le gemme si trovano ancora
ravvicinate, perchè appartenenti all'ultima epoca della vegetazione,
ma sono piccole ed acuminate e danno perciò pochi e piccoli grap-
poli, rarissimamente. Il terzo mediano ha lunghissimi internodi, ossia
gemme molto distanti fra loro, perchè appartengono all'epoca più
rigogliosa della vegetazione, e le gemme di questa porzione di solito
portano più foglie che frutto. Propagando la vite per gemme, è certo
che queste daranno una pianta che conserverà la tendenza della
porzione del tralcio cui quelle appartenevano; se la pianta uscirà (]a\
primo terzo del tralcio produrrà maggior quantità di grappoli, sa
dal terzo mediano darà più foglie che frutto, se dal terzo estremo
pochi e piccoli grappoli. »
« Or col magliuolo ordinario le gemme del terzo inferiore e quelle
del terzo medio del tralcio si mettono sotto terra e si sviluppano a
radici e la pianta esce dalle gemme del terzo estremo; perciò por-
terà pochi e piccoli grappoli, o tutto al più escirà dalle gemme
del terzo medio e sarà atta a produrre più foglie che grappoli.
Con le barbatelle si ottengono bensì piante fruttifere perchè si svi-
luppano dal primo terzo del tralcio, ma sono dotate di poche ra-
dici, dappoiché poche gemme (da due a tre) si mettono sotto terra
e quindi nelle regioni aride, come quelle della costa meridionale della
Sicilia, le viti ottenute dalle barbatelle, d' estate soffrirebbero molto
per la ostinata siccità ».
« Col cordazzo invece si ottiene una pianta fornita di molte radici
e per dippiù fruttifera, perchè si sviluppa dal primo terzo del tralcio.
Infatti si usa colà scavare delle fosse profonde un 30 centimetri circa
e dentro vi si adagia il cordazzo, in modo che tutta la parte del
tralcio di due anni e la prima corona delle gemme del pezzo di un
anno restino coperti dal terreno, ed esca fuori la porzione del tralcio
di un anno che è giusto quella del primo terzo. È chiaro che con
questo metodo si ottengono viti fornite di molte radici e perciò ro-
buste, e per di più fruttifere. V'ha solamente, che il cordazzo può
aversi da quelle vigne che si potano razionalmente, cioè da quelle
vigne che si potano con un tralcio lungo fruttifero ed uno sperone
per fornire i tralci su dove fondare la potatura futura ». Nei paesi
della provincia di Girgenti visitati dall'AC, e che propagano la vigna
414
CAPITOLO X
col cordazzo, questo sistema di potatura usasi da tempi immemo-
rabili, sistema che vuoisi ostinatamente chiamare alla Guyot mentre
è puramente italiano, come diremo al Gap. XXII.
§ 6. Piantamento delle barbatelle. — Confronto colle talee.
— Anzitutto ci chiediamo: debbono preferirsi le talee o le barbatelle?
(Fig. 106) La pratica viticola insegna che le talee danno viti più robuste
Fi*. 10.:
e più longeve che non le barbatelle e peggio le propaggini. Le talee
adunque sarebbero da preferirsi, avuto riguardo alla vite futura;
però, benché costino meno delle barbatelle, non sono generalmente
preferite per la ragione che non rappigliano con uguale facilità. Tut*
FORMAZIONE DEL VIGNETO 415
tavia, dove per felici condizioni di suolo si fosse quasi sicuri della
loro completa riuscita, le talee dovrebbero senz' altro anteporsi a
qualsiasi altra maniera di piantamento, poiché si avrebbe il vigneto
in piena produzione un anno prima e più longevo: parliamo per e-
sperienza.
Dopo le talee conviene porre le barbatelle di un solo anno, e su
ciò non può cadere contestazione, quantunque vi siano alcuni viticol-
tori che preferiscono quelle di due, di tre e perfino di quattro anni
(v. § 7 seguente).
Infine, in quanto alle propaggini, esse non producono una vigna
robusta, vuoi per la disposizione delle loro radici, vuoi per la sepa-
razione che ebbero a subire dalla pianta madre. Da quanto dicemmo,
scaturisce quindi il seguente principio fondamentale: L'impianto d'un
vigneto riesce meglio (fisiologicamente parlando ed avuto riguardo
alla robustezza e longevità delle piante) se fatto mediante la
seminagione che non mediante talee; ma queste sono sempre da
preferirsi alle barbatelle ed alle propaggini.
Riguardo al piantamento delle barbatelle, dopo quanto abbiamo
detto nei precedenti paragrafi, ci rimane poco a soggiungere. Avverti-
remo solo che le barbatelle debbonsi togliere con molta cura dal vivaio:
la zappa si presta male per ciò, ed è meglio usare lo zappone a due denti
bipartiti: noi usiamo levarle a scasso reale colla vanga, ma con
molta precauzione. Le barbatelle si debbono togliere dal vivaio solo
quando hanno perduto tutte le loro foglie; ed allora conviene anzi-
tutto ripulirle dalle radici morte e dal legno fradicio e nerastro.
Si avrà eziandio cura di sopprimere le radici secondarie che stanno
sovra la base del ceppo; è anche prudente, se le radici sono secche
per lungo viaggio, tenerle per qualche giorno nell'acqua corrente,
che così piantate rappigleranno bene.
Dopo si pianteranno nelle fosse colla precauzione di ben distenderne
le radici; si ricopriranno quindi con terra e concime e poi di nuovo
terra, che si comprimerà coi piedi; infine si poteranno a due occhi,
cioè si lascieranno fuori terra sole due o tre gemme. Il governo
successivo della pianta varia secondo i sistemi di viticoltura; quindi
rimandiamo il lettore al Capo XXII.
Per distendere regolarmente le radici delle barbatelle usano al-
cuni viticultori fare prima nelle fosse destinate al piantamento, un
cumulo conico di terra per ogni barbatella, procurando che venga
colla sua punta a circa 15 centimetri dalla superficie del suolo: la
416 CAPITOLO X
base di questo cumulo deve essere di 30 centimetri, e gli è su di
esso che il viticultore collocherà la barbatella, tenendola diritta e di-
stendendone tutte le radici lungo le pareti. Sovra si metterà terra
fina, concime potassico e letame all'ingiro, indi si riempirà la fossa,
comprimendo fortemente la terra. Con questo sistema, che se è lungo
è però accuratissimo, le barbatelle danno ottime piante, poiché il nodo
vitale (pag. 88) resta quasi a fior di terra ove era quando la bar-
batella trovavasi in vivajo, e le radici si trovano distribuite con molta
regolarità, tutte condizioni queste che contribuiscono alla perfetta con-
formazione della futura, pianta ed alla sua produttività. Il sig. Luigi
Ouclart, esperto viticultore ben noto in Italia, fu forse l'inventore di
questo siste. uà di piantamento; a suo parere quando si pianta la bar-
batella col sistema usuale, cioè più profondamente che non collocan-
dola sui cumuli di terra, « la pianta si carica di rami e di foglie
ma poco o niente di frutti, fintantoché abbia potuto formarsi un
nuovo colletto nella sua naturale situazione (1). »
Quando le barbatelle stanno due anni nel vivaio, noi usiamo po-
tarle a tre gemme al secondo anno; abbiamo osservato che potan-
dole ad una sola gemma, cioè troppo corte, si offende indirettamente
il loro sistema radicale; la barbatella infatti si fa appunto per avere
una pianta riccamente fornita di apparato radicale; ma questo, come
già sappiamo, è sempre in istretta armonia coi rami. D'altra parte
però non potando si avrebbero molti getti alquanto corti, e non si
saprebbe bene poi quale scegliere per formare la futura pianta. È
dunque bene potare a 3 od anche a 4 occhi. -
Il piantamento è sempre meglio farlo in autunno (pag. 400), perchè,
come già dicemmo parlando delle talee, si guadagna un anno. Ma
acciò il piantamento autunnale riesca bene si deve lasciare alle acque
piovane un libero e pronto scolo. Per questo nei piantamenti annuali,
sia a scasso reale, sia e massimamente col sistema delle fosse, si
deve scrupolosamente far sì che questo scolo avvenga.
Nel caso dello scasso bisogna, dove il terreno presenta degli av-
vallamenti, aprire profondi acquaroli, che vanno tenuti ben netti. E
così anche nel caso delle fosse, oltre al nettare i solchi ai due lati
del filare, se ne devono aprire altri nei luoghi più avvallati, i quali
naturalmente dovranno essere profondi quanto la fossa stessa. I mo-
tivi per cui questo lavoro è necessario sono due: 1° dando libero
(1) V. il nostro Giornale Vinicolo Italiano, Voi. II, pag. 101.
FORMAZIONE DEL VIGNETO 417
sfogo alle acque si impedisce il gelo e disgelo, i cui effetti sono
mortali per le talee e per le barbatelle; 2° 1' acqua corrente tra-
scina seco molta aria, che è corpo coibente, e ciò impedisce i rapidi
abbassamenti di temperatura.
Sulla spedizione delle barbatelle abbiamo poco a dire.
Allorquando si acquistano le barbatelle in vivai molto lontani, si
corre rischio di riceverle secche, vale a dire prive di vitalità, sicché
piantate non potrebbero rappigliare; per ovviare a questo inconve-
niente non basta il completo imballaggio delle piantine colla paglia,
ma occorre che le radici siano avvolte o in terra, o in muschio u-
mido, o in varech mescolati a terra. Con quest' ultimo sistema il
già citato sig. Ermens (pag. 396) riuscì a far viaggiare barbatelle
durante novanta giorni dall'Europa nel centro dell'Asia.
§ 7. Età delle barbatelle. Abbiamo voluto serbare alla trat-
tazione di questo punto uno speciale paragrafo, perchè la quistione
è molto controversa, e chi preferisce barbatelle di un anno, e chi
di due e ben anche di tre e quattro anni !
Abbiamo già detto a pag. 415 che nell'impianto del vigneto dopo
le talee, cui noi diamo la preferenza, conviene porre le barbatelle
di un solo anno, per quanto quelle di tre o quattro anni appariscano
belle, a giudicarle dalle loro folte e lunghe barboline. Se non si trat-
tasse che di trapiantarle a poca distanza dal vivaio, certo si avreb-
bero molto minori inconvenienti; ma dovendosi quasi sempre farle
viaggiare in ferrovia o con altro mezzo, diventano affatto inaccetta-
b;li. Più la barbatella sta nel vivaio, e più naturalmente soffre poi per
lo sradicamento ed il trasporto a dimora. Diremo anzi di più: la vite
che si pianta con talee o barbatelle acquistate lontano dal podere
cresce tanto più robusta quanto più giovane è il legno da cui pro-
viene: per questo la talea, che è un rametto dell'annata, occupa il
primo posto; la barbatella di un anno il secondo, quella di quattro
l'ultimo.
Il compianto Guyot nel suo notissimo libro stampò che la miglior
barbatella è quella di due anni di vivaio (1): ciò sta benissimo nel
caso in, cui il vivaio sia nel podere stesso ove si impianta il vigneto,
od almeno nelle sue vicinanze: in caso di trasporto non lo crediamo,
perchè molti fatti ci hanno provato il contrario.
(1) Le meilleur plani est celai de deux ans de pepinière, pag-. 123.
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 28
418 CAPITOLO X
D'altronde più la barbatella è attempata e più soffre per lo sra-
dicamento (a parte quanto può soffrire durante il trasporto). Guyot
dice che quella di un anno ha le radici troppo tenere, mentre in
quella di due esse sonosi fatte più legnose e robuste; e ciò è veris-
simo. Ma le mutilazioni, che sono conseguenza inevitabile del trapian-
tamene, tornano sempre più gravi e dannose alla barbatella più
vecchia, perchè ha le radici più lunghe; è noto che in qualsiasi tra-
piantamene d' alberetti da frutta dal vivaio a dimora, le radici più
lunghe sopportano più diffìcilmente gli spostamenti.
Ma sentiamo anche il parere di altri viticultori. Il sig. F. Ceresa da
Piacenza faceva anni sono una prova di confronto, dopo la quale ci
scriveva quanto segue: « Per quanto riguarda la preferenza da ac-
cordarsi alla barbatella di un anno, ella ha pienamente ragione. Nes-
suno più di me può esserne convinto, poiché feci un esperimento ad
hoc e su scala abbastanza vasta per sottrarmi possibilmente alle il-
lusioni dei piccoli esperimenti. Il successo a favore delle barbatelle
di un solo anno a confronto di quelle di due e di tre anni fu evi-
dente, brillante, incontestabile. Debbo però ad onor del vero dichia-
rare che tutti gli inconvenienti da lei accennati s' erano verificati:
lontano trasporto, guasto alle radicelle per le difficoltà grandi dello
sradicamento delle barbatelle di più d'un anno e via dicendo. »
La nostra conclusione è adunque questa: la vite che si pianta con
talee e barbatelle acquistate lontano dal podere cresce tanto più ro-
busta quanto più giovane è il legno da cui proviene: ripeteremo
dunque che la talea, che è un rametto dell'annata, occupa il primo
posto; la barbatalla di un anno il secondo; quella di tre o peggio di
quattro, l'ultimo.
§ 8. Scelta dei vitigni a seconda del clima, del terreno,
della situazione e delle esigenze del mercato. — Allorquando
il viticultore si accinge all' impianto d' un vigneto, si trova dinnanzi
ad un serio problema, la scelta cioè del vitigno, o dei vitigni, se egli
è partigiano della promiscuità delle varietà: spesso però egli risolve il
suo dubbio o badando solo all'essenza del vitigno nella credenza che il
buon vino dipenda esclusivamente da essa, oppure considerando soltanto
le condizioni locali di clima, di terreno e di situazione, o le condizioni del
mercato, cioè la predominante ricerca d'un dato vino. È evidente in-
vece che, per quanto si può, debbonsi considerare tutti quanti questi
fattori, subordinando ai medesimi la scelta del vitigno; anzi oggi con-
FORMAZIONE DEL VIGNETO 419
verrebbe tener eziandio calcolo d' un altro elemento, vale a dire la
resistenza di un dato vitigno alle malattie dominanti (crittogame, in-
setti). Bastano queste poche parole per dimostrare quanto sia ardua
e dilicata la scelta del vitigno.
Tuttavia vediamo di esaminare il problema più da vicino. Ed an-
zitutto, è egli rigorosamente vero l'aforisma del Boti. Guyot: « Le
genie chi vin est cians le cépage? » 0 non fu forse più esatto il nostro
Marchese Ridai fi (1) quando disse che « il buon vino lo fanno prima
la terra, il sole e la qualità dei vitigni, poi la buona cultura e la
diligente vendemmia; e finalmente la regolare vinificazione diretta
allo scopo di non sciupare con arte assurda il prodotto della na-
tura? » Noi ci accostiamo al concetto dell'illustre agronomo toscano,
e già ne dicemmo le ragioni in una nota stampata a pag. 491 del nostro
Giornale Vinicolo Italiano del 1875. Non vi ha dubbio che il genio
del vino non risiede soltanto nel vitigno, e ben disse il Conte Oclart,
l'illustre ampelografo francese, che la varietà del vizzato ed il suolo
intervengono per una somma di influenze a poco presso eguali nella
qualità delle uve e per conseguenza del vino prodotto. Il non meno
valente Barone Mendola nel 1877 ci scriveva (2):
« Ogni vitigno ha un'area propria ed in questa area tiene un
centro di predilezione. Così il Cabernet ha il suo centro nel Bor-
dolese, il Nebbiolo nel Piemonte, il Pinot nella Borgogna e nella
Sciampagna, il Catarratto e Y Insolia in Sicilia, il Furmint in Un-
gheria, la Malvasia in Grecia, il Moscato in Sicilia e nell'Arcipelago
greco ecc. ecc. È vietato all'uomo invertire o contraddire a queste leggi
di natura. Se coltivate il Furmint a Bordeaux non avrete mai del buon
Tokai come quello fabbricato nell'Hegy Allin; se coltivate del
Cabernet neh' Ungheria, non avrete mai del genuino e fresco
Chdteau-La Fitte o Chàteau-La Rose. I vitigni levati dal centro
del loro massimo favore, perdono tutta o molta parte della loro
virtù enantica per la diversificata azione della forza esogena.
L' unico tentativo per avere vitigni ereditieri delle virtù e qualità
avite ed allo stesso tempo accomodati e riuscenti bene nella regione
dove si devono coltivare e vendemmiare, sta nella seminagione. Essa
sola può porgere soggetti proporzionati organicamente e quasi assue-
fatti ex visceribus, al terreno e clima di nascita. »
(1) Lezioni orali, la ediz., voi. II, pag. 277.
[2) Utilità della seminagione della vite. — Giornale Vinicolo I/aliano 1877, p. 232.
420 CAPITOLO X
Conosciamo da vicino molti tentativi fatti per introdurre in Italia
vitigni francesi, tedeschi ed ungheresi; ma dobbiamo confessare che
i prodotti ottenuti, salve poche eccezioni, sono assolutamente molto
lontani da quelli che l'essenza del vitigno importato avrebbe fatto spe-
rare. Noi stessi che coltiviamo Nebiolo, Sangiovese, Alicante, Pinot,
Cabernet ecc. in Monferrato (al Cardello presso Casalmonfer-
rato) abbiamo la prova evidente che il genio del vino non sta sol-
tanto nel vitigno: d'altronde quasi non vi ha viticultore che non sia
in grado di citare qualche fatto a conferma di quanto diciamo.
Converrà dunque prima di scegliere il vitigno, vedere sino a che
punto esso possa accomodarsi al terreno, al clima ed alla situazione
del futuro vigneto, e se inoltre il prodotto sarà poi tale da soddi-
sfare alle esigenze del mercato. Per esempio, se il viticultore volesse
piantare il suo vigneto a Dolcetto — che dà vino assai pregevole —
in terreno argilloso e tenace, ed in locale molto caldo ed arido,
mentre poi il mercato locale chiede di preferenza vini di molto corpo,
commetterebbe un errore, perchè non avrebbe tenuto calcolo che il
Dolcetto riesce bene soltanto nei terreni sciolti, in situazioni a dolce
calore, temperato da una conveniente umidità, mentre produce usual-
mente vini eccellenti ma di non molto corpo, quali sono invece quelli
ad esempio del basso Monferrato. Che se poi volesse coltivare il
Dolcetto in luoghi molto elevati, non ne avrebbe un vino troppo
pregevole; e simili esempii si potrebbero moltiplicare d'assai, perchè
ogni vitigno ha le sue esigenze speciali e dà speciali prodotti a se-
conda del locale ove cresce.
Abbiamo accennato all'influenza che deve necessariamente eserci-
tare sulla scelta dei vitigni, la domanda dei mercato vinicolo, il de-
sideratimi cioè del commercio; il viticultore previdente deve infatti
considerare sia il mercato locale, sia quello generale, per aprire un
sicuro, proficuo e costante spaccio ai suoi prodotti, questo essendo il
suo scopo ultimo.
Lasciamo da parte qui i dilettanti di viticultura, che amano avere
nel loro vigneto parecchie dozzine di varietà, e produrre pochi et-
tolitri di parecchi vini speciali; noi parliamo essenzialmente dei viticul-
tari che hanno bisogno di far fruttare quanto più è possibile le loro
terre vitate. Or bene costoro debbono riflettere che attualmente
sono sovratutto ricercati in Italia — e ciò tanto dai consumatori ita-
liani che dai forestieri, specie dai Francesi — due grandi tipi di vino:
1°) i Vini da pasto rossi: 2°) i Vini da taglio.
FORMAZIONE DEL VIGNETO 421
Intanto il viticultare si tracci la sua via basandosi sovra questi
due criterii, cioè veda se nelle sue condizioni di suolo, di clima e
di vitigno meglio gli convenga produrre vini da pasto rossi, oppure
vini da taglio. Se i suoi vigneti sono un mosaico di molte varietà
— quasi sempre varietà che producono poco, oppure producono
molt'uva, ma non atta alle fabbricazioni suddette — allora li riformi
e si attenga solo ai pochi ceppi meglio rispondenti al suo scopo. Gli
è ciò che i più zelanti vanno ora facendo e con molta sollecitudine.
Le uve bianche, che abbondano in certe località, dovranno forse
essere in gran parte abbandonate e solo faremmo una eccezione per
quelle scelte, destinate alla fabbricazione di vini speciali, già rinomati.
Le uve rosse aromatiche a lor volta debbono quasi tutte scom-
parire; alcune danno vini che godono d'un certo credito e che hanno
una piccola clientela, massime in paese; ma nessuno certo oserebbe
sostenere che la loro coltivazione abbia un avvenire commerciale.
Il novantanove per cento dei consumatori italiani, e tutti poi i con-
sumatori francesi, di vini rossi da pasto profumati all' aleatico, alla
malvasia,, al brachetto ecc. non ne vogliono sapere in modo asso-
luto; quindi quella produzione sarà sempre circoscritta e Y esporta-
zione si limiterà a poche bottiglie preparate con molte cure, perchè
racchiudenti vini di lusso aromatici; e sin qui nulla può trovarsi a
ridire. Ma questi vini, ripetiamolo pure, non arricchiranno mai la
grande massa dei produttori, e ciò ci pare incontestabile.
Riassumendo quindi, il viticultare deve dare la preferenza a quei
vitigni, i quali o producono uve atte alla fabbricazione di vini rossi
da pasto, di alcoolicità conveniente e di gusto franco, senza aromi
speciali all'infuori della fragranza che possono acquistare invecchiando;
— oppure vini di molto corpo e colore, atti ai tagli, cioè a quei
miscugli che sono destinati a rendere bevibili i vini leggeri, quali
producono alcune terre italiane e molte francesi.
Senza voler dettare, a questo delicato proposito dei vitigni, regole
fisse, diremo che nell'Alta e Media Italia si trovano più a loro agio
quelli atti a dar vini rossi da pasto, comuni e scelti; mentre l'Italia
Meridionale conviene di più ai vini da concia. Però anche nell'Italia
Superiore si producono qua e là buoni vini da taglio, come nella
Inferiore si producono, nei luoghi elevati, ottimi vini da pasto. Il vi-
ticultare adunque si regoli a seconda delie speciali condizioni di ele-
vazione, di clima e di suolo in cui si trovano i suoi vigneti.
Riguardo all' impianto del vigneto con vitigni forestieri, dob-
422 CAPITOLO X
biamo notare due cose di non piccola importanza; la prima si è che
non sempre queste importazioni di varietà d'altri paesi riescono bene,
specialmente per le differenze di clima e di suolo, onde spesso si
ottengono prodotti poco pregevoli (1): la seconda, che nelle attuali
condizioni dell'invasione filìosserica in Europa, è prudenza astenersi
completamente dall'acquistare barbatelle e talee fuori di paese; non
bisogna scordare che se la fillossera è penetrata in Italia, in Ger-
mania, in Austria ed in altri paesi, ciò è avvenuto mercè la intro-
duzione di vitigni provenienti da regioni fìllosserate. Ripetiamo quindi:
che ognuno si faccia da sé il suo vivaio, propagando quelle varietà
locali che sono più ricche di pregi, e che non mancano si può dire
in nessuna provincia italiana. — Ma qualora non fosse proprio pos-
sibile attenersi a vigneti del luogo e si fosse costretti ad importare
nuove varietà per migliorare la produzione vinicola, si abbia almeno
molta oculatezza nell'acquisto di tali varietà.
In quanto ai nomi dei vitigni più convenienti, chi legge ci con-
cederà che è cosa più che ardua lo indicarli qui in termini assoluti;
si debbono ancora fare al riguardo molte esperienze nei vigneti prima
di poter giungere a codesto. Però non crediamo di dare un cattivo con-
siglio invitando i viticultori a seguire — dove è possibile — 1' e-
sempio dei migliori coltivatori, i quali già si sono posti sulla buona
via, e che fortunatamente non mancano in ogni terra italiana. Un
po' d'esperienza su cui basarci ce l'abbiamo quindi.
E per esempio per l'Alta Italia — e forse per tutta l'Italia — si
trova molto conveniente di diffondere la coltivazione del Barbera,
che dà in copia eccellenti vini commerciabili, ricercati all' interno e
graditi anche ai Francesi. Nel Mezzodì ■ — e massime nelle Puglie —
molti si trovano contenti dell' impianto di nuovi vigneti d' uva di
Troia e Somarello nero (o Mondonico), ottimi pei vini da taglio.
Nella provincia di Bari, per esempio, in certi comuni vitiferi dove
sonovi vigneti con 35 o 40 varietà, le quali danno cattivi vini, si
vanno formando nuovi vigneti con le dette uve, e già varii viticultori
ne ricavano ottimi vini, che parecchi negozianti francesi contrattano
annualmente. Ed anche in Sicilia vi sono buoni esempii, sia per ciò
che ha tratto ai vini da pasto (vini di montagna), come pei vini
da concia {Terre forti, ecc.).
(1) Ad esempio noi stessi col rinomato Cabernet di Bordeaux non abbiamo mai
potuto ottenere un vino superiore.
FORMAZIONE DEL VIGNETO 423
La scelta del vitigno non pare adunque una difficoltà insormon-
tabile; bisogna quindi accingersi tosto all' opera, perchè ogni anno
che passa è un bel lucro di meno, o fors' anche una perdita per il
viticultore.
Al capitolo XXVI (Ampelog rafia) diremo di alcuni fra i princi-
pali vitigni, i quali converrebbe specialmente di diffondere in Italia.
CAPITOLO XI
Distanze delle viti
1. Cinque fattori che debbono regolare le distanze delle viti — § 2. Distanze
nei paesi meridionali, centrali e settentrionali d1 Italia — § 3. Le grandi di-
stanze fra le viti e la consociazione con altre piante — § 4. Dati numerici —
§ 5. Appendice. Le piccole distanze tra le viti e l'invasione fillosserica.
§ 1 . Cinque fattori che debbono regolare le distanze delle
viti. — Abbiamo serbato allo studio delle distanze delle viti uno
speciale capitolo, perchè da esse dipendono sia la maggiore o minore
fruttificazione, sia la longevità delle ceppaie; ed è quanto apparirà
chiaramente dalle considerazioni che seguono.
Già sappiamo, dietro lo studio che abbiamo fatto della fisiologia
della vite, che se la pianta non può costituirsi un ampio e robusto
sistema radicale deperisce prontamente e nel breve periodo della sua
esistenza dà meschini prodotti; or bene l'ampiezza e la robustezza del-
l'apparato assorbente sono proporzionali alla fertilità del terreno in cui
esso vive e si svolge. Ma è evidente che quando il terreno è molto
fertile o riccamente concimato può alimentare un numero maggiore
di piante che non quando è arido e scarsamente sovvenuto di in-
grassi; ed ecco che in conseguenza di ciò debbono variare le di-
stanze delle viti e dei filari.
Abbiamo pure visto, studiando la fisiologia della vite, che questa
pianta non può maturare i suoi frutti né vegetare normalmente
senza una adeguata quantità di umido; ravvicinando molto le cep-
paie diminuisce la quantità d'umido che può trovarsi a disposizione
DISTANZE DELLE VITI 425
d'ogni singola pianta, ed ecco che anche il clima deve influire a mo-
dificare le distanze delle viti.
Infine, se il viticultore non pone mente ai diversi fattori che re-
golano la maggiore o minor distanza fra le viti, corre il rischio
di raccogliere pochi frutti, anche con intermittenza nella fruttifica-
zione, e di avere il suo vigneto spossato e quasi vecchio a trentanni.
E questi fattori sono cinque: il clima, il suolo, il sistema di
potatura, il metodo di coltura e la varietà del vitigno.
Il clima ha una influenza che si può ben dire maggiore di quella
dello stesso suolo; nei climi sotto i quali la vite cresce rigogliosa
dall'aprile all'ottobre, se le ceppaie sono molto vicine le une alle
altre, si ha rigoglio e quasi diremmo pletora, ma non vera fecondità
(pag. 202) ond'è che i frutti sono scarsi. Inoltre se il clima è caldo
la vite si estenua facilmente, per difetto d'una conveniente quantità
d'acqua, e questo accade in ispecie nell'anno in cui porta molta uva;
l'anno susseguente le piante incominciano a deperire. Si ha intanto
una vera intermittenza nella fruttificazione che è facile a spiegarsi:
infatti se l'anno trascorre fresco d'estate e la vite non ha molta
uva, le gemme ascellari crescono bene, sono bene nutrite e 1' anno
dopo danno frutti; ma se in questo secondo anno il tempo corre
molto caldo ed asciutto, allora (siccome la pianta porta molta uva)
gli occhi ascellari sono assai meschinamente nutriti, e di certo l'anno
dopo danno assai poca uva, o non ne danno, cosa che noi osser-
vammo ripetute volte, possedendo viti nei dintorni di Ajaccio. Questa
intermittenza nella fruttificazione merita attento esame, perchè da
essa si può trarre qualche utile precetto. Oltre a ciò quelle viti,
quando hanno molta uva, si esauriscono, appunto per soddisfare
alle esigenze del frutto; d'altra parte le piante sono allora meschine
e soffrono molto i danni — che si possono dire annuali — del secco.
Tutto ciò cagiona nei detti vigneti un invecchiamento precoce del
ceppo: tant'è vero che ogni 12 anni circa si è costretti a rifare
quasi del tutto il piantamento mercè la propagginazione. Il prodotto
medio annuale non oltrepassa i 20 ettolitri ad ettare, il che è assai
poco.
Il suolo, come già abbiamo avvertito, ha pure la sua parte d'in-
fluenza sulle distanze. Noi non possiamo ammettere, con alcuni au-
tori, che nelle terre ingrate e magre si debba piantare un maggior
numero di viti. Quivi invece noi pensiamo, e lo mettiamo in pratica,
che se ne debbano coltivare di meno. Per esempio, se in terreni buoni
426 CAPITOLO XI
di regione calda, possiamo avere 6,750 piante per ettare (10 mila
metri quadrati), ponendo le piante a 0,98 e le file a 1,50, in ter-
reni magri basterebbero 3,795 piante, cioè i ceppi a 0,60 e le file
a metri 4,25. Nel primo caso supponendo che le radici scendano a
mezzo metro di profondità, ogni ceppo avrebbe circa tre quarti di
metro cubo di terra a sua disposizione; nel secondo caso, essendo
il suolo ingrato, ne avrebbe di più, cioè un metro ed un quarto.
E ci pare logico che quando il suolo è magro, ogni ceppo debba a-
verne a sua disposizione un buon metro cubo, cioè una maggior
quantità. Se così non è, accade che le piante, essendo fìtte ed es-
sendo mal nutrite, crescono molto mingherline, soffrono assai i danni
o del secco o dell'umido (secondo i climi) ed invecchiano presto,
oltre a dare durante la loro esistenza poca uva. Codesto lo sanno
benissimo coloro che, nell'Alta Italia, vollero piantare viti secondo il
vero sistema Guyot, cioè ad un metro in tutti i sensi, avendo cosi
ben diecimila piante ad ettare; molti furono costretti a diradare co-
testi piantamenti che, col nostro clima e col nostro suolo, sono irra-
zionali (1). Adunque la vite, per essere longeva e per produrre
abbondantemente, vuole essere tanto meno fitta quanto più è
sterile il terreno; il piantamento a brevi distanze richiede un
terreno fertile, oppure copiose concimazioni, e molto lavoro da
parte dell'uomo, non potendosi adoperare gli strumenti trascinati
dagli animali.
Il sistema di potatura esercita pure la sua azione sulle distanze,
e già ne abbiamo accennate di passaggio le ragioni. L'osservazione
di quanto accade nei vigneti italiani, da noi visitati, ci insegna che
quando si potano le viti a tralcio lungo e non a speroni ed il pian-
tamento è fìtto, le viti stesse deperiscono prontamente, tanto più
presto quanto più è magro il terreno e scarsamente concimato. Nei
nostri paesi meridionali assai caldi, colà dove le viti sono potate
corte e coltivate con cura, esse vi resistono bene ai calori estivi e
non vi invecchiano tanto precocemente.
Il metodo di coltura deve eziandìo tenersi a calcolo; infatti è
evidente che le viti molto fìtte richieggono la coltura a braccia, la
(1) Nel comune di San Giorgio (Monferrato) esiste una bella vigna alla Guyot,
ma a file distanti 4 metri, per cui in un ettare invece di 10,000 piante ve ne
sono soltanto 4105. La differenza è rilevante, e questa vigna produce circa 100
ettolitri di vino allattare, benché sia raramente concimata.
DISTANZE DELLE VITI 427
sola possibile d'altronde; richieggono inoltre cimature e scacchiature
accurate, per equilibrare i rami colle radici, zappature frequenti e
concimazioni razionali. Se adunque il viticultore può disporre di
molta mano d'opera ed è intelligente, cioè conosce bene le pratiche
viticole razionali, avvicini pure le piante, ma però, come diremo
meglio fra poco, a non più di lm,50 in tutti i sensi: — se invece è
povero e poco esperto, e vuole lavorare il suo vigneto col concorso
degli animali, tenga più distanti le file nonché le ceppale nei filari.
La varietà del vitigno deve infine tenersi essa pure in conto,
perchè è noto che vi sono vitigni i quali amano la potatura lunga,
altri la potatura corta; ond' è che converrà, a seconda dei casi, la-
sciare maggiori o minori distanze, per assecondare la varietà che si
coltiva nella sua tendenza naturale; cosa questa di non poca impor-
tanza per l'abbondanza del prodotto e la longevità della pianta.
Premesse queste considerazioni d' ordine generale, scendiamo .ai
particolari.
§ 2. Distanze nei paesi meridionali, centrali e settentrio-
nali d' Italia. — Le piccole distanze sono generalmente parlando
assai poco convenienti ai paesi meridionali, specialmente nei locali
aridi ed esposti a Sud. Eppure è stato detto che se il clima è caldo
e secco, non si sbaglia avvicinando i ceppi, perchè i tralci delle viti
ravvicinate difendono il terreno dai venti e dall'eccessivo ardore so-
lare; perciò il terreno si conserva più fresco, cioè meno facilmente
perde quel grado di umidità che è necessario per mantenere la ve-
getazione. Eppure in pratica le cose non stanno così; quel vigneto,
in clima caldo e se il terreno è discreto, mette con straordinario
rigoglio nei primi 7 od 8 anni; però avendo a sua disposizione un
piccolo cubo di terra, non solo non ha sufficiente nutrimento, ma
soffre per mancanza d' umido; poiché, quantunque il terreno perda
direttamente poco umido, essendo coperto, pure per 1' evaporazione
della rigogliosa pianta ne perde grandi quantità. Concludendo diremo,
che più è caldo il clima e magro il suolo, tanto maggiore deve
essere la distanza fra le ceppaie (1).
Potremmo citare numerosissimi esempii a conferma di questa tesi:
ci limiteremo ai più salienti. Già abbiamo accennato ai vigneti di
(1) Si noti, per esempio, che nelle regioni calde anche il frumento si semina
molto meno fitto che non nel Nord (100 litri circa ad ettare).
428 CAPITOLO XI
Ajaccio, nei quali le viti sono poste ad 1 metro in tutti i sensi in
clima molto caldo e secco; or bene la vite vi invecchia precocissi-
mamente ed ogni anno circa un quinto delle piante si riposa, cioè
non reca uva! — Il sig. Attilo Sani ci scriveva or sono alcuni anni,
che le sue viti nell'Agro Romano, poste a file distanti l,o,30 ed a 0,45
fra pianta e pianta, in terre ben soleggiate, magre e sciolte, non du-
rano più di quindici anni, ed 1[3 ogni anno è improduttivo.
Il valentissimo viticultore sig. Marès, tanto stimato nella Francia
meridionale, studiando il perchè in questa regione le viti si piantino a
non meno di 2 metri a 2m,50 in tutti i sensi, così da avere non più
di 4000 a 5000 piante per ettare, dice (1) che l'esperienza da tempi
remotissimi ha dimostrato come avvicinando le ceppaie per esempio ad
lm,25, non resistevano abbastanza alla siccità. « Allora esse non
possono più nutrire le loro uve e queste si disseccano, si scottano e
si sviluppano male; il vino risulta in piccola quantità e di qualità in-
feriore; invece allorquando le ceppaie sono più distanti, la massa
d'acqua che possono assorbire dal suolo per sovvenire alla evapo-
razione delle foglie e dei frutti essendo proporzionatamente più grande
per ognuna, esse soffrono meno. Un soverchio ravvicinamento delle
piante presenta inoltre l' inconveniente di non permettere altro che
la cultura a braccia, perchè i vitigni della regione sono molto vi-
gorosi e finiscono per formare ceppaie rigogliose i cui rami occu-
pano almeno un cerchio di 0m,50 di diametro; non resterebbe quindi
fra le ceppaie che uno spazio di 0m,75 per la manovra del cavallo
e dell'aratro, ciò che è assolutamente insufficiente. » E giustamente
soggiunge il Marès che « quando 1' annata è abbastanza piovosa,
perchè la siccità non si faccia sentire, ciò che però è raro, la vege-
tazione è tanto forte che i frutti si sviluppano male; ingrossano poco
e maturano a stento. »
Non vuole però, lo stesso viticultore, che si esageri nelle distanze:
— « un spazio troppo grande fra le viti ha V inconveniente di di-
minuire considerevolmente i prodotti; fino ad un certo limite questi
sembrano proporzionali al numero delle ceppaie, e questo limite è
precisamente quello di 4000 a 5000 piante per ettare. Nei terreni
buoni una distanza troppo grande favorisce lo sviluppo del legno e
del fogliame a detrimento dei frutti; accade allora che la maturità
dell'uva è ritardata e la qualità mediocre: certo però questo incon-
veniente non è a temersi là dove i terreni sono meno ricchi. »
(1) Op. cit. pag. 308.
DISTANZE DELLE VITI 429
Tuttavia in varii locali della Sicilia, degli Abruzzi, nelle piane Pu-
gliesi e dell' Italia meridionale in genere, noi troviamo le viti fitte,
non ostante il clima caldo; non è meno vero però che queste viti
hanno una vita media di soli 30 anni, ed abbiamo anzi accennato a
pag. 209 e 210 a vigneti dei nostri paesi del Sud che sono esausti
a 20 anni appunto perchè le ceppaie vi sono soverchiamente addos-
sate, se così possiamo esprimerci, le une alle altre. Ora per noi la
vita media d'un vigneto dovrebbe essere di 50 a 60 anni almeno,
anche nei detti paesi.
Non vogliamo però scordare di dire che, nelle accennate regioni ita-
liane, si hanno soventi volte terreni molto permeabili, spesso vulcanici,
nei quali le radici si spingono anche a 2 e 3 metri di profondità; per la
.qual cosa se loro difetta il terreno in quanto a superfìcie, hanno un
adequato compenso nella maggior profondità, ove possono trovare
quella quantità d'umido e di sostanze nutrienti che loro abbisogna;
è evidente che in queste condizioni le piante, resistendo meglio agli
ardori estivi, invecchiano meno precocemente.
Infine dobbiamo ancora notare, e lo diciamo ad onore di quei vi-
ticoltori, che la vite è da essi coltivata assai bene, generalmente par-
lando; la potatura secca è corta, la potatura verde è praticata con
giusta misura, il terreno è lavorato e concimato come si conviene,
onde le ceppaie, così trattate, non si estenuano tanto presto. Anche
Guyot, in simili condizioni di cultura, consiglia per la regione me-
ridionale di ravvicinare i ceppi, ponendoli in tutti i sensi a lm,20.
Nelle regioni centrali, ed in genere in quelle a clima mite, si
potranno ravvicinare alquanto i ceppi, sempre tenendo a calcolo i
cinque fattori di cui abbiamo parlato or' ora. Sono specialmente in
questa condizione i vigneti della Toscana, dell'Umbria, delle Marche,
degli alti colli degli Apennini, la Liguria e via dicendo; tuttavia non
converrà esagerare in cotale ravvicinamento, e già abbiamo accen-
nato a pag. 210 come in Toscana le viti fitte non vi durino oltre
ai 20 anni, siccome ci attestava il signor Severiano Ardinghi da
Siena (1), e che in Liguria si debbono rinnovare i vigneti ogni 15 anni
circa, fatte le debite eccezioni per quelli dei viticultori intelligenti.
Nelle regioni più settentrionali, come nell'Alta Italia, se si possono
(1) Il sig. Ardinghi non si trova troppo contento delle sue antiche viti a m. 2
da fila a fila e 1,50 da pianta a pianta; le nuove piantagioni egli le fa a 3 metri
tra fila e fila e 1,30 fra le piante.
430 CAPITOLO XI
adottare piccole distanze in circostanze speciali, è però vero che ge-
neralmente non si deve abusarne; ne possono far fede i non pochi
viticultori che, presi da eccessivo entusiasmo pel sistema Guyot
puro, piantarono vigneti ad 1 metro fra le piante in tutti i sensi,
così da avere ben 10 mila ceppaie ad ettare. Molti ne conosciamo
che dovettero svellere metà delle ceppaie per raddoppiare il cubo di
terra a disposizione d'ogni pianta, non volendo rassegnarsi a mediocri
raccolti ed a gravi spese di coltura a braccia. Diremo, studiando i
varii sistemi di cultura, delle eccezioni che vi si riscontrano e del
perchè vi siano; ma in generale sta fermo quanto qui diciamo.
I vigneti a piantagione molto fitta richiedono frequenti concima-
zioni per sopperire ai bisogni di tante piante, e questo, coni' è na-
turale, specialmente nelle terre sfruttate o magre per natura: con-
viene inoltre lavorarle di frequente per impedire un soverchio asciu-
gamento del terreno, perchè è noto che il terreno smosso perde
meno facilmente l'umido che contiene. Inoltre le piante non possono
mai, in simili piantamenti farsi molto robuste, e ciò torna a scapito
del prodotto.
Ove il terreno fosse molto ferace, si avrebbe, in simili condi-
zioni di piantamento, una soverchia vegetazione fogliacea che ingom-
brerebbe tutto il vigneto rendendolo quasi impraticabile e certo poco
fruttifero; sarebbero quindi indispensabili non solo le scacchiature ma
le cimature, onde altre spese di mano d' opera. L' esperienza ci ha
dimostrato che in queste buone condizioni di terreno si debbono al-
lontanare i filari a circa 3 m. come noi facciamo sui colli di Ca-
salmonferrato, e potare la vite più ricca; con questo sistema si ha
più uva e la vite è più longeva (pag. 180).
§ 3. Le grandi distanze fra le viti e la consociazione
con altre piante. — in molti locali dell'Italia superiore le distanze
fra i filari delle viti sono superiori ai 10 metri, e noi stessi ab-
biamo visto talvolta interfìlari di 20 metri, come accade usual-
mente nelle così dette alberate (v. capitolo XXIV). In questi enormi
interfìlari si coltivano il frumento, l'avana, la veccia, i fagioli, i ceci,
le patate e via dicendo: diremo a suo luogo (cap. XXIII) fino a qual
punto sia tollerabile simile consociazione di culture colla vite. Qui
vogliamo solo far osservare che, nonostante queste grandi distanze,
se non si provvede il vigneto del necessario concime, la vigna oltre
a produrre poco ed a divenire una coltivazione di piccolo reddito,
DISTANZE DELLE VITI 431
(anzi passiva là dove la mano d'opera è cara) intristisce relativamente
presto, perchè ogni anno viene a soffrire a cagione della vicinanza
di dette piante.
Che le piante erbose coltivate neh1' interfilare siano molto nocive
alla vite, è noto a tutti coloro che si sono occupati con amore e
scienza della coltura della vite stessa; qualcuno vi ha che non lo ammette,
ma ciò è la conseguenza del non saper osservare bene i fatti che si
verificano anche quotidianamente sotto ai proprii occhi. Il Dr. Guyot,
della cui competenza niuno vi ha che possa dubitare, dalle sue nu-
merosissime escursioni a traverso tutti quanti i dipartimenti vitiferi
francesi, ha tratto la conclusione che « la vicinanza delle cereali e
dei foraggi verdi fa abortire i fiori della vite, mentre il tappeto di
verdura e le radici. arrecano un danno incredibile al sistema radicale
della vite; questa pianta vuole una terra che sia nuda alla super-
ficie (1) » — « L' osservazione mi ha dimostrato dappertutto che
le erbe le quali ricoprono il suolo in cui la vite distende le sue ra-
dici, le cagionano un danno che nessun concime può compensare »
ed accennando alle vignes en haies a filari distanti sino ad 8 metri
con colture di cereali e foraggi nell' interfilare, quali usansi nella
Dordogna, soggiunge che « se si avvicinassero i ceppi a lm,30 o
lm,50 e le file a lm,50 o 2m , si quadruplicherebbe la produzione dei
frutti, la produzione del legno e la durata della vite, la quale in-
vece di venticinque anni vi durerebbe cento, e sempre fertile (2) ».
Coloro quindi i quali, nonostante tutto ciò, credono di dover per-
sistere a tenere i vigneti con grandi interfìlari e con colture intercalari,
provvedano coi concimi e coi lavori a compensare almeno in parte,
se possibile, le piante del danno che queste colture stesse loro ar-
recano.
§ 4. Dati numerici. — Dopo tutte queste considerazioni d'or-
dine generale stimiamo utile venire a qualche dato numerico sulle
distanze delle viti ed il numero delle piante ad ettare, a seconda del
predominio di uno o dell'altro dei fattori accennati al § 1. — Av-
vertiamo però che non intendiamo di dare ai numeri che seguono un
valore assoluto; essi possono bensì servire di norma al viticultore dub-
bioso nello stabilire le distanze de' suoi piantamenti, ma egli dovrà però
(1) Étude des vignobles de Franco toni. II, 714,
(2) Op. cit. toin. I, 51(J.
432
CAPITOLO XI
tener calcolo eziandio del sistema di potatura che intende di adottare
e delle possibilità o non di lavorare il vigneto cogli animali, del che
noi non abbiamo tenuto calcolo per amor di brevità. Per la stessa
ragione abbiamo limitato i nostri calcoli all' Italia settentrionale
ed alla meridionale; in quanto ai paesi centrali, gioverà prendere
una media dei dati che seguono.
l.° ITALIA SETTENTRIONALE.
Terreni fertili.
Modo di coltivazione
Vigneti ben coltivati .
Id. mediocremente coltiv.
Id. male coltivati
Distanza tra le file
metri
1,25
oppure m. 1,75
metri
1,75
99?
oppure m. z,zo
» » 2,75
metri 2,25
oppure m. 2,75
» » 3,25
Distanza
nelle file
0,88
0,03
0,49
0,84
0,65
0,53
0,98
0,80
0,65
Numero
di
piante per ettare
9000
6750
4500
Terreni di mediocre fertilità.
Vigneti ben coltivati . .
Id. mediocremente coltiv.
Id. male coltivati
metri
2,75
oppure m. 3,25
» » 3,75
metri 3,25
oppure m. 3,75
» » 4,25
metri 3,75
oppure m. 4,25
» » 4,75
0,53
0,44
0,40
0,59
0,53
0,45
0,80
0,68
0,62
6750
5060
3375
Terreni di cattiva qualità.
V ignoti ben coltivati . .
Id. mediocremente coltiv.
Id. male coltivati .
metri
4,25
oppure
ni.
4,75
»
»
5,25
metri
4,75
oppure
»
ni.
5,25
5,75
metri
5,25
oppure
»
m.
»
5,75
6,25
0,45
0,41
0,37
0,55
0,50
0,45
0,75
0,67
0,63
5060
3795
2530
DISTANZA DELLE VITI
433
2.° ITALIA MERIDIONALE (in locali molto caldi e aridi).
Terreni fertili.
Vigneti ben coltivati . .
Id. mediocremente coltiv.
ld. male coltivati . . . .
Vigneti ben coltivati .
Id. mediocremente coltiv.
ld. male coltivati
Terreni di mediocre fertilità.
| metri 2,25 m.
. < oppure m. 2,50
( » » 2,75
l metri 3 —
] oppure m. 3,25
( » » 3,75
( metri 4 —
. ] oppure m. 4,25
( » » 4,50
Terreni di cattiva qualità.
i metri 4,25 m.
. ■ oppure m. 4,50
' » » 4,75
i metri 4,50
] oppure m. 4,75
' » » 5 — -
i metri 5,25
. ; oppure m. 5,50
' » » 5,75
0,86
0,79
0,71
0,87
0,80
0,60
1 —
0,90
0,87
0,60
0,58
0,56
0,80
0,75
0,70
1 —
0,96
0,90
Modo di coltivazione
Distanza tra le file
Distanza
nelle file
Numero
di
piante per ettare
(
metri 1,50
m. 0.98
Vigneti ben coltivati . . .
oppure ni. 1,75
» » 2 —
» 0,84
» 0,74
6750
1
Id. mediocremente coltiv.
(
metri 1 ,75
oppure m. 2 —
» » 2,25
» 1,24
» 0,99
» 0,86
5060
Id. male coltivati -
metri 2 —
oppure m. 2,25
» » 2,50
» 1,49
» 1,35
» 1,20
3375
5060
3795
2530
3795
2846
1897
§ 5. Appendice. Le piccole distanze tra le viti e la in-
vasione fìllosserica. — Non vogliamo chiudere questo capitolo senza
dire qualche cosa sulla relazione che passa fra la distanza delle viti
e la maggiore o minore rapidità della invasione fìllosserica; ci pare
che di ciò debba pure tener calcolo il previdente viticultore, se è
- O. Ottavi, Trattato di Viticoltura, 29
434 CAPITOLO XI
vero, come da molti studiosi si asserisce, che la fillosseronosi non si
arresterà tanto presto e che forse nessun paese potrà col tempo an-
darne del tutto immune.
È un fatto notorio che là dove le viti sono molto vicine le une
alle altre, la fillossera si estende con spaventevole facilità; ne sono
una grande ed irrefutabile prova i dipartimenti francesi più danneg-
giati da questo vorace afide. Ed è naturale; perchè in simili condi-
zioni il vigneto diventa un tessuto non interrotto di radici, che per-
mette alle fillossere di estendersi e moltiplicarsi con grande facilità.
NeWHérault, per esempio, in un solo anno — il 1878 — la super-
ficie invasa, da ettari 57 mila divenne di 104 mila gettando un grande
allarme nell'Europa viticola; e notisi che si trattava di vigneti non
soltanto invasi, ma a dirittura distrutti. Ma nell'Hérault le viti sono
ad lm,50 in tutti i sensi.
Anche le piccole invasioni fillosseriche italiane stanno a provare
ciò che qui diciamo. Facciamo infatti un parallelo fra il circondario
di Riesi — a viticoltura intensiva — e la zona lombarda (Valma-
drera e Ci vate) a viticultura estensiva : troveremo differenze degne
di rimarco. Nell'agro riesino si contano in media 4500 ceppale per
ettare e la macchia fillosserica vi si dilata rapidamente e continua-
mente: e così mentre nel 1880 si avevano nella provincia di Calta -
nissetta 23 ettari infetti, se ne ebbero 43 nel 1881 e 94 nel 1882.
Invece in Lombardia, ove fra i filari intercedono grandi spazii di
terreno coltivato a granturco o altro, mentre a Valmadrera e Ci vate
nel 1879 vi erano 21 ettari infetti, nel 1880 si contavano, in vici-
nanza ed in dipendenza di questi, sole 5 are; nel 1881 sole 10 are;
nel 1882 sole are 3. Lo stesso accadde ad Agrate.
Ora, chi non vede che se a Riesi vi fossero non 4000 ma 10 mila
piante ad ettare, come nei già citati vigneti di Giuliano va (Teramo)
dell'onorando Senatore De Vincenzi, l'invasione si sarebbe estesa
con una rapidità anche maggiore? In simili casi come lottare contro
l'invasione stessa? Né il metodo distruttivo, nò il curativo sarebbero
utilmente applicabili e converrebbe affrettarsi a ripiantare specie ame-
ricane resistenti.
Diciamo questo non già per concludere che siano da adottarsi gli
interfilari-campi, se così possiamo chiamarli, di Valmadrera ed Agrate;
tutt' altro anzi! Ma perchè il viticultare rifletta che le vigne troppo
fitte oggi presentano un inconveniente di più, ed un grave inconve-
niente.
CAPITOLO XII
Concimazione dei vigneti.
§ 1. Si debbono concimare i vigneti? — § 2. Produzione del legno e produzione
del frutto: qualità o quantità? — § 3. Il letame di stalla e le viti — §4, Gli
escrementi umani e l'orina — § 5. Il guano — § 6. La pollina — § 7. Il
sangue e le carni — § 8. Lana, pellami, corna, crisalidi, panelli ecc. — § 9. I
soverscii e loro vantaggi — § 10. Utilizzazione degli avanzi delle viti —
§ 11. Giunchi, alghe, piante resinose ecc. — § \2. Calce, gesso, marna ecc.
— § 13. Terra vergine, terra bruciata e limo — § 14. I composti e loro grande
utilità — § 15. I sali, i perfosfati ed i concimi chimici — § 16. Le ceneri —
§ 17. I concimi antisettici e loro valore — § 18. Varii modi di adoperare i
concimi per le viti.
§ 1. Si debbono concimare i vigneti? — Accingendoci a
studiare la importantissima quistione della concimazione dei vigneti,
ci facciamo anzitutto la domanda se sia o non utile somministrare
loro ingrasso, e ciò perchè un antico adagio dice che la vite non
ha bisogno di concimi; questa massima è tuttodì scrupolosamente
seguita dalla maggior parte dei viticultori, ma con loro danno, es-
sendo pochi i casi in cui essa possa prendersi alla lettera. Infatti vi
sono vigneti che non hanno realmente bisogno di concime, o piut-
tosto vigneti i cui prodotti perderebbero le preziose qualità onde
vanno rinomati qualora si volesse spingerne la produzione a più alto
limite: con che però non intendiamo di dire che non vi siano vigneti
concimati i quali diano scelti vini, perchè ci accadrà anzi di citarne
parecchi in questo capitolo.
In generale però si può affermare che, dato un concime appro-
436 CAPITOLO XII
priato, nessun vigneto vi ha che non ne possa ritrarre un reale
vantaggio senza detrimento alcuno della qualità. E questo possiamo
affermare oggi, dietro i progressi della chimica agraria, la quale ha
richiamato l'attenzione dei viticultori sulla convenienza grande che
vi ha nell'usare i concimi minerali nei vigneti.
Non è molto difficile dimostrare che è un errore grossolano quello di
credere che la vite non abbisogna di concime; invero ciò equivarrebbe
a dire che la vite nulla prende al terreno, o che i suoi frutti, come
accade spesso dei suoi rami e delle sue foglie, sono ridonati al terreno
siccome avviene quando si sovescia una pianta. L'uva invece, e non
di rado anche i rami e le foglie, sono esportati dal podere, e con
essi si sottrae azoto, fosforo, calce e potassa al terreno. Né vale il
dire che le pioggie recano al terreno stesso ammoniaca, nonché po-
tassa e calce sotto forma di solfati; perchè 1' analisi chimica ha di-
mostrato che si tratta di quantità assai piccole, troppo piccole perchè
si possa tenerne calcolo: basti il dire che sovra 1 milione di chilo-
grammi d'acqua di pioggia soli 25 chilogrammi stanno a rappresen-
tare le materie solide (sali ammoniacali, solfati, cloruro ecc.): po-
niamo pure che un ettare di terreno riceva con questo mezzo 100
chilogrammi di cotali materie solubili, ognuno intende però che non
si può parlare di restituzione di fosfati, potassa, calce e azoto, se si
tien calcolo di quanto prende annualmente al terreno un vigneto di
un ettare di superfìcie. Dei fosfati, per quanto ne sappiamo, nessun
chimico ha mai trovato traccie nelle acque piovane, e quell'impor-
tante elemento che è la potassa (v. pag. 226) vi è contenuto in pro-
porzioni troppo tenui: infine secondo Barrai un ettare di terreno a
Parigi riceverebbe annualmente mediante le pioggie 63 chilogrammi
di acido azotico, 15 chilog. di ammoniaca, 31 chilog. di calce, 9 di
magnesia e 13 di cloro (1), vale a dire quantità assai piccole di
principii utili alle piante.
La vite dal canto suo prende ogni anno, per la formazione dei
suoi tralci, delle foglie, dei grappoli e del mosto, una certa quantità
di potassa, di calce, d'acido fosforico e di magnesia, come già dicevamo
a pag. 334, nonché di sostanze azotate, accennate a pag. 215 stu-
diando la chimica della vite. Anche la vite quindi esaurisce il suolo;
è però vero che questo esaurimento è lento, perchè questa pianta
(1) Nelle vicinanze dei mari le actjue piovane contengono relativamente molto
cloruro di sodio (sale marino),
CONCIMAZIONE DEI VIGNETI 437
potendo svolgere un ampio sistema radicale, massime nei terreni
sciolti o scassati, può approfittare, per la sua nutrizione; di un grande
cubo di terra. Ad ogni modo viene un momento in cui 1' aggiunta
di appropriato concime riesce assai vantaggiosa, ed è su questo che
vogliamo insistere; i molti fatti che citeremo nei paragrafi seguenti
lo dimostreranno in modo evidente; del resto anche gli antichi am-
mettevano questo esaurimento, e Teofrasto infatti raccomanda di
rinnovare la terra alle radici delle viti almeno ogni dieci anni.
§. 2. Produzione del legno e produzione del frutto: Qua-
lità o quantità ? — Abbiamo già detto a pag. 377 che il concime
pel vigneto deve variare secondochè si tratta di favorire la produ-
zione legnosa o quella dell' uva: infatti il legno e le foglie conten-
gono, se così possiamo dire, molto azoto e poca potassa, mentre il
frutto contiene molta potassa e poco azoto. Vuol dire adunque che
ogniqualvolta il viticultore si troverà nel caso di dover favorire la
produzione della parte legnosa (come sempre nei nuovi piantamene
o trattandosi di vigneti esausti) dovrà adoperare concimi azotati sul
tipo del letame di stalla o dei superfosfati ammoniacali; mentre vo-
lendo spingere la fruttificazione si varrà preferibilmente di ingrassi
potassici, sul tipo della cenere o dei superfosfati misti a cloruro di
potassa e sostanze calcari. È singolare che questi precetti, che la chi-
mica agraria ha sanzionato da non molti anni, sono pur essi antichissimi:
Magone Cartaginese e più tardi Columella (1) suggerivano il le-
tame misto alle vinaccie nelle buche dei nuovi piantamenti per
« chiamar fuori nuove barboline dalle radici », e molti scrittori an-
tichi consigliano la cenere per le viti adulte.
Ma vi è un limite nella somministrazione di ingrasso alla vite, che
non conviene oltrepassare, perchè allora la qualità sarebbe così poco
pregevole da non compensare la spesa fatta per la concimazione
stessa: vi sono vigneti pei quali la maggior convenienza risiede nella
produzione di uva scelta e di vini scelti anziché di molta uva e di
molto vino; altri invece — e questi sono i più — si prestano es-
senzialmente alla produzione dei vini usuali da pasto di grande con-
sumazione, ond' è che in essi può spingersi a più elevato limite la
produzione dell'uva e quindi l'uso dei concimi. Il signor Ladrey os-
(1) Agricoltura di Lucio G. M. Columella — volg\ di B. Del Bene, Milano,
1850. Voi. I, p. 166.
438 CAPITOLO XII
serva (1) che « in Borgogna i vigneti meglio favoriti non danno
più che un prodotto mediocre dal momento in cui furono concimati
nella stessa maniera dei vigneti comuni » e noi lo crediamo perchè
ne abbiamo esempii anche in Italia: nel Basso Monferrato in quei
Comuni vitiferi ove si è spinta molto la produzione, la qualità non
è più quella dei tempi passati, ma il guadagno netto per ettare è
certamente maggiore, essendo i vini comuni i più ricercati.
Volendo spingere la quantità senza pregiudizio della qualità, è in-
dispensabile usare concimi minerali moderatamente azotati, cioè misti
a sostanze organiche od a sali ammoniacali e nitrici: volendosi tut-
tavia adoperare concimi azotati, si scelgano almeno quelli a lenta
decomposizione, acciocché non agiscano troppo energicamente, ma
sempre si avverta a mescolarli, non fosse altro, con terra, facendo
un composto. (Veggasi il § 14). Se invece si crederà più opportuno
di ottenere molta uva per fabbricare vini usuali, allora si potranno
adoperare concimi più potenti, come diremo qui appresso.
Ma, ci chiediamo, in generale è egli più conveniente mirare
alla qualità od alla quantità? Secondo alcuni agronomi, fra cui
il Prof. G. Cantoni (2), al colle converrà sempre mirare alla
qualità, mentre al piano può essere talora conveniente di produrre
molto non essendo sempre possibile avere la qualità. A provare la sua
tesi il Prof. Cantoni cita la seguente tabella presa ad enologi francesi:
VALORE
Quantità d'uva Prodotto
complesssivo
di un di
per ettaro
del prod.
ettolitro un, litro
Chg. 10,000 Ettol. 50
L. 3000
L. 60 Cent. 60
» 20,000 » 100
» 3000
» 30 » 30
» 40,000 » 200
» 3000
» 15 » 15
» 60,000 » 300
» 3000
» 10 » 10
Pongasi di vendere il vino
pel valore dell'alcool che contiene:
Varietà Prodotto
Valore Per 100
Valore
di uva per ettaro
del vino di alcool
al litro complessivo
Chasselas Ett. 250 a L. 10
L. 2500 2,5
a L. 1,20 L. 600
Gamay » 150 » 20
» 3000 6,0
a » 1,20 » 1080
Pineau » 75 » 50
» 3750 15,0
a » 1,20 » 1350
(1) Op. cit. p. 256.
(2) II vino; Conferenze: pag. 193.
CONCIMAZIONE DEI VIGNETI 439
« Dunque, conclude il Prof. Cantoni, la quantità ingombra, e la
qualità rende di più anche quando si dovesse vendere il vino sol-
tanto per l'alcool che contiene. »
Senonchè, a nostro avviso, bisogna distinguere fra quantità e
quantità; si possono produrre 100 ettolitri di vino ad ettare ed avere
pur tuttavia un prodotto di buona qualità, del valore commerciale di
40 lire l'ettolitro, che è il prezzo medio de) vino usuale che l'Italia
vende all'estero; ora ciò è preferibile al produrre soli 50 ettolitri di
vino migliore, ad esempio da L. 60; poiché si avrebbe:
100 ettol. a L. 40 . . . L brutte 4000
50 » a L. 60 . . . id. 3000
E questo senza tener conto della assai maggiore facilità che si trova
nell'esitare i 100 ettol. di vino comune a petto dei 50 di vino scelto:
di questa agevolezza nel vendere, tutti i nostri viticultori debbono
oramai aver riconosciuto l'importanza; ed è per questo che tanto si
diffonde in paese la produzione dei vini di grande consumazione, a
simiglianza di quanto accade in Spagna, in Austria, in Ungheria e
nella stessa Francia.
Ma quando la produzione raggiunge certi limiti elevatissimi, per e-
sempio i 300 ettolitri dei vini da bruciare (distillare) che si ottenevano
nell'Hérault prima della fillossera, allora stanno i calcoli del Prof. Can-
toni; tanta quantità ingombra realmente: se essa costa tanto poco al
viticultore (1) da poterla vendere in ragione di L. 5 l'ettol. o poco
più, allora la distilleria ne trae suo prò, fabbricando un eccellente
spirito di vino; ma in caso diverso la vendita riesce difficilissima, ed
è anche più diffìcile la buona conservazione d'un vino così povero di
alcool.
Concluderemo infine dicendo, col sig. Marès, che « allorquando si
tratterà di produrre dei vini comuni da consumarsi nel primo od al
più nel secondo anno, ed ai quali si chieggono piuttosto proprietà
igieniche alimentatrici e fortificanti che non finezza di profumo, sarà
sempre conveniente usare concimi adattati, perchè col loro uso mo-
derato si spingerà la quantità ad un limite relativamente elevato
senza nuocere molto alla qualità. » — Spesso si riuscirà a duplicare il
prodotto dell'uva, con grande beneficio del coltivatore, che potrà smer-
(1) Nell'Hérault si produceva allora il vino a circa L. 4 l'ettolitro.
440 CAPITOLO XII
ciare più facilmente il suo vino a prezzi moderati, e dei consuma-
tori che troveranno a loro disposizione vino sano a prezzi conve-
nienti: ma questi risultati non si possono guari ottenere senza il
soccorso del concime.
§ 3. Il letame di stalla e le- viti. — In alcuni paesi viticoli
si ritiene fermamente che il miglior concime per le viti sia lo stal-
latico; in altri si rifugge nel modo più assoluto dall'adoperare questo
ingrasso nei vigneti; in altri ancora lo si usa solamente mescolato con
sostanze minerali. Ora, qual' è fra tutti questi sistemi il più razio-
nale?
Non si può rispondere a questa domanda senza fare alcune distin-
zioni; per esempio se il terreno è magro, se è compatto e se le viti
sono meschine, una buona letaminazione seguita da una vangatura
a 20 centimetri per sotterrare il concime, gioverà molto a far svi-
luppare convenevolmente la parte legnosa e fogliacea delle viti, senza
di cui non è possibile la fruttificazione. Se invece il terreno sarà fer-
tile per natura e pure si letaminerà, le uve riesciranno di qualità
scadente e di facile putrefazione alle prime pioggie del settembre,
ed il vino aspro e poco alcoolico, come abbiamo visto spesso a ve-
rificarsi in alcuni locali del Basso Monferrato ove i vigneti si con-
cimano con letame ogni biennio. In quanto all'uso del letame misto
a sostanze minerali, lo crediamo quasi sempre proficuo, ripetendo però
la concimazione soltanto ogni due o tre anni, a seconda delle con-
dizioni fisico-chimiche del terreno.
In generale però nei vigneti che producono vini rinomati per la
loro finezza, non sarebbe conveniente la concimazione col letame; è
bensì vero però che si hanno talune eccezioni, ma è anche vero che
in simili casi non si adopera mai il letame solo. Per esempio nel-
l'Ermitage vi si uniscono sostanze minerali, e sulle rive del Reno
si fanno dei composti di letame e terra basaltica (1), coi quali si
concimano i vigneti ogni due anni nell'interfilarc, spendendovi circa
400 lire per ettare nel solo concime (100 metri cubi ad ettare).'
E noto che vi sono varie specie di letame; pei vigneti esse non hanno
, tutte lo stesso valore. Il letame di vacca essendo meno attivo degli
(1) Vi si uniscono anche cenere, graspi e urina. Questa terra basaltica, siccome
proveniente da roccie basaltiche, ò ricca di silice, calce e ferro ma povera di po-
tassa; essa agisce quindi piuttosto fisicamente dando porosità al terreno del vigneto.
CONCIMAZIONE DEI VIGNETI 441
altri e più ricco di potassa, è il preferibile specialmente nei terreni
leggeri e sciolti ove la sua azione può durare più di quanto non
durerebbe quella del letame di cavallo o di montone. Questi stal-
latici sono invece raccomandabili pei terreni argillosi e forti; il le-
tame degli ovini è specialmente raccomandabile perchè ha un'azione
fertilizzante che dura non meno di tre anni, e perchè favorisce molto
la fruttificazione, come si è osservato nella Francia meridionale ove
abbondano gli animali da lana.
L'urina è molto eccitante e non conviene mai adoperarla da sola
nei vigneti; si debbono sempre fare dei composti (§ 14) che, innaf-
fiati con essa, riescono ottimi.
Veniamo ora alla dose del letame. Già abbiamo accennato in ge-
nere alle condizioni nelle quali si potrà spingere alquanto la quantità
dello stallatico; anzitutto devono tenersi a calcolo la feracità natu-
rale od acquisita del terreno ed i prodotti che si vogliono ottenere.
Nelle nostre vigne italiane — parlando in generale — si potrebbero
adottare le dosi seguenti:
Per ettare di vigneto specializzato
(circa 4000 piante ad ettare)
Nelle terre ottime miriagrammi 300 ogni biennio
» buone .» 500 »
» mediocri » 1000 »
» cattive » 1500 »
Ripetiamo però che sarà sempre molto preferibile di mescolare il
letame a terra, cenere, vinaccie ecc. riducendo quindi anche di metà
le dosi qui sopra indicate. Attribuendo intanto al letame il valore
di L. 10 la tonnellata avremo per dette concimazioni:
Nelle terre ottime L. 30 per ettare ad ogni biennio
» buone » 50 » »
» mediocri » 100 » »
» cattive » 150 » »
A titolo di confronto diremo che nella Francia meridionale si ado*
perano ogni tre anni nei terreni buoni 2200 miriagrammi di letame
di stalla ordinario per ettare (4400 piante) cioè 5 chilogrammi per
ceppaia; alcuni ne adoperano ben 4000 miriagrammi (1), e certo allora
(1) H. Marès op. cit. pag. 328.
442 CAPITOLO XII
ottengonsi prodotti assai elevati, ma si hanno soltanto vini da di-
stillare.
Nell'opera del Dr. Guyot (1) si legge questo precetto dell'emi-
nente scrittore francese: « Nelle terre più ingrate, per mantenere il
vigneto in buona produzione basta un chilogramma di letame di
stalla per metro quadrato e per anno se vi sono 10 mila ceppaie
ad ettare — 2[3 di chilogramma per m. q. se vi sono 5 mila cep-
paie, ed 1[3 se vi sono 2500 ceppaie. Questa letaminazione deve
farsi ogni tre anni, e per conseguenza a triplici razioni di 30,000,
20,000 e 10,000 chilogrammi per ettare; è una spesa di 450, 300
e 150 lire da dividersi per tre, mentre usando la terra vergine si
spendono sole 50 lire all'anno ». Da questo precetto appare che il
Dr. Guyot nel suo lungo viaggio in Francia ha egli pure toccato
con mano i vantaggi della terra vergine nella concimazione dei vi-
gneti, come diremo meglio al § 13. In quanto alle dosi di letame
che il Guyot consiglia, noi le riteniamo assolutamente eccessive,
(tanto più che egli non fa cenno di composti) e perciò sempre dan-
nose alla qualità del prodotto e spesso anche alla quantità. Provo-
cando mercè tanto concime un soverchio sviluppo legnoso, diminuisce
senza dubbio la produzione del frutto; si ha rigoglio, ma non fe-
condità.
Ma l'uso esclusivo dello stallatico presenta un altro inconveniente,
dovuto a ciò che questo concime è male equilibrato, ond' è che vo-
lendo restituire al terreno, con tutto 1' azoto esportato coi raccolti,
anche tutto l'acido fosforico e tutta la potassa colla calce, conver-
rebbe adoperarlo a dosi esorbitanti; ma in questo caso si introdur-
rebbe nel terreno un eccedente di acido fosforico, di potassa e di
calce, che andrebbe a costituire un capitale infruttifero messo nel
suolo senza vantaggio alcuno.
Vediamo come ciò accade: — supponendo un vigneto costituito
da 5000 piante e della superficie di un ettare, la esportazione (me-
diante l'uva e le parti erbacee e legnose) dell'azoto, della potassa,
della calce e dell' acido fosforico sarebbe ogni anno la seguente,
prendendo una media di molte analisi e supponendo un prodotto di
50 ettolitri di vino:
(1) Elude des vignobles de Francc voi. Ili, G3G.
CONCIMAZIONE DEI VIGNETI 443
da un ettare
Azoto chilogr. 10
Potassa . . . . » 45 (1)
Calce » 25
Acido fosforico ... » 15
Ora supponiamo che il viticultore adoperi, nel suddetto vigneto,
esclusivamente del letame di stalla; questo concime ha la seguente
composizione media:
Azoto chilog. 0,41 \ per ogni 100 chili di
Potassa » 0,51 ( peso brutto (79,30
Calce » 0,57 ( rappresenterebbero
Acido fosforico . . » 0,20 ] l' acqua).
Se il viticultore volesse con questo stallatico restituire al suolo del
suo vigneto tutto V azoto esportato coi 50 ettolitri di vino suddetti
nonché col legname e fogliame, dovrebbe naturalmente adoperarne,
ogni anno, 'kg. 2439, perchè in questa quantità si contengono i
10 kg. d'azoto esportati dai prodotti del vigneto. Ma chilog. 2439 di
stallatico contengono soltanto chilog. 12,43 di potassa, laddove la
quantità esportata annualmente ammonta a chilog. 45; — inoltre
chilog. 2439 di letame contengono soltanto chilog. 13,80 di calce,
mentre se ne esportano ogni anno chilog. 25, e soli chilog. 4,87 di
acido fosforico, quando invece la vite ne ha consumati 15. È quindi
naturale che bisognerebbe adoperare una maggior quantità di stal-
latico. — Ora supponiamo che la dose si aumenti in modo da re-
stituire al terreno tutti i 45 chilog. di potassa: siccome 100 chilog.
di letame ne contengono 0,51, così ne occorrerebbero nientemeno
che 8823 chilog. ogni anno: ma allora il viticultore cadrebbe in un
altro inconveniente, qrìello, come dicevamo più sopra, di introdurre
nel suolo un eccedente di azoto, d' acido fosforico e di potassa, il
che rappresenterebbe un capitale quasi infruttifero anticipato al ter-
reno. Infatti chilog. 8823 di stallatico contengono 36 chilog. di azoto,
mentre alla vite bastano 10; — 50 chilog. di calce, laddove baste-
(1) Boussingault dà quantità minori; ma egli studiò la produzione di un vi-
gneto che produceva soli 30 ettolitri di vino ad ettare.
444 CAPITOLO XII
rebbero 25; — e 17 chilogrammi d'acido fosforico, quando 15 sareb-
bero sufficienti. Riassumendo, in questo caso si avrebbe:
Azoto Potassa Calce Acido fosfor
Esportazione col prodotto 10 45 25 15
Restituzione col letame 36 45 50 17
Equilibrio ... — 45 — —
Eccedente di concimi 26 — 25 2
Avevamo quindi ragione di chiamare il letame un concime male
equilibrato, come già lo dissero altri; per equilibrarlo non vi ha mezzo
migliore della mescolanza coi concimi minerali ricchi di potassa, calce
e fosfati, cioè di farne dei composti.
§. 4. Gli escrementi umani e l'orina. — Gli escrementi u-
mani sono, come è noto, un eccellente concime, specialmente se
sparsi allo stato liquido; ma assolutamente non sono consigliabili pei
vigneti, qualora si volessero adoperare da soli, come si fa sui campi
e sui prati. Riesciranno invece assai utili mescolati a sostanze mi-
nerali, cioè nei composti di terra, gesso o calce, cenere ed avanzi
in genere del podere. Questi composti di escrementi umani possono
poi spargersi alla dose di 50, 100 ed anche 200 quintali per ettare,
più o meno a seconda delle condizioni in cui si trova il vigneto.
Cogli escrementi umani da soli si ottiene un vino di qualità molto
scadente, ma anche valendosi dei composti non si deve abusare nella
quantità di questo cessino, perchè taluni pretendono che possa co-
municare all'uva un sapore men che grato:
Anche le urine, come già abbiamo detto, non si debbono adoperare
da sole nei vigneti, ma mescolate ad altre sostanze. Esse sono più rioche
in azoto del letame, o diremo meglio della parte solida del letame: in-
fatti 100 parti di stallatico cavallino secco contengono 2,21 di azoto,
mentre le urine ne contengono 12,50 pure allo stato secco. Di questa
ricchezza il viticultore deve tenere calcolo, perchè potrà trarne partito
per provocare nei vigneti indeboliti un forte sviluppo legnoso. Le urine
sono anche relativamente ricche in fosfati, onde si dovrà scrupolo-
samente evitarne la dispersione, perchè rappresentano un prezioso con-
cime anche per le viti: ma bisogna saperle preparare conveniente-
mente, non dovendosi mai usarle da sole.
CONCIMAZIONE DEI VIGNETI 445
Accade talvolta che si raccolgono le urine in apposite vasche per
conservarle; allora esse fermentano, o per meglio dire 1' urea si
trasforma in carbonato d'ammoniaca, che è volatilissimo: disperden-
dosi questo sale ammoniacale, le orine finiscono per diventare quasi
prive di azoto e perciò perdono in grande parte il loro pregio. Per
evitare questo disperdimento, si debbono aggiungere grammi 50 di
gesso per ogni 100 litri di urina, rimescolando spesso la massa per
facilitare lo scioglimento del gesso: gioverebbe pure una uguale dose
di solfato di ferro o di soda: questi solfati (il gesso è solfato di calce)
provocano la trasformazione del carbonato d' ammoniaca in solfato
d'ammoniaca, che non è volatile, e così si evita ogni perdita. Con
queste urine si bagneranno i composti, che poi si potranno adoperare
con molto vantaggio nei vigneti alle dosi indicate di 50, 100 od
anche 200 quintali per ettare, più o meno a seconda della natura
fisico- chimica del terreno.
§ 5. Il guano. — Questo concime si può dire che è noto a
tutti i coltivatori; anni sono, quando non erano ancora esauriti i fa-
mosi depositi delle isole Cianca, il guano costituiva un ingrasso po-
tentissimo, perchè conteneva la enorme quantità di 14 chilogr. d'a-
zoto su 100 di concime, col 20 0\q di fosfato di calce ed il 7 0\q
di sali alcalini. Ma oggi il guano ha peggiorato di molto, e ben lo
sanno i coltivatori: le migliori qualità è raro contengano il 7 0\q di
azoto, mentre se ne trovano in commercio enormi quantità a titolo
assai basso, spesso inferiore al 4 0[q per l'azoto. — Studiando questo
concime in quanto può venire usato pei vigneti, diremo che quello
molto azotato non è conveniente da solo, non soltanto per la soverchia
quantità d'azoto, ma per la sua povertà in potassa: è per questo
che si usa, dai più esperti, mescolarlo con cenere (v. § 16).
Mercè questa miscela il guano diventa un ottimo concime per i
vigneti, tanto più che non comunica nessun sapore speciale al-
l'uva.
Secondo noi la dose del guano — se è di buona qualità, cioè con
almeno il 5 0[q di azoto ed il 18 0[q di fosfato di calce — non
deve eccedere
grammi 100 per ceppaia nelle terre buone
» 200 » » mediocri
» 300 » » sterili
446 CAPITOLO XII
supponendo che si tratti di ceppaie normali e non di viti a pergolato,
perchè allora la dose vuol essere almeno doppia. Se poi si fosse me-
scolato il guano colla cenere o col cloruro di potassa, oppure col
solfato di potassa nella dose di 2[3 di guano ed 1[3 di sostanza al-
calina, allora le dosi potrebbero essere le seguenti, secondo le nostre
osservazioni:
grammi 150 per ceppaia nelle terre buone
» 250 » » mediocri
» 350 » » sterili
Ripetiamo che questa miscela è assolutamente da preferirsi all'im-
piego del guano da solo.
§ 6. La pollina. — La pollina e la colombina, cioè gli escre-
menti dei polli e dei colombi, ed i cacherelli in genere dei volatili,
costituiscono un concime potente per provocare la formazione della
parte legnosa della vite, ma non sono guari raccomandabili quando si
tratta di spingere la fruttificazione: è stato osservato che pel loro uso
non solo l'uva riesce poco pregevole, ed il vino troppo ricco di sostanze
azotate e però poco serbevole, ma che talvolta contrae eziandio un
sapore poco gradito. Il Conte Oudart è di questo avviso, e ne scon-
siglia l'uso. In ogni caso, chi volesse adoperare simili ingrassi, av-
verta a farli passare nei composti più volte accennati e di cui di-
remo fra poco in disteso; il loro mescuglio colla cenere è molto
lodato da qualche viticultore, e noi lo crediamo utile.
La colombina contiene in media dal 7 all' 8 0[Q di azoto ; tutti
questi escrementi dei volatili sono molto eccitanti e diremo brucianti,
per cui non si debbono mai mettere a diretto contatto delle radici
della vite. In generale convengono ai vigneti che si trovano in ter-
reni freddi e umidi; nei suoli secchi e sciolti sarebbero troppo ener-
gici. In nessun caso poi, a nostro avviso, se ne dovrebbe spargere
più di 10 quintali ad ettare di vigneto, e sempre coll'av vertenza di
mescolarli prima con altri 10 quintali, di cenere, o terra, o gesso,
o calce, e di adoperarli soltanto per la produzione di vini comuni.
§ 7. Il sangue e le carni. — È noto che il sangue è una
sostanza molto ricca di azoto; Payen e Boussing aidt hanno tro-
vato nel sangue dei macelli, 3 0[q di azoto e 81 0[q d' acqua; ma
CONCIMAZIONE DEI VIGNETI 447
quando il sangue è disseccato allora viene a contenere da 14 a 15
per 100 di azoto, cioè più del famoso guano di Cincha, oggi esau-
rito. Ciò premesso è evidente che non si potrà usarlo tale e quale
nei vigneti, perchè certo si provocherebbe uno sterile sfarzo di ve-
getazione, ed i prodotti sarebbero poco pregevoli e sovratutto poco
serbevoli.
È quindi indispensabile o innaffiare col sangue i composti, oppure
trattarlo colla calce viva, mettendo da otto a dieci chili di calce
per ogni 30 chili di sangue; si forma così una massa dura che si
polverizza e che si può adoperare nei vigneti, specialmente se si ha
bisogno di stimolare la vegetazione. Volendo però completare questo
ingrasso, bisognerebbe aggiungervi del superfosfato d'ossa e del clo-
ruro di potassa, mettendo
Sangue disseccato e mescolato con terra (50 0[q) quintali 6
Superfosfato ........ 2
Cloruro di potassa » 1
ed adoperando questi 9 quintali su un ettare di vigneto specializ-
zato, con 5000 piante in media. I risultati sarebbero ottimi.
È pericoloso adoperare il sangue da solo, specialmente se dovesse
venire a diretto contatto colle radici della vite. Infatti quando esso
si decompone nel terreno sviluppa un calore considerevole, ciò che
può nuocere molto alle radici stesse. Le prove fatte sulla canna da
zucchero lo confermano, ed è per questo che noi abbiamo consigliato
di mescolare il sangue, trattato colla calce, col 50 0[q di terra, pro-
curando di fare un mescuglio completo, che si spagerà poi nel vi-
gneto collocandolo in fossette scavate nell'interfìlare.
Le carni sono esse pure molto ricche di azoto; allo stato secco
contengono più del 12 0[Q di azoto, oltre al fosfato di calce. Perciò bi-
sogna farne dei composti con calce e terra, scavando buche abba-
stanza profonde per impedire il dissotterramento. Con 4 quintali
di carne si può fare un composto sufficiente per un ettare di vi-
gneto, mescolandoli però con 8 quintali di calce e 12 di terra vergine.
§. 8. Lana, pellami, corna, crisalidi, panelli, ecc. — I ri-
tagli di lana appartengono al novero dei concimi molto azotati;
infatti contengono dal 10 al 18 Ojq di azoto, e Foecc li dice anche
ricchi di acido fosforico. Essi costituiscono quindi un ottimo concime,
448 CAPITOLO XII
benché di lenta decomposizione: il loro uso nei vigneti è molto an-
tico, specialmente nella Francia meridionale, ove si impiegano alla
dose di 5 ettogrammi per ogni pianta, vale a dire (nell'Hérault) 22
quintali ad ettare vitato: il loro effetto dura talvolta anche sei anni.
Se ne raccomanda specialmente V uso nei terreni aridi, esposti alla
siccità e argillosi, perchè quivi agiscono anche fisicamente renden-
doli più soffici: è così che si fa in Provenza. Nei terreni sciolti e
sabbiosi la loro azione è però meno duratura, ma in compenso più
pronta. Per adoperarli bene è necessario dividerli con cura o trin-
ciarli e spargerli poi uniformemente nel vigneto, sotterrandoli a
20 centimetri di profondità colla vanga o coli' aratro: si possono
anche gettare nel succo del letame, oppure mescolarli al letame
stesso come faceva Dombasle (12 quintali di detriti e 36 quintali
di letame). Questo miscuglio sarebbe sufficiente per due ettari di
vigneto.
I pellami, cioè la rasatura delle pelli ed i ritagli di cuoio co-
stituiscono un concime di azione lentissima e perciò di poca efficacia;
il sig. Amelie Bei, che ne fece l'esperimento nei vigneti, trovò poca
differenza fra quelli così concimati e quelli non concimati del tutto.
I ritagli di cuoio contengono bensì il 9 0[q di azoto, cioè quanto la
colombina secca e certi guani, ma essendo di decomposizione estre-
mamente lenta, questo azoto ha un' azione troppo poco palese. Noi
abbiamo provato a trattarli coll'acido solforico, ma i risultati furono
poco soddisfacenti; crediamo pertanto che non meritino molta con-
siderazione, anche facendoli passare nei composti per facilitarne la
decomposizione. Alcuni usano mettere le rasature nel pozzo nero, e
innaffiare con questo miscuglio i composti, che poi adoperano nel
piantamento del vigneto nei terreni freschi e umidi.
Le corna, le unghie, ecc. contengono molto azoto, circa il 16 0[q;
le raschiature di corno ne contengono circa il 14, ma sono prefe-
ribili perchè in istato di grande divisione, e quindi agiscono più pron-
tamente. È sempre conveniente mescolarle a stallatico e sostanze
minerali prima di spargerli nel vigneto: la dose può variare da 6 a
12 quintali per ettare, secondo la maggiore o minore fertilità del
suolo. Le raschiature non si potrebbero però usare da sole per molti
anni di seguito; esse ecciterebbero troppo la pianta, la quale esau-
rirebbe il terreno di potassa; Giusto Liebig (1) narra alcuni fatti
(1) C 'hi 'mica organica ecc. pag. 108.
CONCIMAZIONE DEI VIGNETI 449
interessanti a questo proposito, ed è quindi indispensabile alternarle
con concimi potassici e fosfatati.
Anche i capelli ed i peli sono molto azotati (16 Ojo), e lo stesso
dicasi delle piume (15 0[q); ma si tratta sempre di sostanze a de-
composizione lentissima, per quanto non così lenta come quella delle
corna e dei pellami. È utile mescolarle ad altre sostanze, specialmente
all'urina od al pozzo nero, e bagnare i composti, che poi si spar-
geranno nei vigneti a vegetazione debole, per provocare un'ampia
formazione del legno: ottenuto questo risultato, si diminuirà questa
concimazione azotata, per dare la preferenza a quella potassica e fo-
sfatata. Taluni adoperano nei vigneti anche il pelo delle conce, cioè
la lana ed il pelo delle pelli destinate alla concia: siccome si ado-
pera la calce per levarli, così si ha un miscuglio che è un discreto
concime: ma si deve usare misto a pozzo nero e terra.
Le crisalidi dei bachi da seta sono molto adoperate nei vi-
gneti di alcuni locali dell'Italia Superiore; esse contengono il 10 0[q
di azoto, quando sono secche, e perciò possono costituire un concime
potente, tanto più che sono di pronta azione. Per non danneggiare
il prodotto nella sua qualità ed avere vini serbevoli, cioè non troppo
ricchi di sostanze azotate, bisogna farne dei composti con calce o
gesso e terra vergine mettendo 4 quintali di crisalidi secche, 6 di
calce o gesso e 10 di terra: con questi 20 quintali si possono con-
cimare abbastanza bene quattro mila piante di viti usuali. Tale conci-
mazione sarebbe veramente completa, se alla massa si unisse un quin-
tale di cloruro di potassa del titolo 80°, cioè col 50 0[Q di ossido
potassico. Quanto diciamo delle crisalidi si applica al letto dei bachi
da seta, che contiene però solo il 3 0[q di azoto; converrà quindi
adoperarne una dose almeno doppia.
I panelli, o focaccie di semi oleaginosi, sono concimi ottimi pei
vigneti perchè oltre d>\Y azoto contengono anche dell'acido fosforico:
in media contengono il 4 0[q di azoto ed il 2 0[q di acido fosforico.
Si adoperano alla dose di 20 a 30 quintali per ogni ettaro di vigneto
specializzato. Nella Francia meridionale se ne fa un impiego abba-
stanza esteso, riducendoli prima in polvere grossolana mediante mu-
lini: si è osservato che essi agiscono più prontamente dello stallatico,
favorendo sia la vegetazione, che la fruttificazione. I panelli si ado-
perano specialmente nei vigneti stanchi, e si ripete la concimazione
ogni due anni.
Altre sostanze, come i residui di colla (1 0[q d'azoto), il residuo
O. Ottavi, Trattato eli Viticoltura. 30
450 CAPITOLO XII
dell'estrazione dell'olio dalle arringhe o tangrum (8 0[q), i residui dei
pesci specialmente del merluzzo, delle sardine e delle arringhe (11 0[q)
e le loro ossa (3 0[Q — più il 53 0[Q di fosfato di calce) sono pure
concimi che si possono adoperare nei vigneti, sempre quando se ne
facciano dei composti. I residui di pesce convengono specialmente
alle terre calcari, ma la loro azione dura appena un anno.
Lo stesso dicasi del nero animale, che si ottiene abbruciando le
ossa in un vaso chiuso, e che si adopera nelle fabbriche e nelle raf-
finerie dello zucchero: tanto il nero delle fabbriche che quello delle
raffinerie sono sostanze concimanti, benché di valore diverso. Infatti
il nero delle fabbriche è ricco di fosfati ma non contiene azoto, e si
adopera perciò mescolato agli avanzi di pesce, al letame ed agli e-
scrementi umani; invece il nero delle raffinerie contiene, oltre al fo-
sfato di calce (55 Ojq in media), anche azoto (1 1[2 Ojo). Contiene
pure del carbonato di calce (10 0[q circa), ond' è che mescolato a
sali potassici, costituisce un buon concime pei vigneti. Bisogna però
evitare assolutamente di adoperarlo allo stato fresco, perchè nuoce-
rebbe alle radici: se ne facciano quindi dei composti nei quali il nero
possa neutralizzare la sua acidità. È pure necessario badare bene
alle contraffazioni, perchè si trova in commercio anche un falso nero
animale composto di sabbia e argilla, cui si dà un bel colore nero.
§ 9. I soverscii e loro vantaggi. — I soverscii costituiscono
un eccellente concime per le viti, quando occorre di rianimare la
vegetazione di piante estenuate e non si può, per circostanze spe-
ciali, adoperare lo stallatico o altro concime attivo. La concimazione
col soverscio costa poco e non si hanno a sostenere spese di tra-
sporto, le quali spesso oltrepassano il valore del concime stesso. Le
regioni calde in ispecie ne possono trarre grande giovamento: ivi si
potrebbero seminare tra le file delle viti alla volata, ed alle prime
piogge autunnali, i lupini (200 litri ad ettare), i quali, anche non
sotterrandoli, vi nasceranno per bene (1); al successivo aprile od ai
primi di maggio le pianticelle avranno raggiunto ad un dipresso l'al-
tezza di due o tre palmi. Allora si aprirà, dapprima col mezzo d'un
(1) Già Palladio (L. IX, C. II) consigliava il soverscio di lupini in vigneti
magri con ceppate sfinite. Egli dice che non si deve mai adoperare letamo, che
guasterebbe il vino, ma solo lupini. In Francia nel Lot-et-Garonne se ne fa uso
soventi volte.
CONCIMAZIONE DEI VIGNETI 451
aratro e nel mezzo dell' interfilarc, un solco profondo da 25 a 30
centimetri, vi si caccieranno dentro i fusti di quella leguminosa,
ben inteso dopo di averli recisi; poscia si comprimeranno accurata-
mente pestandoli, in ultimo si ricopriranno con terra.
Questa concimazione è pregevole di molto e giova non poco a rinvi*
gorire le viti estenuate. Buonissima pratica è altresì quella di vangare
1'interfilare e sotterrare nel tempo istesso l'erba destinata al soverscio:
così invece di vangare il suolo in febbraio od in marzo, non si ha
che ad attendere l'aprile od al più il principiar del maggio, sove-
sciando allora man mano che si opera la vangatura, coll'avvertenza
di far scendere bene al basso le fronde del lupino, comprimendole
colla vanga stessa. Il soverscio di lupino ripetuto ogni tre anni nelle
terre di poco buona qualità, basta a prevenire V estenuamene dei
ceppi: nelle terre migliori si potrà aspettare anche cinque o sei anni
prima di soversciare di nuovo questa leguminosa.
Invece del lupino si possono seminare, nella stessa stagione, del
trifoglio incarnato, della veccia, delle fave, della segale, delle rape
o dei ravettoni: ciò che però vien più raccomandato si è un mi-
scuglio di tutte queste piante o di alcune fra esse, a seconda
della natura delle terre. Per esempio, nelle terre forti, fave,
rape e ravettoni; — nelle granitiche, lupini invece di fave; —
nelle leggere la segale; — nelle calcari e nelle siliceo-argillose, la
veccia, l'incarnato, ecc. Così, volendo dare alcune dosi, si spargeranno
10 chilog. ad ettare di incarnato, 2 di rape (1) e 3 o 4 di ravet-
toni: questo miscuglio è in generale uno dei più utili per i vi-
gneti.
Dopo la vendemmia, quando si voglia preparare erba da soverscio
primaverile, si spargono i semi di dette piante senz' altro sul duro
suolo, e poscia vi si fa passare sopra un estirpatore (od uno sca-
rificatore, se il terreno è assai arido e secco) tirato da un cavallo
o da una coppia di buoi, a seconda della larghezza dell'interfilarc
Per tempo in primavera si vedranno crescere le rape e i ravet-
toni. Nelle regioni calde può dirsi che raggiungono la massima loro
altezza nei primi giorni dell'aprile; invece nelle regioni settentrionali
della penisola non si arriva a questo punto che verso il finir dello
stesso mese, prima o dopo a seconda delle annate. Per verità, se
l'inverno è mite, il ravettone, che vien presto assai, si mostra a di-
(1) Invece delle rape si possono usare i rafani,
452 CAPITOLO XII
screta altezza nell' Italia superiore, già nel mese di marzo, e ciò tal-
volta anche a dispetto della natura argillosa del terreno.
Più sopra abbiamo consigliato di spargere i semi delle rape, dei
ravettoni e del trifoglio incarnato sul duro suolo, cioè senza veruna
lavorazione (aratura) precedente: la ragione di questo nostro con-
siglio sta in ciò che non lavorando il suolo, questo si riscalda assai
più prontamente ai primi tepori della primavera, locchè giova mol-
tissimo all'incremento delle erbe confidatevi. I semi suddetti sono del
resto assai tenui, e l'estirpatura basta a sotterrarli quanto occorre;
un sotterramento più profondo loro nuocerebbe, come è a tutti noto.
Insistiamo sul soverscio composto di trifoglio incarnato, rape e
ravettoni, perchè ci pare che si possa raccomandare per tutte
le regioni italiane: sono piante che resistono ai freddi invernali
e che crescono con rapidità ai primi tepori primaverili, per cui
si possono soversciare le fronde in aprile, all'incirca, al momento dei
lavori nelle vigne; l'incarnato si coltiva sotto ogni clima del nostro
paese, e lo stesso deve dirsi delle rape; è pure estesa, massime nel-
l'alta Italia, la coltura del ravettone. Valiamocene adunque.
Nulla diremo della pratica del soversciare, perchè assai facile:
solo noteremo che tutti consigliano di sotterrare le frondi a 20 cen-
timetri almeno di profondità, onde richiamare al basso le radici ed
avere il suolo più fresco durante la stagione estiva, cosa questa es-
senzialissima. È la stessa profondità che consigliava Gnyot per il sot-
terramento del letame, benché egli fosse un viticultore più del Nord
che del Sud della Francia.
§ 10. Utilizzazione degli avanzi delle viti. — Da tempi assai
remoti i viticultori hanno pensato a concimare i vigneti cogli avanzi
stessi delle viti; questi avanzi sono le foglie, i sarmenti e le vi-
naccie. Sarà utile studiarli separatamente.
Le foglie o si lasciano cadere di per sé stesse o si fanno rac-
cogliere dalle donne e dai ragazzi, come consigliava Olivier de
Serres (1): in questo caso si deve attendere che la vendemmia
sia finita e poscia si fa un composto con terra e fogliame che si
sparge a suo tempo negli interfilari sotterrandolo a circa 20 cen-
timetri di profondità. Dobbiamo però osservare che, a nostro avviso,
non conviene sfogliare i vigneti neppure dopo la raccolta delle uve,
(1) Théàtre d'agriculture, L. III.
CONCIMAZIONE DEI VIGNETI 453
e ne diremo ampiamente le ragioni al Cap. XIV: si lascino quindi
cadere le foglie di per sé stesse, soversciandole poscia colla vanga
o coll'aratro. È vero che le foglie (pag. 215) contengono una certa
quantità di azoto e di acido fosforico, ma è evidente che esse sole
non basterebbero a mantenere il terreno del vigneto in uno stato
di soddisfacente fertilità, e che sarà sempre necessario ricorrere ai
concimi prodotti fuori del podere, per reintegrare il suolo della po-
potassa esportata col vino e non restituita colle foglie.
I sarmenti si debbono adoperare preferibilmente tagliuzzati. Ca-
tone consigliava di mettere questi pezzetti nelle fosse o nelle buche
scavate per sotterrarvi il concime per le viti: invece Plinio voleva
che si abbruciassero prima i tralci e poi se ne usasse la cenere. In
Italia vi ha chi si giova di questa maniera di concimazione, e cosi
pure in Francia, e senza dubbio, chimicamente parlando, i sarmenti
costituiscono un buon concime. Ma conviene saperli adoperare. Anzi-
tutto si debbono tagliuzzare a pezzetti lunghi non più di 0m,12,
perchè si è osservato che tagliandoli a lunghezze maggiori (25 cm.)
sotterrati che siano, danno getti che si vedono spuntare abbastanza
numerosi dalla superficie del suolo. La loro decomposizione nel ter-
reno, specialmente se si tratta di sarmenti non già erbacei ma le-
gnosi, è molto lenta e si può calcolare in media che essi durano
dieci anni; è per questo che alcuni usano di tagliuzzarli prima, poscia
schiacciarli, infine mescolarli a terra innaffiata con orina o pozzo nero
per facilitarne la decomposizione. Il sig. T. Carnevale ne fece felice
esperimento nei suoi vigneti dell' Isola di Lipari facendo prima pas-
sare i tralci tagliuzzati nella concimaia ed adoperando poscia questo
concime: questo metodo è certamente il preferibile.
Le vinaccie distillate si adoperano su vastissima scala quali con-
cime pei vigneti in Francia ed in Italia: nonostante la distillazione e
l'estrazione del cremore, esse contengono tuttavia azoto e potassa,
nonché acido fosforico quando non siansi separati i vinacciuoli. Secondo
Marès un chilogramma di vinaccia distillata conterrebbe 9 grammi
di azoto e 4 di potassa delle ceneri — mentre secondo Boussin-
gault un chilo di stallatico normale conterrebbe soltanto 4 gr. di
azoto, e 5 fra potassa e soda delle ceneri. Inoltre già sappiamo
(pag. 225) che le vinaccie abbruciate contengono per ogni 100 grammi
di cenere, il 10 0[q di acido fosforico il 41 0[q di potassa, ed il
7 0[Q di calce.
Le vinaccie si adoperano alla dose di 250 a 300 quintali per
454 CAPITOLO XII
ettare di vigneto specializzato (1) dandone da 8 a 10 chlog. per cep-
paia normale: però non possiamo consigliare l'impiego delle vinaccie
direttamente, cioè senza far loro subire una speciale preparazione, perchè
{a loro azione sarebbe assai lenta. Noi usiamo conservare le vinaccie,
anche se distillate, per somministrarle al bestiame; e questo è cer-
tamente uno fra i mezzi più economici per utilizzarle e per trasfor-
marle poscia in concime pei vigneti; ma pochi sono quelli che sap-
piano conservare le vinaccie già esaurite del loro alcool (2) : per
questo bisognerà allora stratificare le vinaccie nella fossa del letame,
collo stesso stallatico, innaffiando tratto tratto la massa coi colaticci;
così si attiverà la decomposizione della vinaccia. È anche ottimo in-
grasso un terricciato (o composto) fatto con vinaccia, cenere, cal-
cinaccio, terra vergine e un po' di concio umano o di letame, il tutto
salato con sale agrario; si ha così un concime non troppo azo-
tato, per cui l'uva non dà un mosto troppo ricco di albuminoidi, ed
infine si viene ad avere un vino più serbevole e di gusto più franco.
Il viticultore adunque, abbia o non bestiame, deve utilizzare sul pro-
prio fondo le vinaccie, perchè ove le vendesse alle distillerie per non
più riacquistarle, esaurirebbe il terreno de' suoi vigneti in propor-
zione dei principii esportati colle vinaccie stesse: quantunque le vi-
(1) Nell'Hérault se ne impiegano anche 350 quintali.
(2) Il nostro metodo è il seguente :
Entro grossi bigoncii poniamo, per ciascuno, 359 miriagrammi di vinaccie
ancor calde comperate alla distilleria ad un soldo al miriagramma, 142 miria-
grammi di foglie di viti (quelle dei tralci che già avevano portato frutti), più 6
miriagrammi di stoppia trinciata col trincia paglia. 1 bigoncii li riempiamo nel
seguente modo: prima uno strato alto 1|2 decimetro circa di vinaccie, poi altro
uguale d'un miscuglio di foglia e stoppia, indi una salatura piuttosto abbondante,
infine una compressione accuratissima ed energica, poiché da essa dipende in
gran parte l'esito dell'operazione: indi, da capo uno strato di vinaccie, con sopra
il solito miscuglio, eppoi il sale ed una nuova pestatura, e così sino a riempire
il bigoncio, il quale ricopriamo con molta cura con un decimetro e più di terra
argillosa inumidita. Dopo lo giorni (in ottobre) poniamo mano a questo foraggio-
conserva, che è mangiato avidamente dai buoi e dai cavalli durante 21 giorni di
seguito; il foraggio è sanissimo fino all'ultimo, e ce ne serviamo per qualche mese
avendo altri serbatoi. Ecco quindi risolto un importantissimo problema, poiché
ognun vede quale grande risparmio permetta l'uso di questo eccellente foraggio.
In un esperimento di confronto che facemmo ponendo solamente le vinaccie ed
il sale pastorizio, dopo 15 giorni trovammo un mangime guasto, che gettammo
nel letamaio. Bisogna quindi unirvi le foglie e la stoppia: per ora non sapremmo
dare una soddisfacente spiegazione del perche.
CONCIMAZIONE DEI VIGNETI 455
naccie distillate, considerando la cosa in modo assoluto, contengano
meno azoto, meno fosforo e meno potassa di quelle non per anco
distillate, pure usandole come concime unitamente alle suddette so-
stanze complementari, si impedisce fino ad un certo punto l'esauri-
mento del vigneto.
Dalle distillerie si potrebbero del resto acquistare anche ['liquidi
residui dalla fabbricazione del cremor tartaro, i quali secondo le ana-
lisi del compianto nostro collega Doti. I. Macagno, abbandonano un
residuo contenente, allo stato secco, il 27,3 0[q di azoto, il 7 0[q
&' acido fosforico ed il 0,6 0[q di potassa. Ogni 100 litri dei detti
liquidi possono dare 6 chili di deposito, cioè di un concime prezioso,
ma pur troppo affatto trascurato. Facciamo voti perciò affinchè le
distillerie in grande pensino a preparare i detti depositi per metterli
poi in commercio.
§ 11. Giunchi, alghe, piante resinose, ecc. — Il viticoltore
ha pensato di trarre partito, per la concimazione della vite, anche
delle piante che crescono abbondanti nelle vicinanze de' suoi vigneti.
Infatti presso gli stagni, e nella Francia meridionale sulle rive del
Rodano ed a Saint-Gilles, si ricopre il suolo del vigneto di giunchi
(biodi) ed altre simili piante da paduli. Questa copertura esercita
una mediocre azione concimante, ma preserva il suolo dai tristi ef-
fetti della siccità e perciò è molto apprezzata dai pratici.
Presso i grandi stagni, come sul litorale di quello di Thau, e nelle
coste alternativamente coperte e scoperte dalle maree, si adoperano
eziandio le alghe (piante marine dette anche varechj: fra esse vi
sono dei fucus che contengono, allo stato di essicazione naturale al-
l'aria, l'I 0[o di azoto, ed il 9 0[q fra potassa e soda. Il signor
Marès, che ha fatto qualche osservazione su tale concimazione, as-
severa che mentre essa non produce alcuna alterazione di sapore
nei vini bianchi, rende invece cattivo quello dei vini rossi (1) del
che non è facile dare una plausibile spiegazione.
In alcuni paesi — per esempio nel Bordolese— si adoperano eziandio
per concimare i vigneti, Y erica, la ginestra, il ginepro, il bossolo:
nella Stiria Inferiore il pioppo, il salice, Y ontano, il faggio: nelle
(1) Le vigne delle isole di Noirmoutiers e di Re, che sono concimate quasi
• annualmente con varech, producono vini così cattivi, che servono appena a fare
aceto: sono questi i così detti vins de la flotte.
456 CAPITOLO XII
Alpi marittime, nel Nizzardo e nel Tirolo il susino di macchia o
prugnolo, la frangola, la Rosa di macchia o canina, il rovo, ecc.:
infine le fascine di pini giovani, di cui si loda tanto Odart. Tutti
questi vegetali sono di lentissima decomposizione e perciò là dove si
usano si ha la precauzione di non adoperare che i rami e le parti meno
legnose, e che perciò contengono maggior quantità di succhi: è evi-
dente che sotterrate nel vigneto, neh' interfilare, in fosse profonde,
esse si decompongono più prontamente. Questa maniera di conci-
mazione — che dopo tutto è alquanto povera — si adopera spe-
cialmente nei terreni argillosi al momento in cui si pianta la vigna,
mantenendo così soffice il terreno e nello stesso tempo concimandolo
alquanto. Gli è ciò che si fa eziandio nel Basso Monferrato quando
si pratica l'arrotto (pag. 370) e con ottimo risultato, perchè alle fa-
scine di vite, di olmo o di rovere si suole unire lo stallatico.
Le felci potrebbero adoperarsi con vantaggio per concimare i vi-
gneti, perchè sono ricche di potassa; inoltre prese allo stato verde
contengono nelle foglie il 2 0\q di azoto. Un soverscio nel vigneto
stesso potrebbe bastare per attivarne una pronta decomposizione.
§ 12. Calce, marna, gesso, ecc. — La calce è un prezioso
ammendamento pei vigneti, come già dicevamo a pag. 228, ed è
adoperata a questo scopo da tempi remotissimi, poiché molti autori
antichi ne parlano. La dose deve variare a seconda della natura
del terreno; se ne possono spargere 40, 80 o anche 100 quintali ad
ettare nelle terre affatto sprovviste, adoperandola sempre allo stato
polverulento ed aspergendone non solo l' interfilare ma le stesse cep-
pale se esse sono devastate da insetti o crittogame: si coprirà poi,
cioè si sotterrerà quella sparsa sul terreno, con una lavorazione pos-
sibilmente in autunno od in principio dell'inverno. Così si otterrà un
completo miscuglio della calce col terreno. Dopo tre anni dall'impiego
della calce sarà indispensabile concimare il vigneto con un composto
azotato o ricco di potassa e fosfati, perchè la calce, specialmente se
viene adoperata a dose alta, stimola molto il suolo e lo esaurisce.
La marna (miscuglio di carbonato di calce, argilla e silice) si
adopera pure nei vigneti da tempi remotissimi: ne parlano Plinio e
Varrone con molta lode. Essa si applica con profitto a terreni po-
veri di calcare, cioè su terre argillose oppure silicee, nonché ai ter-
reni acidi e torbosi. Nella Gironda (Bordolese) se ne fa un uso
abbastanza esteso, specialmente per ridonare vigore ai vigneti este-
CONCIMAZIONE DEI VIGNETI 45*
nuati; perchè la marna agisce come ammendamento e come concime,
cioè eziandio chimicamente pel calcare che mette a disposizione della
vite (Boussingault). La quantità di marna che si deve adoperare
non si può precisare per ogni vigneto; in generale però basteranno
100 metri cubi per ettare di vigneto specializzato (un metro cubo
di marna pesa in media 15 quintali) e questo ammendamento avrà
un'azione duratura per cinque anni almeno. Guyot (1) asserisce che
la marnatura vale tanto quanto la letaminazione, e ne spinge la dose
a me. 125 ogni quinquennio, locchè equivale ad una discreta spesa,
massimamente là dove la marna si deve estrarre da luoghi lontani
dal vigneto. Non conviene inoltre scordare che la marna esaurisce
essa pure il suolo a lungo andare, per cui non sarebbe possibile fare
a meno sempre dei concimi azotati, fosfatati e potassici ; ciò è tanto
vero che nei paesi dove è molto in uso la marnatura, si è osser-
vato che la sopportano più copiosa e molto più a lungo i terreni
ricchi che non quelli poveri.
Il modo di usare la marna è abbastanza semplice : si sparge sul
finire dell'autunno nel vigneto e si lascia esposta al freddo; in pri-
mavera si sotterra procurando di mescolarla alla terra stessa.
Quanto dicemmo della marna si applica anche alla creta, che è
un carbonato di calce il quale esposto all'aria va in polvere, appunto
come la marna. Si usa con profitto per correggere i terreni argil-
losi deficienti di calcare.
Il gesso (solfato di calce) è un concime e non un ammendamento: esso
è poco usato come ingrasso pei vigneti: pure le esperienze fatte con esso
diedero buoni risultati, ed il Conte Oclart asserisce che il gesso cotto,
ridotto in fina polvere, e mescolato allo stallatico, non solo provoca
una abbondante formazione di tralci, ma eziandio una copiosa frut-
tificazione. La dose del gesso è assai variabile: infatti alcuni la li-
mitano a pochi quintali per ettare, altri ne spingono la dose oltre
i 10 quintali. Converrà quindi che il viticultore faccia prima un
saggio con poca quantità, per esempio 4 quintali, misti ad altri con-
cimi fosfatati ed azotati, per determinare quale sia la dose più con-
veniente pel suo terreno.
§ 13. Terra vergine, terra bruciata e limo. — Per noi la
terra vergine altro non è che quella parte del suolo agrario che
(1) Op. cit. voi. Ili, pag. 630.
458 CAPITOLO XII
non fu ancora vivificata dagli agenti atmosferici, e quindi non venne
tuttavia sfruttata dalle piante. Essa è della stessa natura dello strato
attivo sovrastante, mentre il sottosuolo su cui riposa è ben diffe-
rente. Quando lo strato attivo è di piccolo spessore, essendo tutto
usufruttato dalla vegetazione, e nel caso nostro dalla vite, non vi ha
strato inerte o terra vergine sotto di esso, ma invece si incontra
subito il sottosuolo (1). Senonchè quasi dovunque lo strato inerte
esiste, specialmente là dove il terreno è mal lavorato e rimosso a
poca profondità: ed è per questo che quasi ovunque si può trarre
grande partito dalla terra vergine.
Premesse queste brevi spiegazioni, per evitare le oramai viete ob-
biezioni che si fanno alla utilizzazione dello strato inerte, diremo che
la terra vergine è tanto più pregevole quanto più è pregevole lo
strato attivo sovrastante; ond' è che si spiega benissimo come i vi-
gneti di terreni di buona natura ma esausti, riprendano nuovo vi-
gore non appena si estrae la terra vergine dal disotto e si porta
all'aria acciò la vivifichi, ed a contatto delle radici, le quali vi tro-
vano in copia elementi utili alla vegetazione. Ma anche le terre ver-
gini di mediocre valore sono utilizzabili, e la pratica ha dimostrato
che mescolandovi stallatico, o cenere, o concimi potassici, si possono
ottenere risultati rimarchevoli.
La terra vergine è ben lungi adunque dall'avere una composizione
uniforme dovunque, e perciò è molto vario il suo potere fertilizzante:
certo però essa costituisce in moltissimi casi uno fra i più preziosi
concimi per le viti, sia per accrescere entro giusti limiti la produ-
zione legnosa, sia per stimolare la fruttificazione, sia sovratutto per
ottenere uva di qualità pregevolissima.
Abbiamo fatto, varii anni or sono, alcuni saggi per vedere quale
differenza vi fosse, riguardo ai principii maggiormente utili per le piante
(azoto, fosfati, potassa), fra la terra vergine esposta o non all'azione
dell'aria; ecco i risultati:
(1) Secondo noi il terreno si divide nel modo seguente, agronomicamente par-
lando:
1° Suolo agrario
Terra, attiva perchè lavorata;
Terra inerte o vergine perchè intatta;
2° Sottosuolo;
\\° Strato impermeabile;
■V Sfrato acquifero.
CONCIMAZIONE DEI VIGNETI 459
Principii utili (1)
Terra vergine presa a 45 cent, di prof, non esposta all'aria . . . . gr. 0,037 0[0
» » » lasciata all'aria per 6 mesi . » 0,093 »
Strato arabile dello stesso campo, concimato l'anno prima .... » 0,063 »
Da un nostro vigneto del podere Cardello prelevammo tre cam-
pioni di terra che all'analisi (2) diedero i seguenti risultati:
Sostanze Sostanze
solubili insolubili
Terra vergine presa a 50 cent, di prof, non esposta all'aria . gr. 9,74 gr. 89,21
» » » esposta all'aria in e-
state ed autunno . » 17,99 » 81,07
Strato arabile dello stesso vigneto » 18,24 » 81,08
È notevole la povertà di sostanze solubili nel terreno inerte; ed è
pure notevole che esso tuttavia è più ricco di elementi utili alle piante,
e solo ha duopo di essere esposto all'azione degli agenti atmosferici
per rendersi attivo. Riguardo all' azoto i dettagli di detta analisi ci
dicono quanto segue:
Azoto sotto forma
di acido nitrico
Terra vergine a 0,50 gr. traccie
» portata alla superfìcie durante 6 mesi » 0,15
Terra arativa » 0,71
Questa maggior ricchezza d'azoto dello strato arativo è dovuta
sia alle concimazioni, sia all'azione dell'atmosfera. In quanto alle ma-
terie organiche non si trovò grande differenza fra le tre terre.
Uacìdo fosforico invece abbondò nella terra vergine non esposta
all'aria, appunto perchè non sfruttata dalle piante.
L'uso della terra vergine quale ingrasso è adunque razionale anche
considerato scientificamente : i risultati pratici sono dal canto loro
completi, e sono numerosi i viticultori che già ne traggono un reale
partito sia in Italia che fuori. I Francesi chiamano terrage questa
maniera di concimazione e ne fanno i più grandi elogi. Il Dr. Guyot,
come già abbiamo accennato più sopra, ne è addirittura entusiasta:
egli vuole che si scavino fosse profonde per estrarre la terra ver-
gine e spargerla attorno ai ceppi, e se manca un buon strato inerte
(1) Analisi del Prof. Del Pozzo di Vercelli.
(2) » del oompianto Dr. Macagno.
460 CAPITOLO XII
consiglia di prendere questa preziosa terra anche fuori del vigneto;
consiglia pure di piantare i vigneti preferibilmente nelle vicinanze di
ricche miniere di terra vergine, se così possiamo dire, per utilizzarle
come concime, e vorrebbe che nelle vigne stesse si consacrassero
alcuni tratti unicamente all' estrazione della terra vergine, da ado-
perarsi ogni cinque anni alla dose di 250 metri cubi per ettare di
vigneto specializzato. Con questa concimazione, conclude Gnyot « la
vigna è largamente provvista (1) ». La spesa egli la calcola in L. 1
al metro cubo compresa l' estrazione e lo spargimento, cioè L. 250
Tettare in cinque anni, ossia infine a L. 50 per anno, mentre la le-
taminazione costa circa il doppio.
L'eminente viticultore sig. Marès, parlando in modo speciale dei
vigneti del Mezzodì della Francia, loda egli pure X uso delle terre
vergini, e dice (2) che col loro mezzo si ridona il perduto vigore
alle vigne spossate, pur conservando tutta la finezza della qualità
nei prodottti; e questa è cosa di grande momento. Olivier de Serres
è talmente convinto della utilità di questa maniera di concimazione,
che dice essere ben raro che la terra adoperata, anche se poco pre-
gevole, non abbia dato buoni risultati: purché si tratti di terra ri-
posata, cioè vergine, e l'esito sarà ottimo. Il sig. Petit Lafitle, stu-
diando la viticoltura del Bordolese, accenna al largo uso che vi si
fa delle terre vergini come concime per quei rinomati vigneti, por-
tandole spesso da luoghi relativamente lontani; il paesello di HurCj
ad esempio, è come una enorme miniera di pura terra vergine che
è molto ricercata da anni ed anni, cosicché quella località presenta
oggi un aspetto dei più curiosi e strani, colle sue immense escava-
zioni che fanno parere il villaggio quasi come sollevato da qualche
sconvolgimento terrestre.
Abbiamo detto che anche in Italia l'uso delle terre vergini nei
vigneti è abbastanza diffuso; non lo è però come si meriterebbe, e
certo ove una pratica così razionale ed economica si diffondesse mag-
giormente, si vedrebbe rapidamente migliorare la produzione non
soltanto in quanto a quantità, ma eziandio relativamente alla qualità;
e molti vigneti oggi concimati con soverchio letame o concime a-
zotato, i quali producono vini troppo ricchi di sostanze albuminoidi
e perciò di diffìcile conservazione e di sapore non netto, produrreb-
(1) Op. cit. pag. 035, 636.
(2) Op. cit. pag. 330.
CONCIMAZIONE DEI VIGNETI 461
bero invece vini di gran lunga migliori e serbevoli. Stimiamo utile
accennare ad alcune fra le più belle pratiche italiane, riguardo al-
l'uso della terra vergine nei vigneti.
A Gussago (Brescia) si è introdotto forse da più secoli la bella
pratica di alternare ogni due anni, o meglio ogni anno, la terra
posta al pedale delle viti. Ciò si fa aprendo in autunno negli inter-
fìlari una fossa larga e profonda 60 centimetri, estraendone la terra
smossa ed allargandola fin sotto le viti stesse. Al successivo aprile,
o in maggio, si vanga il suolo in pieno e si ottura la detta fossa.
In Valle San Martino (Bergamo) si tengono le viti sopra ban-
chine orizzontali, cotanto apprezzate nella Svizzera, e per ridonare
vigore e fecondità alle viti si è adottata la bella usanza di scassi-
narne ogni otto o dieci anni la scarpa. Cotale scassinatura scende
sino a 60 centimetri di profondità e si innoltra sino al piede delle
viti (e anche al di là) poste sulla banchina a circa 30 centimetri
dall'orlo della scarpa suddetta. Nel fare questa operazione si rispet-
tano per quanto si può le radici, ma pur molte si fanno a pezzi,
onde le viti ne soffrono un po' al primo anno: ma colla fecondità
che acquista il suolo per la scassinatura suddetta, anch'esse si fanno
feconde e tanto che, per parecchi anni di seguito, il prodotto che
se ne ricava risulta essere due volte maggiore di prima.
Nel Vogherese usano alcuni valenti viticultori di aprire in giugno
tra i filari una fossa larga 75 centim. per estrarvi una fitta di vanga
di terra vergine, che poi essi gettano al pedale delle viti; il prodotto
dell'uva si accresce di molto con questa concimazione. Ciò si fa spe-
cialmente per rinvigorire le ceppaie vecchie e quasi sfinite.
In quel di Milazzo e di Messina si pratica un lavoro profondo
ogni due anni lungo gli interfilari, appunto per portare alla super-
ficie la terra vergine; non è raro si scenda alla profondità di 70
centimetri.
Infine, questi esempii si potrebbero moltiplicare d'assai; ma bastino
gli accennati a dimostrare che quasi in ogni regione d'Italia si uti-
lizza la terra vergine a prò dei vigneti.
Parlando dei composti, nel paragrafo seguente, diremo come si
debba trarre partito di questa terra nella loro formazione.
La terra bruciata è pure un eccellente concime pei vigneti. Non
parliamo delle ceneri propriamente dette, di cui ci occuperemo al
§ 16, ma della pura terra torrefatta: è questa una pratica nota in
Italia col nome di debbio, ed in Francia con quello di écobuage.
462 CAPITOLO XII
Il debbio si raccomanda specialmente per migliorare le terre vergini
di natura poco buona, le quali, dopo essere state così cotte, oltre a
divenire più ricche in sostanze utili per la vite, cioè in sostanze più
prontamente assimilabili, acquistano un maggior potere assorbente,
si fanno più porose, infine diventano un utile concime minerale.
L'abbruciamento nei dintorni di Savigliano, Fossano, ecc. si pra-
tica nel modo seguente: si dispone la terra a guisa di fossetta, entro
cui si mette il combustibile, e sopra altra terra per lo spessore di
50 centimetri, lasciando, in questa specie di ampio canale, varie boc-
chette (ogni 4 metri) per dar fuoco al combustibile e dargli aria.
In poche ore la parte superiore si deprime e il fuoco tenta uscire
da tutte le parti. Allora si fanno cadere entro il canale, con tri-
denti, tutte le piote superiori per modo a riempirlo, e si aggiungono
tosto nuove piote per contenere il fuoco. Continuasi così finché cessi
la probabilità che la fiamma si renda visibile. Ventiquattro o anche
trentasei ore dopo, il fuoco tenta di nuovo di uscire da ogni banda.
Allora si scopre questo in fretta con tridenti a uncino, si allarga un
po' la fossetta alla parte superiore, tirando da banda le piote non
ancora abbruciate, e ciò finché si scuopra il fu jco vivo sul quale
si pongono nuove piote e si continua poi per altre 24 ore a ve-
gliare acciò il medesimo non esca dalle connessure delle dette piote,
otturandole subito con altre. Si tornano allora a scoprire le fossette
sino al fuoco vivo, per modo a formare una lunga culla, che si
riempie colle ultime piote e colla terra non abbruciata; si ricopre infine
il tutto colla terra ardente tolta alla fossetta, e l'operazione è termi-
nata. Si lasciano raffreddare i mucchi, poi si coprono ben bene con terra
perchè non si disperdano i gaz utili, né si sciolgano quelli solubili.
La spesa del debbio per ettare si valuta a L. 40, compresa la
legna e V opera di 8 persone, di cui due coi tridenti ad uncino, due
altre colle zappe per aprire le fossette e quattro per riempirle. In
quest'opera però non è compreso il trasporto e lo spargimento della
terra cotta sul suolo. La terra così bruciata si sparge infine nel vi-
gneto, come si fa della terra vergine, ed alla stessa dose.
Il limo è pure adoperato come concime pei vigneti, e lo stesso
dicasi dello spurgo dei fossi, tanto usato nel Bordolese (ove è detto
transport des sentiers). I vigneti così fertili di Bolzano sono con-
cimati, da molto tempo, col limo dei due fiumicelli Eisack e Talfer,
che si diramano appunto in quelle località: il limo dell'Eisack è ricco
di calce, quello di Talfer contiene molta potassa; ambedue poi con-
CONCIMAZIONE DEI VIGNETI 463
tengono un po' d' acido fosforico. Dobbiamo però avvertire che a
Bolzano non si adopera il limo solo; avvertentemente invece si usa
mescolarlo al letame od al cessino. Si ha così il miscuglio di un con-
cime potassico con uno azotato, il che spiega la fertilità di quei vigneti.
§ 14. I composti e loro grande utilità. — Più volte nei
paragrafi precedenti abbiamo parlato dei composti o terricciati, sic-
come quelli che rappresentano il miglior concime per la vigna, tanto
per rapporto alla quantità come per la qualità del prodotto. Si può
affermare che dovunque si ottengono vini scelti si fa uso essenzial-
mente di composti per concimare i vigneti, ed in questi composti è
sempre l'elemento minerale che predomina, o sotto forma di terra, o
di calce, o di gesso.
Nei terricciati però (da non confondersi, come fanno alcuni, col ter-
riccio) entrano pure a far parte del mescuglio tanto i concimi ve-
getali quanto quelli animali; generalmente si è la terra vergine che
rappresenta il concime inorganico. I terricciati si possono fare anzi
con sola terra vergine. Esaminiamo gli uni e gli altri.
I veri composti da noi si usa di farli con mescugli di terra, ce-
nere, letame o escrementi umani, calcinacci, ecc. che si rivoltano
generalmente in maggio e settembre, sia per mescolarvi aria, sia
per amalgamare meglio i varii ingredienti: si ha inoltre l'avvertenza
importante di non lasciarli asciugare di troppo, e perciò si tengono
alquanto umidi versandovi sopra orine, cessino liquido, acqua di la-
vature od alla peggio acqua semplice. Tutto ciò favorisce la nitri-
fìcazione, onde il composto si arricchisce di azoto allo stato assimi-
labile (nitrato di potassa o di soda) oltre alla calce ed al fosfato, se
si ha l' avvertenza di mescolarvi del superfosfato di calce (d'ossa o
di minerali). Ecco alcuni esempii di buoni terricciati:
Letame di stalla
Escrementi umani
Terra vergine
Calcinaccio
Spurgo di fossi o vinaccie
oppure:
Letame di stalla
Escrementi umani o meglio vinaccie
Terra vergine
Perfosfato di calce
Gesso
464 CAPITOLO XII
oppure ancora:
Avanzi vegetali d'ogni specie
Perfosfato di calce
Gesso
Terra vergine
Le dosi è inutile fissarle a priori, poiché non sempre il viticultore
ha a sua disposizione quella determinata quantità di ingredienti che
occorrono per un dato composto: ad ogni modo, per un ettare ad
esempio di vigneto specializzato ed alquanto esausto, sarà conveniente
spargere un terricciato così composto:
Letame di stalla 2 o 3 metri cubi
Oppure escrementi umani 4000 litri
Con terra vergine 40 o 50 metri cubi
E superfosfato di calce 200 chili.
oppure:
Cenere
Calcinaccio
quintali 10
» 20
Guano o sangue
Superfosfato
» 2
» 2
Allorquando si vuol fare il terricciato di sola terra vergina, allora
basta farne dei mucchi che si debbono rivoltare molto di frequente
per mescolarvi molta aria; si provoca così una vera nitrificazione e
si cangia la terra vergine in un buon concime ricco di azoto mine-
rale, cioè di nitrati.
Sarà sempre molto utile, infine, unire il sale agrario ai composti,
come diremo al paragrafo seguente.
§ 15. I sali, i perfosfati ed i concimi chimici. — Per sali
noi intendiamo specialmente il nitrato di potassa, il nitrato di soda,
il solfato d'ammoniaca, il cloruro di potassa, il solfato di po-
tassa ed il cloruro di sodio o sale marino, che sono quelli più
usati per fare miscele concimanti.
Il nitrato di potassa deve contenere 13 Ojo di azoto e 44 0[q di
potassa; è prezioso per le viti, contenendo sia l'azoto che la potassa
allo stato prontamente assimilabile. Il nitrato di soda deve contenere
15 0(0 di azoto, ma agronomicamente parlando è inferiore al nitrato
potassico. Il solfato d'ammoniaca vuole essere azotato al 20 0[q; esso
rappresenta una preziosa fonte di azoto assimilabile. Il cloruro di
CONCIMAZIONE DEI VIGNETI 465
potassa deve contenere circa il 50 0[q di potassa, se raffinato, ed è
per noi la fonte più apprezzabile della potassa per i vigneti. È però
pregevole anche il solfato di potassa. Infine il sale agrario è essen-
zialmente uno stimolante del terreno, ed è perciò assai utile mesco-
larlo ai terricciati, come si pratica da molto tempo in alcuni paesi.
La dose di tutti questi sali varia sensibilmente col variare dei ter-
reni; in generale però essi non si adoperano da soli, ma mescolati
fra di loro, secondo le forinole del sig. Ville che accenneremo fra
poco.
I perfosfati o superfosfati di calce sono l'unica sorgente di a
cido fosforico di pronta assimilazione che sia a disposizione dell'agri-
coltore; essi si preparano trattando le ossa e certi minerali (fosforiti
ecc.) coll'acido solforico. Sono preziosi anche per la vite, come già
accennavamo a pag. 227. Se puri, contengono dal 18 al 20 0[q di
acido fosforico anidro.
I concimi chimici risultano dall'unione dei sali suaccennati col per-
fosfato di calce: — con essi il coltivatore può spargere nel suo vigneto
quel concime che desidera, ora con predominio della potassa, ora con
predominio dell' azoto, oppure del fosfato a seconda del caso. La
spesa di mano d'opera pel trasporto e lo spargimento è lieve, e si
è certi di accrescere il prodotto dell'uva senza nuocere menomamente
alla qualità. Giorgio Ville ci diede pel primo le formo! e di simili
concimi chimici: eccone due adattate appunto ai vigneti; a lato vi
segneremo il costo, secondo i prezzi che si praticano oggi in Italia:
Superfosfato di calce
quintali
6
L.
108
Nitrato di potassa
»
5
».
275
Gesso ....
»
4
»
8
Dose per ettare
quintali
15
Spesa per ettare .
L.
391
Superfosfato di calce
quintali
4
L.
72
Nitrato di potassa
»
2
»
110
Nitrato di soda
»
3
»
105
Gesso ....
»
3
»
6
Dose per ettare
quintali
12
Spesa per ettare .
L.
293
O. Ottavi, Trattato di Viticoltura, 31
466 CAPITOLO XII
Il sig. Ville ha ottenuto ottimi risultati dall'uso di queste miscele:
più tardi il sig. Saint-Pierre fece accurate prove a sua volta, le
quali ebbero pure esito felice: infine ora l'uso dei concimi chimici nei
vigneti si può dire che si diffonde continuamente, in ispecie là dove,
per la concimazione dei vigneti stessi, riescirebbe assai malagevole
e quasi impossibile il trasportarvi concimi poco concentrati, e di
grande volume, come il letame di stalla, il cessino, i composti ecc.
Noi pure abbiamo fatto numerose esperienze sui concimi chimici ap-
plicati nei vigneti, ed abbiamo constatato che là dove il terreno è
discreto riguardo a fertilità non è necessario adoperare 12 a 15
quintali ad ettare come consiglia Ville. Spesso bastano 5 a 6 quin-
tali ogni due anni. Le formule Ville si possono poi variare a se-
conda dei casi, sovratutto introdocendovi il cloruro di potassa ed
il solfato di ammoniaca.
Il sale agrario (da non confondersi col sale pastorizio) si adopera,
come già dicemmo, nei composti, per renderli più efficaci. Noi lo u-
siamo alla dose di 7 quintali per ogni terricciato composto di 60
metri cubi di terra vergine e 10 a 15 di letame o altre sostanze
azotate.
§ 16. Le ceneri. — Sin dai tempi antichi gli scrittori di geor-
gica raccomandarono l'uso delle ceneri quali concimi pei vigneti, e
questo dimostra che già sin d'allora si era riconosciuta la benefica
influenza esercitata dalla potassa sulla vite. Le ceneri possono es-
sere lisciviate o non; le prime sono certo più ricche di alcali (po-
tassa e soda), ma non per questo sono da sprezzarsi quelle lisciviate,
perchè l'analisi ci dimostra che oltre a contenere ancora una ap-
prezzabile quantità di potassa e soda, contengono eziandio fosfato di
calce, carbonato di calce e la maggior parte dei silicati alcalini, co-
sicché per questi componenti esse non differiscono dalle ceneri vergini:
infine hanno il vantaggio di costare molto meno. Si trovano a com-
perare in copia non solo nelle lavanderie, ma nelle fabbriche ove si
lavorano la potassa ed il nitro.
Vi sono varie specie di cenere: fra tutte la preferibile è quella di
legno, come è noto. E fra i varii legni il più ricco in potassa ed
acido fosforico è quello dei sarmenti di vite: secondo le analisi di
Berzélius, Berthier, Saussure ecc., ecco le proporzioni di potassa
e soda contenute nelle ceneri delie seguenti piante:
CONCIMAZIONE DEI VIGNETI 467
Quercia . . . 9,44 p. 0[Q Paglia di segale . . . 17,03 p. 0{()
Olmo .... 24,68 » Id. d'avena. . . . 27,87 »
Pino .... 15,48 » Vite 43,67 »
E secondo Berthier la proporzione di acido fosforico esistente
nella parte insolubile di varie ceneri sarebbe la seguente:
Quercia .
. da 8 a 70 p. 0[oo
Gelso .
. da 18 a 116 p. Ojqo
Castagno .
» 19 » — »
Larice .
. » 54 » 57 »
Pino . .
. » 10 » 50 »
Vite . .
. » 78 » 432 »
La preferenza quindi si deve dare alle ceneri della vite, perchè
sono le più ricche sia in potassa che in acido fosforico, raccoglien-
dole con cura per adoperarle come concime nei vigneti stessi. La
dose non deve eccedere i 20 ettolitri ad ettare ogni quattro anni
circa, perchè si è osservato che la cenere è uu potente stimolante
del terreno il quale, ove si eccedesse, si estenuerebbe in breve tempo.
Infatti, secondo l'opinione già avanzata da Thaér, i carbonati al-
calini delle ceneri facilitano la decomposizione delle sostanze orga-
niche del terreno.
Inoltre la cenere è sempre preferibile usarla nei composti, ed in
ogni caso non si deve mai metterla a contatto diretto colle radici,
poiché, appunto per la sua alcalinità, nuocerebbe alle loro parti più
tenere, esercitando un'azione disorganizzatrice.
Oltre alle ceneri di legna, abbiamo le ceneri di carbon fossile,
quelle di torba, ecc. che sono pure utilizzabili pei vigneti, benché
non abbiano una ricchezza in potassa uguale alle prime (da 1 a 3 Ojq.)
Appendice. — La fuliggine. Non ci consta che questa sostanza
si adoperi quale concime nei vigneti; pure potrebbe con profitto en-
trare nei composti perchè vi porterebbe azoto, potassa ed acido fo-
sforico. Se ne potrebbero usare in media da 15 ettolitri a 20 per
ogni ettare di vigneto specializzato, contenente 4000 a 5000 piante;
si dovrebbe mescolarla con terra, vinaccie, ceneri ecc., così da for-
mare circa 50 metri cubi di composto. Una simile concimazione, in
terreni di media fertilità, basterebbe per due anni.
§ 17. I concimi antisettici e loro valore. — I viticultori
attribuiscono proprietà antisettiche a certi concimi, perchè infatti al-
cuni fra di essi, se non uccidono realmente gli insetti parassiti del
vigneto, almeno ne li allontanano. Ne diremo poche parole a titolo
di curiosità.
468 CAPITOLO XII
Ai panelli di colza, ad esempio, si attribuisce la proprietà di uc-
cidere a dirittura Yeumolpe, per l'olio essenziale che si forma in di-
screta quantità nel terreno con essi concimato: questo olio sarebbe
Y essenza di senape, lì sig. Paolo Thénard fece al riguardo accu-
rate esperienze, con panelli preparati alla temperatura di 80° ado-
perati alla dose di 12 quintali per ettare; anzitutto fece ridurre il
panello in polvere, che fu poi sparso nel vigneto dalla metà di feb-
braio alla metà di marzo, cioè ai momento del primo lavoro. Egli fece
fare lo spargimento alla volata, ed il vignaiuolo copriva subito il
panello colla zappa. La larva dell'eumoìpe vive sulle radici, alle quali
cagiona talvolta gravi danni; ma sotto l'azione dell'essenza di senape
del panello, muore. Il sig. Thénard ripetè le sue prove durante
molti anni, e sempre con esito felice.
Anche il panello di ricino, secondo le molte esperienze fatte a
Flayose (nel Varo) dal sig. V. Raynaud, godrebbe di speciali pro-
prietà insettifughe.
Contro la fillossera vennero poi ideati innumerevoli concimi an-
tisettici, i quali pur troppo non diedero risultati apprezzabili. Il sig.
Rogiers però sostiene di aver ottenuto buon'esito nel Gard mercè
l'uso della fuliggine alla dose di mezzo chilogramma per ogni ceppo
fillosserato, ed applicata in una fossa scavata attorno al ceppo stesso:
l'odore empireumatico della fuliggine avvelenerebbe il suolo e con
esso le fillossere, ciò che però noi non crediamo. Ci vuole ben altro
per asfissiare questi afidi !
Non neghiamo tuttavia che si possano combinare miscele conci-
manti le quali godano della proprietà di fugare certi insetti: i viti-
cultori ne hanno tratto profitto da tempi assai remoti, e gli scrittori
latini di georgica ci dicono ad esempio che, contro le larve che in-
festano le radici della vite, è utile adoperare un miscuglio di « bi-
tume, zolfo e morchia » e via dicendo. Anzi, se risaliamo ai tempi
della tradizione biblica, troviamo ivi pure indicati i concimi antiset-
tici, come sarebbe ad esempio un miscuglio di aceto forte e cenere da
applicarsi sulle radici delle viti Non vi ha adunque realmente nulla
di nuovo sotto il sole!
§ 18. Varii modi di adoperare i concimi per le viti. —
Ci rimane a studiare in qual modo debbonsi usare i concimi nei vi-
gneti, per averne buoni risultati, e nello stesso tempo per non re-
care nocumento alle viti stesse quando — come accade spesso —
si adoperano ingrassi di natura caustica.
CONCIMAZIONE DEI VIGNETI 469
Anzitutto stabiliremo siccome regola generale che i concimi non
vanno mai posti a diretto contatto col sistema radicale della
vite: fra quest'ultimo e l'ingrasso dovrà sempre intercedere un pic-
colo strato di terra, che si farà scendere sulle radici medesime dopo
scavata la buca, e prima di somministrare la occorrente dose di in-
grasso.
In secondo luogo si dovrà sempre procurare di fare la conci-
mazione del vigneto allorquando la vegetazione è in riposo,
vale a dire da novembre a marzo; tenendo calcolo che è preferibile
il periodo da novembre a gennaio al periodo da gennaio a marzo.
Questo è tanto più vero nei paesi caldi, ove 1' inverno è per così
dire la sola stagione nella quale cada una certa quantità di pioggia;
è quivi molto conveniente che vengano le piogge quando già sia
stato concimato il vigneto, specialmente se si sono adoperati con-
cimi chimici o cenere o altri ingrassi minerali, cui 1' acqua giova
molto, rendendoli di più facile assimilazione. Certo però, se si usano
concimi molto pronti, si può fare la concimazione anche nel mese
di marzo ed ottenerne tuttavia buoni risultati nella vendemmia dello
stesso anno, specie riguardo alla buona formazione del legno per la
fruttificazione avvenire. Le gemme in questo caso si formano in con-
dizioni favorevoli, i loro serbatoi si arricchiscono di molte sostanze
utili, onde si ha poi una copiosa vendemmia l'anno successivo. In
generale però è sempre preferibile concimare i vigneti sul tardo au-
tunno, come or' ora consigliavamo.
In terzo luogo si dovrà aver cura di sotterrare i concimi almeno
a 20 o 25 cent, di profondità, sia perchè le radici siano allettate
a stare in basso nel suolo (ove è maggiore la frescura ed ove perciò
possono trovare 1' umidità che è loro indispensabile), sia perchè le
mal' erbe non profittino dei concimi stessi.
Ciò premesso, diremo che i concimi si possono sotterrare in buche,
oppure in fosse, oppure anche in fori, ed infine a scasso ge-
nerale. Il sistema delle buche conviene specialmente alle viti di
grandi dimensioni (pergolati, ecc.); esso consiste nello scavare at-
torno alla ceppaia una buca profonda 20 o 25 centimetri, tanto
da scoprire le prime radici, e larga quanto si vuole; entro di essa
si mette il concime, dopo aver coperto leggermente le radici con
terra. Abbiamo detto a bello studio che le buche possono farsi lar-
ghe a piacimento, perchè si è visto in pratica che questo allarga-
mento, se così possiamo chiamarlo, dell'antica buca in cui fu pian-
470 CAPITOLO XII
tata la vite, giova molto alla vite stessa, cosicché spesso anche senza
concime se ne ottengono rimarchevoli risultati (V. § 13, Terra ver-
gine). Il viticultore vedrà quindi a seconda delle speciali circostanze
in cui si trova, fino a che punto gli converrà di tenere ampia la
buca: in generale si adotti la larghezza di un metro.
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Fig. 107.
Le buche si possono anche fare attorno ai singoli ceppi, nei vi-
gneti specializzati, a guisa di tanti circoli (fig. 107): è questo il si-
stema che seguono molti viticultori della Francia Meridionale, benché
costoso. A tal' uopo si opera una vera scalzatura delle ceppaie a 18
centimetri di profondità, durante la quale si libera il pedale dai getti
parassiti che indebolirebbero la pianta: gettato il concime nella buca
si sotterra. Questa concimazione costa L. 10 ogni 1000 ceppaie,
vale a dire circa 45 lire V ettare per la sola spesa occorrente all'a-
pertura delle buche, perchè le ceppaie sono distanti lm,50 l'una dal-
l'altra.
Il sistema delle fosse aperte lungo i filari, cioè negli interfìlari, è
il preferibile specialmente se si tratta di vigneti specializzati. Tali
fosse possono avere una larghezza variabile a seconda dell'ampiezza
dell'interfilarc; se questo è molto grande, non conviene fare la fossa
nella parte mediana, ma è preferibile fare due fosse lateralmente al
filare, alla distanza di circa 40 centimetri dai ceppi. Ogni filare ver-
rebbe così a trovarsi fra due fossette distanti fra di loro circa 80
centimetri. La profondità delle fosse deve essere di almeno 20 o 25
centimetri; in esse si metterà il concime, ricoprendolo poscia con terra.
Come si vede, rimane un tratto di 40 cent, tanto al disopra quanto
al disotto del filare in cui non vi ha concime, e questo perchè è mu-
tile mettere l'ingrasso presso al ceppo ove non vi sono radici d'as-
sorbimento (v. pag. 89 e 90).
CONCIMAZIONE DEI VIGNETI
471
Un ottimo sistema di concimare i vigneti è quello indicato dalla
fig. 108: nell'interfilarc si apre un fosso profondo 40 o 50 centimetri
nel quale si mettono i concimi, i quali poscia si coprono con terra presa
scalzando le ceppaie. Ciò si fa in autunno. È noto che questa scal-
Fig. 108.
zatura è molto giovevole alla vite, come diremo in disteso al capi-
tolo XV, perchè giova ad immagazzinare le acque piovane autun-
nali ed iberni, specialmente nei paesi caldi ed aridi. Al sopraggiun-
gere dei primi calori si rincalzano le ceppaie, appianando il vigneto.
11 sistema dei fori consiste nel praticare con appositi foraterra
dei buchi attorno ai ceppi, ed a collocarvi dentro la necessaria quan-
tità di concime. È evidente che questo metodo non può adottarsi se
non quando si usano concimi polverulenti o liquidi. A tal uopo si
adopera un palo di ferro (fig. 109) oppure altro foggiato come la
fig. 110 se il terreno è poco consistente. Se invece il terreno è duro,
conviene valersi del palo a vangile, cioè con due stecche (fig. Ili)
sulle quali l'operaio poggia il piede per infìggerlo nel suolo: le due
stecche debbono essere poste all'altezza di almeno 40 centimetri dalla
punta del palo. Il concime si misura abbastanza esattamente con un
cucchiaio (fig. 112) facendo prima una prova per vedere quanti
grammi di ingrasso può contenere. Si possono praticare quattro fori
attorno ad ogni pianta, oppure anche soli due, dividendo la dose del
concime in quattro oppure in due parti.
Infine il sistema di concimare il vigneto a scasso generale con-
siste nello spargere i concimi uniformemente nell'interfilarc, come si
farebbe in un campo, e poscia sotterrarli con uno scasso generale
alla profondità di 20 a 25 centimetri. Quasi tutto il terreno del vi-
gneto viene ad essere così ingrassato, fatta eccezione per una striscia
di 40 centimetri circa di spessore sia da un lato che dall'altro del
filare — in tutto 80 cent, circa — nella quale, come dicevamo or
ora, è inutile spargere concime. Alcuni obbiettano che questo sistema
è costoso; invece noi lo troviamo molto economico, perchè si può
472
CAPITOLO XII
benissimo spargere il concime prima del lavoro primaverile del vi-
gneto, e sotterrarlo facendo questo lavoro stesso colla zappa, colla
vanga o coll'aratro: con una sola spesa si compirebbero cosi due im-
portanti operazioni nel vigneto. È vero però che ciò non può dirsi
nel caso della concimazione fatta in autunno. Un' altra obbiezione
vien fatta alla concimazione che diremo alla volata, ed è questa: se
il lavoro che si fa per sotterrare il concime non è abbastanza pro-
fondo, si provoca la formazione delle radici superficiali, che sono
troppo soggette a soffrire gli ardori del caldo se il terreno non è te-
Fig. 109.
Fig. no.
Fi- 111.
Fiff. 11-'.
nuto sempre smosso; di più, si favorisce la moltiplicazione delle male
erbe. Questa obbiezione è seria, ma appunto per evitare gli accen-
nati inconvenienti abbiamo consigliato di portare il concime, colla
lavorazione, a 20 o 25 centimetri di profondità, onde chi non cre-
derà di dover fare questo scasso, farà meglio ad adottare il sistema
delle fosse o quello delle buche; a meno che non voglia sotterrare
il concime in due volte, la prima a marzo con una leggera zappa-
tura, la seconda a maggio con una vangatura più profonda, por-
tandolo così a maggior profondità nel terreno.
CAPITOLO XIII
Potatura secca
§ 1 . Definizioni — § 2. Scopo della potatura secca — § 3. Potatura povera, ricca
e ricchissima: potatura di allevamento e di produzione — §4. Quando si debba
potare e quando convenga anticipare la potatura — § 5. La potatura in due
tempi — § 6. La potatura secca e la varietà del vitigno — § 7. Strumenti
per potare — § 8. Modo di eseguire la potatura: esempii pratici — § 9. La
succisione delle viti.
§ 1. Definizioni. — I viticultari chiamano potatura secca quella
che si fa in autunno, nell'inverno od in principio di primavera espor-
tando le parti legnose e secche della vite, e questa è la vera pota-
tura. Chiamano invece potatura verde il complesso di quelle opera-
Fig. 113.
zioni le quali, come la scaccliiatura e la cimatura, hanno per iscopo
di favorire la fruttificazione e moderare il soverchio sviluppo erbaceo
della vite mediante la esportazione di alcune parti verdi della vite
stessa. La prima potatura si pratica da ottobre ad aprile; la se-
conda da maggio a settembre.
474
CAPITOLO XIII
Dicesi capo a fratto il tralcio frutticoso; il capo a frutto si dice che
è potato corto quando gli si lasciano poche gemme, talvolta anche
soltanto una o due. Allora i capi prendono eziandio il nome di speroni
o cornetti frutticosi: la fig. 113 mostra una ceppaia che porta uno
sperone frutticoso con due sole gemme. Nel calcolare il numero delle
gemme si terrà calcolo soltanto delle così dette gemme franche,
cioè di quelle che hanno sopra di sé un internodo intatto e col suo
intermezzo legnoso, per essere stata tagliata nel mezzo la gemma
terminale: la gemma che ha sopra di sé una semplice porzione di
internodo quasi sempre fallisce, come già abbiamo detto a pag. 127
ove b fig. 31 sarebbe una gemma franca, a differenza della gemma
a di assai dubbia riuscita.
Ma una ceppaia può essere potata a molti speroni di due gemme, ed
allora la potatura benché corta è ricca, mentre nel caso della fig. 113
dicesi anche potatura povera. La fig. 114 ci porge un esempio di
potatura corta ma ricca.
Fig. 114
Allorquando alla vite si lascia un vero tralcio a frutto, si ha la
potatura lunga (fig. 115): in questo caso si lascia alla ceppaia uno
sperone (fig. 115 B) che serve a dare due o più getti, fra cui il
potatore può scegliere il tralcio frutticoso alla potagione successiva.
Siccome il tralcio lungo A è quello che dà l'uva, si chiama capo a
frutto o tralcio frutticoso; e poiché lo sperone B ci dà invece i
tralci per Tanno successivo, vien chiamato capo a legno o sperone
legnoso (1). Nell'Italia centrale il sistema di potatura indicato nella
(1) Columella lo chiama la guardia, e così lo chiamano anche alcuni scrittori
moderni, perchè lo sperone da legno è come la guardia della produzione avvenire.
POTATURA SECCA
47f
fìg. 115, con uno sperone da un lato ed un tralcio frutticoso ricurvo
dall'altro, è detto a capovolto. Quando la vite è potata in questa
guisa, il potatore fa all'atto della potatura secca tre operazioni; la
Fig. 11;
prima consiste nell'esportare il tralcio che ha dato frutto {colpo del
passato); la seconda nell'accomodare, accorciandolo alquanto, uno dei
getti dello sperone per poscia distenderlo a frutto {colpo del pre-
sente)', la terza infine nel potare o speronare a due occhi almeno
Fior. 116.
altro fra i getti dello sperone primitivo, il più basso, appunto per
avere un nuovo sperone {colpo dell'avvenire) (1).
(1) Queste efficaci espressioni le dobbiamo all'egr. Prof. Courtois di Chartres.
476 CAPITOLO XIII
Allorquando una ceppaia si allunga di troppo, è bene abbassarla;
a tal'uopo si alleva uno sperone collocato in basso sulla ceppaia
stessa, potandolo a due gemme: questo sperone è detto sbassatolo,
appunto perchè si taglia il vecchio legno sovrastante alla sua inser-
zione e la ceppaia rimane allora abbassata quanto conviene.
Infine la potatura può essere mista, cioè e con capi corti e con
capi lunghi: la fìg. 116 ce ne porge un esempio, mostrandoci una pianta
di vite con tre speroni a due gemme A ed un tralcio lungo B. Tal-
volta ancora invece di un solo tralcio lungo se ne lasciano due, come
si vede nella fìg. 117.
Studiando al Cap. XXII varii sistemi di viticoltura, accenneremo
alle svariate . forme che, nell'atto della potatura secca, si infliggono
alla vite (piramide, ombrello, cordoni speronati, ecc.) la quale tutte
le sopporta abbastanza bene, specialmente se non le manca il sus-
sidio o di buon terreno o di appropriato concime.
§ 2. Scopo della potatura secca. — Abbiamo detto, studiando
la fisiologia della vite, che fra il sistema aereo e quello sotterraneo
della pianta deve sempre esistere una cotale armonia, se si vogliono
ottenere copiosi frutti, di buona qualità, e se si vuole impedire il troppo
precoce esaurimento delle ceppaie. Or bene, egli è appunto per con-
seguire consimili risultati che ogni anno si pratica la potatura secca
delle viti.
Ma questa operazione, pure tanto utile, è essa realmente indispen-
sabile? Ci facciamo una simile domanda, pensando che in alcuni paesi
(per esempio in certi locali della Valle d' Aosta) si usa di lasciare
liberamente sfogare la vite senza mai reciderle tralci secchi, come
si fa generalmente; ma allora il piantamento vuol essere assai rado (1),
eppoi si richiedono ottime ed annuali conciìnazioni , perchè il si-
stema radicale si fa ampiissimo (essendo rispettato il sistema aereo).
Oltre a ciò nei paesi caldi non si potrebbe adottare questo sistema,
perchè con tralci lunghissimi la sava subirebbe un eccesso di elabo-
razione, e le gemme ascellari si organizzerebbero male, onde l'anno
dopo darebbero poca uva. Ciò è confermato da numerosi fatti, e non
ammette dubbii: il fogliame stragrande per verità cagionerebbe una
evaporazione assai grande e dannosa sia alle gemme come ai frutti
(1) Ecco un esempio che togliamo da un caso pratico: filari a 5 metri e piante
a 25 metri l'una dall'altra. Queste enormi distanze sono indispensabili.
POTATURA SECCA 477
pendenti. Lo provammo noi in Ajaccio, e ce lo provano i pergoli
siciliani paragonati alle viti potate basse. Il sistema della vite libera,
cioè non mai potata, potrebbe adunque consigliarsi per prova nella
sola Italia settentrionale ed in luoghi freschi, e sovratutto non sog-
getti a lunghe siccità; con esso si otterrebbe certo moltissima uva,
e siccome quelle viti mettono un po' più tardi in primavera, così
andrebbero anche meno soggette ai danni delle brine.
Ma le condizioni climatologiche che si richiedono per potere adot-
tare quel sistema di coltura non si trovano tanto facilmente; d'altra
parte le annate calde e secche sono frequentissime anche neh" Italia
superiore, ed in questo caso le viti libere soffrirebbero assai, come
dicevamo or' ora parlando dei paesi del Mezzodì. Potando invece la
vite annualmente, si evitano questi inconvenienti, e non v' ha lo
stretto bisogno sovraccennato della concimazione annuale. Il sistema
radicale delle nostre viti è perciò limitato, e spesso pur troppo anche
meschino colà dove non si concima mai il vigneto; or bene, potando
annualmente noi veniamo a porre il sistema aereo in armonia con
quello sotterraneo, e questa armonia sappiamo che non deve in nes-
suna maniera rompersi, se pure non si vuole pregiudicare grave-
mente la fruttificazione.
Certo però non bisogna eccedere nel potare, e bisogna anche po-
tare a tempo debito. Studiamo bene questi importantissimi punti.
§ 3. Potatura povera, ricca e ricchissima: potatura d'al-
levamento e di produzione. — Già sappiamo che la tendenza na-
turale della vite è quella di espandersi allungando quasi senza limite
i suoi tralci; ne abbiamo parlato in disteso a pag. 179, ed abbiamo
concluso, coli" appoggio della fisiologia vegetale e della stessa viti-
coltura pratica, che in generale devesi preferire la potatura ricca a
quella povera. La prima esaurisce il suolo, ed a questo si può prov-
vedere; ma la seconda esaurisce la pianta, ed allora non è quasi
possibile rimediarvi.
È un fatto irrefutabile che un eccesso nella potatura, per cui si
riduce la vite ad una ceppaia con uno o due speroni ad una o due
gemme, rende la pianta vecchia e spossata in poco tempo, perchè
essendo meschini i suoi rami, diventano meschine anche le sue radici.
Ma in viticoltura sono poche le regole assolute, ed anche a quanto qui
diciamo si possono muovere obbiezioni. Infatti nei paesi caldi e dove
il terreno è piuttosto magro, se le ceppaie sono alquanto vecchie, è
478 CAPITOLO XIII
assolutamente indispensabile potare povero, per esempio anche ad un
solo sperone con due gemme (fig. 113); i pochi grappoli che porta allora
la pianta, ricevono dall' apparato radicale quella quantità di umido
che loro abbisogna e possono maturare, laddove se la potatura fosse
ricca e fossero molti i grappoli, senza dubbio gli acini soffrirebbero per
l'asciutto, rimarrebbero di piccolo volume ed essicherebbero piuttosto
che maturare. Nelle suddette condizioni si può anche adottare la
potatura corta ma ricca indicata dalla fig. 114 se le condizioni di fer-
tilità del suolo lo comportano. Il tralcio lungo in simili condizioni
non è raccomandabile; noi lo abbiamo esperimentato in Corsica ma
con cattivo esito, perchè molti grappoli del tralcio rimanevano con
acini piccoli, che maturavano molto a stento, per deficienza di umore.
La potatura corta a speroni è pure raccomandabile là dove le viti
sono tenute molto fìtte, in terre non troppo feraci: ce ne porge un
esempio la Svizzera, nel Cantone di Vaud, ove si potano le piante
a cornetti di 2 gemme, lasciandone 4 per ceppaia. Ma queste cep-
paie sono collocate a soli 50 centina, l'una dall'altra in tutti i sensi,
cioè alla minima distanza possibile. È facile intendere che queste viti
sono poco rigogliose, onde non si ha a temere 1' aborto dei fiori in
primavera: infatti la produzione oscilla intorno a 100 ettolitri per
ettare.
Al contrario la potatura a speroni nei paesi ove l'umido abbonda,
o per lo meno non fa difetto, e dove le piante sono vigorose, è ge-
neralmente da condannarsi; perchè se l'umore copioso non trova un
lungo tralcio, ma solo dei cornetti, affoga come suol dirsi i grappo-
lini, che si cangiano in viticci (pag. 96). Qualora in queste condi-
zioni si volessero potare le viti a speroni, converrebbe abbondare
non solo nel numero di questi, portandoli anche a 10 o 15 per cep-
paia, ma lasciare loro anche 4 o 5 gemme franche per caduno: inoltre
saranno allora indispensabili le cimature, di cui parleremo nel Ca-
pitolo seguente, per forzare la produzione del frutto, poiché con questo
sistema di potatura si serbano alla vite solo le gemme inferiori dei
tralci, generalmente non feconde (veggansi le pag. 198 e 199).
È un fatto però che nei vigneti dell' Italia settentrionale conviene
adottare di preferenza la potatura a tralcio lungo, specialmente per
ottenere molta uva: taluni anzi potano non già ad uno, ma a due
tralci frutticosi, e ne ottengono prodotti assai elevati, provvedendo
però alla opportuna concimazione per non esaurire troppo presto le
ceppaie. Questa potatura ricchissima si può solo adottare colà dove
POTATURA SECCA 479
le viti sono molto vigorose, poiché in questo caso conviene abbon-
dare nel numero dei capi a frutto. In taluni piantamenti a piramidi,
a file distanti 4 metri e colle piante a 2 metri l'una dall'altra, ab-
biamo talvolta contato oltre a 100 speroni con tre gemme; e nelle
viti maritate ad alberi è noto che i tralci frutticosi sono talvolta in
numero anche di 10 a 15, e tutti assai lunghi, come ci mostra la
fig. 118. Qui il sistema radicale è molto ampio ed ha a sua disposi-
zione un grande cubo di terra, e perciò la pianta non soltanto può
sopportare la potatura ricchissima, ma la richiede. In caso diverso,
cioè con potatura povera, si verificherebbe il quasi totale aborto dei
fiori ed il prodotto fallirebbe pressoché totalmente.
Fig. 118.
La potatura assai ricca è pure indispensabile per le viti giovani
e robuste le quali crescono in terreni pingui, con sottosuolo imper-
meabile e perciò umidicci: così si fraziona il succo fra molte gemme,
e non si ha a temere cotanto la trasformazione dei grappoli in vi-
ticci. Certo però dove la potatura è molto lunga conviene mante-
nere fertile il suolo; in caso diverso la pianta si estenua presto, ed
è per questo che si suol dire che la potagione lunga logora la
vite, poiché esaurisce il suolo.
Ma la potatura deve altresì variare secondochè si tratta della ^o
tatura di allevamento o di quella di produzione.
Chiamasi di allevamento la potatura che si pratica sulle viti nei
primi anni del loro piantamento: lo scopo del viticultore intelligente
480 CAPITOLO XIII
deve essere allora quello di coadiuvare la costituzione di una pianta
forte, robusta e con buon apparato radicale, e non già di ottenere tosto
un prodotto; or bene, questo risultato non si può ottenerlo colla po-
tatura troppo corta e povera, come tanti usano, tagliando la pianta,
al primo anno, ad un solo sperone con due occhi. Questa mutila-
zione irrazionale della giovine pianta nuoce molto al sistema radi-
cale, onde la ceppaia adulta rimane per sempre poco vigorosa: ciò è
tanto vero che coloro i quali nei primi anni potano le piantine molto
ricche, oppure non le potano affatto, ottengono ceppaie di molta ro-
bustezza e fertilità nonché di lunga durata, perchè le radici hanno
potuto espandersi liberamente. Al primo anno adunque si poti ricco,
con almeno due speroni di tre gemme; al secondo anno poi si poti
a quattro speroni, oppure a due getti, ma lunghi, se la vite vuole
educarsi a tralcio frutticoso.
Al terzo od al quarto anno, a seconda del modo con cui fu fatto il
piantamento e delle condizioni di fertilità del terreno e di vigore del
vigneto, incomincierà la potatura di produzione, la quale ha per
iscopo di favorire la produzione del frutto senza però danneggiare
la pianta nella sua longevità; su di che già abbiamo parlato lunga-
mente nelle pagine che precedono.
§ 4. Quando si debba potare e quando convenga antici-
pare la potatura. — La scelta del momento più opportuno per
effettuare la potatura ha molta importanza, specialmente per quanto
riguarda la produzione copiosa dell'uva; spesso accade che il rac-
colto è mediocre o scarso perchè le ceppaie furono potate in mo-
menti non indicati dalle loro condizioni speciali. Vediamo pertanto
di esaminare questo importante punto.
Una regola generale non si potrebbe fissarla, perciò ci converrà
distinguere. È evidente che anche in questo caso il viticultore deve
tener calcolo del clima, del suolo e del vigore delle viti; nei climi
poco caldi e là dove le terre sono di buona natura ed i ceppi vi-
gorosi e giovani, conviene potare tardi, per permettere all'abbon-
dante umore che viene dal suolo di frazionarsi in molti rami, senza
di che, vale a dire ove la pianta fosse già potata, affogherebbe i
grappoli nascenti (aborto dei fiori). Si è appunto per ovviare a que-
sto grave inconveniente che il Dr. Guyot, il sig. F. Lacoste ed altri
scrittori francesi consigliano di tardare a potare anche in presenza
dei primi germogli; questo consiglio però lo indirizzano in modo spe-
POTATURA SECCA 481
ciale ai viticultari della Francia Settentrionale, cioè di climi freschi,
mentre ben differente consiglio danno gli scrittori della Francia Me-
ridionale. Guyot (1) dice, ad esempio, che la vite deve essere po-
tata nella quindicina che precede il suo movimento vegetativo, rite-
nendo che è meglio ritardare che anticipare; il potare durante l'in-
verno o prima fa abortire i fiori {caldure). Marès (2) invece, par-
lando del Mezzodì della Francia, consiglia la potatura anticipata, a
partire dal 15 novembre e venendo non oltre il 15 marzo, per e-
vitare che, colla potatura tardiva, la vite perda umore, ciò che la
indebolirebbe di molto, specialmente se le ceppaie sono attempate.
Infine, se è vero che in alcune condizioni di clima e di vitigno
« tarda potatura dà poco legno e molta uva » come dice un vec-
chio adagio, è eziandio vero che la potatura anticipata di tutte le viti
vecchie, nodose, non molto robuste, poste in terreni aridi ed in clima
pure arido, « dà molta uva » e prepara anche « buon legno » per
la potatura successiva.
In nessun caso poi il viticultore deve prendere a guida della po-
tatura le fasi della luna: non è vero che potando in luna nuova si
abbiano tralci più vigorosi, e che potando nella luna di febbraio si
ottenga poca uva, mentre se si pota in marzo se ne ottiene molta, e
via via. La Quintinye, il vecchio ortolano di Luigi XIV, dopo trentanni
di osservazioni sull'influenza della luna, ne trasse la convinzione che
tutti i precetti i quali furono dati dai così detti vecchi pratici, altro non
sono che « sciocchezze da ortolano di poca abilità ». E così tutti
coloro — noi pure compresi — i quali fecero esperienze di confronto
sull'influenza della luna sulla potatura, si convinsero pienamente che
nulla vi ha in ciò di serio. Chi pota in marzo ottiene più uva che
non chi pota in febbraio, non già per la varia influenza della luna,
ma perchè la potatura tardiva è più conveniente nei paesi setten-
trionali ove appunto è in voga quel precetto, e ne abbiamo detto
or'ora le ragioni.
Riassumendo, ripeteremo che
1° La vite estenuata e vecchia si deve potare in autunno,
cioè subito dopo la vendemmia, quando le foglie sono ancora ai-
quanto verdi e continua qualche movimento nei succhi; questi succhi
(1) Op. cit. voi. Ili, pag. 633.
(2) Op. cit. pag. 321.
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura, 32
482 CAPITOLO XIII
vengono così usufruitati a beneficio delle gemme frutticose dei tralci
uviferi, i quali appunto per ciò non si debbono sfogliare.
2° La vite in condizioni quasi normali, cioè non troppo ri-
gogliosa, ma nemmeno spossata, si deve potare più tardi; nel
verno, ad esempio.
3° Infine la vite giovane e robusta si deve potare fardi in
primavera, ma sempre prima nei paesi caldi che non nei freddi.
Queste viti rigogliose, che crescono su terre feraci, massime se si
trovano nell'Italia superiore ove la primavera è spesso umida assai,
è indispensabile che piangano molto, se pur si vogliono evitare i gra-
vissimi danni dell'aborto, di cui discorreremo più innanzi.
Da quanto qui dicemmo, si deduce poi che le viti poste in terre
aride, quelle dei climi assai caldi o esposte al sud o coltivate sui
poggi, o composte di vitigni molto feraci e produttivi, debbono po-
tarsi prima che non le viti poste in terre fertili, quelle dei climi
mediani o freschi, o esposte al nord, o coltivate nelle piane, o com-
poste di vitigni di produzione scarsa, a lunghi internodi e che sof-
frono per le primavere umide. Quando poi una vite avesse sofferto,
o avesse portato troppa uva, o avesse avuto per vicini, negli inter-
filari, il frumento, la segale, ecc., o peggio le male erbe, e non si
fosse vangata o zappata che una sol volta, essa dovrà potarsi prima che
non la vite la quale abbia vegetato in condizioni normali; e ciò perchè
avvantaggi un po' nell' autunno, e non pianga troppo in primavera,
perdendo quel succo di cui ha tanto bisogno e che in essa non è
sicuramente esorbitante.
§ 5. La potatura in due tempi. — L'aborto dei fiori, che
alcuni con espressione tolta dal francese dicono la colatura, arreca
ogni anno gravi danni in moltissimi locali italiani, non esclusi varii
della stessa regione Calabro-Sicula: l'eccesso di umore primaverile è
la causa principale di questo grave malore, che non è raro dimezzi
a dirittura il prodotto, particolarmente negli anni umidi. — Per ov-
viare a tanta perdita di prodotto noi andiamo consigliando, da molti
anni a questa parte, la potatura in più tempi, generalmente in due.
Colla prima potatura (che si opera tra dicembre e marzo) si pu-
lisce la vite e la si digrossa, liberandola dal legno inutile, ma rispet-
tando tuttavia due o tre tralci frutticosi, che si conservano intatti
in tutta la loro lunghezza. Colla seconda potatura (che si fa al muo-
versi della vegetazione, quando già si mostrano i grappoli ni nascenti)
POTATURA SECCA 483
si termina la potatura stessa, o raccorciando tutti i tralci che si
erano lasciati, o esportandone uno o due, per serbarne uno solo, od
in casi speciali conservandoli intatti tutti quanti. Con questo sistema
oltre ad impedire l'aborto, si ottiene anche un altro vantaggio: suppo-
niamo infatti che sopraggiunga una forte brina; siccome nei tralci
lunghi — specialmente se verticali — si sviluppano prima le gemme
della punta, queste saranno le più danneggiate; ma quelle della base
rimarranno intatte, per cui colla seconda potatura si raccorcieranno
i tralci esportando la parte guasta e serbando quella intatta, le cui
gemme sbuccieranno più tardi.
Si chiederà perchè non fare a dirittura la potatura tardiva in una
sola volta, con che si ovvierebbe benissimo ai danni dell'aborto. Ri-
spondiamo che la potatura in due tempi conviene specialmente alle
viti di mezzano vigore che sono le predominanti nel nostro paese;
a queste viti recherebbe nocumento una perdita troppo grande
di succo in principio di vegetazione, ond'è che è necessario impedire
l'aborto dei fiori senza tuttavia privare la pianta di una troppo grande
quantità di umore. Gli è ciò che si ottiene potando in due tempi,
per moderare il soverchio frazionamento del succo al ridestarsi della
vegetazione come accadrebbe qualora si aspettasse a sgrossare e po-
tare poco tempo prima del movimento del succo.
La potatura in due tempi fu adottata con vantaggio sia nel Mez-
zodì d'Italia, ove potasi la vite a speroni, come nel Settentrione ove
potasi a tralcio lungo; sono in particolar modo le viti giovane e vigorose
che ne avvantaggiano, specialmente allorquando l'aprile ed il maggio
corrono piuttosto umidi. In questi casi il grappolo non si trasforma
in viticcio e nello stesso tempo, mercè quella potatura in due riprese,
non si danneggia la pianta con un soverchio pianto.
§ 6. La potatura secca e la varietà del vitigno. — Si ri-
tiene generalmente che la potatura secca debba anche variare a se-
conda della varietà del vitigno, e questo è esatto quando la vite si
lascia crescere con alquanta libertà, un po' secondo il suo istinto
naturale, cioè non si cimano i tralci né le femminelle. In tal caso è
chiaro che bisognerà potare lungo o corto a seconda che insegna
l'esperienza dei viticoltori, i quali sanno benissimo che, ad esempio,
il nebbiolo o spanna vuole lunghi tralci uviferi. Ma se la vite è e-
ducata bassa, e se il vigore suo è concentrato negli speroni frutticosi,
allora non è più necessario far distinzione fra vitigno e vitigno.
484
CAPITOLO XIII
Cosi, mercè le cimature graduali dei tralci uviferi e dei rimessiticci,
al vigneto sperimentale il Cardello (1) si riuscì a far fruttificare il
suddetto nebiolo potandolo a speroni con sole 2 o 3 gemme, cioè
con potatura cortissima.
Abbiamo già detto a pag. 186 che è possibile provocare un rac-
corciamento degli internodii delle viti, e che ad una minor lunghezza
dei medesimi corrisponde una maggior fecondità nelle gemme uvi-
fere; gli è colle cimature graduali, di cui parleremo nel capitolo se-
guente, che si ottiene questo raccorciamento dei meritalli, ed allora
anche un vigneto che usualmente richiede la potatura lunga, può
potarsi corto. Per concedere in questo caso uno sfogo alle piante
giovani e robuste, si possono lasciare parecchi speroni frutticosi, a-
dottando quella che al § 1 abbiamo chiamato potatura corta ma ricca,
ed agli speroni si possono eziandio lasciare anche più di quattro
gemme per caduno.
§ 7. Strumenti per potare. — Lo strumento che si adopera
per potare esercita una non piccola influenza sull'esito della potatura
stessa: generalmente si usano il pennato o falcetto (fig. 119) oppure
Fig. 119.
la forbice fig. 120 (forbicione o tenaglia (2) ); per fare grossi tagli,
Fig. 120.
(1 | Questo podere, dirotto da mio padre G. A. Ottavi, trovasi presso Casal Mon-
ferrato, ed è specialmente dedicato agli studii viticoli.
(2) Alcuni chiamano il forbicione sècatore, dal francese sécateur,
POTATURA SECCA 485
come quando si abbassa una ceppaia, si adopera la sega a mano
(fig. 121).
Deve preferirsi la forbice al falcetto? La quistione è controversa,
ma a noi pare di poterla risolvere bene facendo qualche distinzione.
Colla forbice la potatura procede certo più speditamente, ed è facile,
per chi ben inteso sappia adoperarla, spaccare in due orizzontal-
mente T ultima gemma franca con un internodio aperto, cioè senza
tramezzo legnoso (pag. 127): colla forbice è anche assai più facile
Fig. 121.
rimondare la vite dai vecchi viticci e dai getti laterali del tralcio
frutticoso o degli speroni senza offendere le gemme ascellari. Ma
spesso accade che il potatore inesperto colla forbice guasta e quasi
diremmo lacera le fibre legnose, cagionando ai tralci altrettante fe-
rite molto pericolose: questo si verifica sempre allorquando la forbice
è mal costrutta ; è invece necessario che la lama tagliente sia non
solo bene affilata, ma che combaci perfettamente coll'altro pezzo al
disopra del calcagno.
Col falcetto i tagli risultano netti; è vero che sono obliqui, ma
questo è un vantaggio, perchè così l'acqua non può fermarsi sulla
ferita stessa e provocarne il marcimento.
Gli autori antichi lodano tutti il pennato; Columella descrive il
vero pennato (op. cit. 221) colla sua penna o cresta tagliente posta
dietro la lamina quale tuttora adoperasi in molti paesi vitiferi; egli
vuole che sia molto tagliente per non offendere la vite con ferite
« scabre e disuguali », e consiglia di non mai adoperarlo « menan-
dolo a colpi, bensì sempre tirandolo », ed è quanto fanno i bravi
potatori per avere i tagli a superficie perfettamente omogenea.
Gli scrittori moderni italiani sono quasi tutti partigiani della for-
bice ; i pratici eziandio la adottarono in gran parte, pure riconoscendo
che il falcetto ben adoperato è ottimo strumento. Anche gli scrit-
tori francesi consigliano la forbice : Marès (op. cit. 323) scrive che
dappertutto nella Francia Meridionale si abbandonò l'uso del pennato
per adottare la tanaglia, che egli dice « più comoda più speditiva e
486 CAPITOLO XIII
meno pericolosa ». Guyot (1) è dell'avviso che si debba sempre pre-
ferire la forbice « malgrado l'opinione contraria emessa da viticul-
tori valenti e da professori di albericoltura d' una antorità inconte-
stabile ». Giustamente soggiunge, 1' eminente scrittore, che questi
professori hanno ragione in quanto il falcetto viene adoperato da
persone abili come loro stessi : ma quando si tratta di potare molte
piante di viti coll'opera di operai presi qua e là, e generalmente poco
esperti, nulla vi ha di meglio della forbice perchè, a parere di Gu-
yot, « anche se si lacera il legno, la vite è talmente robusta che
quasi non ne soffre », ciò che però non vuoisi prendere troppo alla
lettera.
Noi siamo partigiani della forbice, a patto che sia bene costrutta,
bene affilata e bene adoperata; ma è assai più facile impratichirsi
con essa che non col pennato. Tuttavia il potatore deve sempre
portare seco una lama tagliente per lisciare le ferite irregolari.
Infine pei grossi tagli si deve adoperare la sega (fìg. 121).
§ 8. Modo di eseguire la potatura: esempii pratici. —
Scelta una giornata serena, il potatore armato dei suoi istrumenti
si recherà nel vigneto ; l'osservazione ha dimostrato che, per quanto
si può, non si deve potare in giornate umide o nebbiose, o col vento.
Il freddo non nuocerebbe, ma l' umido pare che sì; alcuni però te-
mono molto i grandi freddi, che dicono assai dannosi alle ferite.
Olivier de Serres scrive che si deve potare nei giorni « non impor-
tunati né da pioggie né da nebbie ». Infine un tempo secco è il
preferibile.
Giunto nel vigneto, il potatore può trovarsi dinnanzi a differenti
casi, secondo i quali taglierà piuttosto in un modo che in un altro.
Indicare tutti questi casi, sarebbe come descrivere qui i numerosi
sistemi di potatura ed allevamento delle viti ideati dai viticultori; al
Cap. XXII descriveremo i principali fra di essi, onde qui ci limite-
remo a dare qualche esempio pratico di potatura, scegliendo i casi
più comuni in cui può trovarsi il potatore.
1°) Premettiamo che se egli si trova innanzi una parte di vite
come nella fig. 122 e vuole potarlo ad uno sperone solo, deve sce-
glie re il più basso, tagliando in a b ed a b, così da avere il cornetto
a due gemme della fìg. 123.
(1) Cullar*' de la vigne et vinification (2m( èdition) 150.
POTATURA SECCA
487
2°) Supponiamo che il potatore abbia a tagliare una pianta
molto rigogliosa e giovane (quale sarebbe indicata dalla fig. 124)
Fkr. li
Fio-. 123.
soggetta all'aborto dei fiori in primavera. In questo caso è neces-
sario potarla lunga ed alta: per questo egli sceglierà il tralcio frut-
ticoso C 0, piuttostochè il tralcio F od E — e farà uno sperone
del tralcio più basso D. Poterà quindi nei punti G, E, F e D, e
Fig. 124.
avrà il risultato indicato dalla fig. 125. La scelta dello sperone basso
è importante, perchè dandoci i getti per la potatura successiva, im-
pedirà che la pianta si allunghi di troppo.
Se invece la vite fosse poco robusta e di mediocre rigoglio, si
488
CAPITOLO XIII
conserverà per esempio il tralcio frutticoso E (fig. 123) esportando
F C e G, ma conservando lo sperone D.
3°) Se il potatore non può trovare o sullo sperone od alla base
Fig. 125.
del tralcio frutticoso un bel tralcio a frutto, come è indicato per
esempio nella fig. 126, allora potrà potare tutti i getti a speroni
come nella fig. 127 lasciando intatto il vecchio tralcio frutticoso.
4°) Supponiamo infine che il potatore abbia innanzi a sé una
Fig. 126.
vecchia pianta, e che egli voglia abbassarla: ciò accade spesso ed è
operazione importante, perchè la vite abbassata è come ringiovanita.
Prendiamo la ceppaja fig. 128 in cui la parte vecchia è eccessiva; il
potatore prenderà il tralcio frutticoso non già dallo sperone, bensì
POTATURA SECCA
489
dal ceppo stesso A, cioè nella parte più bassa lasciata fin dalla prima
potatura, segnata con 1 nel disegno; ed il getto dello sperone del-
l'anno avanti lo reciderà nuovamente (4 fìg. 128): indi colla sega a
Fiff. 127.
mano (pag. 485) taglierà tutto il legno lasciato nella seconda, nella
terza e nella quarta potagione (2, 3, 4 fìg. 128) per cui la vite rin-
Fig 128.
gio vanita prenderà l'aspetto della fìg. 129 ove S è il tralcio frutti-
coso e 2 lo sperone.
§ 9. La succisione delle viti. — Allo scopo di dar vigore
alla vite si usa spesso, se non sempre, nella Italia meridionale ed in
Sicilia, più di rado assai nel centro e neh" alta Italia, succidere la
490
CAPITOLO XIII
vite, cioè far il taglio all'orba sotto terra. È questa una operazione
per cui si scalza la pianta e si taglia sul vecchio, circa a due occhi
sotto il getto più basso, e così quasi a mezzo palmo sotto la super-
ficie del suolo, operando quando essa è nel suo terzo anno di vita.
Fig. 129.
Accade allora che la pianta, pel suo prepotente bisogno di espan-
dersi, caccia lunghissimi getti; ma questi getti che diventano poi le
branche madri destinate alla fruttificazione, partono da occhi che sono
vicinissimi alle radici; infatti partono per così dire di sotto il suolo,
perchè le ceppaje rimangono quasi dentro una conca. Ora in questi
getti verticali, o almeno diritti, e senza nodosità, la linfa scorre in
fretta, non si elabora, quasi diremmo non si concentra, ed è notis-
simo che allora si hanno pochi grappoli, a cagione della colatura dei
fiori, i quali abortiscono ed il grappolino si muta in un viticcio o
capreolo fcircelloj. Ciò però non succede nei tralci ricurvi. In breve,
diremo che lo studio delle leggi naturali della viticultura conduce alla
conclusione che la vite non deve mai succidersi, nulla essendovi
nella fisiologia vegetale che giustifichi tale barbaro processo. Gli
è a cagione di essa che anche in paesi caldissimi, come la Sicilia ed il
Brindisino, si hanno a lamentare gravi danni per lo abortimento dei
fiori, mentre parrebbe che la colatura non dovesse danneggiare se
non le viti dell'alta e media Italia.
Ecco come si opera la succisione in Sicilia, e precisamente a Fa-
POTATURA SECCA
491
vara nell'Agrigentino (1): essa si pratica al secondo o terzo inverno
dal piantamento del magliolo e si incomincia coli' incavadclori, cioè
col ridurre a cavalli la terra scavandola profondamente intorno alle
giovani ceppaie, (le quali restano sprofondate ciascuna nel centro di
una conca propria) e coll'accumularla in filari come quando si cava
la terra da un fossato. Poscia si succide. La fig. 130 rappresenta ap-
Fig. 130.
punto una vite succisa: L L indica il livello antico della superfìcie
della vigna, prima àeWincavaddori; C C C C è la sezione della conca,
S S segna un piccolo scalzamento per tagliare le radici, che reste-
rebbero superficiali col nuovo livello del suolo della conca; T mostra
infine il punto del taglio, cioè della succisione. — La fig. 131 mostra
in G G G i getti venuti dopo la succisione, che i siciliani chiamano
(1) Dobbiamo questi dettagli all'illustre ampelografo Barone Antonio Mendola
già ricordato in questo libro.
41)2
CAPITOLO XIII
getti in selvaggio; questi tralci si potano in T T T; le gemme più
alte e prossime al taglio 1 1 1 si sopprimono, e restano quindi le sole
gemme 2 2 2 per la futura vegetazione. Dice il Barone Mendola che
Fig. 131.
la vite succisa qualche volta perisce, d'ordinario getta tralci sterili
ma vigorosi, più o meno secondo il loro numero e F indole del
vitigno.
CAPITOLO XIV
Potatura verde
§ 1. Definizioni — § 2. Scacchiatura — § 3. Cimatura dei germogli uviferi —
§ 4. Cimatura delle femminelle: sfemminellatura — § 5. Cimatura e soppres-
sione dei viticci — § 6. Sfogliatura o spampinatura — § 7. Cimatura e dira-
damento dei grappoli. I secondi grappoli — Appendice. La curvatura estiva
dei tralci.
§ 1. Definizioni. — Il grave disaccordo che esiste fra gli scrit-
tori di viticoltura per quanto ha tratto alla potatura verde, dipende
sovratutto dal non essere d'accordo nelle definizioni, onde molti chia-
mano scacchiatura ciò che altri dicono cimatura e via dicendo, È
per questo che vogliamo premettere qualche definizione, non foss'altro
perchè si intenda chiaramente quanto stiamo per dire.
La potatura verde già l'abbiamo definita a pag. 473: essa com-
prende tutte quelle operazioni che si fanno in primavera, in estate
ed in autunno sulle viti, esportando talune parti dei tralci erbacei op-
pure dei frutti, sia per favorire la fruttificazione presente sia per
giovare alla futura. Queste operazioni sono le seguenti:
1°) La scacchiatura (spollonatura, stralciatura, stallatura, mon-
datura) la quale consiste nel ripulire la ceppaia dai polloni che essa
porta, i quali non solo sono sterili ma si appropriano una parte della
linfa destinata alle produzioni utili della pianta, e perciò sono anche
detti succhioni. La scacchiatura può anche estendersi ai getti sterili
della base del tralcio frutticoso, come diremo al § 2;
2°) La cimatura (svettatura, mozzatura, castrazione, spunta-
494 CAPITOLO XIV
tura), mercè cui si esporta soltanto la estremità dei getti uviferi, op-
pure una porzione di essi serbando solo un certo numero di gemme
sopra l'ultimo grappolo, oppure anche la cima delle femminelle e degli
stessi viticci;
3°) La sfemminellatura , che altro non è se non la soppres-
sione delle femminelle o nepoti;
4°) La sfogliatura o spampinatura, la quale consiste nel le-
vare una parte delle foglie per iscoprire i grappoli poco tempo prima
della vendemmia.
Premesse queste spiegazioni, veniamo ai dettagli.
§ 2. Scacchiatura. — a) La scacchiatura sul vecchio ceppo
si pratica in giugno, luglio ed agosto, e costituisce una vera spol-
lonatura, poiché colle dita si tolgono via tutti quei polloni inutili,
veri parassiti, i quali nascono sul ceppo o vecchio tronco della vite.
Li chiamiamo a bello studio parassiti, perchè infatti crescono a
danno dei getti superiori, i quali o hanno uva, o sono destinati a
dare tralci frutticosi per l'anno che segue: oltre di ciò non portano
proprio verun frutto salvo in qualche vite a pergolato, e rare volte;
(nei nostri paesi meridionali). I suddetti polloni non servono adunque
a nulla, salvo il caso in cui volendosi abbassare la pianta sul ceppo,
quasi per ringiovanirla, si vogliano potare un anno dopo a due o tre
gemme. Allora i getti di queste ultime darebbero frutti 1' anno ap-
presso, e quindi si potrebbe benissimo recidere tutta la parte sopra-
stante del vecchio tronco.
La scacchiatura non deve praticarsi così all'impensata: per sapersi
regolare in modo convenevole, bisogna riflettere anzitutto allo stato
della vite. Una pianta robusta sente, lo dicemmo già più volte, un
prepotente bisogno di svolgersi in molti pampini e di dar così corso
alla sovrabbondanza dei propri umori; in una parola, di sfogare il
suo stato pletorico. L' osservazione ci insegna che quando il si-
stema aereo della pianta non può smaltire tutto quanto gli
viene apprestato dal sistema sotterraneo, ne soffrono i fruiti.
Così una vite vigorosa scacchiata inconsideratamente finisce col non
portare che uve le quali maturano a grande stento: gli acini si fanno
bensì turgidi per l'eccesso degli umori che ad essi affluiscono, ma
non è raro rimangano verdi e non maturino affatto. In presenza di
una simile sovrabbondanza di succo acquoso è naturale che non av-
vengano se non troppo lentamente ed a disagio quelle trasformazioni,
POTATURA VERDE 495
quei processi chimici cioè, per cui la cellulosa, la pectina, la fecola,
ecc., si vanno man mano mutando in glucosio, e per cui scompaiono
quasi tutti gli acidi liberi (tartarico, malico, citrico, ecc.) che ab-
bondano nelle uve acerbe. L' acqua è bensì indispensabile al sarco-
carpo dei frutti acciò questi maturino, ma non vuole essere né de-
ficiente, né eccedente. Premesse queste osservazioni, e tenendo conto
dei fatti osservati in proposito, ne deduciamo che: 1° la scacchiatura
in luglio od agosto non si deve praticare nelle vigne assai gio-
vani (cioè al 1° o 2° anno) e deve essere limitatissima al 3°; deve
poi essere tanto più moderata quanto più la vite è giocane, ri-
gogliosa e ricca di umore; 2° essa non deve praticarsi del tutto
con viti robustissime e decisivamente pletoriche; 3° infine trat-
tandosi di viti vecchie, spossate, deboli, cioè in condizioni vege-
tative opposte alle precedenti, quella riesce una pratica di in-
contestabile vantaggio pei frutti pendenti, nonché per le gemme
che dovranno dare buoni pampini fruttiferi Vanno dopo. In tal
caso non si ha un eccessivo frazionamento del succo in un soverchio
numero di pampini; anzi Y umore converge ai frutti, che crescono
veramente perfezionati, ed alle dette gemme, che si fanno turgide
ed ottime per la futura vegetazione.
b) Ma la scacchiatura si suol estendere anche al taglio di quei
getti che non portano uva, locchè si fa da varii viticoltori quando
l'uva incomincia a fiorire, rispettandone talvolta uno o due, nel caso,
che già citammo più sopra, in cui si volesse abbassare la pianta o co-
munque avere uno sperone frutticoso al momento della potatura in-
vernale o secca. A questa scacchiatura si applicano assai bene i
principii sovra enunciati.
§ 3. La cimatura dei germogli uviferi. — a) Cimatura
prima della fioritura. Nei nostri vigneti ad alberello abbiamo
adottato da parecchi anni la svettatura graduale, o castratura, pra-
ticata prima della fioritura, per provocare un raccorciamento degli
internodii (pag. 184) concentrare la fecondità nelle prime gemme dei
tralci e poter così educare la vite bassa e senza sostegni. Per otte-
nere questi resultati si deve adunque cimare all'incirca in tre volte
e sempre prima della fioritura', la prima volta si svetteranno, ope-
rando coll'unghia, i tre o quattro getti più alti, supposta una vite ad
alberello (fig. 132 A A A). (Nella fig. 133 P P P indicano la castra-
tura in una vite alla Guyot). — Ciò accadrà quando sia spuntata la
496
CAPITOLO XIV
quarta o quinta foglia sopra l'ultimo grappolo. La seconda volta,
Fig. 132.
cioè circa 8 giorni dopo, si cimeranno i tre o quattro germogli la-
sciati intatti la prima volta e che avranno avuo tempo di allungarsi,
133.
crescendo in media di 3 a 5 centimetri ogni giorno; i germogli ci-
mati da prima non si toccheranno più. Dopo altri otto giorni circa
POTATURA VERDE 497
si svetteranno quei germogli (gli ultimi) che saranno cresciuti nel
frattempo, mentre i primi cimati avranno già cacciato, accanto alle
piccole gemme ascellari, delle femminelle lunghe uno o più decimetri.
Questa è la cimatura razionale che noi seguiamo da oltre un de-
cennio con pieno successo.
Sono tanto piccole le offese che con tale metodo di cimatura si
reca al sistema aereo della pianta, che la radice non ne soffre punto,
per cui la vite non solo non ne risente danno, ma ne ritrae tutti
quei vantaggi che sono la conseguenza di una ben intesa cimatura;
cioè la fecondazione delle gemme ascellari che debbono nel venturo
anno darci i germogli uviferi, nonché il rassodamento dei tralci, i
quali sostengono e nutrono meglio i grappoli che portano, e giovano
altresì al raccolto futuro. Colla cimatura graduale poi non vi ha mai
arresto nella vegetazione, tanto più se si riflette che, come già no-
tammo, alla terza svettatura dei germogli uviferi, i primi cimati sono
già muniti delle loro femminelle, che sono cotanto giovevoli al pro-
cesso di nutrizione della vite, pel richiamo di umori che fanno dalla
terra verso le parti aeree del vegetabile, e per altro motivo che già
abbiamo indicato a pag. 196. Col detto sistema infine, lasciandosi un
conveniente sviluppo al sistema aereo della pianta, lo si lascia pure indi-
rettamente al sistema sotterraneo, massime se questo è favorito da
opportuno scasso del terreno, per cui la longevità della vite è assi-
curata.
Anche le esperienze scientifiche concludono in favore di questa cima-
tura graduale. Il compianto Dr. Ippolito Macagno ha fatto, come già ab-
biamo accennato, accurate ricerche sull'ufficio delle foglie della vite; tali
ricerche, se ci restringiamo al solo zucchero che è il più importante fra
i prodotti della vite stessa, hanno condotto alle seguenti conclusioni:
1° che nelle foglie della vite vi sono quantità considerevoli di glu-
cosio, ivi preparato a vantaggio dei grappoli sottostanti; 2° che il
glucosio abbonda principalmente nelle foglie della punta dei tralci
frutticosi, cioè nelle foglie estreme del germoglio uvifero, mentre si
trova in quantità minore nelle foglie situate inferiormente rispetto
ai grappoli del tralcio stesso, nonché in quelle che sono destinate
unicamente alla produzione legnosa; 3° che in conseguenza di ciò le
sfogliature (non le cimature) fatte in giugno, luglio, ecc. mercè le
quali si scacchia, cioè si esporta tutto quanto sta al disopra della
terza o quarta foglia oltre l'ultimo grappolo, sono generalmente no-
cive alla vite, che dà allora poca uva ed uva mal matura e poco
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 33
498 CAPITOLO XIV
zuccherina; 4° che la piena luce solare attiva la funzione delle foglie,
e quindi aiuta potentemente la maturanza dell'uva, oltre ad aver
aiutato dapprima la fioritura, impedendo che i grappolini si trasfor-
massero in viticci.
Orbene, colle cimature graduali sovra descritte, si ottengono i se-
guenti risultati che sono in perfetta relazione colle quattro suddette
conclusioni del Dr. Macagno: 1° non si priva la vite di alcuna
delle sue foglie; 2° si provoca la comparsa di molte foglie al disopra
dei grappoli, cioè di molte foglie estreme, essendo tali appunto le
femminelle di cui parlammo più sopra; 3° si rendono superflue le
scacchiature estive che sono generalmente dannevoli; 4° si scoprono
i grappoletti nascenti, facendo loro godere la piena luce solare ed
impedendone l'aborto.
Dunque, non sfogliature o scacchiature o potature estive, ma
seynplici svettature o cimature primaverili e graduali, prima
della fioritura, perchè con esse non si esportano foglie.
b) Cimatura dopo la fioritura, ossia estiva. Mercè questa
svettatura si sopprimono colle unghie le estremità dei germogli nati
dagli speroni, dai tralci a frutto, nonché dai getti primaverili: una
tale soppressione si deve fare a cinque foglie al disopra del grappolo
quando questo è unico sopra il pampino, e a due foglie sopra il più
alto locato lorchè i grappoli son più d'uno: se il pampino non ha frutti,
si mozza sopra la seconda o la terza foglia, ed è questo il caso
delle femminelle (o germogli estivi nati, all' ascella delle foglie, sui
pampini cresciuti in primavera). Cimando che cosa avviene? Le già
esposte nozioni di fisiologia vegetale applicata alla vite ce lo dicono:
— il succo nutritore cangia per così dire di destinazione ed invece
di continuare a coadiuvare allo sviluppo del sarmento, si porta verso
il frutto e ne lo avvantaggia molto sensibilmente, come è noto a
tutti i bravi viticultori; gli acini si fanno più grossi ed in definitiva
maturano molto meglio, dando un. mosto ricco in gulcosio e non ec-
cessivamente agresto.
Ma è facile il comprendere che anche la cimatura estiva non con-
viene ad ogni vite qualunque sia la sua età e la sua potenza ve-
getativa; in viticoltura più che in ogni altra parte dell' economia
agraria bisogna andare ben guardinghi nel dettare massime generali.
Dunque noi faremo delle distinzioni e diremo che:
Se la vite non è veramente troppo rigogliosa, le è sempre
utile la cimatura dei getti che V anno appresso dovranno di-
POTATURA. VERDE 499
stendersi a frutto; respingendosi così il succo verso le gemme sot-
tostanti queste si consolidano viemeglio ed è un fatto constatato
che l'anno dopo sono fecondissime:
Se la pianta è vecchia, debole e non molto rigogliosa, è opera
di grande utilità lo spuntare secondo le dette regole i pampini
dei tralci frutticosi affine di respingere i succhi verso i frutti e
provocarne l'ingrossamento: ma se la pianta ha molto vigore è
spesso miglior partito di non cimare, a ?neno che V estate non
trascorresse soverchiamente secca e la pianta non avesse esu-
beranza di umore, anzi ne difettasse.
Del resto, lo ripetiamo, è molto arduo dettare regole generali su
questo delicato argomento delle cimature; staremmo per dire anzi
che è impossibile. Sono troppi gli elementi di cui conviene tener cal-
colo prima di affermare con sicurezza che la cimatura è utile oppure
nociva, ond'è che spesso si leggono consigli perfettamente opposti di
valenti viticultori.
Infatti bisogna anzitutto considerare 1' età ed il vigore delle cep-
pale, poscia il sistema di coltivazione della vite, se a speroni o tralcio
lungo o ad alteni ecc., indi ancora la varietà del vitigno, il clima
locale, e la natura delle terre, se pingui, o aride, o umide, e via
via, infine se le viti hanno bisogno di molto o di poco sfogo, il che
ha grande importanza nei rapporti colla cimatura.
Dai molti studii fatti su questa operazione della potatura verde (1)
non è possibile ricavare norme generali, appunto per la influenza di
tutti questi fattori. Il viticultore deve pertanto fare le proprie os-
servazioni sui proprii vigneti, perchè da esse soltanto potrà dedurre
quale via gli convenga di seguire.
§ 4. Cimatura delle femminelle: sfemminellatura. — Ab-
biamo già detto lungamente a pag. 196 quale importante ufficio com-
piano le femminelle o nepoti nelle funzioni vegetative della vite: si
devono dunque cimare, o peggio esportare del tutto?
Già sappiamo che la vite ha un imperioso bisogno di estendersi
(1) Esperienze del Prof. G. A. Ottavi (Giornale II Coltivatore dal 1870 in qua)
— Contributo allo studio della potatura verde in Italia (Rivista di Vit. ed En.
di Conegliano 1880) — Esperienze del Dr. Macagno {Giornale Vinicolo 1878) —
Esperienze del Prof. Soldani di Macerata (Riv. di Conegliano 1882) — Esperienze
dei Dr. Casoria e Savastano (Annuario della Scuola Sup. di Portici 1884) —
Nane Gastaldo del Dr. Bellati ecc. ecc.
500 CAPITOLO XIV
in molti rami (1); cimando adunque anche le femminelle, e peggio
le sotto- femminelle, cioè svettandole, si impedisce o almeno si inceppa
quello sfogo, e l'osservazione ha dimostrato che la vite allora ne
soffre ed in 20 o 25 anni si fa decerpita anche se aiutata col
concime. Però cimando le femminelle si cagiona un arresto nel mo-
vimento del succo nutritore, e questo arresto va a tutto beneficio
delle gemme ascellari; l'osservazione infatti ci dice a questo ri-
guardo che l'anno dopo si ottiene molta uva. Ma continuando si
esaurisce la pianta, del che conviene tenere grande calcolo. Infine
cimando le femminelle la pianta viene ad avere un minor volume
di fogliame, ed è per questo che allora l'uva matura a stento.
La pratica illuminata ha cercato di ovviare a questi inconvenienti
della cimatura delle femminelle e sotto- femminelle, a fine di poter
godere del vantaggio che la cimatura stessa ci offre colla feconda-
zione delle gemme ascellari; ed ecco come. Anzitutto non si devono
mai strappare le femminelle, togliendole per intero, perchè con esse
si strapperebbe la gemma ascellare, e l'anno dopo non s'avrebbe più
traccia di uva. Le cimature poi (anche qui semplici svettature) si
facciano in due o tre tempi, come dicemmo pei tralci uviferi, ma si
lasci per di più intatta la femminella più alto locata d'ogni germoglio.
Oppure non si cimino che le femminelle più alte e lunghe, tanto lunghe
da ricurvarsi verso il suolo, lasciando intatte le altre. In ogni caso
si operi tra giugno e luglio. Però si cimino a due o tre foglie quelle
poche femminelle che spuntano presso le gemme che dovranno dar
frutto l'anno dopo, e ciò per meglio fecondarle. Alla potagione si
sopprimeranno quei mozziconi.
Adunque la cimatura parziale e moderata delle femminelle,
mentre non arreca verun danno né alla longevità della vite, né
ai frutti pendenti, giova assai alla fruttificazione avvenire. Noi
la pratichiamo eziandio quindici giorni prima della vendemmia per sco-
prire le uve degli alberelli (fig. 134 A A A).
In quanto alle sotto-femminelle premetteremo che esse spuntano
sulle prime: taluni usano cimarle, ma quasi sempre si va allora in-
contro agli inconvenienti di cui dicemmo testé, anzi questi si aggra-
vano. Per rimediarvi si è praticato con successo il sistema di espor
(1) Guyot, dopo aver visitato tutta la Francia viticola, ha concluso, a questo
riguardo, colle seguenti giustissime parole « L'espansione che si lascia prendere
alla vite accresce la sua fecondità e ne accresce pure il vigore e la durata ».
POTATURA VERDE
501
tare del tutto la prima femminella a partire dal punto su cui spunta
su di essa la seconda; così si vengono a lasciar intatte le seconde
femminelle. Però questi tagli nuociono sempre all' economia della
pianta e sono appena tollerabili in quei casi in cui si hanno vi-
A A A A A ^
Fig. 131.
tigni che mal s'adattano alla potatura corta e che solo con siffatte
cimature e ricimature si arrendono a dar uva, fecondandosi così
molto bene le gemme ascellari basso locate.
§ 5. Cimatura e soppressione dei viticci. — Abbiamo già
detto a pag. 98 che secondo alcuni esperimentatori, cimando per
tempo quella diramazione del viticcio che porta alla base una piccola
scaglia, cioè la più lunga, l'altra diramazione si trasforma in grap-
polo: per riuscire in questo intento bisogna cimare, o tagliare del
tutto, il filamento suddetto appena è nato o almeno poco dopo. Altri
consiglia, appena cimato il viticcio, di esportare il pampino della
vite che è più vicino al capreolo lasciato intatto. Tutto ciò merita
tuttavia più ampia conferma.
Ì02 CAPITOLO XIV
Veniamo alla soppressione dei viticci. — Questa pratica ha molti
fautori, ma taluno la ritiene assolutamente dannosa. Visitando le
vigne del suburbio di Roma, abbiamo appreso da quei viticoltori
che nei primi giorni di maggio essi usano generalmente scacchiare i
capreoli; questa ripulitura la praticano anche sul futuro tralcio a frutto,
per non privare le gemme ascellari d'una certa quantità di succo, perchè
è facile intendere che i capreoli sottraggono alla vite una quantità
non piccola di succo nutritore, specialmente quando sono molto nu-
merosi come accade spesso. Secondo quei viticultori la soppressione
dei viticci giova all'ingrossamento dei grappoli.
Anche nell'Alta Italia vi sono viticultori che sopprimono i capre-
oli, e se ne lodano. Il sig. Tagliacarne P. da Castelnuovo Seri via
toglie i viticci nel mese di giugno, comprendendo in questa scac-
chiatura anche i viticci del grappolo (pag. 96: fig. 7 ci). Il signor
Priora A. da Tortona segue pure questa pratica, e da varii anni,
mozzando i capreoli a mezzo centimetro dal loro punto di inserzione,
operando alcuni giorni prima della fioritura ; ma egli sopprime sol-
tanto i viticci dei grappoli, e con ciò ottiene un ingrossamento negli
acini così rapido da essere apprezzabile dopo sole 30 ore, ed inoltre
impedisce l'aborto dei fiori. Invece il signor Anelli A. da Grottam-
mare nelle Marche in un suo esperimento fatto nel 1873 non ebbe
risultati apprezzabili, poiché non si potè notare nessuna differenza
fra i grappoli dei pampini privati dei viticci e quelli dei pampini
intatti : egli quindi, in una sua lunga memoria (1), sconsiglia reci-
samente la soppressione dei viticci perchè a suo avviso essi giovano
non solo siccome organi di prensione ma altresì a perfezionare le
gemme per l'anno futuro, il che però non avrebbe valore trattandosi
dei viticci di grappolo.
Noi crediamo che non si debbano affrettare troppo i giudizii sia
in favore che contro la mozzatura dei capreoli; è necessario istituire
esperienze accurate e proseguirle per un certo periodo di anni per
vedere eziandio quale influenza possa esercitare cotale soppressione
sulla economia generale della pianta. Né vale il dire che i capreoli
non possono esercitare influenza alcuna sui grappoli perchè sono col-
locati superiormente ai grappoli stessi; gli è precisamente perchè stanno
sopra i grappoli che attirano a sé con forza il succo, come accade
delle estremità dei tralci in generale, onde si consiglia infatti di ci-
(1) Vedi II Coltivatore 1883, Voi. II.
POTATURA VERDE 503
marie o ripiegarle per moderare Y ascensione troppo rapida della
linfa.
Certo è però che nelle viti pletoriche, la soppressione dei viticci
anziché impedire l'aborto dei fiori potrebbe provocarlo ; in ogni caso
si avverta a tagliare i viticci a poca distanza dalla loro inserzione
e non mai a stracciarli, perchè così adoperando si guasterebbe la
gemma ascellare.
§ 6. Sfogliatura o spampinatura. — Questa operazione può
giovare e può essere dannosa, a seconda del momento in cui è fatta.
Noi sappiamo che nelle foglie si prepara il glucosio, che poi emigra
nei grappoli; sappiamo però che questa produzione cessa quando l'uva
ha raggiunto la sua maturità. La sfogliatura troppo precoce reche-
rebbe dunque un danno grave alle vigne; d'altra parte è un fatto
ben accertato questo, che nei paesi caldi e nelle annate secche
l'uva deve maturare aU ombra, cioè non deve essere esposta troppo
direttamente ai cocenti raggi solari. (1) Adunque non si pratichi la
sfogliatura se non nei dieci o dodici giorni che precedono la ven-
demmia, scoprendo solo un po' i grappoli; si deve insomma sfogliare
moderatamente e parzialmente. Così le femminelle, che si saranno
soltanto cimate in parte ed in parte si saranno lasciate intatte,
si potranno allora svettare, sfogliando leggermente appunto con tale
svettamento.
In quanto alla sfogliatura dopo la vendemmia, Y esperienza ci
dice che non è da raccomandarsi, generalmente parlando, perchè
le foglie in autunno recano pure giovamento alla gemme
ascellari che debbono darci uva nell'anno successivo. Si lasci dun-
que che le foglie cadano da sé, tanto più dietro il riflesso che i
contadini strappano le foglie (per far presto) recando così grave of-
fesa a quelle preziose gemme. Del resto le foglie non cadranno
naturalmente, se non quando, per il noto fenomeno della re-
trocessione degli umori, i loro materiali utili si saranno con-
centrati nei tralci: sarà quindi tanto di guadagnato per la frutti-
ficazione avvenire.
(1) Dalle ricerche del dottor Richter (Accademia delle Scienze di Vienna,
seduta del 19 giugno 1879), risulta che la luce diretta si trasforma in calore.
Ma se il calore oltrepassa un certo limite, l'uva non matura più.
504
CAPITOLO XIV
§ 7. Cimatura e diradamento dei grappoli. I secondi grap-
poli. — La cimatura o spuntatura dei grappoli si fa in alcuni paesi
allo scopo di ottenere acini più voluminosi, specialmente per il com-
mercio delle uve da tavola.
Ma per riuscirvi è anzitutto necessario operare su vitigni speciali,
adattati specialmente a questa produzione (V. Cap. XXV). Le fig. 135
e 136 mostrano in che consista questa spuntatura, che è sempre ac-
compagnata dalla rimondatura del grappolo da tutti gli acini guasti.
Fig. 135.
Il taglio si fa quando gli acini hanno il volume di grossi pallini,
cioè quando hanno raggiunto 1[4 della loro grossezza normale : si
incomincia allora, colle forbici, a togliere gli acini più brutti, oppure
si recide a dirittura la punta del grappolo (fig. 135), ciò che si può
fare anche prima della fioritura sui grappoli che già si mostrano
troppo lunghi. Dopo quindici giorni si fa un altro taglio alla punta
del grappolo, e sempre si osserva che gli acini che rimangono pren-
dono uno sviluppo rimarchevole senza che il grappolo ne soffra me-
nomamente. Spesso ciò basterà ; ma se si volesse dopo altri quindici
giorni fare un terzo taglio, si verrebbero ad avere granelli d' uva
enormi (fig. 136).
Il viticoltore deve pertanto, secondo le condizioni delle sue viti,
POTATURA VERDE
505
decidere quando gli convenga di sospendere i tagli. Con queste
cure riescirà di certo ad ottenere bellissima uva da tavola.
Nel Jura vi ha l'abitudine di fare una cimatura consimile : prima
della fioritura si taglia la punta di tutti quei grappoli di chasselas
e di mondense i quali si allungano di troppo e che verosimilmente
porterebbero acini poco zuccherini; con ciò si ottengono grappoli
non solo di conformazione assai diversa, ma altresì molto più pre-
Fiff. 136.
giati e più ricchi di succo ; Guyot calcola 1' aumento del mosto al
triplo (1). Sarebbe bene fare esperimenti al riguardo. Nei dintorni
di Parigi invece di cimare i grappoli si esportano, colle forbici, gli
acini poco belli, ciò che si fa eziandio da alcuni viticultori italiani.
Veniamo ora al diradamento dei grappoli; è questa una buona pra-
tica allorquando la vendemmia si presenta oltremodo copiosa, perchè
allora giova a rendere i rimanenti grappoli più zuccherini. Però dob-
biamo fare qualche riserva a questo proposito; data una vigna gio-
vine, bene zappata e mantenuta fresca nel suo sistema sotterraneo,
cioè una vigna ricca di umore ed in terreno non adusto, noi pen-
siamo, dietro l'osservazione di molti fatti, che anche non diradando
si avrebbero ottimi grappoli, perchè quella pianta sarebbe certamente
in grado di provvedere a tutti i suoi frutti. Ma se il vigneto si trova
(1) Guyot op. cit, voi. II pag. 38;
506 CAPITOLO XIV
in terre aride, se l'estate nella regione trascorre secchissima, se
l'esposizione è a solatìo, se le piante sono un po' vecchie e vennero
lasciate molto ricche di tralci, e quindi vennero alquanto stancate,
in questo caso il diradamento sarà certamente giovevole, perchè
è meglio avere una mediocre quantità d'uva ben maturata, che non
molta, ma aspra e ricca di acidi, la quale ci darebbe un vino povero
di alcool e scadente quasi come un vinello.
Ad ogni modo il diradamento non deve effettuarsi senza sani cri-
terii direttivi. Anzitutto si deve sempre aspettare che i frutti abbiano
tutti quanti allegato, e la ragione è ovvia. I frutti poi si devono
togliere preferibilmente in punta, e ben inteso sempre i più min-
gherlini ; così il succo vien cacciato indietro come nel caso di una
cimatura energica.
I secondi grappoli, detti anche « grappoli di S. Giovanni » o pro-
priamente racemi, spuntano in principio di estate sulle femminelle.
È legge fissa che quanto più una vite ha grappoli su di sé,
tanto più essi maturano male; qualora poi riuscissero a ma-
turare bene, ne soffrirebbe la pianta, la quale in brevi anni
si estenuerebbe; è perciò che si usa dai più diligenti di togliere tutti
questi secondi grappoli al loro nascere, tanto più perchè generalmente
maturano male assai, (1) e possono guastare il vino delle prime uve,
vale a dire delle mature; il viticoltore che, in condizioni normali
del suo vigneto, vi attribuisse importanza, mostrerebbe di ignorare
che essi crescono a tutto detrimento dei veri grappoli.
(1) Vi sono però delle eccezioni, ma sono rarissime.
APPENDICE
La curvatura estiva dei tralci.
La curvatura dei tralci, o piegatura, non potrebbe propriamente
parlando trovar posto fra le operazioni della potatura verde; tuttavia
ne parliamo qui a guisa di appendice perchè essa pure ha per iscopo
di rendere più fecondo il tralcio a frutto per la successiva vendemmia.
Premetteremo che la ricurvatura si può solo applicare nel caso
di viti potate lunghe, o ad ombrello, non essendo praticabile colle
viti a speroni: — non per questo essa tralascia di essere una fra le
più utili pratiche della viticultura razionale.
La pratica ci insegna che se si piega orizzontalmente a prima-
vera un tralcio frutticoso, il succo subisce un rallentamento nel
suo moto, ed i bottoni si costituiscono allora assai bene, facen-
dosi turgidi e fecondi, mentre i tralci diritti o verticali, danno
sempre pochissimi frutti. Ecco adunque perchè è tanto utile la ri-
curvatura dei tralci stessi.
Le cimature graduali cagionando esse pure un arresto nel movi-
mento della sava, giovano a raggiungere lo stesso intento, ma non
sono scevre da inconvenienti; laddove la curvatura non può assolu-
tamente recare il più piccolo nocumento alle viti.
In Toscana la piegatura è praticata artificialmente ogni anno e si
effettua sul finire di giugno. È pure praticata in Monferrato, nell'A-
stigiano ed ovunque con successo, massimamente se le viti sono
vigorose. Pelle viti deboli o vecchie essa sarebbe però superflua; ma
per certi vitigni (bonarda, grignolino) essa è indispensabile. Volen-
dosi praticarla, si devono anzitutto recidere i capreoli o viticci ai tralci
frutticosi che dovranno servire per il prossimo anno, e poscia lasciare
che da sé si facciano penzoloni od orizzontali, salvo poi ad appog-
508
APPENDICE
giarli agli altri tralci vicini, però senza far ombra, perchè la luce
solare lor giova assai.
È certo che la mercè di questa ricurvatura le gemme si fanno più
feconde, e si ottiene da esse buona copia d'uva anche se l'an-
nata precedente fu piovosa ad esuberanza, e perciò poco favorevole
alla formazione di bottoni ascellari turgidi e fertili. (V. capo VII).
Abbiamo detto più sopra che la piegatura può praticarsi anche
nelle viti ad ombrello (fig. 137); con questo sistema (V. capo XXII)
Fig 137.
i pampini sono distanti dal suolo anche più di 1 metro e mezzo, tale
essendo l'altezza del fusto, onde si fanno penzoloni di per sé stessi
e si ricurvano. La cimatura per essi non è più necessaria ed il pro-
dotto in uva è molto abbondante. Noi abbiamo in esperimento questo
sistema, e sin'ora ne siamo molto soddisfatti.
Diremo infine che la curvatura dei tralci non esclude però del
tutto la cimatura. Le esperienze fatte dal 1880 in qua dal sig. G.
Martinetti da Castell'Alfero (Asti) lo dimostrano bene; questo distinto
viticoltore, cima i getti uviferi in fin di maggio, rispettando i futuri
capi a legno; in fin di giugno cima le femminelle, ed un mese dopo
ricima incora i rimessiticci più lunghi, cimando nello stesso tempo i
futuri capi a frutto sin'allora rispettati. Ma, appena fatta questa ci-
LA CURVATURA ESTIVA DEI TRALCI 509
matura, piega ad arco gli stessi capi a frutto dalla parte meglio so-
leggiata del suo vigneto. Egli, con questo sistema, ha le sue gemme
sempre molto feconde, com'è facile a spiegarsi; prova ne sia che il
prodotto medio oscilla intorno ai 100 ettolitri di vino ad ettare.
Raccomandiamo quindi la curvatura estiva dei tralci per quanto
essa è compatibile col sistema di viticultura che si è adottato. I ri-
sultati non potranno mancare.
CAPITOLO XV
Lavori colturali nel vigneto.
1. Se si debba dare la preferenza ai lavori od al concime — § 2. Le arature,
loro vantaggi e come praticarle — § 3. Vangature — § 4. Zappature ed estir.
pature — § 5. Scalzatura e rincalzatura — § 6. Lo scasso periodico, l'arrotto
ed il circonfussuro — § 7. La distruzione delle male erbe.
§ 1. Se si debba dare la preferenza ai lavori od al con-
cime. — Il quesito, che qui ci proponiamo anzitutto di risolvere, ci
pare di molta importanza, perchè trattasi di vedere se il viti cultore,
il quale voglia coltivare razionalmente i proprii vigneti di recente
impianto, oppure migliorare quelli già esistenti nel podere, debba e-
sordire piuttosto dai lavori che dai concimi. Già conosciamo Fazione
dei concimi nei vigneti; ma quella dei lavori è assai più complessa.
Invero essi esercitano un'azione fisica, un'azione chimica, un'azione
fisiologica ed un'azione agronomica.
L'azione fisica è noto che consiste nel disgregare il terreno, smi-
nuzzandone la superficie, onde vi si mescola molta aria; diminuisce
così la sua conduttività termica interna, ed il terreno si fa coibente
cioè meno atto a scaldarsi sotto gli ardori estivi.
L'azione chimica consiste nelle trasformazioni utili che subisce il
terreno, e specialmente lo strato inerte, messo a contatto cogli a •
genti atmosferici, onde vi ha specialmente formazione di nitrati, come
dimostrarono Wol/f e Boussing ault (v. pag. 177), cotanto utili alla
LAVORI COLTURALI NEL VIGNETO 511
vite non solo perchè composti di azoto e potassa o soda, ma perchè
questi corpi si trovano in uno stato di pronta assimilazione.
L'azione fisiologica che esercitano i lavori nel vigneto sulle viti
è la conseguenza delle azioni fisica e chimica; il suolo mantenendosi
più fresco, le radichette esercitano più attivamente la loro azione
assorbitrice perchè si trovano in presenza di una quantità d'acqua
sufficiente; inoltre il suolo essendo più ricco in sostanze utili, le ra-
dichette stesse si moltiplicano e si ramificano in copia (pag. 176) onde
il sistema radicale della vite s'accresce notevolmente.
Infine l'azione agronomica consiste nella distruzione delle male erbe,
le quali sono cotanto dannose al vigneto, inquantochè gli sottraggono
e alimento e frescura, provocano V aborto dei fiori e pare facilitino
l'azione funesta delle crittogame.
Ora, ciò posto, a noi pare che si debba sempre dare la preferenza
ai lavori anziché ai concimi, e questo specialmente perchè se i la-
vori sono insufficienti l'azione dei concimi è menomata sensibilmente
ed in gran parte va a profitto delle cattive erbe. Abbiamo visto più
d'una volta vigneti concimati ma lavorati in modo insufficente, i
quali producevano poco e andavano d'anno in anno deperendo, no-
nostante la concimazione triennale o biennale; ma non ci è mai ac-
caduto di trovare vigneti colturati a dovere i quali si mostrassero
avari dei loro frutti verso l'intelligente viticultore o che accennas-
sero ad invecchiare precocemente; e questo perchè il lavoro è anche
concime, mentre il concime non esercita altra azione all'infuori di
quella chimica, fatta eccezione per lo stallatico; ma neppure questo
ingrasso può escludere il lavoro.
L'azione complessa ed efficacissima dei lavori non può però essere
indefinita per un dato vigneto; bisognerebbe supporre che quanto si
esporta ogni anno dal terreno fosse reintegrato a sufficienza mercè
l'azione del lavoro stesso. Ma ciò non è, ed il terreno grado grado
va estenuandosi. Abbiamo già detto che questo estenuamento è assai
meno sensibile nel vigneto che non nel campo e nel prato, perchè le
radici della vite utilizzano un grande cubo di terra, del che abbiamo
già discorso a pag. 436; tuttavia anche gli strati inerti del terreno,
portati alla superfìcie, si estenuano e viene infine il momento nel
quale il viticultore deve associare al lavoro il concime per mante-
nere la produzione ad un livello rimuneratore e per serbare vigore
alle sue viti affaticate dalle numerose raccolte precedenti.
È però sempre vero che si deve esordire dalla cultura, che vuol
512 CAPITOLO XV
essere frequente ed accuratissima; e questo è il consiglio che diamo
con intimo convincimento al viticultore il quale abbia mezzi limitati e
voglia migliorare i proprii vigneti; l'aumento dei prodotti così otte-
nuto gli permetterà in seguito agevolmente di associare al lavoro il
concime.
§ 2. Le arature; loro vantaggi e come praticarle. — Non
sono passati molti anni da che si incominciò ad estendere l'uso del-
l'aratro nella lavorazione dei vigneti; prima non solo non si usava
questa maniera di culturare, ma si riteneva fermamente fosse dan-
nosa tanto al terreno quanto alle piante.
Oggi però, che per le arature delle vigne si sono inventati spe-
ciali aratri, i viticultori sono pressoché tutti convinti della utilità delle
lavorazioni coll'aratro, sia dal lato economico, sia dal lato agricolo.
Che se in alcuni locali non si adopera ancora l'aratro, si è soltanto
per la natura estremamente tenace del terreno, cui conviene lavo-
rare a vanga; a meno che non vi si riesca con speciali aratri all'a-
mericana, di cui diremo fra poco, oppure adottando il sistema di van-
gare profondamente per il primo anno, e poscia arare tutti gli anni
senza interruzione, nel qual caso il terreno non si fa mai così duro
come quando si lavora rare volte ed a piccola profondità.
Le arature, oramai adottate in quasi tutti i paesi viticoli d'Europa,
rappresentano il sistema più economico per culturare il vigneto; è
vero che la vanga fa un lavoro più perfetto, ma esso è anche no-
tevolmente più costoso. D'altronde colla scarsezza della mano d'opera
che tutti lamentano, è giocoforza valersi dell'aratro, specialmente nei
vigneti specializzati oramai predominanti, a meno che non si voglia
rinunciare a tutti i beneficii che sono la conseguenza d'una accurata
lavorazione dei vigneti. Si aggiunga che questa lavorazione bisogna
compierla in determinati momenti, ond'ò che conviene utilizzare il
tempo con strumenti ad azione più rapida di quanto non lo sia la
vanga; è chiaro che l'aratro risolve bene questo importante problema.
Infine è noto che lo sforzo costante di tutti coloro che si occu-
pano di studii viticoli, è quello di trovar modo di produrre l'ettolitro
di vino al minor prezzo possibile compatibilmente colla sua qualità
e commerciabilità; or bene, per conseguire questo resultato, che per-
metterebbe, come dicevamo altra volta, di democratizzare vieppiù l'uso
del vino, conviene non solo spingere la produzione a più alto livello,
ma eziandio diminuire le spese di mano d' opera. E qui pure viene
in nostro aiuto l'aratro.
LAVORI COLTURALI NEL VIGNETO 513
Ma vediamo più precisamente quale differenza vi sia tra il costo
della lavorazione coll'aratro e quella a braccia.
In Piemonte si può calcolare che la lavorazione di un ettare di
vigneto specializzato costi L. 120 se fatta a mano, e L. 90 se fatta
cogli animali; sarebbero dunque in media L. 30 di risparmio per
ettare.
Il Prof. Caruso studiando la stessa quistione al podere La Cava
presso Pisa, trovava quanto segue:
1. Coltratura, tra febbraio, marzo e anche aprile; di-
cende 8, a L. 1,12 L. 8,96
2. Vangatura dei prodini o striscie sode presso le
viti e sbarbettature; opre 22, a L. 1 . . . » 22,00
3. Prima aratura nella prima metà di giugno, scan-
sando il tempo della fioritura; dicende 6, a L. 1,12
4. Zappatura dei prodini, come sopra, opre 16, a L. 1
5. Seconda aratura tra luglio ed agosto; dicende 6,
a L. 1,12
6. Zappatura dei prodini, come sopra, opre 16, a L. 1
7. Apertura degli acquai in settembre opra 1, a L. 1
Totale L. 77,40
Il costo della lavorazione a mano di un ettaro di vigna alla Cava è di
L. 115; eppertanto coll'aratro si risparmiano annualmente L. 37,60
per ettaro.
Ma bastino questi dati, che si potrebbero moltiplicare agevolmente,
per dimostrare la convenienza economica eli culturare i vigneti cogli
aratri.
Che poi l'aratro sia nocivo alle viti,. questo è inesatto, e molti vi-
ticultari oramai lo potrebbero attestare; certo non conviene spingere
l'aratura troppo addosso ai filari, e noi usiamo, appunto per rispet-
tare le radici, lasciare una striscia di centimetri 50 d'altezza sia al
disopra che al disotto d'ogni filare, non rotta dall'aratro, ma invece
vangata o zappata dopo l'aratura. E così a poco presso fanno tutti
coloro che si giovano dell'aratro. Qualora però fosse il caso di vi-
gneto mal colturato per lo addietro, e quindi colle viti a radici su-
perficiali quanto i lavori fatti, sarà prudente non solo eseguire l'a-
ratura dal novembre al marzo allorquando le piante sono in riposo,
O. Ottavi. Trattato di Viticoltura 34
»
6,72
»
16,00
»
6,72
»
16,00
»
1,00
514 CAPITOLO XV
ma eziandio arare, per il primo anno, soltanto da un lato del filare;
l'anno dopo si completerà il lavoro eseguendolo anche dall'altro lato,
ma poi si proseguirà ogni anno a culturare il vigneto. Con queste
avvertenze si recheranno assai lievi offese alle radici.
Veniamo ora ad esaminare come e con quali strumenti debbansi
praticare le arature nei vigneti. A tal uopo furono escogitate molte
foggie di aratri, ora ad uno ed ora a due animali equini o bovini,
a tiro fisso od a tiro sciolto e via dicendo, le quali si adattano alle
differenti condizioni dei vigneti; diremo qui delle principali e meglio
rispondenti all'atto pratico.
Ma anzitutto noteremo che non è quasi possibile adoperare gli
aratri là dove l'inclinazione del suolo è maggiore del 10 per cento;
in simili condizioni bisogna anzitutto disporre il terreno a banchine,
come dicevamo a pag. 364. Data quindi questa condizione, nonché
una sufficiente distanza fra le ceppaie e la regolarità dei filari, si
potranno adottare gli aratri.
Lasciando da parte l'antichissimo aratro romano (fig. 138) ancora
Fig. 138,
oggi molto adoperato specialmente nell'Italia e nella Francia del Mez-
zodì, noteremo fra i più stimati gli aratri Vernette, di cui vi hanno
varii numeri, cioè il 55, il 57 ed il 59. Il Prof. Cerletti, che li ha
esperimentati alla Scuola viticola di Oonegliano, così ne parla:
« La fig. 139 rappresenta -un semplice aratrino dì acciaio che può
essere tirato da un bue o da un cavallo, che si approfonda nel ter-
reno da 10 a 13 centimetri, capovolgendo una zolla di terra larga
da 25 a 30 centim.: senza speciale disposizione ma solo col piegare
a destra e a sinistra, ristrumento può essere spinto fino alla distanza
di 10 centimetri dalle ceppaie delle viti. La profondità alla quale
lavora ristrumento vien regolata da una piccola vite che preme sul-
l' asta d' attacco. Il maneggio dell' istrumento è semplicissimo e di
nessuna fatica; fin dal primo giorno fu condotto dagli allievi del corso
inferiore della Scuola e senza affaticarsi ne son diventati essi stessi
LAVORI COLTURALI NEL VIGNETO
5]
i guidatori. Le prime esperienze diedero che questo aratrino a pa-
rità di tempo fa all'incirca come 13 zappatori.
■ :'
Kiir. 139.
La figura 140 rappresenta una scarificatrice a 5 denti che serve a
suddividere il terreno quando sia a motte troppo grosse a modo di
Piff. 140.
un erpice, fenderlo e renderlo accessibile all'aria nei periodi di sic-
cità successi a piogge insistenti e prolungate: lavora una lama di
516
CAPITOLO XV
terra larga 60 centimetri e profonda 10; fa 10 filari di 84 metri
di lunghezza all'ora passando una volta innanzi e un' altra indietro
in ciascun filare (larghezza dei filari 1,30 metri). I tre pezzi di ri-
cambio indicati nella figura si possono con somma facilità sostituire
ai 5 denti e allora il nuovo istrumento che si ottiene è una zappa
a cavallo eccellente per recidere le radici delle male erbe e sollevare
e render poroso il terreno senza capovolgerlo; esso può lavorare in
terreno leggero una lama larga fin 90 centimetri e in un'ora muove
15 filari lunghi 84 metri e larghi 1,30.
Finalmente la fìg. 141 ci dà l'idea di un piccolo e robustissimo aratro
per terreni molto compatti o ghiaiosi; il modo brusco col quale ri-
muove la terra mette facilmente a nudo le radici delle male erbe
che facilmente si disseccano; per di più lascia un solco che favorisce
un più pronto smaltimento delle acque (1).
essane;.
Fig. 111.
Questo può lavorare per una profondità di. 20 centimetri, ma vi-
cino ai ceppi sarebbe eccessiva, quindi convien meglio regolarla a
8 o 10 centimetri. Lo stesso, se susseguito da un robusto aratro
ordinario, può servire d'inverno per fare un profondo solco alterna-
tivamente fra i filari di viti onde seppellirvi il concime. In tal modo
lo stallatico va totalmente a profitto della vite e non avviene mai
(1) Si può trasformare questo aratro in una zappa a cavallo (bineuse) molto
maneggevole, mediante la lama diricambio a forma di V che si vede nella fig. 141.
LAVORI COLTURALI NEL VIGNETO
di portar colle lavorature annuali il concime alla superficie e favo-
rire lo sviluppo delle male erbe. »
Gli strumenti accennati per la loro semplicità, solidità e facile ma-
neggio, corrispondono perfettamente allo scopo, e la miglior prova
ne è la diffusione a migliaia ch'essi hanno avuto in quest'ultimi anni
specialmente nel mezzodì della Francia (1).
La fig. 140 rappresenta il così detto n. 55 — la fig. 139 il n. 57 —
141 il n. 59. — Nella fig. 142 si vede come si attacca il
e la fig
Fig. 1 12.
cavallo, con un semplicissimo attiraglio in legno: il cavallo viene al-
lacciato alle stanghe col mezzo di apposite fìbbie, e tira dal collare:
si può benissimo però invece del cavallo, attaccare un bue.
Volendo fare lavori più profondi, si potrebbero adottare gli aratri
fissi o volta-orecchio all' americana. Cogli aratri detti n. 18 1[2
ad orecchia fissa (fig. 143) oppure col così detto doppio zero (00) a
Fisr. 143.
volta-orecchia s;mile alla fig. 144, si fa un ottimo lavoro, capovolgendo
bene la terra, assai meglio che non cogli aratri Vergnette. L'aratro
(1) L'Agenzia Enologica Italiana di Milano può fornire dritti aratri.
518
CAPITOLO XV
00 è preferibile per Je terre inclinate; si sa che con queste terre si
farebbe un cattivo lavoro se si volesse, come si dice, trarre in su
la terra; è quindi giuocoforza una volta si e l'altra no, tornare in-
ni.
dietro a vuoto coll'aratro, cioè senza lavorare; di qui una perdita di
tempo non indifferente: invece cogli aratri volta orecchia questa perdita
non si verifica più perchè si lavora sempre andando e venendo,
avendo essi l'orecchia mobile che si può adattare ora sul fianco de-
stro, ora sul fianco sinistro dell'aratro. Il maneggio degli aratri volta-
Fig. 145.
orecchia è semplicissimo: si regolano come ogni altro aratro: giunti
che si è in fondo al solco si leva l'uncino che tiene l'orecchia fissa
LAVORI COLTURALI NEL VIGNE TO-
SI 9
al bure, e a mezzo dei manici si alza l'aratro appoggiando al suolo la
punta del bure; l'orecchia allora si fa penzoloni, e con una viva scossa
Fig. 146.
Fig. 147.
laterale si fa passare dall'altra parte dell'aratro, la si fissa di nuovo
coll'uncino, e si lavora come se si avesse a fare con un aratro ad
orecchia immobile. Per i lavori di una profondità maggiore di 18
>2Ò
CAPITOLO XV
centimetri vi sono gli aratri 19 ì\2 (fig. 145), il CI (fig. 146) ad orecchia
fìssa, e gli aratri Bl e CI (fig. 147) a volta-orecchia. Con essi si può
scendere a 25 centimetri, e col CI anche a 28: questi aratri CI spe-
cialmente sono di una grande solidità; trovino pure il terreno ar-
gilloso e compatto quanto si vuole, essi lo squarciano e ne capovol-
gono le zolle in modo perfetto. Vi furono estati secchissime (come per
esempio quella del 1873), nelle quali nessun aratro potè vincere
come il CI la compattezza della terra (1).
Per approfondire i solchi tracciati dai suddetti aratri si può far
passare, come noi usiamo, il ripuntatore del quale demmo la fi-
gura a pag. 367.
Un aratro per vigneti di cui si lodano molto, da parecchi anni, i
viticultori del Mezzodì della Francia, è quello del sig. Barrai d'Agde
(fig. 148) ad orecchio fìsso, tutto di ferrose con una punta mobile
Fiff. 1 18.
che si può far sporgere più o meno dalla estremità anteriore del vo-
mere. Il disegno indica esattamente la forma dell'orecchia della bure
e della stegola. Il tiro si effettua per mezzo dell' attiraglio fig. 149
ove y indica una vite di pressione, ed x x due fasciature in ferro.
(1) Tutti questi arati-i si possono trovare presso l'Ufficio del Coltivatore in Ca-
sal monte rrato.
LAVORI COLTURALI NEL VIGNETO 521
Il sig. Marès (op. cit.) loda molto l'aratro Barrai, perchè solido e
nello stesso tempo leggero, ed inoltre perchè ha l'orecchia disposta
in guisa tale da offendere il meno possibile gli speroni e le branche
delle ceppaie.
Via. 149.
Molti altri aratri vennero ideati pei vigneti, quali l'aratro Mes-
sager, quello di Souchu-Pinet, entrambi ad orecchio mobile, quelli
di Neukomm, di Sack ecc., polivomere l'aratro Hugues (1) ecc.
Ma certo quelli sovra descritti stanno fra i migliori, specialmente per-
chè all'atto pratico hanno corrisposto assai bene.
§ 3. Vangature. — La vangatura è operazione importantissima
del vigneto, non solo perchè concentra per così dire la freschezza nel
terreno e lo libera dalle male erbe, ma eziandio perchè lo fertilizza
assai più dell'aratro e della zappa: la vanga infatti suol dirsi che ha
la punta d'oro, perchè con essa si capovolge bene la fetta di terra,
e si porta all'azione fertilizzatrice degli agenti atmosferici (calore,
luce, elettricità, umido) la terra inerte; questa si bonifica e la vi*
gna ne trae poi grande profitto, come è noto a moltissimi viticul-
tori di tutte le terre italiane. Il dottor Guyot, il signor F. Lacoste
ed altri scrittori francesi, sconsigliano invece di smuovere profonda-
mente il suolo attorno ai ceppi delle viti, ed hanno ragione nei loro
paesi più al nord, più freschi assai del nostro, e dove si abbisogna
d'un terreno duro e buon couduttore del calorico; infatti, nelle terre
dure e pestate come nelle carreggiate, Guyot otteneva la sua mi-
glior uva, purché però ripulisse il suolo dalle male erbe. Adunque
chi teme i freschi estivi (nessuno 'però o ben pochi in Italia si
trovano in tali condizioni) non vanghi, ma chi teme i calori
(1) Il Prof. C. Hugues ha pubblicato una memoria Sugli aratri pei vigneti
ove trovansi alcuni dettagli su queste foggie di aratri.
S22
CAPITOLO XV
vanghi profondamente almeno una volta l'anno. Si noti però che
coi lavori superficiali, il terreno del vigneto si esaurisce più pron-
tamente, e conviene perciò (come ben faceva Gnyot) ingrassarlo di
frequente e nulla coltivare nell'interfilarc; questo più pronto esauri-
mento è naturale, dal momento che il viticoltore ha a sua disposi-
zione una minor quantità di terra arabile, che la vite non tarda
molto a sfruttare.
Colla vangatura profonda si spezzano molte radichette della vite;
Fiff. 151
ma ciò accade soltanto colà dove il terreno si lavora usualmente a
poca profondità: infatti nei vigneti non mai vangati, le radi-
chette si portano a poca distanza dalla superfìcie del suolo,
in cerca di maggior copia d'aria e fors anche di principii as-
LAVORI COLTURALI NEL VIGNETO
523
sìmilàbili. Diciamo fors' anche, perchè non è ammessa da tutti la
ricerca dell'alimento da parte delle radici. Nel caso di radichette
superficiali, si deve vangare il suolo (o ararlo) dal novembre al
marzo, quando il succo è in riposo, ma soltanto da un lato del filare
di viti; così le piante soffrono assai poco; l'anno dopo si farà il la-
voro profondo dall'altro lato. Ma poi bisognerà vangare tutti gli
anniW vigneto, acciò le barboline radicellari non abbiano a risalire alla
superficie. L'operazione si deve fare dopo la potatura e dopo gli altri
lavori (palatura, allacciatura) che spesso protraggonsi sino all'aprile:
cosi si evita di far pestare dagli opranti il suolo vangato. Ma la
vangatura si può fare anche in autunno, prima dei forti geli, perchè
si sa che essa giova alle viti estenuate crescenti in terre forti o
compatte. Concludendo, la vangatura si deve fare prima del forte
risveglio vegetativo di primavera (e così prima del maggio),
perchè in caso diverso si spezzerebbero troppe radichette novelle
delle viti e queste ne soffrirebbero molto.
La vanga può avere varie foggie: la più comune è quella indicata
dalla fig. 150: — è preferibile però quella a punta fig. 151 molto usata
nel Lucchese. Alcuni si lodano di quella foggiata come la fig. 152 n. 1,
che si potrebbe dire a due punte, quale si usa nella Francia Meri-
Fig. 152.
dionale; infine per le terre compatte o sassose conviene la vanga bi-
dente o tridente fig. 152 n. 2.
§ 4. Zappature ed estirpature. — Le zappature o sarchia-
ture hanno principalmente per iscopo di distruggere le male erbe,
tenendo culturato e smosso il terreno del vigneto, acciò non si faccia
524
CAPITOLO XV
troppo conduttore del calore, ed il sistema radicale della vite non
abbia a soffrire il soverchio asciutto. A questo si aggiunga che
il terreno zappettato si copre di più abbondante rugiada, il che giova
pure alla vite, specialmente quando già porta uva: questa allora si
ingrossa, d'onde il vecchio adagio che « chi zappa la vigna in agosto,
riempie la cantina di mosto. » Un terreno zappato evapora in 24
ore circa 8 grammi di acqua per decimetro quadrato, laddove se è
duro ne evapora oltre a 13 grammi, e ciò a parità di condizioni:
è facile quindi intendere come gli acini ingrossino sensibilmente se
il vigneto è culturato nell'estate, del che abbiamo già parlato a lungo
a pag. 209.
La zappatura deve farsi due volte; la prima tra il maggio ed il
giugno, dopo la vangatura di marzo od aprile, e l'altra in agosto. La
pratica insegna che è utilissimo fare questa zappatura un giorno o
due dopo cessate le pioggie primaverili, e ripeterla se queste si aves-
sero a ripetere: così si evitano gli inconvenienti che sono la conse-
guenza dell' avere pestato il terreno per causa delle pioggie stesse,
e dell'averlo altresì coperto di male erbe, come accade appunto dopo
le pioggie.
Zappando in estate, si avverta però a non toccare le uve, perchè
urtando le viti durante i giorni di grande calore e di afa si
scottano le uve, cioè si induce una specie di essicamento precoce,
per cui gli acini maturano assai incompletamente. Questo feno-
meno non fu ancora spiegato, ma è un fatto costante.
Vi sono molte foggie di zappe; la zappa croata (fig. 152 n.° 3),
MONTICELLI
Fig. 153.
quella a cuore (n.° 4), la doppia (n.° 5), Ila zappa a mezzo cuore
(fig. 153 n.° (>), quella a bidente larga (fig. 153 n.° 7), la zappa renana
LAVORI COLTURALI NEL VIGNETO
525
(fig. 153 n.° 8) e quella a bidente stretta (fig. 153 n.° 9). Esse si adat-
tano alle varie condizioni in cui può trovarsi il terreno del vigneto (1).
Veniamo ora alle estirpature: — esse hanno sulle zappature il van-
taggio di costare meno, ma tuttavia non sempre sono, solo per questo,
da preferirsi. Coll'estirpatore si fanno presto i lavori superficiali, ma
conviene attendere a culturare il terreno dopo le pioggie di pri-
mavera e quando l'interfilare sia già stato arato, nel qual caso col-
l'estirpatura si sminuzza assai bene la terra: in generale sarà ottima
cosa fare almeno due estirpature, una tra il maggio ed il giugno,
l'altra in agosto. In una giornata di lavoro noi abbiamo estirpatati
talora anche 2 ettari di vigneto specializzato a filari distanti 3 metri,
mediante l'estirpatore casalese (fig. 154) tirato da un paio di buoi; in
Fig. 154.
media in una giornata si può sempre zappare un ettare di vigneto
con questo istrumento.
Tutti questi lavori culturali dei vigneti si completano a vicenda,
ond' è che in generale non conviene attenersi ad uno solo fra di
essi. Noi seguiamo infatti, e con molto successo, il sistema seguente:
in aprile, quando è ultimato ogni lavoro di potatura, lavoriamo
gli interfilari coll'aratro, a 20 o 25 centimetri di profondità; in maggio
(1) Tutti questi strumenti per la lavorazione dei vigneti si possono comperare
presso la stimata Agenzia Enologica di, Milano,
526 CAPITOLO XV
vanghiamo a 25 centimetri tutto quel terreno del vigneto dove non
fu possibile far passare 1' aratro, cioè il filare stesso; in giugno e
luglio pratichiamo due estirpature od anche tre se il vigneto lo ri-
chiede. Nella seconda quindicina di luglio ariamo l'interfìlare a 25 o
30 centimetri di profondità rincalzando i filari, per cui rimane come
un fosso nel mezzo dell'interfilarc, indi zappiamo il terreno non arato;
infine seguono due estirpature. Con questo sistema, quantunque il
terreno del vigneto sia molto propenso a coprirsi di male erbe, non
si dà loro tregua, ed il vigneto stesso è sempre culturato in modo
assai soddisfacente. La spesa di questi lavori è poi compensata ad
usura dal prodotto, che è in media di 100 ettolitri di vino ad ettare.
§ 5. Scalzatura e rincalzatura. — Abbiamo accennato or'ora
a queste operazioni; è pregio dell'opera entrare nei dettagli, perchè
sono esse pure assai giovevoli ai vigneti, specialmente nei climi aridi.
Consistono nello smuovere in autunno la terra attorno al pedale
delle viti e indi toglierla per farne come un cumulo lungo T in-
terfilarc (scalzare), per poscia rimetterla a suo posto in maggio, ac-
cumulandone anzi alquanta attorno alle ceppaie stesse, onde rimane
poi un solco nel mezzo dell'interfilarc (rincalzare). In autunno, cioè
in novembre e dicembre, scalzando si recidono bensì le radici super-
ficiali, ma la pianta non ne soffre menomamente perchè è in riposo;
anzi questa sbarbettatura è molto raccomandata da moderni (1) ed anche
da antichi scrittori. Intanto nella fossa o conca che rimane aperta si
immagazzinano le acque piovane, cosa molto utile nei paesi caldi; queste
acque penetrano nel terreno a non poca profondità, e durante gli
ardori estivi, quasi diremmo, risalgono per capillarità negli strati su-
periori a totale vantaggio della vite. Là dove le terre sono inclinate,
cotali conche diventano una necessità, poiché senza di esse l'acqua pio-
vana andrebbe quasi tutta perduta; ed è certamente per questo che
in molti locali del Monferrato, della Sicilia e della Francia meridio-
nale la scalzatura è praticata da molto tempo. Si aggiunga inoltre
che mercè cotale scalzatura il terreno della fossa o della conca, e-
(1) Il Prof. Caruso (Quistioni urgenti di viticoltura, Messina 1871, pag. 55)
dice che è utile sbarbettare scalzando la vite, porche « le radici superficiali sof-
frirebbero il seccore ed il caldo dei climi meridionali, come il freddo ed il gelo
dei climi freddi, per cui non si appongono Itone gli scrittori che dicono inutile
lo sbarbettamento. » Anche in Monferrato si pratica la sbarbettatura.
LAVORI COLTURALI NEL VIGNETO 527
sposto ai freddi dell' inverno, si sfiora e però i lavori culturali di
primavera riescono molto più agevoli; infine questa stessa terra si
bonifica mercè il contatto cogli agenti atmosferici. Le nuove radi-
chette che escono a primavera dalle radici principali, non possono
a meno di dirigersi all' ingiù, causa la scalzatura, ed è per questo
che non dapprima soffrono i geli, e poscia durante i calori estivi
non soffrono neppure l'arsura, onde la vite porta frutti ben nutriti
e ricchi di succo.
Noteremo tuttavia che la scalzatura non si deve praticare là dove
il suolo è umidiccio per natura, cioè basso, e soggetto ai forti geli.
In maggio, come già abbiamo detto, si farà la rincalzatura, tanto
utile là dove il soverchio ardore estivo nuoce alle ceppaie. Il cumulo
di terra che viene a circondare il pedale delle piante, mantiene più
fresca la terra entro cui le radici compiono il loro ufficio, e perciò
i grappoli vengono provvisti della quantità di umido che loro è in-
dispensabile per ingrossare e maturare.
Quanto dicemmo sin qui si riferisce in modo speciale ai climi caldi.
Nei climi temperati si usa invece di scalzare a primavera e rin-
calzare in autunno. Nel rinomato Médoc (Bordolese) si fa la scal-
zatura in marzo e la rincalzatura in maggio (1); ma Guyot dice
che in quella regione, come nelle altre, queste operazioni sono inu-
tili, e solo si fanno per vecchia costumanza. Anzi egli soggiunge (2)
che sono nocive se fatte in primavera, allorquando la pianta è in succo,
e noi lo crediamo fermamente, e conclude infine coir affermare che
« dovunque ove le culture piane furono sostituite alla scalzatura e
rincalzatura, il vigore e la fertilità delle vigne aumentarono ».
Ma, lo ripetiamo, questo si riferisce ai climi temperati: pei climi
caldi le operazioni dello scalzare d'autunno e rincalzare in primavera,
sono ottime e commendevoli, come dicevamo più sopra.
§ 6. Lo scasso periodico, l'arrotto ed il circonfussuro. —
Da Teofrasto in poi, tutti coloro che si sono occupati con giusti
criterii della coltura delle vite, hanno ammesso che il rinnovare di
tanto in tanto la terra al piede delle ceppaie è operazione di grande
importanza, perchè il vigneto quasi diremmo ringiovanisce, il prodotto
dell'uva aumenta e la qualità si fa assai pregevole per ricchezza di
(1) Guyot op. cit. voi. I, pag. 444
(2) Id. p. 445,
528 CAPITOLO XV
principio dolce. Gli è per questo ne è opera tanto commendevole
lo scasso profondo degli interfìlari, ad ogni sesennio od anche ad ogni
decennio, a seconda dei casi. Citeremo al riguardo alcuni fatti.
Sui colli di Casale, e massime a Casorzo, Montemagno, ecc. è molto in
uso siffatto scasso. Il distinto viticoltore sig. cav. Montiglio, nelle di lui
vecchie vigne di Altavilla lo faceva operare a due o a tre fitte di vanga
in quasi tutto l' interfilare (largo da 5 a 6 metri) e ciò senza ba-
dare se, così operando, faceva a pezzi molte radici. Or con* ciò
e con alcune giovani vigne da lui piantate (in gran parte però an-
cora improduttive) da 81 carri d'uva salì in sette anni a 240. (vedi
Coltivatore voi. IX, p. 23).
A Canneto (Voghera) lo scasso suddetto dell'interfilarc si dice cui-
turone e si pratica soltanto ogni 20 anni a 75 centimetri di pro-
fondità. Costa 200 giornate d'uomo ad ettare compresa la striscia
occupata dai filari, la quale non si tocca. Al primo anno la vite soffre
un po' e non ripiglia vigore che al successivo autunno. Al secondo
si ottiene 2[3 d' un prodotto ordinario ed al terzo anno il prodotto
è normale. Esso aumenta poi sempre per altri setti anni, infine de-
cresce sino al ventesimo, e allora si torna da capo col colturone.
(V. Coltivatore voi. XIV, pag. 269).
In Valle S. Martino (Bergamo) dove la vite è coltivata sopra
banchine orizzontali, si opera lo scasso ogni otto o dieci anni e solo
sulla scarpa della banchina. Con questo vi si duplica il prodotto
dell'uva per parecchi anni di seguito. (V. Coltivatore volume XII,
pag. 302).
Noi pure pratichiamo lo scasso a 50 cent, di- profondità ogni se-
sennio all' incirca, e tosto otteniamo un notevole accrescimento di
prodotto, che col vitigno barbera tocca i 130 ettol. ad ettare.
Ma il forte aumento del prodotto va decrescendo man mano che
il terreno va indurendosi; e così, là dove si pratica lo scasso ogni
10 anni, dal 5° anno al 10° la produzione segue una scala discen-
dente, ond'è che è più conveniente praticare uno scasso sesennale
a 50 centim. di profondità, che non uno decennale ad un metro.
Per poter praticare lo scasso bisogna che gli mterfilari siano larghi
almeno tre metri. Quando la loro larghezza non è superiore agli otto
metri, l'operazione dovrebbe abbracciare l'interfilare, però solo sino
a sessanta o ottanta centim. da ambi i lati delle viti stesse; si lascia
dunque una striscia intatta di 120 centim. almeno. L' operazione
vuoisi fare nel verno, allorché i succhi sono in riposo e la vite in
LAVORI COLTURALI NEL VIGNETO 529
istato di torpore. Di più , per essere certi di non recar danno
alle medesime, o questo almeno lievissimo, l' operazione dovrà farsi
un anno da una parte del filare e un anno dall'altra, onde a questo
modo la vite non soffrirà che al primo anno.
Con interfilari più larghi, ad esempio di 15 o 20 metri, lo scasso
laterale può essere limitato a due o tre metri di larghezza per parte,
e si può ripigliare alcuni anni dopo estendendolo cosi di altri due o
tre metri e così di seguito, finché un po' alla volta tutto l'interfilare
venga cosi scassato. Ciò giova immensamente anche alle cereali
e ai foraggi ivi coltivati, massime nelle terre che non abbiano ghiaia
o sabbia a poca profondità (nel quale caso non sarebbe d' altronde
necessario lo scasso alla vite), ovvero tufo magro ed arido.
Che se i filari di viti si trovassero a una distanza ancor maggiore,
com'è nelle viti maritate ad alberi, ovvero se non convenisse, per
altri riguardi, lo scasso graduale, gioverebbe almeno praticarvi ogni
otto o dieci anni il circonfussuro.
A tal uopo si squarcia la terra al pedale della vite e del suo ma-
rito alla profondità di 30 o 40 cent, e per un raggio quanto si può
maggiore, indi si ingrassa un po' e si ricolma colla stessa terra o
meglio con altra, avvertendo a versare sotto quella che era sopra,
e sopra quella che era sotto. È un'operazione anche questa che sorte
un buonissimo effetto e la si pratica con grandissimo profitto da
alcuni pochi meridionali per gli olivi.
Infine con distanze minori di 4 metri è meglio limitarsi all'apertura
d'un fossatello in mezzo al filare, largo e profondo sessanta ad ottanta
centimetri, in fondo ad esso porre una fila di fascine, poi (potendolo)
un po' di letame e quindi colmare colla terra estrattane. È questa
la fogna, detta arrotto nel Basso Monferrato, dove clà ovunque e
sempre buonissimi risultati. Costa però più dello scasso reale, perchè
occorrono molte fascine e molto letame. La spesa infatti supera spesso
le L. 1000 ad ettare, mentre quella del detto scasso, operandolo
con due puntate di vanga, sale appena a 300 o 400 lire, e a 600
o 800 con tre puntate.
Del modo di praticare lo scasso abbiamo già parlato a pag. 357,
e dell'arrotto abbiamo fatto cenno a pag. 370. Rimandiamo ivi il lettore.
§ 7. La distruzione delle male erbe. — La vite vuole
che il terreno su cui essa vegeta sia nudo d'ogni vegetazione; già
ne abbiamo fatto cenno a pag. 431. Le male erbe non debbono quindi
O, Ottavi, Trattato di Viticoltura, 35
530
CAPITOLO XV
aver tregua nel vigneto, perchè non solo si appropriamo una parte
notevole delle sostanze utili che si trovano nel terreno, e di cui do-
vrebbe giovarsi la sola vite, ma perchè provocano eziandio
l'aborto dei fiori, come hanno potuto osservare tutti coloro
che si occupano con amore di viticultura.
Gli è coi lavori culturali sovra descritti che, perseve-
rando, si riesce a distruggere le male erbe. Fra queste
la più comune e temibile è la così detta gramigna fjpa-
nicum dactylon Linn.^ chiendent dei Francesi; non di
rado si trova pure il pabio (panicum sanguinale Linn.)7
con altre numerose piante erbacee (tir siimi, raphanus,
polygomun, ecc.J delle quali è inutile fare qui la enu-
merazione. Per distruggere la gramigna, allorquando è
molto estesa nel vigneto perchè non culturato come si
conviene, è necessario che l'aratore od il vangatore siano
seguiti da un ragazzo il quale dovrà togliere con cura
tutte le piante di gramigna sradicate dall'aratro o dalla
vanga; senza questa precauzione si disseminerebbero pel
vigneto le radici della mal' erba. Nel Mezzogiorno della
Francia, là dove la gramigna è molto estesa, le si muove
una guerra implacabile; ogni due anni in estate, durante
il periodo di calma che precede la vendemmia, gli uomini
la sradicano colla zappa a bidente, procurando di svellere
anche le radici le più profonde: nelle estati molto calde
si riesce ugualmente a farla perire tagliandola come si
suol dire fra due terre, precisamente nel momento in cui
il terreno è più riscaldato.
E prudenza raccogliere con cura la gramigna e poscia,
essicata che sia, abbruciarla; la cenere si adopererà come
concime pel vigneto. La gramigna non ben secca, messa
nei composti, può provocare una nuova invasione, qua-
lora si adoperino questi composti stessi come ingrassi
negli interfilari.
Ma per distruggere completamente le cattive erbe, non
bastano sempre gli strumenti sovra descritti, perchè non
si giunge con essi sotto le piante, cioè nei filari medesimi
delle viti: neppure colla zappa ciò può sempre farsi age-
volmente, ed inoltre si corre rischio, lavorando nelle ore
più calde, di toccare le uve cagionando loro la scotta- mg. i",
\N
LAVORI COLTURALI NEL VIGNETO 531
tura (vedi Cap. XXVII). Per questo venne ideato uno speciale
arnese detto paletta (fig. 155), il quale altro non è che un badile ri-
curvo, a lungo manico. Il disegno ne dà tutte le dimensioni; la pa-
letta è leggera, e perciò anche un ragazzo potrebbe adoperarla spin-
gendola in tutti i sensi sotto gli interfìlari e recidendo la gramigna
a due dita sotto terra, senza toccare menomamente i grappoli. Questo
arnese ha sempre dato in pratica ottimi risultati.
CAPITOLO XV[
I Sostegni per le viti.
§ 1. Importanza dell'argomento — § 2. I pali come sostegno. Metodi di conser-
vazione dei pali — § 3. La canna come sostegno — § 4. Coltura della canna.
Propagazione sotterranea della canna — §5. Terreno e concime. Piantamento
— § 6. Cure annuali. Raccolto — § 7. Reddito d'un canneto specializzato —
§ 8. Il fil di ferro come sostegno per le viti — § 9. Applicazioni del sistema
a fil di ferro — § 10. Altri sostegni per le viti.
§ 1. Importanza dell'argomento. — Parlando dei sistemi spe-
ciali di coltura della vite vedremo come si soglia affermare essere mi-
gliore di tutti quello detto a ceppata bassa, o, più comunemente, ad al-
berello senza sostegno — adottato da tempi immemorabili nelle pro-
vinole meridionali d'Italia, ed in Francia, specialmente nel diparti-
mento dell' Hérault. Di questa superiorità vedremo anche le ragioni,
le quali si riferiscono in modo particolare alla migliore elaborazione
dei succhi nella vite potata a speroni, ed alla indiscutibile conve-
nienza economica. Ma il dire che al sistema ad alberello si compete
il primato su tutti gli altri, non vuol dire disgraziatamente che esso
sia sempre il preferibile. Troppo numerosi sono invece i casi in cui
il clima, il terreno, la natura del vitigno amante delia potatura lunga,
l'esposizione, la somma dei gradi di temperatura in una data regione,
rendono necessario uno Mei molti altri sistemi, nei quali sempre, con
maggiore o minore economia, si appoggia la vite ad un tutore, sia
questo di legno, di ferro o di pietra Se si aggiunge poi che il si-
stema ad alberello ha esso pure, nei primi cinque o sei anni, bisogno
I SOSTEGNI PER LE VITI 533
dei sostegni, che mille circostanze possono opporsi nelle contingenze
della pratica ad un radicale cangiamento nel sistema di viticoltura,
si avrà dimostrata l'utilità di occuparsi di questo argomento. Pre-
messo ciò entriamo in materia.
Esiste una questione dei sostegni, questione grave di economia
rurale, sorta in seguito al rapidissimo estendersi della viticoltura in
questi ultimi anni. Da più d'un ventennio assistiamo al dissodamento di
molti pascoli, al diboscamento di estese colline, seguito questa dalla
diminuzione dei pali, il cui valore aumentò in pochi anni in modo
esorbitante. Nel medesimo tempo le agevolezze dei trasporti rendendo
più facile il commercio, fecero ribassare notevolmente il prezzo del
vino in molte provincie; ecco adunque il viticultore-produttore alle prese
con una crisi incipiente. Egli si vede diminuito il compenso delle sue
fatiche, ed aumentato assai il prezzo di produzione, per le malattie,
per l'aumento della mano d'opera, e moltissimo come abbiamo detto
per la spesa dei sostegni la quale si poteva dire prima quasi indif-
ferente. Non insistiamo su di ciò, sono fatti ormai troppo noti per
non doverli più a lungo dimostrare.
Una cosa però abbastanza strana e della quale si deve incolpare
solo l'inerzia dei proprietarii, è questa, che mentre il prezzo dei so-
stegni sempre aumenta e si fa sentire da un ventennio assai grave
nei bilanci che i viticultori si fanno annualmente, si pensi così poco
a diminuire questa spesa. Il Piemonte e la Lombardia hanno diversi
sistemi di viticultura in cui l'armatura del vigneto è quanto mai
complessa e pesante; informino quelli del Pinerolese, dell'Astigiano,
informi quello di Broni e di Stradella i cui colossali filari danno al
forestiere che li vede dalla ferrovia l'idea di fantastiche costruzioni.
Orbene gli è solo l'anno scorso che abbiamo udito parlare di mo-
dificazioni, di semplificazioni. Nell'autunno 1883 il Comizio di Vo-
ghera premiava alcuni vigneti in cui il proprietario sperimentava ra-
dicali modificazioni al costosissimo sistema Stradellese; vi fu chi pro-
pose di sostituire nel sistema Casalese all'ultima fila di canne un filo
di ferro, e vi fu chi, meglio informandosi alle esigenze di questo
sistema, propose che questo filo di ferro si sostituisse invece alla
fila di canne posta nel mezzo; nell'Astigiano pure si comincia a pro-
vare una modificazione al sistema locale, e sempre coll'aiuto del fìl
di ferro. La vera, radicale innovazione, che sostituisce ai pali e alle
canne la spalliera col fil di ferro, e risolve così bene il problema
dal lato economico, si viene pure accennando qua e là, ma lenta-
534 CAPITOLO XVI
mente, dietro gli splendidi esempi del Boschiero, del Gurrieri, del
Toscanelli, del Giotti e di altri, e dopo alcune pubblicazioni escite
in questi ultimi anni (1).
Questo capitolo si occuperà dei diversi sostegni della vite accen-
nando specialmente ai più economici.
§ 2. I pali come sostegno. Metodi di conservazione dei
pali. — Cominciamo dai pali di legno. Essi secondo noi costitui-
scono il sostegno più costoso di tutti, e, colla canna, il più altera-
bile. Pochissime ormai sono le provincie italiane in cui l'armatura
del vigneto si faccia esclusivamente coi pali: citeremo quella di Na-
poli nella quale, come leggemmo sugli Atti dell'inchiesta agraria,
vi è sempre tanta ricerca che la produzione della provincia non basta;
citeremo il Novarese, il Bergamasco, la Sardegna dove esistono an-
cora estesi boschi di castagni, e dove la palina non è salita ancora
ai prezzi esorbitanti che abbiamo nelle altre provincie.
In generale invece i pali si adoperano misti alle canne, o alla testa
dei filari, o, in quelli col fil di ferro, piantati ogni i, 6, 10 metri
a sostegno dei fili stessi.
I pali possono essere di pioppio, di salice, di castagno, di rovere,
d'acacia ecc. Quelli di pioppo hanno un legno leggero, fino, resi-
stente, non hanno però una durata tale da compensarne il costo;
quelli di salice hanno presso a poco i medesimi pregi ed i medesimi
difetti; quelli di rovere sono migliori, quantunque costino anch'essi
assai, e siano sensibili alle alternative di secco e d'umido; la prefe-
renza assoluta vuoisi dare infine ai pali di castagno e d'acacia Un
buon palo di castagno soffre poco l'umido e nel terreno, convenien-
temente trattato coi processi di conservazione che vedremo, può du-
rare sino a 15-20 anni. L'acacia (robinia) offre pur essa pali di
molta durata e stabilità, che l'agricoltore può senza grandi difficoltà
produrre in appezzamenti isolati dalle sue tenute, avendo cura di
sceglierli lontani dai campi e dai prati, i quali potrebbero essere tosto
invasi dalle serpeggianti radici della robinia.
Tutti i pali, se si vuole che resistano un pezzo, debbono essere
preparati convenientemente. La prima avvertenza che si deve avere
(1) Vedi V. Sini. — Di un nuovo modo di educar le viti nel Monferrato, Vi-
nicolo Italiano, anno 1876 — e l'opera I sostegni per Ir viti «li E. Oliavi. 1884,
2a edizione.
I SOSTEGNI PER LE VITI
535
per il taglio dei pali che devono servire di sostegno alle viti si è
quella di tagliarli un anno prima di farne uso, e di toglier loro
subito la corteccia.
Ciò fatto si fanno subire ai pali uno, o meglio due, dei molti pro-
cessi di conservazione che dagli autori vennero proposti. Questa idea
di adottare contemporaneamente due processi di conservazione è sorta
da poco, ma pare abbia già avuto dai fatti una splendida conferma;
si tratta in sostanza di sostituire ai trattamenti semplici i tratta-
menti complessi.
Vediamo prima i semplici, diremo in seguito quali fra di essi si
possano insieme combinare con successo.
A) Spalmatura dei pali con sostanze resinose. Abbiamo l'olio
di lino, l'olio lourde dei Francesi, che è un prodotto della distilla-
zione del catrame di gas, il creosoto di torba o di lignite, e varii
altri olii minerali. Abbiamo poi miscele speciali come la seguente:
Catrame
Chil. 50
Sale comune
» 3
Vetriolo verde (solfato di ferro)
» 5
Allume ......
» 3
Colofonio (pece greca) .
» 13
La miscela si fonde al fuoco, e vi si immerge il legname per un
quarto d'ora, in capo al quale si tolgono i pali, e si sparge su di
essi una polvere composta di
Polvere di scorie di carbon fossile bruciato . Chil. 50
Solfato di ferro pesto ..... » 5
Calce » 15
Vetro polverizzato ...... » 20
Recentemente il giornale Y Obstgartner (il Frutteto) dava la se-
guente ricetta:
Facciansi bollire in una caldaia: 15 chil. di goudron del gas, 10
chil. di resina d'America e 3 chil. e mezzo di grascia ordinaria, fin-
ché tutta la mischianza sia ben liquefatta. Allora si aggiungano 2
chil. di gesso e 2 di terra creta ben polverizzata. Quando questa
composizione sia ben mescolata, vi si immerge la parte dei pali che
deve essere interrata, e prima che il preparato si dissecchi, si rotola
536 CAPITOLO XVI
nella sabbia, la quale si incorpora nel composto e ne aumenta la
durezza.
Colle dosi suindicate si possono preparare circa 1000 pali con una
spesa di 6 franchi.
B) Carbonizzazione dei pali. È un metodo più spiccio e più
economico, quantunque non garantisca ai pali una grande durata.
L'azione della carbonizzazione è duplice: elimina completamente l'u-
midità, e scomponendo fino ad una certa profondità la sostanza le-
gnosa, ricopre il legno d'uno strato di carbone che agisce di per sé
stesso come antisettico. Si scortecciano i pali, si accende un gran
fuoco e si carbonizza quindi la parte destinata a penetrare in terra.
C) Trattamento dei pali col vetriolo bleu o solfato di rame.
Si può fare a freddo o a caldo. Si preparano vasche apposite in ce-
mento, oppure si utilizzano vecchi tini o tinozze, contenenti la solu-
zione ramica, ed ivi, nel sistema a freddo, si tengono tuffati i pali
per una quindicina di giorni — tuffati completamente se è possibile,
o in caso contrario capovolgendoli dopo qualche giorno. La propor-
zione del vetriolo nella soluzione è di 2 chilog. circa per 100 litri
d' acqua.
I pali trattati col solfato di rame durano un certo numero d'anni,
poi cominciano a screpolarsi, ad alterarsi per l'umido, ecc. ed allora
possono essere utilizzati come combustibile.
Tanto nel trattamento a freddo, come in quello a caldo, è meglio
assai adoperare i pali verdi che non i secchi, perchè nel primo caso
T assorbimento della soluzione ramica avviene con maggior facilità
lungo i vasi del legno. Ed ecco ora come si opera il trattamento a
caldo: — si fa la soluzione del vetriolo nella proporzione del 2,50
p. 0[Q, vi si tuffano i pali e vi si aggiunge poi tant' acqua bollente
che basti per elevarne la temperatura a 65° centigradi circa; indi la
si lascia raffreddare a 29° e l'operazione è finita: occorrendo la si
ripete. Si conosce che l'operazione è riuscita, dal colore giallognolo
che prende il tessuto legnoso quando è ben bene imbevuto.
Siccome il succo dei pali verdi si mescola al liquido e lo diluisce,
e quindi bisogna aggiungere man mano del vetriolo, nasce spontanea
la domanda: quale sia la quantità totale del vetriolo necessaria per
una conciatura? Essa dipende dal numero dei pali da conciare e
dalla larghezza e profondità del tinello. Una buona norma pratica
è quella di aggiungere qualche cristallo di solfato alla soluzione
ogni volta che si concia una nuova quantità di pali.
I SOSTEGNI PER LE VITI 53?
DJ Trattamento col vetriolo verde o solfato di ferro. Esso
pure è consigliato dagli autori, ma Fazione del vetriolo verde è assai
più debole di quella del vetriolo bleu.
E) Immersione dei pali nel latte di calce. Quando si sospende
della calce caustica in acqua si ha quello che volgarmente chiamasi
latte di calce. Le esperienze di Houet sui pali tuffati per qualche
minuto in questo liquido diedero ottimi risultati.
F) Piantamento dei pali capovolgendoli. Piantando i pali nella
direzione opposta a quella in cui hanno vegetato, si contribuisce cer-
tamente alla loro miglior conservazione. Infatti, capovolgendo il palo,
si capovolge tutto il sistema di circolazione del succo e della capil-
larità, e l'umidità del terreno non potrà più salire, mentre quella
proveniente dall'atmosfera tenderà al contrario a discendere.
Quale dei sistemi accennati è il migliore? Non sapremmo dirlo,
a ciascuno di essi singolarmente si attribuiscono insuccessi, mentre,
come abbiamo avvertito, la combinazione di due trattamenti riuniti
diede i più soddisfacenti risultati. Ond' è che chiuderemo questo pa-
ragrafo, dicendo che i metodi migliori di conservare i pali sono:
1° La carbonizzazione seguita dall'incatramatura con una delle
miscele più sopra ricordate;
2° Il trattamento duplice del solfato di rame e del latte di calce.
Quest'ultimo dovrà seguire immediatamente il trattamento col solfato.
§ 3. La canna come sostegno. — La canna (arundo donaoc)
è assai conosciuta dalla Sicilia al Piemonte, e specialmente appunto
in queste due regioni: dopo le provincie di Alessandria e di Palermo,
le parti d'Italia ove trovansi molte canne sono il Genovesato, il Na-
poletano, le Maremme, la Sardegna. È il sostegno più economico tra
quelli che l'agricoltore può prodursi; la coltura di questa grami-
nacea vorrebbe perciò essere più diffusa assai di quello che noi sia
presentemente, e non dubitiamo che la canna non tarderà a far
dimenticare i pali, eguagliando col numero la resistenza loro, e vincen-
doli per la sua grande economia. — I filari appoggiati ora completa-
mente ai pali devono essere tosto o tardi sostenuti quasi totalmente
da canne nei sistemi in cui il tralcio lungo si distende verso 1' in-
terfilarc, e dal fìl di ferro nei sistemi a spalliera. A questo punto
saranno condotti i viticultori o dal ragionamento che segue, o più
tardi dall'eloquenza dei fatti e dalla necessità.
Il ragionamento è questo: un canneto specializzato può dare per
538 Capitolo xvi
ettare comodamente 40 mila canne, che, computando anche 1' am-
mortizzazione della spesa di primo impianto, la concimazione, la
sfrondatura, il taglio ed il trasporto delle canne, il fitto, ecc. co-
stano circa 400 lire: però da queste conviene sottrarne L. 80 per
200 miriag. di foglia, e circa L. 80 per altre 8000 piccole canne; restano
dunque L. 240 da dividersi fra le 40,000 canne suddette; sono dun-
que 0,006 ciascuna. Siccome si ritiene che 12 canne valgano un buon
palo, così 12 canne costerebbero L. 0,072, cioè meno di 10 cente-
simi. Un buon palo di castagno alto 2ra,50 e del diametro di 0m,05
costa almeno 12 centesimi; un buon palo d'acacia di m. 4 e del dia-
metro di 0,04 costa circa 10-15 centesimi. Le canne dunque sono
un sostegno più economico dei pali.
§ 4. Coltura della canna. Propagazione sotterranea della
canna. — Rarissimi sono i trattati di viticoltura che dedichino qual-
che pagina alla coltura della canna; ora siccome l'uso principale di
questa graminacea è quello di farne sostegni per la vite, è naturale
che di preferenza in un trattato di viticoltura si spenda qualche parola
per dare le nozioni fondamentali sul di lei modo di propagazione e sulla
coltura. È quello che faremo ora brevemente, non consentendoci l'in-
dole del libro, l'estenderci assai su questo punto; e perciò rimandiamo
quelli che volessero una monografìa completa sulla canna, al libro
T sostegni per le viti di Edoardo Ottavi.
La conoscenza della propagazione sotterranea della canna è in li
spensabile a chi vuol apprenderne la coltura razionale. L'agricoltore
che conosce in qual modo si formino sotterra gli occhi, in qual di-
rezione di preferenza si allunghino, sotto quali condizioni e in quali
epoche diano le migliori canne, 1' agricoltore infine che conosce la
teoria della propagazione sotterranea della canna, si trova condotto
naturalmente e senza sforzo d'ingegno alla conoscenza delle applica-
zioni pratiche.
Partiamo dall'occhio di canna, quella parte cioè di rizoma o cep-
paia sotterranea dalla quale spuntano i culmi aerei. L'occhio o bar-
bocchio è composto di una o più gemme, e trovasi all'estremità del
fusto sotterraneo, fusto che ha l'aspetto di radice, come nel mughetto
e nella gramigna. L'occhio di raro è isolato, nelle condizioni normali
è sempre composto di tre gemme, una più grande mediana, e le altre
più piccole ai due lati. Commercialmente lo si intende così, e così
lo intendiamo noi pure nella teoria della propagazione della canna.
t SOSTEGNI PER LE VITI 539
Da ogni gemma spunta e cresce una canna, ma in epoche diverse.
Vi sono canne che in aprile cominciano a spuntare e si fanno poi
alte in maggio; ve ne sono altre che spuntano più tardi assai, in
luglio, e non raggiungono il loro sviluppo completo che in agosto :
le prime si chiamano maggenghe, e spuntano dalle gemme centrali
degli occhi (m fig. 156), le altre si chiamano agostane, e spuntano dalle
gemme più piccole e laterali fa' a") le quali nel frattempo si sono
allungate e allontanate dalla gemma centrale. Le canne maggenghe
sono più sottili, ma più robuste assai delle agostane.
/ i
/
Fig. 156.
Mentre i culmi aerei si vengono formando, sotterra il rizoma si
allunga, e si allunga mediante un sistema di biforcazioni. Alla base
di ogni agostana e innanzi ad essa partono e si allargano ad angolo
due diramazioni, alla testa delle quali saranno due occhi come quelli
della fig. 157 a b. Come si vede adunque il sistema che diremo radicale
della canna si moltiplica assai e rapidamente. Teoricamente da un
occhio (3 gemme) dopo un anno se ne hanno quattro (12 gemme),
e quindi se il raccolto del canneto è nel primo anno di 3 canne,
nel secondo è di 12.
Se si calcola in questo modo il prodotto del terzo e del quarto
anno, si giungerà a cifre elevate e che in pratica non si avverano.
Perchè? Perchè gli occhi non trovando spazio e nutrimento neces-
sario si accavalcano, si danneggiano a vicenda e molti periscono.
Ecco adunque la prima applicazione pratica che si può dedurre
dalla nostra teoria: procurare che il raccolto reale si accosti per
quanto è possibile al teorico, in altre parole procurare al maggior
numero possibile di occhi e spazio e nutrimento.
o40
CAPITOLO xvi
Lo spazio lo procureremo togliendo sempre dal terreno le ceppaie
vecchie ed esaurite, quelle ove sono le cicatrici delle canne tagliate.
Il nutrimento lo daremo coi concimi e coi lavori.
Fig-. 157.
§ 5. Terreno e concime, piantamento. — La canna ama i
siti freschi, non umidi né acquitrinosi. Alcuni credono e stampano
che le canna prosperano nelle paludi, ma costoro confondono le do-
mestiche (amndu donax) colle palustri (arundo phragmites). Il
miglior terreno per la canna è il siliceo-argillo-calcare, i terreni tu-
facei, granitici, argillosi sono pur buoni purché scassinati profonda-
mente.
II concime vuol essere di pronta assimilazione, ma non composto
soverchiamente di principii organici. Il Dr. Mina Palumbo nota in
una sua memoria come negli orti le canne vengon su lunghe e grosse
ma meno resistenti (canni maschi in Sicilia). Il letame completato
coi perfosfati d'ossa è buono, la poudrette o polverina pure, come
quella che contiene una quantità sufficiente d'acido fosforico.
I SOSTEGNI PER LE VITI 541
L'epoca della concimazione varia. Noi consiglieremmo di fare questa
operazione in più riprese. Ottima cosa è intanto 1' aggiunta d' una
parte del concime all' epoca dello scasso, e buona anche, in minor
quantità, all'epoca del piantamento. — La concimazione in copertura
con concime e terra si fa nell'autunno, per proteggere dal gelo gli
occhi, quando, in previsione d'un inverno rigido che potrebbe dan-
neggiar le canne, si fa il taglio in novembre. È bene concimare al-
l'epoca del raccolto, e anche quando nella zappatura estiva si tolgono
le vecchie ceppaie, mettendo il concime al posto lasciato dalle cep-
pale stesse.
Il piantamento si fa con occhi e barbocchi (ovuli in Sicilia, e al-
trove talloni, bulbi, radici), oppure con pezzetti di canna tagliuzzati
o canne intiere sotterrate, poiché la canna a ciascun nodo del fusto
aereo ha una piccola gemma rudimentale capace anch'essa di svilup-
parsi. In quest'ultimo caso però si perde per lo meno un anno.
Abbiamo due sistemi di piantamento, quello a filari che è il più
comune, e quello a cespugli. L'epoca del piantamento essendo il mese
di marzo, talvolta prima, talvolta dopo, secondo la stagione, è buona
cosa preparare il terreno sin dall'autunno precedente. Nel sistema a
filari si aprono adunque tante fosse a 6, 7, 10 metri, profonde quasi
un metro e larghe un metro pure, e si lasciano così aperte. Da un
lato del fosso si getta la terra vergine, dall'altro quella dello strato
arabile. — È meglio tenere tra i filari piccola distanza e specializzare
il canneto; pochissimo risultato si avrebbe dal grano o dalle civaie
seminate neli' interfilarc. Giunta la primavera si riempiono le fosse
sino ai tre quarti della profondità totale, poi si mettono gli occhi,
collocandoli verso la linea mediana della fossa in due file distanti
l'una dall'altra 30 centim. e gli occhi pure distanti l'uno dall'altro
di 30 centim. ma alternati. Poi si aggiunge un po' di terra fina,
buona, di quella dello strato arabile, poi un po' di concime, e infine
si riempie del tutto con terra vergine.
Al sistema delle fosse è naturalmente preferibile quello dello scasso
reale, e in tal caso il piantamento si fa poi in buche profonde circa
20 centimetri, buche che si aprono all' epoca del piantamento, e si
coprono subito dopo. Facendo il piantamento su terreno scassato
non è necessaria l' aggiunta di concime, essa si farà con maggior
profitto all'epoca della zappatura d'agosto.
L'altro metodo di piantare il canneto è quello a cespugli — il
terreno si prepara collo scasso, e poi in primavera si piantano gli
542 CAPITOLO XVI
occhi in modo da avere poi dei cespugli di canne, che distino l'uno
dall'altro di 3 metri in tutti i sensi. — A piantare un cespuglio ba-
stano tre occhi che si collocano ai tre vertici d'un piccolo triangolo
che abbia 30 centimetri di lato-
§ 6. Cure annuali. Eaccolto. — Nel primo anno basta una
zappatura in maggio o giugno e la caccia continua alle mal'erbe,
specialmente nei mesi caldi, mandando a raccoglierle anche colle
mani. Nel secondo appena fatto il taglio (febbraio-marzo) si fa una
zappatura generale, ed un'altra la si fa poi in agosto. Non si dimen-
tichi la solita caccia alle malerbe, e si dia in agosto una piccola in-
calzatura alle canne, operazione che gioverà moltissimo agli occhi per
l'anno venturo. Al terzo anno si può alla zappatura d'agosto sostituire
una vangatura, colla quale si sopprimono le cannette sottili e deboli; fa-
cendo questo lavoro in luglio, si libererà il canneto da inutili cannuccie
e si favorirà invece assai il raccolto delle agostane. — L'incalzatura
la si faccia in settembre accumulando ai piedi delle canne da 25 a
35 centimetri di terra. Quest'operazione protegge gli occhi dal gelo
invernale, e siccome con essa si abbassa l'interfilare, giova al pronto
scolo delle acque di pioggia e di neve.
Ma in questi tre anni si saranno già accumulate nel terreno molte
ceppaie esaurite le quali toglieranno lo spazio ai nuovi occhi. Questi
allora si estenderanno dalla parte dove si presenterà loro del terreno
libero, cioè verso l'interfilare, ed ecco perchè i canneti trascurati
pare che camminino. Ciò non conviene all'agricoltore che vuol man-
tenere regolare la forma del filare o del cespuglio e per questo co-
minciando dal terzo anno bisogna esportare le vecchie ceppaie e ri-
petere poi quest'operazione o annualmente o radicalmente quando si
veda il filare diradarsi, prodursi inesso dei vani, crescere delle cannettine.
I vani nel filare accusano immancabilmente la presenza d'una cep-
pala infeconda la quale, se pur porta una qualche gemmerella, dà
le cannuccie meschine che abbiamo detto. Orbene l'operazione si fa
o collo zappone all' epoca del taglio, o d'estate. Ivi un uomo svel-
lendo le cannucce collo zappone porta via anche un pezzetto di questa
ceppaia; gli altri lavoratori poi colla vanga la tolgono del tutto dal
terreno. Così si lascia libero lo spazio ai nuovi occhi, e concimando
nei vani lasciati dalle ceppaie si farà sì che essi dirigeranno le loro
diramazioni nuove non più verso l'interfilare ma verso il filare stesso
che loro presenta terreno smosso, libero e ricco di elementi ferti-
I SOSTEGNI PER LE VITI
543
lizzanti. — Ed ecco mantenuta intatta la forma del filare, ecco re-
golato l' allargamento del canneto. Un' operazione buona da farsi
quando il canneto comincia ad invecchiare è di aprire ad uno dei
lati di esso (il superiore nei canneti di collina, quello a mezzogiorno
nei canneti di pianura) un fossatello largo e profondo 25 cent, che
si riempirà poi di buona terra con concime. Questo strato sarà tosto
invaso dagli occhi e allora l'agricoltore penserà a restringere il filare
dal lato opposto.
Veniamo al raccolto — Nel primo anno, eccezione fatta per le
canne cresciute su scasso reale, si avrà un raccolto di cannucce non
ancora buone a servir di sostegno: le si tagliano tuttavia egualmente
che volendole lasciare non diventerebbero più robuste, bensì mettereb-
bero dei rimessiticci e danneggerebbero le vere canne del secondo anno.
Il taglio si fa con una zappettina ben tagliente (a b fìg. 158) e con cura,
per non svellere la ceppaia sotterranea non ancor bene assodata nel
Fig 158.
terreno. Al secondo anno si adoperi di preferenza uno zappone ben
tagliente, perchè spesso la zappettina invece di tagliare le canne le
spacca. Il colpo dato alla base della canna deve portar via anche
un pezzettino di ceppaia. Prima si scalza ai piedi della canna, un
544
CAPITOLO XVI
ragazzo abbraccia otto o dieci canne piegandole leggermente, e un
uomo collo zappone le taglia. Ogni canna ha alla sua base un occhio
piuttosto sviluppato che conviene esportare perchè darebbe una brutta
maggenga. Il taglio si fa adunque in modo da esportare anche questa
gemma (v. la fig. 158 v vecchio n nuovo).
Raccolte le canne le si ammucchiano e si serbano possibilmente
al coperto; non potendo si ammonticchiano a schiena d'asino aggiun-
gendo poi un po' di paglia e coprendo il tutto con terra.
§ 7. Reddito di un canneto specializzato. — Nel primo
anno si può calcolare sopra un raccolto ad ettare di 9000 canne,
delle quali un migliaio solo possono in qualche modo servire a so-
stener le viti. Nel secondo anno pure il raccolto non sarà ancora
rimuneratore, nel terzo, in cui il canneto è in pieno prodotto si può
raggiungere comodamente la cifra di 50,000 canne dalle quali 10,000
piccole e di scarto.
La spesa d'impianto del canneto si può stabilire così (1):
Far le fosse ......
L.
320,50
Riempirle e piantare occhi
»
97,25
Acquisto 3200 occhi a L. 3 il 100 (prezzo
medio) .......
»
96 —
Sei quintali concimi chimici
»
168 —
Sarchiatura ......
»
20,15
Sfogliatura
»
4,50
Taglio delle prime cannette
»
5,25
Spese generali ......
»
35 —
Totale L. 746,65
Le spese al terzo anno sono le seguenti:
Per taglio ....
Concimazione, 6 quintali concime
Zappatura ....
Sfrondatura ....
Trasporto canne e foglie .
Spese generali ....
L.
76,10
»
168 —
»
57,95
»
51,75
»
13,25
»
60 —
(1) V. E. Ottavi op. cit.
L. 457 05
I SOSTEGNI PER LE VITI 545
Riporto L. 457,05
Ed aggiungiamo anche l'ammortizzazione
in settantesimi (un buon canneto dura anche
100 anni) delle spese di primo impianto . » 10,65
L. 467,70
Prodotti.
40,000 canne al prezzo medio di L. 2,75
al cento L. 1100 —
Canne piccole circa 10,000 ...» 150 —
300 miriagr. foglia pel bestiame . . » 89 —
L. 1339 —
e togliendo la spesa in » 467,70
Abbiamo il benefìcio netto L. 871,30
Nei colli del Basso Monferrato il raccolto principale dopo quello
dell'uva è quello delle canne. La cifra di L. 2,75 al cento è salita
in questi ultimi anni a 3 e nel 1884 anche a L. 4 il cento.
§ 8. Il filo di ferro come sostegno delle viti. — Nel 1823
un curato lombardo fece pel primo la proposta di adottare il fìl di
ferro nelle vigne. L'idea attecchì, se ne fecero propugnatori in se-
guito insigni scrittori francesi, ed ora i sistemi di viticoltura a fìl di
ferro sono conosciuti e adottati in larga scala in Italia e in Francia.
Oltre al sistema Guyot e agli altri sistemi a spalliera e contro-
spalliera che ci vennero dalla Francia, abbiamo di già in Italia di-
versi sistemi speciali italiani di viticoltura col fìl di ferro; abbiamo
poi l'applicazione del fìl di ferro a sistemi vecchi italiani, per esempio
il Casalese, e ne vedremo qualche esempio.
Il fìl di ferro permette di realizzare una notevole economica nei
pali e nelle canne, in certi sistemi italiani anzi la canna è totalmente
bandita; non ci sono che i pah per sostegno dei fili. L'economia di
tal sistema non ha dunque bisogno di dimostrazione.
Il fìl di ferro da adoperarsi in viticoltura è ricoperto da un sot-
tile strato di zinco che lo difende dall'ossidazione (filo zincato o gal-
vanizzato: è di diverse grossezze, in generale si adottano i numeri
O. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 36
546
CAPITOLO XVI
dal 12 al 16. Dura comodamente dodici anni, ma non è raro il caso
che lar,durata si prolunghi sino a 30 anni. Non pare confermato il
fatto accennato da alcuni che i fili di ferro producano un precoce
ingiallimento nei pampini.
Si dice pure che il filo produca, là dove tocca i pampini, delle scot-
I SOSTEGNI PER LE VITI 547
tature durante i grandi calori estivi. Ciò non accade più quando i
tralci si dispongono orizzontalmente sul filo stesso senza strette le-
gature, perchè i viticci pensano essi a fissare i pampini medesimi.
Certo però che per le viti non fornite di robusti viticci i fili di ferro
non sono molto a raccomandarsi.
I prezzi medii del fìl di ferro sono di L. 60 al Mg. pel N. 14;
L. 58 pel N, 15; L. 56 pel N. 16 al quintale.
Quando si voglia applicare ad un filare di viti il filo di ferro, o-
perazione che si fa d'inverno, si comincia a fissare fortemente ai
due estremi di quello due forti pali detti di testata: ad essi si rac-
comanda e si lega il fil di ferro. Da alcuni per rendere il filare più
saldo si usa fermare i fili a terra mediante grosse pietre (fig. 159).
Per tendere bene il fil di ferro ci vogliono apposite macchinette,
quali sono il roidisseur (fig. 160), il tenditojo Panizzardi (fig. 161),
quello Arrighetti (fig. 162), quello a carrucole, quello Barbero-Delodi
che sono tutti di semplice congegno, e non spendiamo quindi parola
alcuna a descriverli minutamente. Noteremo solo che i roidisseurs ser-
vono una volta sola dovendo restare sul filo, come vedesi alla fig. 159;
— costano da 15 a 30 centesimi l'uno. —
Fig. 162.
La macchinetta Arrighetti presso l'A. a Sesto Fiorentino costa
L. 15, quella a carrucole L. 16 presso l'Agenzia Enologica di Mi-
lano, quella Delodi L. 15 presso il signor Barbero di Torino.
I fili si fissano ai pali o facendoli passare per un forellino entro
i pali stessi, o con piccole punte o chiodi ricurvi, o con una lega-
tura speciale con filo metallico.
II numero dei pali da piantarsi nel filare a sostegno dei fili varia
a seconda della loro grossezza e robustezza; la distanza media tra
palo e palo può stabilirsi in sei metri.
548
CAPITOLO XVI
Il numero dei fili pure varia a seconda del sistema di viticol-
tura che si applica. Più comunemente si adottano due fili; in To-
scana specialmente al più basso si supplisce un piccolo palo alto 60
centimetri il cui scopo è quello di sostenere il tralcio a frutto che
all'epoca della potatura si legherebbe appunto — nei sistemi con due
fili — al filo inferiore. Con due fili, pali e canne si rende il filare
robustissimo anche contro i venti più furiosi. Vi sono poi sistemi a
tre fili di ferro, e qui si sopprimono totalmente le canne.
Vediamo qualche esempio preso dal nostro podere sperimentale e
dai migliori viticultori italiani.
§ 9. Applicazioni del sistema a fil di ferro. — Il dott. D.
Giotti da Empoli ha nelle sue vigne un solo filo di ferro, e se ne trova
F\g 163
Fig. 164.
contento assai dal lato dell'economia. Come si vede nella fig. 163 egli
lega il gambo della vite al fil di ferro e alla canna, lo sperone avanza
1 SOSTEGNI PER LE VITI
549
al di sopra del fil di ferro, ed allungandosi i capi di esso vengono
dal dott. Giotti legati in maggio o giugno alla canna prossima.
Noi pure al nostro podere la Cardella cominciammo con un filo
solo, poi ne adottammo due. Si trattava di ridurre a tralcio lungo
molti alberelli, perciò noi al momento della potatura lasciammo agli al-
berelli, oltre ai tre speroni di 4 o 5 gemme l'uno, anche un tralcio lungo
che distendemmo sopra un fil di ferro (fig. 164). L'anno dopo aggiun-
gemmo un altro fil di ferro. Ora noi abbiamo nel filare una distanza
variabile tra pianta e pianta da 80 a 120 centimetri: il primo filo
di ferro è situato a circa 50 cent, dal suolo, e il secondo a 85 o
tutt'al più 90. I pali sono posti a 4 metri l'uno dall'altro, e ad ogni
vite vi è una canna che si lega ai detti fili. Nella fig. 165 si vede
chiaramente la disposizione che noi diamo al tralcio a frutto.
Fig. 165.
A poca distanza dal nostro podere il cav. M. Pugno di S. Giorgio
Monferrato ha adottato il fil di ferro. Il sistema suo, con una leg-
gera modificazione proposta da noi, è indicato alla fig. 166.
Il tralcio a frutto è sul filo più basso, i germogli fruttiferi si adat-
tano al secondo filo, e i tralci a legno si attorcigliano fra di loro,
facendo sì che si sostengano da loro stessi. Invece nei sistemi a tre
fili di ferro (Gurrieri, Boschiero) si distende questo tralcio a legno
sul terzo filo.
Di questi sistemi a tre fili descriveremo quello che porta il nome
del Prof. V. Sini, che lo sperimentò nel Trentino, e che si può dire
un vero sistema casalese, ma a controspalliera.
Al filo più basso il Prof. Sini assicura, mediante i soliti legacci,
la base e la punta del ramo fruttifero arcuato; a quel di mezzo si
550
CAPITOLO XVI
allacoierà il sommo dell'arco; il superiore infine servirà ai getti dello
sperone, ossia ai tralci dell' anno venturo, i quali superato il primo
Fig. 166,
ed il secondo filo, verranno a raggiungere il più alto, e su questo
dolcemente si piegheranno e si distenderanno.
La fig. 167 ci dà un'idea della cosa:
Fig. 167.
A) Vite appena dopo la potatura;
B) Vite a completa vegetazione.
I SOSTEGNI PER LE VITI 551
In questo sistema i lavori annuali di palatura sono ben lieve cosa,
poiché i pali non hanno bisogno di essere ripiantati annualmente nel
terreno, ed 1 fili di essere rimessi. Tutt'al più converrà ri tendere
questi ultimi, qualora si fossero rallentati; ma questa è operazione
da poco, che facilmente si ottiene con un tenditore qualsiasi.
Diciamo per ultimo una parola sul costo dell'impianto d'un filare
a fil di ferro, compresa la compera dei pali, il trattamento di essi
col vetriolo o con altre sostanze conservatrici, e tutta la mano d'o-
pera. Con sistema misto, filo, pali e canne, abbiamo calcolato la spesa
d' impianto in L. 350 ad ettare; è una cifra grave, ma noi siamo
certi che con qualunque altro sistema di viticoltura la spesa d'im-
pianto, pel costo gravissimo dei sostegni, non è minore. La spesa
annuale, che col sistema casalese è gravissima, perchè bisogna rin-
novare continuamente una buona parte delle canne, è invece ridotta
col fil di ferro di un buon terzo.
§ 10. Altri sostegni per le viti. — I sostegni di pietra e di
ferro usati da una trentina d'anni nel Palatinato sono molto lodati
da quei viticultori che li adottarono. Disposte le viti in linea retta,
per ogni filo si tendono da 1 a 3 fili di ferro, raccomandati a so-
stegni di pietra piantati nel suolo, detti stivoli; a questi fili di ferro
si legano con dei vimini i tronchi della vite e i tralci da frutta.
Nell'Heard-Gebirge si fanno da qualche tempo piantagioni a spal-
liera molto semplici: il filo inferiore è alto 0ra,30 dal suolo, e serve
d'appoggio al tronco ed ai tralci piegati ad arco; ai due fili superiori
distanti 0m,30 Y uno dall' altro si attaccano i pampini estivi. Questa
piantagione a spalliera offre le migliori condizioni per la perfetta
maturazione dell'uva, dando libero accesso ai raggi solari. È ovvio
comprendere che questo materiale dura assai più che non durino i
pali di legno, per cui in pochi anni si fanno tali risparmii da com-
pensare ad usura la spesa d'impianto. La spesa si calcola per ogni
1000 piante di vite in L. 200, comprendendovi la pietra, le stanghe
di ferro, i fili di ferro e la mano d' opera. Nei pergolati questo si-
stema di sostegni è il preferibile, quando però il vigneto non sia
esposto ai venti: in questo caso l'attrito continuo dei pampini contro
il ferro recherebbe gravi danni alle viti. Bisognerebbe dunque allora
servirsi del legno. Il modo di stabilire il sistema dell'Heard-Gebirge
è facile: ogni 10 ceppaie si approfonda nel terreno una pietra, la
quale serve di base ai piedritti di ferro, attraverso i quali si fanno
passare longitudinalmente tre fili di ferro.
CAPITOLO XVI
Ultimamente furono proposte le colonnette di cemento, le quali
all'esperienza nostra e di altri viticultori risultarono solidissime.
A completare questo breve studio sui sostegni della vite dovremmo
dire qualcosa anche degli alberi. Ma di ciò dovremo occuparci diffu-
samente altrove, e quindi rimandiamo il lettore al Cap. XXIV, dove
appunto si tratterà l'argomento della vite maritata ad alberi.
CAPITOLO XVII
Creazione di nuove varietà.
§ 1. Ibridazione diretta ed indiretta: loro scopo — § 2. Come si debba operare —
§ *.}. Ibridazione fra viti europee — § 4. Ibridazione fra viti europee ed ame-
ricane — § 5. Quali viti americane si debbano scegliere per l'ibridazione —
§ 6. Dimorfismo: grappoli con acini a vario colore.
§ 1. Ibridazione diretta ed indiretta: loro scopo. — La
creazione di nuove varietà di vitigni, quantunque assai poco studiata
sino a questi ultimi tempi, ha una non piccola importanza in viti-
cultura, anche considerata dal solo lato pratico. Infatti è evidente
che, se noi arriveremo a svelare il segreto di questa creazione, po-
tremo popolare i nostri vigneti di quelle varietà le quali o pella na-
tura del loro prodotto o perchè meglio resistenti alle gravissime ma-
lattie dominanti, sono le più convenienti economicamente parlando:
potremo quindi ottenere vitigni a uve ricche di colore e nello stesso
tempo molto zuccherine, mentre prima avevano il colore senza lo
zucchero o questo senza quello; ci sarà dato di coltivare speciali vi-
tigni molto o poco rigogliosi a seconda di quanto a noi conviene, e
ci sarà anche dato, il che ha ora grande importanza, di coltivare
vitigni resistenti alla fillossera e nello stesso tempo produttori diretti
di buona uva.
Questi sono i vantaggi principali della creazione delle nuove va-
rietà, a cui si può arrivare con una lunga e paziente selezione dei vi-
nacciuoli e dei loro prodotti. Ma questo metodo si può dire che non
approda a nulla, se non è coadiuvato dalla ibridazione artificiale.
554 CAPITOLO XVII
Se noi facciamo in maniera che il polline di una varietà stimata per
talune qualità, vada a fecondare gli ovuli di altra varietà, per altro
verso pregevole, ne otteniamo una terza che nella sua individualità
propria racchiude per così dire una media delle virtù intime dei pro-
genitori, però con un predominio, in generale, dell'influenza materna.
Questo incrociamento fra il polline d'una varietà e gli ovuli di un'altra
può avvenire naturalmente o artificialmente. Avviene natural-
mente fra varietà, ovunque si coltivano viti; e si verifica poi fra le
specie (pag. 77) nel Nord America ove le specie sono parecchie, al
contrario di quanto accade verosimilmente in Europa ed in Asia.
L'ibridazione si distingue poi in diretta ed indiretta. È diretta
quando il polline d' una varietà fecondando gli ovuli di un' altra si
ottiene, dalla seminagione dei vinacciuoli, un ibrido avente i carat-
teri e le fisionomie dei progenitori: — è indiretta quando un ibrido
stesso ci dà, coli' auto-fecondazione, cioè col suo stesso polline, un
vinacciuolo, dal quale trae origine un secondo ibrido in cui sono
accentuate in modo diverso di quanto accade nel primo ibrido, i ca-
ratteri delle due specie o varietà primitive. Un esempio renderà più
chiare queste definizioni.
Il Clinton, ad esempio, proviene dalla ibridazione diretta della
V. Riparia colla V. Labrusca: ma da un vinacciuolo di Clinton
provenne, or sono quasi venti anni (1), un secondo ibrido, il Vialla,
che certo rassomiglia al Clinton, ma che ad esempio mostra nelle
radici maggiormente accentuate le preziose proprietà della V. Ri-
paria, e nella disposizione dei cirri assomiglia di più alla V. La-
brusca che non lo stesso Clinton. Il Vialla sarebbe un caso di
ibridazione indiretta, o auto-fecondazione (2) con polline verosimil-
mente monoclino (pag. 190).
§ 2. Come si debba operare. — Per provocare artificialmente
la ibridazione fra due specie o varietà di vitigni, occorre una certa
destrezza di mano, ma l'operazione in sé non presenta grandi diffi-
(1) Questo accadde presso il sig. Laliman di Bordeaux, cui dobbiamo il Vialla.
(2) Non tutti però ammettono che il Vialla discenda da un Clinton per auto-
fecondazione; taluni sostengono che nelle vicinanze del Clinton si doveva trovare
qualche V. Labrusca il cui polline fecondò casualmente quell'ovario del Clinton
che diede poi il vinacciuolo del Vialla. In questo caso, il nuovo intervento della
V. Labrusca avrebbe accentuato i caratteri proprii nel secondo ibrido, senza però
menomare l'influenza della V. Riparia.
CREAZIONE DI NUOVE VARIETÀ
colta. Ne faremo qui una descrizione desumendola da una memoria
del sig. V. Ganzin (1).
Fissata la scelta delle forme o varietà a fecondare, 1' operatore
seguirà attentamente lo svilupparsi dei grappoli fiorali: allorché i primi
fiori saranno schiusi, è tempo di agire. L' operatore primieramente
sopprimerà, mercè apposita cesoia a lame lunghe e ben sottili, tutti
i fiori già sbocciati: sceglierà quindi gli ovarii più avviati (ciò che
con un po' d' abitudine arrivasi a distinguere facilmente alla gros-
sezza di quelli e al loro rigonfiamento), e senza troppo premerli li
piglierà verso al terzo superiore di loro altezza in fra le tenui bran-
che d'una pinzettina d'oriuolaio, e dolcemente tirando in alto, d'un
colpo li sbarazzerà del cappuccio (petali saldati distaccantisi dal ca-
lice alla base) e degli stami. Se la fioritura non fosse un po' avan-
zata, difficilissimo riescirebbe di staccare il cappuccio, e per lo più
il pedicello romperebbesi dietro la pressione. Si piglieranno allora
immediatamente e si poggieranno sugli stimmi del fiore scappucciato
le antère dei fiori di fresco aperti della varietà scelta come padre,
onde il polline vi si deponga; e dopo assicuratosi, giovandosi all'uopo
d' una buona lente microscopica, che certa quantità di granuli del
polline restò aderente agli stimmi, si ricomincierà lo stesso lavorìo
sopra a un altro fiore, badando accuratamente di sceglierlo fra quelli
non immediatamente a contatto col primo fiore già fecondato. Finita
l'operazione, si taglian via tutti i fiori scartati e chiudesi in un sac-
chetto di fino e fìtto velo il rimaneate grappolo ibridato, onde sot-
trarlo a ogni possibile influsso fecondante ulteriore d' altri grappoli
contigui. Non sarà inutile finalmente di lasciar deposto pure sul detto
grappolo, prima d'imprigionarlo nel velo, la panicola fiorale che fornì
il polline, ovvero altra identica panicola pur allora colta, che andrà
poi levata via dopo alquanti giorni.
Giustamente osserva il Ganzin, che in queste ibridazioni l'azzardo
giuncherà sempre una grande parte, e che sarà spesso necessario di
ripetere l'operazione modificandone le condizioni, come si usa in zoo-
tecnìa. L'ibrido di prima generazione potrà pertanto ricevere un se-
condo incrocio, e dar luogo per ibridazione indiretta ad un secondo
ibrido con certi caratteri più accentuati; ora tutto ciò non è lavoro
d' un giorno, ma opera lunga e paziente. Il Ganzin, pensando alla
(1) Revue scientifique de la France et de V Etr anger (n. del 30 luglio 1881)
V. Giornale Vinicolo 1882, traduz. del Dr. F. Console.
1356 CAPITOLO XVII
invasione fillosserica, conchiude: « noi lavoriamo per l'avvenire, e
certo su questa via si potranno ottenere risultati insperati. »
Se 1' ovario si sviluppa, ciò vuol dire che la ibridazione è avve-
nuta. Si curerà pertanto pazientemente che questi acini giungano
sani e salvi a maturazione; se ne prenderanno quindi i vinacciuoli,
scegliendo quelli che non assomigliano né al padre né alla madre, e
si semineranno. I tralci delle nuove piantine serviranno poscia per
moltiplicare la nuova vite ibrida,
§ 3. Ibridazione fra viti europee. — L' incrociamento del
polline provocato fra viti nostrane, ha per iscopo di creare, mercè
due varietà aventi taluni pregi individuali, una terza la quale pos-
segga da sola quelle qualità per cui vanno pregiati i progenitori.
Una vite la quale ci dà mosto molto colorato ma poco zuccherino,
incrociata con altra la quale invece dia mosto molto zuccherino ma
poco colorato, ci potrà dare, mercè accurate selezioni, un nuovo
vitigno, il quale produrrà uve di molto colore e ricche di principio
dolce.
Gli è al benemerito sig. G. A. Bouschet di Mompellieri che dob-
biamo la prima e più concludente applicazione pratica di questo prin-
cipio: egli incominciò ad operare ibridazioni artificiali or sono circa
cinquant' anni fra YAramon ed il Teinturier ; Y Aramon produce
molto, ma il vino è scolorato; invece il Teinturier produce poco nelle
regioni calde, ma dà vino coloratissimo, perchè la stessa polpa del-
l' acino è colorata in rosso, cosa abbastanza rara, inquantochè nelle
uve nere o rosse Y enocianina è solo aderente alla buccia e si di-
scioglie poi nel mosto durante la fermentazione. Il sig. Bouschet
pensò adunque di intrecciare i grappolini in fiore dell' Aramon con
quelli del Teinturier; raccolse quindi i vinacciuoli di cotali grap-
poli, li seminò e per varii anni scelse fra le piantine nate le più
pregevoli, sino a che giunse a trovare certe piante le quali davano
molta uva ricchissima di colore. Il nuovo vitigno fu battezzato petit
Bouschet, ed è oggidì assai diffuso nella regione: i suoi acini sono
un po' diversi da quelli dei progenitori, e questo carattere giovava
appunto al sig. Bouschet nella scelta dei veri ibridi, durante il pe-
riodo delle selezioni.
Lo stesso esperimentatore ha proseguito altre ricerche sulla ibri-
dazione dei vitigni europei, ed ha creato varii ibridi molto stimati
nel paese. Noi abbiamo incominciato ad ibridare fra loro il Canonao
CREAZIONE DI NUOVE VARIETÀ 557
(Alicante), vitigno pregevolissimo per la qualità e quantità dell'uva,
e la Tintoria, assai ricca di colore; per ora non possiamo nulla dire
dei risultati, che confidiamo saranno ottimi.
§ 4. Ibridazione fra viti europee ed americane. — Gli è
specialmente sotto il punto di vista della fillosseronosi che si sono
tentate e si tentano tuttora ibridazioni artificiali fra le viti europee
e le americane: infatti le prime producono buone uve ma non resi-
stono all'afide, mentre alcune fra le seconde resistono all'insetto ma
producono uve spregevoli; ora si tratterebbe appunto di creare vi-
tigni i quali pur producendo buone uve, resistano al rostro della
fillossera. Ognun vede quanta importanza possa avere per la pra-
tica la soluzione di questo problema !
Anche coli' innesto (v. Cap. XVIII) si riesce neh' intento, ma il
sistema della ibridazione conduce forse a risultati più completi, e
qualche fillosserista francese gli accorda perciò la preferenza. Taluni
però obbiettano che il prodotto ibrido potrebbe risultare poco resi-
stente alla fillossera, appunto perchè uno dei progenitori (la vite eu-
ropea) è assolutamente privo di questa prerogativa. A questa obbie-
zione il sig. Ganzin sovra ricordato, risponde con un esempio.
« Supponiamo, egli dice, rappresentato con 0 (dunque nulla pra-
ticamente) il grado di resistenza della varietà vinifera a fecondare,
e con 10 (il massimo) la resistenza della specie fecondatrice; e po-
nendo sia 7 il grado ipotetico necessario a che la resistenza d'una
vite soddisfi praticamente nel più de' casi, il prodotto ibrido di 0
per 10 non sarà solamente 5. vale a dire un grado insufficiente? Se
l'atto della fecondazione non foss' altro che una mescolanza a parÙ
uguali di due sangui o di due save combinantesi insieme e recipro-
camente compenetrantisi, a quella stessa guisa che avviene di due
liquidi d' uguale densità, 1' operazione che ora studiamo filerebbe a
rigor matematico: in definitiva la, si risolverebbe in un semplice bi-
lancio di dare e avere. Ma quanto è ben lungi d'esser così! Quanto
è più complessa un'operazione tal fatta! Quale ignoranza non è la
nostra delle leggi che possiedono a tanto compimento, e ne regolano
l'azione e ne determinano i risultati ! Qua è l'influenza della madre,
che in linea generale pare predomini : là quella del padre; talvolta è
un sol carattere isolato spettante o sia all'uno o sia all'altro de' due
autori, che riprodotto integralmente mostrasi preminente nella fu-
sione dei caratteri comuni ereditariamente trasmessi al prodotto
558 CAPITOLO XVII
ibrido: tal' altra invece alcuno de' caratteri è svanito, come se, im-
potente e improprio d'adattarsi nello stampo individuale d'aggruppa-
mento di quegli altri tutti, si fosse trovato da questi altri appunto
eliminato e respinto. In una parola, nei prodotti d' ibridazione, sia
naturale che artificiale, si rivelano combinazioni sì svariate, come
se dovute apparentemente all'azzardo, senza che a noi sia dato, igno-
ranti che siamo delle leggi della generazione, segnar loro una regola
sicura, od imporre loro un limite insormontabile. Di accertato non
sappiamo che una cosa sola, che cioè ereditariamente i genitori tra-
smettono alla loro prole in misura e modo di combinazioni variabile i
loro caratteri principali; e nonostante ogni mancanza di precisione tale
nozione ci basta, poiché implica necessariamente la possibilità per
noi di raggiungere lo scopo desiderato. »
« Quanto or'ora notavo della variabilità di combinazioni inerente
alla trasmissione ereditaria dei caratteri, potrei avvalorarlo di nu-
merosissimi esempi, pigliandoli sia al regno animale, che al vegetale;
mi limito tuttavia a due soli casi d' ibridazione vegetale, il cui si-
gnificato ha un valore d'analogia tanto maggiore, inquantochè quelli
non escono dal dominio del genere botanico, cui proprio han tratto
le presenti ricerche nostre, il genere vite vo' dire. »
« Il primo è il caso del York-Madeira. Questo è un vitigno ame-
ricano d'origine relativamente antica, introdotto nelle nostre colture
gli è oltre 40 anni, e per altrettanto negletto, fino a che sua resi-
stenza alla fillossera ben comprovata, ma al rango elevatissimo cui
l'esame delle radici permise assegnarglisi, non conversero sovr' esso
nella regione nostra meridionale l'attenzione degli interessati. Si studiò
tale vitigno, si volle determinarne la specie d'origine, e ci si trovò
in presenza di questa singolare situazione: un vitigno, cui 1' aspetto
generale e il sapore muschioso del frutto, nonché i peli glandulosi
colorati de' tralci allo stato erbaceo e la forma particolare del vi-
nacciuolo, designano derivato evidentemente della V. Labrusca, e
che infrattanto non presenta né la continuità de' cirri, carattere mar-
catissimo e specifico di quel tipo, né quella parimenti tipica conte-
stura particolare delle radici, onde appunto riviene alla Labrusca
la sua notevole sensibilità fillosserica. È all' assenza anzi di questi
ultimi caratteri, che la V. Labrusca avrebbe dovuto già trasmet-
tere al York ereditariamente, la corrispondenza anziché l'esistenza
in esso York della disposizione regolarmente discontinua de' cirri^
nonché di talune altre particolarità secondarie del legno e del fo-
CREAZIONE DI NUOVE VARIETÀ 559
gliame, oltre infine alla disposizione anatomica delle radici, riferibili
botanicamente al tipo Aestivalis o Cinerea, specie queste per più
versi prossimissime l'ima dell'altra, ma che non ebber mai inconte-
stabilmente alcunché di comune con la V. Labrusca. Ecco dunque
nel vitigno York-Madeira localizzata per iuxta-posizione la tra-
smissione ereditaria de' caratteri propri dei due autori, di guisa che
l'influenza quasi esclusiva dell'un d'essi, la V. Labrusca, predomina
notevolmente nel frutto, intanto che nella costituzione della radice
1' altro progenitore, la V. Aestivalis o Cinerea, v' ha improntato
sua parte in preponderanza. » (1)
Il Ganzin esamina in seguito un secondo caso: quello del Vialla,
che già abbiamo accennato al § 1, e conclude che senza dubbio si
arriverà un giorno a creare vitigni ibridi, i quali godranno della pre-
ziosa proprietà della resistenza e nello stesso tempo saranno produt-
tori di molta e buona uva.
§ 5. Quali viti americane si debbano scegliere per la
ibridazione. — Il Prof. Millardet, della Facoltà delle Scienze di
Bordeaux, indicava pel primo diversi ibridi naturali nei quali sempre
si riscontra la V. Labrusca quale uno dei progenitori, e così:
Cor di folia e Labrusca
Aestivalis oppure
Cinerea e Labrusca
Riparia e Labrusca.
Ciò perchè la Labrusca ha caratteri bene delimitati, come ad e-
sempio quello dei viticci continui (pag. 96), onde è facile riconoscere
il suo intervento in una ibridazione. Noi però la lascieremo in di-
sparte per attenerci essenzialmente a viti molto resistenti, incrocian-
dole con viti nostrane molto produttive.
La V. Rotundi folia (Michauw) si ritiene assolutamente resistente
alla fillossera; ma essendo essa botanicamente molto distante dalla
V. Vinifera, ritiensi per così dire impossibile l'ibridazione artificiale,
o almeno si richiederebbe un tempo troppo lungo prima di avere
resultati pratici; tuttavia si consiglia di tentare incrociamenti.
La V. Aestivalis non è molto raccomandata, nel dubbio che possa
dare ibridi poco resistenti.
La V. Cor di folia pure è poco raccomandata, perchè si teme che
(1) Console trad. (v, pag. 555),
560 CAPITOLO XVII
l'ibrido possa dare uva a sapore cattivo. Si asserisce lo stesso della
V. Riparia, benché si ritenga che si possa agevolmente superare
tale difficoltà.
Si consiglia pertanto di tentare ibridazioni colla V. Cinerea (1)
la cui resistenza è grande; il frutto è un po' acidulo, ma non ha sa-
pori sgradevoli. Lo stesso dicesi della V. Berlandieri (Planchon)
o Monticala (Buckley).
Infine si raccomanda sovratutto la V. Rupestris, di cui una delle
forme è tanto resistente da potersi dire indenne.
Il citato sig. Ganzin ne è caldo ammiratore: udiamo che cosa egli
ne dice: « La fioritura di tal forma di V. Rupestris coincide press'a
poco con quella delle migliori varietà nostre indigene, anzi le precede
appena lievissimamente: essa è estremamente fruttifera (fiorifera
dovrei dire) che la è maschia, nò può fungere che da padre, sia che
le manchino gli organi fiorali femminei, o che questi trovinsi atrofiz-
zati; né so poi se esista la corrispondente forma indenne ermafrodita.
Però le altre forme fertili del detto tipo Rupestris producono frutto
esente di ogni gusto speciale, cui possa temersi veder riprodotto con
l'ibridazione. Impiegando questa forma indenne, o quasi indenne, ele-
verassi al maximum la probabilità di vedere riprodotta neh' ibrido
la necessaria proprietà di resistenza; avvegnaché quando pure quel
suo carattere particolare d' indennità non avesse a riprodursi quasi
integralmente per iuxta-posizione (e questo sebbene non impossibile
assolutamente, è tuttavia improbabile si realizzi, tosto che esiste in
grado si supremo nell'uno dei progenitori) purnondimeno è a ritenere
che lo infievolimento a risultarne in seguito alla coinfiuenza dell'altro
progenitore, non varrà lo più soventi a impedire che quel prezioso
carattere sussista in esso ibrido in grado sufficientemente bastante
per la utilizzazione colturale. »
« Siffatto vitigno ibrido a essere però completo, ad avere cioè va-
lore pratico quale desideriamo, dovrà possedere pure, oltre alla re-
sistenza, la fertilità (fertilità relativa) e la buona qualità vinifera.
Nel Mezzogiorno francese il viticoltore domanda alla sua vite anzi-
tutto 1' abbondanza del prodotto, che quanto a qualità ha esigenza
più modesta, tosto che il suo vino da commercio va destinato alla
grande consumazione, per cui anche privo di finezza, purché franco
(1) Siccome fiorisce tardi, bisognerebbe provocare lo sviluppo precoce delle
lemme introducendone un tralcio in una serra
CREAZIONE DI NUOVE VARIETÀ 561
di gusto e colorato e solido, il valore ne resta sempre integro. La
fertilità è dunque un attributo principale, dal punto di vista del me-
rito vinifero cui fa d'uopo sforzarsi di riprodurre nell'ibrido. Ora la
fertilità è il risultato complessivamente del numero dei grappoli col
volume di questi e la grossezza degli acini che lo compongono; per
tutti siffatti rapporti il nostro Aramon (varietà della V. Vinifera)
non ha rivali assolutamente, e per ciò esso è probabilmente di tutti i
vitigni nostri meridionali il più adatto, sotto tal riguardo, da con-
trobilanciare in una ibridazione F assenza o la inferiorità della cor-
relativa proprietà nell'altro autore. Ora se questo, giova ripeterlo,
dovess'essere la V. Rupestris, tale inferiorità potrà riflettere esclu-
sivamente il volume dell'acino, la cui notevole minutezza influisce di
riverbero sfavorevolmente sulla dimensione del grappolo, pur nono-
stante che il graspo presenti sviluppo sufficiente; che nel resto poi
la specie Rupestris fruttifica abbondantemente, tanto da superare
quasi lo stesso Aramon. Sicurissimamente poi lo intervento della
V. Rupestris avrà per risultato di trasfondere nel frutto dell'ibrido
una qualità assai ricercata, di cui Y Aramon è sprovveduto, ed è il
colore, carattere dei più agevolmente trasmessigli nelle ibridazioni
fra viti, gl'ibridi fra vitigni poco colorati e vitigni assai colorati ri-
producendosi intensamente colorati generalmente, e talvolta anzi in-
tensamente coloratissimi. »
« Concorrentemente con V Aramon potremmo pure sperimentare di-
verse altre varietà meridionali, la Carignane, la Grenache (1) età; è
d'uopo non dissimularci però che queste, meno fertili di quello, si pre-
sterebbero forse più difficilmente alia trasmissione ereditaria della
correlativa qualità nel voluto grado, qualità che la V. Rupestris
non può fornire. Raccomanderei piuttosto all'attenzione di chi dedi-
caci o vorrà dedicarsi a tal sorta di operazioni d'ibridazione, un paio
di vitigni robustissimi e vigorosissimi, a grappoli voluminosi e grossi
acini, né tanto ben cogniti generalmente, e cioè il Moscadellone
d'Alessandria o di Spagna e il Danugue croccante o Gros Guil-
laume, la cui fecondazione con la V. Rupestris, o viceversa, po-
trebbe dar luogo a risultati forse imprevedibili. »
Dimenticavo menzionare un vantaggio speciale che otterrebbesi
altresì delio impiego della V. Rupestris, che cioè il suo frutto ma-
turando ben per tempo d'agosto, gli è probabile che qualcuno degli
(1) Canonao di Sardegna.
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 37
562 CAPITOLO XVII
ibridi riproduca più o meno fedelmente tale proprietà, non sprezza-
bile nello stesso Mezzodì, ma certamente preziosissima per le altre
regioni, che non hanno a contare sopra a un cielo sì clemente e un
clima sì caldo. Son queste, parmi, le norme generali che devon gui-
dare i primi saggi d'ibridazione. Forse obbietterassi un lavoro simi-
gliante trovarsi già tentato dagli americani, che in vista del fallir
persistente della vite europea nelle loro coltivazioni cercarono, mercè
lo incrocio con le varietà ivi indigene, fornire a quella la rusticità,
che parea mancarle assolutamente sotto al clima nord americano:
obbietterassi ancora che la più parte degli ibridi ottenuti in America
hanno conservato nel frutto un che di grossolano, un che d'insolito
e di estraneo nel sapore: che infine tutti o quasi tutti quegl' ibridi
importati in Francia rimpetto della fillossera sonosi trovati d' una
debilità proprio scoraggiante. Il fatto è invero esattissimo, ma è lungi
di avere la portata che vorrebbe attribuirglisi, siccome è ampiamente
dimostrato dal semplice esame delle condizioni cui sottostettero gl'i-
bridisti americani (Arnold, Roger, Wylie, etc.) Questi miravano a uno
scopo diverso dal nostro, attribuendo il fallir persistente delle varietà
europee in America unicamente alle sfavorevoli condizioni del clima,
quando invece aveavi pur larga parte la fillossera, la cui funesta
azione quei nemmanco sospettavano; e nello intento quindi di rista-
bilire, mercè la infusione d' un po' di sava indigena, lo equilibrio
colturale ne' desiati vitigni europei, ebbero a rivolgersi quasi esclu-
sivamente alle varietà più grossolane di lor colture, il Clinton, il
Concord, o qualche altro derivato della V. Labrusca. Non è a stu-
pire che tai vitigni, già per sé stessi incompletamente resistenti, ed
a frutto di sapore speciale muschioso, abbiano trasmesso, con atte-
nuante quanto al frutto, ma con aggravante quanto alla radice, i
caratteri e le qualità costituenti precisamente il valore relativo di
quello e la relativa inferiorità di questa. Meglio instrutti sullo scopo
a raggiungere e sulle modalità a seguire, noi eviteremo agevolmente
siffatto scoglio: noi esigeremo, come sopra precisai, nelle specie e
varietà a incrociare la precellenza assoluta di quelle qualità, di cui
appunto lor domandiamo graduatamente la trasmissione ereditaria. »
Infine, si facciano esperienze anche in Italia, perchè la quistione
è realmente molto importante.
§ 6. Dimorfismo: grappoli con acini a vario colore. —
Anche la vite presenta dei casi curiosissimi di dimorfismo (da dis
CREAZIONE DI NUOVE VARIETÀ 563
due, e morfos forma) nella forma e nel colore dei grappoli d'uno
stesso tralcio, e degli acini d' uno stesso grappolo. Tutti avranno
forse potuto osservare tralci portanti ad esempio grappoli rossi e
grappoli bianchi, e grappoli con acini bianchi e variegati o rossi a
dirittura, oppure acini rotondi ed acini ovali; la Reoue horticole (1)
parla d'un moscato nero-bianco posseduto dal sig. A. Boisselot; e
e Carlo Darwin {Variazione degli animali e delle piante allo
slato domestico, traduzione del Prof. G. Canestrini, edizione della
Società Tipografica Torinese, già Pomba, pag. 335) così si esprime:
« Vitis Vinifera. La vite azzurra o purpurea Frontignan, pro-
« dusse in un caso per due anni successivi (e senza dubbio perma-
« nentemente) dei getti che portavano dei grappoli bianchi Frontignan.
« In un altro caso sullo stesso racemo le bacche inferiori erano fron-
« tignanesi ben colorate in nero; quelle più prossime al gambo erano
« bianche, ad eccezione d' una bacca nera e di un' altra rigata. In
« un' altra qualità d'uva vennero prodotte sullo stesso grappolo delle
« bacche nere ed altre giallo d'ambra (Gardner 's Chronicle 1852,
« pag. 629, pag. 648, anno 1864, pag. 986). Altri esempi sono ci-
« tati dal Braun, (Ry'uvenescence in Ray. Society Cat. Num.
« anno 1853, pag. 314). »
11 celebre ampelografo spagnuolo Don Simon Roxas Clemente
descrive (2) una vite i cui grappoli hanno acini rigati di nero e di
grigio, detta Rayada. Il Mendola giustamente osserva che in tutti
i casi di variegazione di colori nell'acino dell'uva, le linee variopinte
o le liste sono parallele all'asse, cioè a quella linea fittizia che par-
tendo dal peduncolo e formandone come una continuazione, va a
terminare nel punto ombelicale in testa dell'acino stesso.
Non si son mai viste variegazioni di uva in senso diagonale o
spirale, o che tagliassero ad angolo retto l'asse dell'acino.
Questi esempii si potrebbero moltiplicare d'assai; ma la spiegazione
di questi curiosi fenomeni fin' ora non è stata trovata. Secondo il
sig. Bouschet, di cui abbiamo parlato al § 3, la causa risiederebbe
nella ibridazione, ed il sig. Planchon, pure facendo restrizioni, am-
mette la possibilità che un ovario venga modificato per l'azione del
polline straniero. Il Mendola si accosta alle idee del Planchon, il
quale propende a credere che il dimorfismo sia un semplice caso
(1) Citata dal Bar. Mendola (V. il nostro Giornale Vinicolo del 1881, pag. 460).
(2) Nel suo saggio sulle vigne dell'Andalusia, id. id.
564 CAPITOLO XVII
di ritorno di alcune qualità degli avi, locchè si chiama ora ata-
vismo.
La quistione però è molto controversa, e solo accurate esperienze
potranno risolverla.
CAPITOLO XVIII
Innesto della vite,
1. Scopo e vantaggi dell'innestare viti — § 2. La fillosseronosi e l'innesto —
§ 3. Innesti di varietà europee — § 4. Innesti sopra viti americane — § 5. Mac-
chinette per innestare.
Tout icelui qui vigne greffera
Le vin en dormant lui viendra.
Noslradamus.
§ 1. Scopo e vantaggi dell'innestare viti. — L'innesto può
rendere servizii assai rilevanti al viticultore, permettendogli non solo
di ridurre il suo vigneto a quelle poche qualità che l'esperienza e
gli studi fatti colla scorta dell'Ampelografia gli vennero suggerendo
siccome le preferibili per qualità e quantità di prodotto, nonché per
la resistenza ai cattivi influssi dell' atmosfera e delle crittogame, ma
altresì di ridurre quasi sempre, se non sempre, dall' un sistema di
di potatura ad un altro preferibile i proprii ceppi, anche se attem-
pati, e ciò senza perdere totalmente i raccolti pendenti.
Ciò riesce evidente, per ragion d'esempio, riflettendo alquanto sulla
possibile trasformazione d'una vite tenuta ad uno o più tralci frut-
icosi lunghi e ad uno sperone legnoso, siccome è il caso di varii
sistemi in uso in Sicilia, in Piemonte ed in Francia ove seguesi il
metodo Guyot. Suppongasi di voler mutare una vite così fatta, anche
se vecchia, al sistema senza sostegni, cioè ad alberello, alla latina,
con varii speroni frutticosi: — in tal caso si pratica l'innesto, quella
566 CAPITOLO XVIII
foggia d'innesto che si ritiene la più conveniente, in quei punti nei
quali si vuole stabilire la nuova impalcatura dell'alberello, e la parte
della vecchia vite sovrastante all'innesto non si tocca punto, badando
solo che co' suoi pampini non ombreggi di troppo la cacciata del-
l'innesto stesso. Alla potatura la parte vecchia suddetta si tratterà
come al solito, seguendo il sistema locale, e ciò per non perdere il
prodotto durante così fatta transizione di sistema; — frattanto i getti
dell'innesto si taglieranno a speroni con una, due o tre gemme a
seconda delle circostanze, e ciò finché dopo un paio d'anni non in-
comincino a dar frutti, nel qual caso si recide nell'atto del potare
la parte vecchia sovrastante, lasciando a sé l'alberello, allora quasi
perfettamente formato.
Con questo metodo, cioè lasciando sopra l'innnesto l'antico sistema
aereo del vegetabile, non solo si ha il vantaggio rilevantissimo di
non perdere il prodotto durante la transizione, ma si coopera pure
al buon esito dell'innesto stesso; il quale è ben lungi dall'essere dan-
neggiato, come potrebbe parere così a primo aspetto, dal lavoro
d'assorbimento delle parti verdi che gli stanno sopra nel soggetto.
Queste parti anzi, mantenendo sempre attivo il movimento del succo
nel soggetto stesso, aiutano sensibilmente l'innesto; per certe piante,
ad esempio per l'olivo, ciò è quasi una necessità e si usa quindi ri-
tardare il taglio di quanto è collocato al disopra dell'innesto, sino a
che il germolio dell'innesto stesso non sia sufficentemente sviluppato.
Tuttavia non si dovrà andare agli eccessi ; poiché, come già
accennammo, la parte superiore della pianta può, se folta, recare
danno coll'ombra alla parte sottostante: quindi l'utilità di un oppor-
tuno diradamento.
Ma a questi vantaggi dell'innesto, che sono pur grandi, se ne
deve oggi aggiungere un altro, forse più importante ancora; ad esso
dedicheremo il paragrafo seguente.
§ 2. La fìllosseronosi e P innesto. — Esistono viti, fra le
specie del Nord America, le quali godono della preziosa proprietà
di resistere agli attacchi della fillossera; ma queste viti non produ-
cono, generalmente parlando, vini di grandi pregi: era quindi natu-
rale che si pensasse a trarre partito di quella proprietà, per quanto
riguarda il sistema sotterraneo della vite, cercando in pari tempo
di modificare il sistema aereo, per ottenere uva adattata agli usi e-
nologici quale si richiede nel vecchio continente.
INNESTO DELLA VITE 567
Di qui nacque le così detta vite bimembre, la quale risulta da
una vite europea innestata sopra una vite americana. La vite non
si può innestare che sopra la vite, e tutti gli innesti che furono
tentati sul gelso, sulle viti vergini ecc. non diedero alcun risultato.
Adunque bisogna attenersi alle viti americane, le quali, tutte quante,
eccettuato lo Scuppernong, possono portare l' innesto delle nostre
viti. È vero che le esperienze fatte in Francia non hanno per anco
stabilito quali fra le viti d'America siano in modo assoluto le pre-
feribili; ma per intanto sono ricercatissime le Riparia (anticamente
Cordifolia) massime perchè si moltiplicano facilmente per talea: sono
pure ottimi porta-innesti certi Aestivalis, quali lo Jacquez, il Cunnin-
gham e l'Herbemont. Fra i detti Riparia si deve dare la preferenza
alla Riparia selvatica (anticamente Cordifolia selvatica).
Alle viti bimembri furono fatte molte obiezioni; ma i fatti dimo-
strarono, e lo dimostrano tuttora, che esse non avevano fonda-
mento. Si incominciò a dire che la parte interrata (soggetto) e quella
fuori terra (marza) dovevano finire col dar luogo ad un solo in-
dividuo, di mediocre resistenza alla fillossera e produttore di me-
diocre uva; invece l'esperienza dimostrò che vi ha bensì vita comune
fra il soggetto e la marza, ma nulla di più, perchè ciascuno di essi
conserva la sua individualità nel modo più assoluto, onde il sistema
radicale si mantiene resistente alla fillossera, ed il sistema aereo si
conserva buon produttore di uva, come se fosse franco di piede. Il
sig. Champin, tanto autorevole per lunga pratica in fatto d'innesti,
disse giustamente essere il succo che cambia, e non la cellula; è
dello stesso avviso il Prof. Planchon, il quale osserva che « le cel-
lule in contatto, le une del soggetto e le altre del nesto, si saldano
per reciproca produzione di cellule interposte, continuando però cia-
scuna a vivere da sé, ed utilizzando a suo modo i materiali che te-
neva in riserva, e quelli addotti dal succo ascendente e sopratutto
dal succo discendente (1) ».
In seguito si obbiettò che essendo la radice americana, l'uva a-
vrebbe contratto il disgustoso sapore volpino (foxé) di molte uve del
Nord America: ma an^he qui i fatti vennero a dimostrare in molo evi-
dente, che ciò era falso; d'altronde, come ben osserva il sig. Champin,
(1) Veggasi il lodatissimo Trattato dell'innesto della vite di A. Champin, tra-
dotto dal nostro egregio dott. Cavazza, Direttore della Scuola di Enologia e Viti-
coltura di Alba (pag. 31).
5(58 CAPITOLO XVIII
qualsiasi pianta innestata sovra un' altra, conserva, senza eccezione,
tutte le qualità che possedeva essendo franca di piede. Anche la
maggiore o minore precocità della vite americana che fa da porta-
innesto non si trasmette alla vite europea innestatavi sopra; se questa
è tardiva, locchè è prezioso quando si temono i geli, essa si serberà
tardiva, quand'anche il soggetto americano fosse dei più precoci.
« Piantate, dice il sig. Champin, attorno ad un vecchio ceppo no-
strano i portinnesti americani più precoci e più tardivi, innestateli
tutti con tralci di quel ceppo, e vedrete tutta questa famiglia ger-
mogliare, fiorire e maturare all' unissono, come se tutti i tralci fos-
sero ancora attaccati al ceppo materno. (1) » — V'ha di più ancora:
da esperienze fatte alla Scuola di Mompellieri dai signori Foéoc e
Gavazza, è risultato che le foglie di Aramon franco di piede, come
quelle di Aramon innestato sulla vite americana Herbemont, evapo-
rano, a parità di tempo, la stessa dose di acqua, mentre le foglie
dell'Herbemont nelle medesime circostanze non ne evaporano che la
metà, Infine questi fatti, ed altri molti che qui ommettiamo per bre-
vità rimandando il lettore ai trattali speciali sugli innesti, dimo-
strano in modo irrefutabile che la varietà innestata non si lascia
per nulla intaccare dai succhi del portinnesto.
Ma altre obbiezioni ancora vennero fatte alla vite bimembre, con-
siderando la possibile influenza della vite europea sulla vite ameri-
cana portinnesto: si disse sovratutto che la non-resistenza di quella
sarebbe come discesa a poco a poco..'... sino alle radici, onde il sog-
getto avrebbe finito col mutarsi in una vite soggetta alla fillossero-
nosi. Ora, questa obbiezione non ha in fatto alcun valore; il soggetto
è al riparo dalle influenze della marza, quanto questa da quello, come
abbiamo testé dimostrato. « Bisognerebbe supporre, dice Champin,
che l'innesto non fosse che un mezzo innesto, funzionante dal basso
all'alto senza più esistere dall'alto al basso; bisognerebbe ammettere
che le cellule, le quali trasformane in modo totale il succo ascendente,
cessassero di funzionare quando il succo si mette a discendere (2) ».
E il sig. Champin cita numerosissimi fatti a comprovare l'assurdità
di questa tesi, ed a dimostrare invece che nella stessa maniera che
la resistenza dei tralci americani non discende alle radici europee a
traverso l'innesto, così la non-resistenza, se è lecito esprimersi in
(1) Op. cit. pag. 62.
(2) Op. cit. pag. 67.
INNESTO DELLA VITE 569
questa maniera, delle viti europee non esercita alcuna influenza sul
soggetto americano.
Ma dopo le censure, dobbiamo lasciare posto alle lodi.
Le viti bimembri, oltre alla preziosa proprietà di resistere alla fil-
lossera, sono più vigorose e più feconde di quelle franche di piede:
certi soggetti americani, quali il Cunningham, le Riparie selvaggie,
il Vietila ed il Taylor, hanno una grande ricchezza di succo ed
una forte tendenza alla produzione legnosa; ma tale esuberanza, mo-
dificata dall'innesto (nella stessa guisa che agiscono la torsione e lo
strozzamento) e diretta dalla potatura, genera insieme rapida preco-
cità e meravigliosa abbondanza di frutti (1). E questo è c< nfermato
da numerosi fatti.
Le viti bimembri sono quindi un preziosissimo acquisto della odierna
viticultura, che è oggidì alle prese con un malanno tanto grave
quale è la fìllosseronosi.
§ 3. Innesti di varietà europee. — Fra i migliori metodi
d'innesto seguiti dai nostri viticultori, benché su piccola scala, prima
ancora della invasione fillosserica, noteremo quello a spacco, quello
ad occhio, quello per approssimazione e quello a pinolo. L'innesto
a spacco è certo fra i primi, quantunque per esso si perda il pro-
dotto: — quello ad occhio, Y altro per approssimazione ed infine
l'innesto che dicemmo a pinolo, sono pure raccomandabili, sia perchè
non portano seco una perdita nel prodotto, sia perchè rappigliano
generalmente bene e sono di facile attuazione.
L'innesto a spacco o a cuneo ci è rappresentato dalla fig. 168. La
prima cosa a farsi, volendosi innestare un ceppo con questo sistema,
si è di scegliere in marzo delle marze o nuove talee, con tre gemme
circa, di quella qualità che si reputa conveniente di diffondere nel
vigneto, e conservarle stratificate nella sabbia ed in luogo fresco
almeno durante una quindicina di giorni, quasi per ritardare lo svi-
luppo dei bottoni. In aprile, od al più tardi nella prima decade di
maggio, come noi stessi facciamo nelle nostre vigne, si procede al-
l'innesto avvertendo che il piantone deve essere più innanzi in ve-
getazione che non la marza, se si vuole che questa rappigli.
Si scalza la ceppaia come indica la curva tratteggiata nella figura
168, si recide all'occorrenza con una sega a 5, 8, 10 centimetri sotto
(i) Op. cit. pag. (35.
570
CAPITOLO XVIII
il livello del suolo, si lisciano le ferite e poscia si spacca con un
coltello qualsiasi in A.
Ciò fatto si prende una marza, la quale come dicemmo avrà tre
gemme, e si taglia a cuneo o bietta ad una estremità in guisa da
avere, per una lunghezza di tre o quattro centimetri, da un lato il
canale midollare scoperto e dall' altro appena tolta la corteccia ed
un po' di legno. La bietta (o le biette, perchè generalmente sono
due, una da un lato una dall'altro) (1) si immette quindi nella spac-
catura, si percuote in guisa da farla entrare un po' forzata, si lega
il tutto ben stretto con salici o con corteccia di gelsi, infine si coprono
le ferite con terra argillosa o meglio con un miscuglio di terra,
acqua ed escrementi vaccini. Ciò fatto si rincalza il ceppo com'è in-
dicato nella figura 168, sino all'ultima gemma della marza, che può
lasciarsi scoperta, come abbiamo fatto noi varie volte.
Da questa marza non si hanno frutti nell'annata: l'anno dopo può
dare varii grappoli, che non costituiscono però che circa un terzo
del prodotto ordinario, e qui sta l'inconveniente dell'innesto a spacco,
che però ha il vantaggio di essere di quasi sicuro rappigliamene.
L'innesto ad occhio è notissimo, ma pure lo descriveremo qui, a-
(1) Nella figura 169 qui unita si vede chiaramente nome si taglia la marza A.
come si dispongono le due talee sul piantone U e come si spacchi questo.
INNESTO DELLA VITE
571
vendovi recentemente introdotte alcune piccole ma importanti va-
riazioni.
Esso si fa sugli speroni di un anno, i più basso locati, speroni
che si potrebbero serbare sin dal momento della scacchiatura, te-
nendo intatti uno o due dei giovani rampolli che la vite suole cac-
Fig, 169.
ciare dal vecchio e presso il suolo. Questi germogli nell'atto del po-
tare si speronano a tre gemme e non si innestano che alla succes-
siva estate in giugno, luglio od agosto.
In questi momenti si recide un bel getto dell'annata di quel vitigno
che si vuol moltiplicare, si indi si sceglie una bella gemma all'ascella di
una foglia, e mediante il coltello da innestatore (fig. 170) si incomincia
Fig. 170.
col tagliare la foglia stessa alla base del proprio picciuolo. Poscia,
appoggiata la lamina del coltello sul getto, si esporta 1' occhio ap-
poggiando a sua volta il getto sul pollice e guidando 1' istrumento
colle altre dita della mano destra, mentre la mano sinistra tien fermo
il legno. Il taglio deve essere fatto in guisa che di sotto al bottone
572
CAPITOLO XVIII
che si esporta si vegga quella leggera protuberanza carnosa — il
corculum — ove risiede la vita dell'occhio e senza di cui l'innesto è
impossibile attecchisca. Nella figura 171 abbiamo in C l'occhio visto
per disopra, ed in B lo stesso visto dalla parte del corculum. Niente
di male del resto se questo rimanesse coperto da un sottilissimo
strato di legno, che taluni anzi ritengono utile al rappigliamene).
L'occhio si riduce ad uno scudetto della lunghezza di 3 o 4 cen-
timetri tagliando via sopra e sotto il soprappiù di corteccia; indi si
pratica tostamente sugli speroni citati un taglio in forma di T, come
è indicato nella fìg. 172 dove però, per errore dell'incisore, si è fatto
il T capovolto, mentre il taglio verticale va praticato di sotto e non
di sopra all'orizzontale,* che è lungo circa due centimetri. Colla spa-
tola B dell'innestatore si alza allora la corteccia da ambo i lati del
taglio verticale, indi vi si immette l'occhio C (figura 171) tenendolo
nella posizione stessa indicata dalla figura, e si spinge giù finché
combaci coll'alburno degli speroni: poscia si lega con lana stretta-
mente (figura 171, A).
K C
Fig. 171.
Nei legare sarà bene, allo scopo importantissimo di far comba-
ciare il meglio possibile il corculum coli' alburno degli speroni, di
far passare anzitutto la lana sul gambo mozzato della foglia alla
cui base stava la gemma, e stringere bene facendo questi primi giri
di lana. Mediante questa semplice avvertenza, non conosciuta che
da pochissimi in Italia, e non accennata in nessuno dei bellissimi
trattati francesi sugli innesti, si può andar quasi sicuri che l'innesto
rappiglierà: si procuri quindi di non scordarla.
Se tale innesto è fatto in giugno o luglio, mette germogli nell'anno
INNESTO DELLA VITE 573
stesso, e si suol chiamarlo perciò innesto ad occhio germog limite,
se per contro si fa in agosto o settembre sui tralci dell' annata i
più grossi e maturi, anziché su speroni di un anno, allora l'innesto
è ad occhio dormiente, perchè sta tranquillo sino alla susseguente
primavera, ed allora soltanto dà dei cacchii.
Un'ultima avvertenza importante per la buona riescita dell'innesto
ad occhio quella si è di levare tutti i getti dell'annata, subito dopo
l' innestamento degli speroni, che sono collocati sotto al medesimo,
lasciando che i succhi affluiscano anzitutto all'innesto medesimo:
crescendo poi il cacchio di questo, si avverta a rilassare la lana,
a fine di non incepparne la cresciuta.
L' innesto per approssimazione si pratica valendosi d'un tralcio
d'una vite vicina, il quale però non si stacca da essa. Si inco-
mincia col fare (in marzo) un taglio nel legno vivo e sano, pro-
fondo circa un centimetro, largo e lungo 3 o 4, sul tronco della
vite da innestarsi, a quel punto dove si vorrebbe cominciasse l'im-
palcatura; poscia si prende un lungo tralcio della vite prossima, si
taglia un po' così da scoprire il legno vivo per un tratto di 2 o 3
centimetri di lunghezza: ciò fatto si fanno combaciare, superpo-
nendole, le due ferite, legando forte con vimini e coprendole al so-
lito. La parte di tralcio sporgente oltre al punto di contatto si po-
terà a due gemme. L' anno dopo si « slatterà » il tralcio, cioè lo
si reciderà sotto l'innesto, separandolo dalla madre; mentre la parte
superiore, che fu potata a due gemme, si poterà a due speroni con
due gemme cadono. Mancando cotale vite, si potrà, ove la cosa sia
fattibile, valersi d' un lungo magliolo o d' una barbatella di quella
varietà che si vuole riprodurre.
A tal uopo, a poca distanza dalla ceppaia che si vuol riformare,
si apre un fossatello e vi si sdraiano il magliolo, oppure la barba-
tella. Giunti a contatto della detta ceppaia, si fa un taglio su questa
per modo a torle la corteccia sopra una larghezza e una lunghezza
di 3 o 4 centimetri, nonché un po' del legao sottostante. Lo stesso
si fa sul detto magliolo o sulla barbatella; poscia si applica questo
sul taglio della ceppaia in modo tale che le due ferite combacino
in tutta la loro estensione.
Qui si fa una buona legatura con salice o meglio con corteccia
di gelso, e si cuopre il tutto con terra buona e fina, ad eccezione
della punta del magliolo stesso, cioè delle ultime due gemme. Si ter-
mina infine, comprimendo leggermente la terra attorno al medesimo,
574 CAPITOLO XVIII
L'operazione devesi fare in aprile o entro tutto maggio: in questo
ultimo caso però si debbono usare maglioli che siansi conservati
sotterra in sito fresco, e ciò per le ragioni già dette più sopra.
Colla bella stagione accade che i due legni del magliolo e del
ceppo, si fondono per così dire insieme; il primo intanto mette ra-
dici, ma non deve assolutamente essere troppo ombreggiato. Lo di-
ciamo per prova fattane; nell'estate pertanto sarà bene sfogliare un
po' la vite, onde scoprire e dar sole alla piantina-innesto.
Trattandosi di barbatella, il rappigliamene è più sicuro.
Frattanto la pianta madre continua a dar frutti: quando la no-
vella è sufficientemente robusta, si recide la prima rasente l'innesto,
e per tal maniera nulla o quasi nulla va perduto.
La fig. 173 qui unita mostra l'innesto per approssimazione d'un
magliolo A-B. Si è supposta una vite senza sostegni, innestata con
Pier. 173.
tal metodo : il lettore capirà di leggieri che la cosa non può cangiare
di molto anche trattandosi d'un ceppo educato con un altro sistema.
Il magliolo A passa sotto la legatura B, e si prolunga in linea
retta fra i 4 speroni del ceppo, siccome chiaramente si vede nel di-
segno. È chiaro che quando il magliolo ha ben rappigliato e si è fatto
robusto, esportando il vecchio si hanno due risultati notevoli: la rin-
novazione della vite talvolta decrepita senza perdere il prodotto ed il
cangiamento nella qualità del vizzato, talvolta scadente e pocopro
duttivo.
Infine l'innesto a piuolo si fa quando la vite incomincia a pian-
gere e si adoperano delle marze preparate come dicevamo testé per
INNESTO DELLA VITE 575
l'innesto a cuneo. Con un ferro ben affilato si fa, in direzione dal-
l'alto in basso, un foro rotondo (che deve andare sino al midollo)
sulla parte più sana del tronco e meglio adattata per servir di punto
di partenza della nuova impalcatura; intanto si prepara pure a foggia
piccolo piuolo la marza, procurando, nell' infiggerla nel foro, che lo
chiuda bene. Questa marza si pota a due gemme, e l'innesto si copre
accuratamente con mastice.
§ 4. Innesti sopra viti americane. — L'innesto, studiato nei
suoi rapporti colla quistione fillosserica, ha fatto escogitare nume-
rosissime foggie d'innesti, che il lettore troverà descritte minuta-
mente e chiaramente nel prezioso trattato del sig. Champin, nostro
maestro in questa materia. Qui ci limiteremo a descriverne alcune
fra le principali.
Dopo un anno dal piantamento della vite americana, se la pian-
ticella ha un diametro sufficiente si può innestarla mercè V innesto
a spacco inglese, perchè si può giungere così ad avere uva sin dal
terzo anno a partire dal momento in cui si piantò la talea.
La figura 174 ci mostra come si opera questo innesto: il sog-
getto si taglia a cuneo al livello del suolo, poi si ritaglia di
nuovo verticalmente verso il terzo superiore del suo diametro: si
hanno così due linguette. L'innesto (cioè il pezzo di ramo della va-
rietà europea) si taglia pure nello stesso modo, come lo indica chia-
ramente il disegno. Ciò fatto si introduce la linguetta più breve del-
l'innesto nella spaccatura verticale del soggetto, e si lega con forza,
massimamente se l'innesto è più piccolo del soggetto. Si deve poi
badare bene a che le corteccie dei due pezzi (l'innestone ed il soggetto)
coincidano bene, almeno da un lato. I sarmenti che voglionsi far
servire per innesto devono essere scelti sovra una ceppaia sana e
fertile, essere poco ricchi di midollo, avere belle e turgide gemme
ed uno sviluppo medio: si trovano tali scegliendoli su ceppaie vecchie
ma sane: i sarmenti di piante giovani non rappigliano che difficilmente.
Questi sarmenti poi devono essere in ritardo, in quanto a vegeta-
zione, relativamente al soggetto; bisogna dunque raccoglierli prima
che siasi manifestato il movimento dei succhi nella vite madre: il mese
di febbraio è spesso inopportuno; bisogna operare alla fine di gen-
naio al più tardi. I sarmenti appena raccolti si devono recare in can-
tina, e sotterrarli nella sabbia, acciò ne si dissecchino né si alterino
per soverchio umidore: quando si vuole fare l'innesto si levano dalla
576
CAPITOLO XVIII
sabbia e si opera subito, senza di che si disseccherebbero pronta-
mente.
Per riconoscere se i sarmenti hanno o non perduta la loro vita-
lità (e risparmiare così di far un inutile innesto) se ne prendono al-
cuni qua e là in cantina, si pongono col calcio in un vaso pieno
d'acqua, mantenendoli per qualche giorno al dolce calore solare (o
i'
174.
in camera calda): se le gemme si gonfiano e se, tagliato un pezzetto
della punta del sarmento stesso, si vede l'acqua trapelare c^me quando
la vite piange, allora si può essere sicuri che tutti i sarmenti o quasi
tutti sono in ottime condizioni.
L'innesto Millardet è una modificazione del precedente, ed è molto
usato in Francia, perchè dà risultati che oscillano dal 95 al 100
per 100.
Si può operare fuori terra o sotto terra. I due sarmenti si ta-
INNESTO DELLA VITE
,77
gliano come è indicato nelle figure 175 e 176: il porta innesto si ta-
glia a linguetta nel senso L A, e l'innestone nel senso A L: queste
linguette alla loro base non dovranno avere uno spessore maggiore
di 3 millimetri, in guisa cioè da raggiungere il midollo senza oltre-
Fisr. 175
Fig. 176.
Fio- "177.
passarlo. f Come risulta' dal disegno la parte esterna delle linguette è
privata d'una lista di'corteccia e d'un poco di legno, il che si vede
bene in L nella fig. 175.
L'innestone fig. 176 può essere o la varietà europea, quando si in-
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 38
578
CAPITOLO XVIII
nesta su vite americana resistente — oppure una buona qualità d'uva
nostrana, quando si innesta su una mediocre qualità europea. — Le
linguette si fanno poi entrare nei tagli come indica chiaramente la
fìg. 177 e si procura che i due legni siano bene a contatto; poi si
lega con forza e si applica il mastice da innesto.
Il punto d'innesto si ricopre con alcuni centimetri di terra: l'anno
seguente si taglierà da un lato la parte inferiore dell'innestone, e
dall'altro la parte superiore del porta innesto, ed ecco tutto.
Per i porta-innesti o soggetti d'una certa età, e per conseguenza
d'un diametro abbastanza grande, conviene però meglio V innesto a
spacco ordinario, analogo al già descritto, rappresentato dalle qui
unite figure 178 e 179.
Fig. 178.
Piar. 179.
Per praticare questo innesto si incomincia dallo scalzare il pian-
tone o soggetto (fìg. 178) per facilitare il lavoro, poscia lo si recide
alla profondità di 2 a 3 centimetri sotto il livello del terreno e si
rinfresca la ferita mercè un falcetto, dal lato ove deve essere col-
locato l'innestone cioè la marza. Ciò fatto si pratica la spaccatura o
mediante un forbicione, oppure mediante il falcetto stesso se il sog-
getto non è troppo forte. Quando il diametro di quest'ultimo è pic-
colo, si fa il taglio soltanto sopra un lato (figura. 178, b); invece
INNESTO DELLA VITE
579
quando esso diametro è sufficientemente lungo, si opera come in
a fig. 178.
L'innesto o marza deve avere tre occhi, e si taglia foggiato a
lama di coltello, come lo indica la fig. 179, avvertendo che nel ta-
gliarlo si deve partire dalla base della gemma più bassa, facendo così
due tagli a bietta, o cuneo, uno opposto all'altro. Per quanto è pos-
sibile si deve qui evitare di mettere a nudo il midollo dai due lati,
affinchè la parte assotigliata conservi uua maggior solidità.
L'innesto vien poscia cacciato con forza nello spacco suddetto, av-
vertendo a dargli una certa inclinazione (veggasi la fig. 178) verso il
centro del soggetto; e questo si fa acciò vi sia sempre un punto in
cui le corteccie si taglino malgrado l'inuguaglianza del loro spessore.
Infine, si toglie via il forbicione, il quale aveva servito a tener
aperta la spaccatura permettendo l'introduzione della marza.
Nelle stesse condizioni si può anche adottare il così detto innesto
alla Ponto ise (fig. 180) che, come apprendiamo dal sig. Fcèoc, differisce
mg. i8o.
dal precedente in ciò, che invece di spaccare il soggetto, vi si pra-
tica, come ben lo indica il disegno, una specie di escavazione dentro
cui cacciasi la marza: questo foro si pratica generalmente con una
sgorbia a lama angolare. Fatto l'innesto bisogna legarlo con forza,
per far combaciare bene la marza col soggetto: a tal'uopo si ado-
pera lo spago o la rafia del Giappone. Quest'ultimo sistema è molto
580 CAPITOLO XVIII
economico e si ha una legatura assai solida; però siccome nelle an-
nate umide la rafia passa in putrefazione con facilità, bisogna, prima
di adoperare quel legaccio, immergerlo in un bagno di solfato di rame.
Fu proposto anche il filo di ferro; ma, se si eccettua il caso di in-
nesti che non ingrossano molto al primo anno, esso ha il difetto di non
prestarsi all'aumento di diametro dell'innesto stesso, cosicché spesso
lo strangola. La lana poi, che, come tutti sanno, è molto usitata
negl'innesti fuori terra, marcisce troppo presto nel terreno, a causa
dell'umidità che ivi non manca mai.
Legato l'innesto bisogna coprirlo con mastice. Il modo più sem-
plice è quello di usare dell'argilla impastata: essa si applica, come
dice il citato Foèoc, in piccola quantità sulle ferite per proteggerle sia
contro l'influsso dell'aria atmosferica, sia contro l'acqua. Cotale ar-
gilla deve essere affatto priva di pietruzze, in guisa da formare col-
l'acqua una pasta fina, omogenea, e che non si fenda nell'atto in cui si
impasta. In quanto ai mastici resinosi, che quasi tutti debbono essere
adoperati a caldo, generalmente non hanno dato buoni risultati.
L'ultima operazione a farsi dall'innestatore è quella di incalzare
il soggetto ammucchiando la terra a cono intorno ad esso, sino a
lasciare una gemma della talea allo scoperto; in questa rincalzatura
si deve operare con molta delicatezza per non recar offesa all'innesto.
Porremo termine a questo paragrafo sull'innesto delle viti europee
sulle americane, accennando all'innesto Champin, a quello così detto
a tallone ed infine all' innesto a cavallo. La fig. 181 ne dà una
chiara idea dell'innesto Champin: in sostanza si tratta di una mo-
dificazione dell'innesto a spacco inglese che descrivemmo a pag. 575.
Ecco come lo si pratica: — si taglia il soggetto orizzontalmente, cioè
perpendicolarmente al suo asse, come lo indica il disegno; indi lo si
taglia o spacca in due parti di disuguale spessore, vale a dire che
si spacca circa verso i due terzi del suo diametro. La parte più
spessa si taglia a cuneo o bietta, assottigliandola sino all'orlo supe-
riore della spaccatura, come lo indica il disegno che sta nella parte
mediana della fig. 181. L' innesto vien tagliato nella stessa guisa,
e ciò pure si vede nella figura. L'innesto si immette poscia nella
spaccatura del soggetto, mercè la sua parte acuminata e tagliata a
bietta, si lega con cura e si stringe, come dicemmo più sopra, e l'o-
perazione è finita.
È ovvio il comprendere che questo metodo di innesto offre il van-
taggio di poter essere applicato ai giovani ceppi di vite, il cui dia-
INNESTO DELLA VITE
581
metro non oltrepassa sensibilmente quello dei sarmenti destinati a
servire di innesto.
Si può operare in casa, accanto al fuoco, au coin du feu, dice
Champin, innestando barbatelle, o le stesse talee, durante l'inverno
e facendo così moltissimo lavoro; solo si avrà allora l'attenzione di
ricoprire gli innesti con un buon strato di sabbia, man mano che si
vanno preparando, tenendoli nella sabbia fino al momento del loro
trapiantar! entò.
Fig. 181.
Innesto a tallone. — Ce lo mostra già eseguito la figura 183.
Si opera nel seguente modo : il soggetto si taglia come dicemmo
per l'innesto a spacco ordinario, poi si sceglie un innestone (ammet-
tendo che si possa così chiamare la marza) di vite americana un
po' ricurvo e munito di un tallone, come ben si vede nella fig. 183.
582
CAPITOLO XVIII
Questo innestone deve assottigliarsi nella sua parte centrale e sulle
sue due faccie, in forma di lamina di coltello, così come lo in-
dica la figura 182. Ciò fatto lo si inserisce nello spacco del
soggetto (figura 183) in modo tale che le corteccie coincidano bene
fra di loro e che il tallone si trovi in una condizione favorevole
per gettar radici.
Fig. 182.
Fig. 183.
Con questo sistema si utilizza il resto di vitalità delle ceppaie fìl-
losserate, ma ancora in discreto stato, per la pronta produzione di
legno americano, e si riesce a far rappigliare le talee di certe va-
rietà resistenti americane, le quali altrimenti non getterebbero ra-
dici. Gli è sotto questo aspetto che si raccomanda questo innesto a
tallone, il quale può farsi o su soggetto europeo o sovra americano;
in quest'ultimo caso, dopo la ripresa dell'innesto, si ha un soggetto
che continua a far corpo colla talea che ha barbicato, e sviluppan-
dosi con essa, aumenta d' altrettanto il suo sistema radicale. Ma,
come dice Cliampìn, mancando il soggetto americano, si può benis-
simo utilizzare un soggetto europeo, dovesse anche il suo concorso
INNESTO DELLA VITE
583
temporaneo limitarsi a nutrire le talee innestatevi sopra durante i
primi momenti, cioè fino a tanto ohe non abbiano emesso radici
proprie.
Fig. I84.
Questo innesto si può fare anche sulle radici, scalzando il ceppo:
ma Champin non lo consiglia.
Innesto a cavallo. La figura 184 lo mostra già eseguito, ma
584 CAPITOLO XVIII
senza la legatura, per maggior chiarezza. Si eseguisce ordinariamente
presso il suolo su giovani viti con radici, cioè su barbatelle, le quali
tagliansi a cuneo dal basso in alto; si spacca quindi la marza alla
sua base C C, e così si sovrappone al cuneo. Questo innesto non è a
raccomandarsi là dove tirano forti venti, perchè questi, nonostante la
legatura, scuotono la marza e ne impediscono la saldatura col sog-
getto.
§ 5. Macchinette per innestare. — Queste macchinette, o
innestatoi, furono ideate allo scopo di facilitare la manualità dell'in-
nesto e di permettere cosi una certa economia di tempo e di spesa.
Simili innestato.) si devono quasi tutti ai Francesi; ultimamente però
ne veniva ideato uno molto ingegnoso da un meccanico italiano, del
quale diremo in ultimo: descriveremo ora alcune macchinette usate
nel Mezzogiorno della Francia e nella Gironda (1).
« Macchina Petit. Una fra le prime macchine inventate, e non
per questo la meno perfetta, è quella dell* ing. Augusto Petit di
Toulenne-Langon (Gironda).
Questa macchina si compone (fig. 185) di un piano di ghisa A B,
che si può fissare per mezzo di viti all'orlo di una tavola, sul quale
è imperniata una leva orizzontale AE munita di un manico E e
portante due lame C e D; questa leva è guidata nel suo movimento,
che deve essere costantemente nello stesso piano, da un settore cir-
colare FG. La lama D è simile alla lama di una pialla; le sta di
contro un pezzo di ghisa H di cui vedesi sotto alla prima figura
il disegno in più grande scala, in prospettiva; questo pezzo è limi-
tato da una superficie storta, a b e d, che pende dal di dietro in
avanti e da sinistra a destra; è su questa superficie che si appoggia
il sarmento per tagliarlo a imboccatura di clarinetto con la lama D;
il sarmento si pone verso destra o verso sinistra a seconda che è
più grosso o più sottile; per fare poi in modo che non scorra sotto
l' impulso della lama D, che lo deve tagliare, esso viene a toccare
contro la faccia verticale e. Il pezzo H può essere regolato per
mezzo di quattro viti di livello e di due viti a prigioniero che pos-
sono strisciare in due scanalature praticate nella base di ghisa, in
(1) Veggasi la eccellente Guida pratica per la ricostituzione dei vigneti italiani
(Firenze 1883) dell'egregio sig. V. Vannuccini, ove sono descritti molti di questi
innestatoj. Da essa togliamo le notizie ed i disegni qui riprodotti.
Innesto della vite
585
modo che il taglio della lama D venga, alla fine della corsa della
leva AE, ad affiorare la linea a b. Nulla dunque di più semplice
che effettuare il taglio del sarmento con questa macchina. Per ope-
rare la fenditura del detto sarmento serve la lama C che ha il
taglio analogo a quello di un coltello comune e che si muove, per
V intermediario della solita leva AE, sopra un pezzo I, simile per
forma al pezzo H; il sarmento che ha subito il primo taglio viene
mantenuto sul pezzo I, mentre, tirando indietro la leva, la lama C
ne opera la fenditura.
Fig. 185.
Tanto la lama C quanto la lama D sono fissate alla leva per
mezzo di viti, onde poterle rimuovere per cambiarle o per affilarle.
La macchina che abbiamo descritta è, come si comprende, sem-
plice e solida; i tagli che dà, a condizione bene inteso di tener le
lame bene arruotate, sono netti e diritti; è inoltre di una manovra
facilissima, in modo che dopo una pratica di poche ore 1' operaio il
più novizio può eseguire innesti perfettissimi, alla pari del più con-
sumato innestatore. Costa 35 franchi in Francia e in Italia 40 lire. »
Guida-revolver di Breoier F. da Bouziques (Hérault). Chia-
mansi guide-revolver certe macchinette le quali servono ad eseguire
>86
CAPITOLO XVIII
l'innesto sul posto, e più propriamente a guidare il taglio. La guida
di Brevier (fig. 186) si può però anche adoperare per l'innesto in casa,
Fig. 180.
(pag. 581) quando venga fissata ad un tavolo: « essa è composta di cinque
tubi di diverso diametro, tagliati a imboccatura di clarinetto; la parte
posteriore di ciascun tubo è formata di due parti riunite da due
INNESTO DELLA VITE
587
molle di acciaio, in modo che, allontanando Funa dall'altra, si apre
una fenditura corrispondente a quella che si vuol praticare sopra il
sarmento. La manovra di questo apparecchio è facilissima a com-
prendersi; infatti, basta introdurre il sarmento nel tubo di diametro
corrispondente e quindi, facendo scorrere la lama di un coltello sulla
sezione obliqua del tubo, operare il taglio del detto sarmento; poi
introducendo la lama nella fenditura e forzandola tra le due parti
del tubo, eseguire lo spacco longitudinale del sarmento.
Questo istrumento costa 18 franchi; con un sopporto che permette
di fissarlo ad una tavola costa franchi 21; e franchi 22 con un col-
tello in più. »
« Macchina Trabitc. — È questa la prima macchina costruita
per eseguire l'innesto sul posto (fig. 187).
Fig. 187.
Il sarmento è preso tra due manichi DD\ articolati in H come
quelli di uno schiaccianoci, e collocato nella scanalatura di un pezzo
B, tagliato ad ugnatura, fissato perpendicolarmente al manico D',
088 CAPITOLO XVIII
due cuscinetti di gomma impediscono che il sarmento venga ammac-
cato nella compressione dei manichi DD\ Un pezzo C, articolato in
basso col manico D e traversato superiormente dallo spillo a, che
è fisso al pezzo B, assume diverse inclinazioni a seconda dell'aper-
tura dei manichi DD' e serve di guida alla lama A di un coltello
a doppio tagliente. Questo coltello è manovrato per mezzo di un ma-
nico F che è perpendicolare alla direzione della lama. Per rendere
liberi i movimenti della lama A l'imperniatura che rilega il coltello
alla tanaglia DW è costituita da una snodatura alla Cardano E. Il
pezzo C serve di guida al coltello per eseguire il taglio del sarmento:
taglio che viene eseguito dal basso verso l'alto. Ciò fatto, il pezzo
C è tirato verso destra, vincendo la tensione della molla C che lo
richiama verso il pezzo B, e cosi e liberato dallo spillo a; può in
tal guisa essere rigettato all' indietro; allora, riabbassando la lama
del coltello A in modo che strisci sulla superficie anteriore del pezzo
B, si effettua la fenditura del sarmento.
Il manico D' può esser fissato all' orlo di una tavola, e così si
può eseguire per mezzo di tale apparecchio anche l'innesto in casa.
Questa macchina, costruita dal sig. Trabuc di Saint Hyppolite-du-
Fort (Gard), costa in Italia 15 lire. »
Innestatoio Pulifici. — Descriviamo ora l' innestatoio italiano,
forse il primo che sia stato ideato nel nostro paese; esso si deve
al bravo meccanico Pulifici di Magliano Sabino. La macchinetta è
di recentissima invenzione, ed è questa la prima volta che se ne
parla per le stampe; dobbiamo questa comunicazione all'egregio cul-
tore della viticultura Conte Alberto Cencelli Perii di Roma, che
ha esperimentato ripetutamente l' innestatoio Pulifici e sempre con
buon esito. Cotale macchinetta serve principalmente per le viti, ma
può adoperarsi anche per gli alberi da frutta e per gli olivi. Con
essa si possono fare, sulle viti, i sovra descritti innesti inglese,
Champin, a spacco ordinario, a cavallo ed alla Pontoise.
« I tagli possono farsi da 2 a 6 centim. di superficie: la macchinetta
eseguisce i suddetti innesti in tralci del diametro di 3 a 12 millimetri,
senza bisogno di cambiare o spostare alcun pezzo, perchè il re-
golatore generale è automatico. Inoltre taglia la marza od il sog-
getto con una semplicissima forbice ad esso annessa, e può adope-
rarsi a tavolino e sul posto. Per eseguire gli spacchi negli innesti
inglese, Champin, a spacco ed a cavallo si adopera la guida. Ecco
ora la descrizione dell'innestatore (fig. 188 A) ed accessori. L'impu-
INNESTO DELLA VITE
589
gnatura di quest'innestature è simile a quella di una forbice comune
per potare. Allargando e stringendo la mano si mette in movimento
la bacchetta graduata (4) che ha una corsa di centim. 6 1|2 por-
tante i numeri 2, 3, 4, 5, 6 ciascheduno alla distanza di un centi-
metro. A questa bacchetta è fissata una lama tagliente (l)la quale,
stringendo l'impugnatura, cammina verso un piano inclinato mo-
bile (2) fornito di un appoggio (3) terminante in tre linguette le
quali formano un V con una linguetta in mezzo. Il numero (5) in-
dica la forbice che si apre e si chiude in seguito al movimento della
1S8.
bacchetta. La vite (6) serve per regolare la lunghezza di superficie
che si vuole tagliare, cioè da 2 a 6 centimetri; questo regolatore si
può anche tralasciare, perchè essendo la bacchetta graduata si può
benissimo regolare stringendo più o meno la mano, quando il tralcio
da tagliarsi è posto in posizione, fissando il numero nel punto ove
arriva la lama quando è chiuso l'innestatore.
Per mezzo di un semplice appoggio mobile si fissa sul tavolo; tale
appoggio si unisce all'innestatore nella piegatura dell' impugnatura,
ove è collocata la molla, per mezzo di una punta che si fa entrare
nel foro fatto appositamente nella parte posteriore e sinistra dell'in-
nestatore e di un dente che lo abbraccia nella parte opposta. Si stringe
quindi la vite superiore per fermarlo in tutti i lati.
La guida per gli spacchi (fig. 188, B) è avvitata ad un manichetto il
590 CAPITOLO XVIII
quale può togliersi qualora si voglia unire all'innestatore nel foro (7)
lavorando sul posto; essa si potrà avvitare sull' appoggio adope-
randola a tavolino. Si compone da una parte (1) di due alette a
forma di V con lama tagliente in mezzo per fare gli spacchi negli
innesti a spacco ed a cavallo, dall'altra (2) di una lama sporgente
piano-convessa ed un'altra tagliente che serve per gli spacchi nell'in-
nesto inglese e Champin. Il disco (3) si adopera per stabilire le lun-
ghezze degli spacchi.
Per eseguire coli' innestatoio Pulifici l'innesto inglese e Champin
si taglia prima il tralcio nella parte che si deve innestare vicino al-
l'occhio per avere l'internodio più lungo, poi si colloca fra la lama (1)
ed il piano inclinato mobile (2) spingendo il tralcio verso l'appoggio (3)
procurando di avvicinarlo al taglio della lama. Giunto a questo punto
si chiude la mano con un colpo secco ed il taglio verrà regolar-
mente eseguito. Il tralcio tagliato ad unghiatura, sia soggetto o
marza, si spacca per mezzo della guida mettendo la parte tagliata
fra la linguetta a piano-convesso e la lama tagliente, spingendola
verso il manico, avendo cura di far strisciare il tralcio dalla parte
della corteccia sopra la linguetta piano-convessa. Questa operazione
si eseguisce nel punto più largo o più stretto secondo la grossezza
del tralcio. Per l'innesto Champin si taglieranno colle forbici le punte
delle linguette.
L'innesto alla Pontoise si eseguisce come l'innesto inglese, prati-
cando un secondo taglio col mettere il pezzo tagliato sul piano an-
zidetto, in modo che la superfìcie tagliata formi una squadra col
piano ove è collocato, oppure un angolo più acuto a piacimento di
chi innesta. Il taglio sul soggetto per porre l' innestone potrà farsi
con un coltello oppure con una sgorbia appositamente costruita.
Per tagliare la marza per Y innesto a spacco ordinario si recide
il tralcio come per l'inglese e si pone sul braccio fìsso al piano (2)
e la lama, facendolo appoggiare nella linguetta di mezzo del V (3)
colla precauzione di spingerlo verso la parte più stretta del V stesso
servendo di guida le due alette, e ciò per ottenere che, chiudendo
l'innestatore, venga tagliata soltanto una metà. Eseguita questa prima
operazione, si mette il tralcio siri- piano (2) dalla parte già tagliata,
accompagnandolo colla mano acciocché spiani bene, e ripetendo il
colpo si avrà tagliata l'altra rnttà, e la marza a forma di zeppa sarà
pronta per porla sul soggetto.
Per l'innesto a cavallo si opera nell'istesso modo sul soggetto.
INNESTO DELLA VITE 591
Lo spacco, che dovrà eseguirsi tanto sul soggetto per l'innesto a spacco,
quanto sulla marza per quello a cavallo, si farà colla guida dalla
parte (1), la quale essendo a forma di V con lama tagliente in mezzo,
spingendola contro la marza o il soggetto praticherà una spaccatura
regolare nel centro, avvertendo di far correre il tralcio nella parte
più stretta delle due alette. »
CAPITOLO XIX
Moltiplicazione e rinnovo della vite.
§ 1. Propaggine — § 2. Capogatto o infrasconamento — § 3. Provanatura —
§ 4. Rinnovo del vigneto esausto — § 5. Nuovo vigneto su vigneto estirpato
o su bosco.
§ 1. Propaggine. — Già sappiamo che la vite può moltipli-
carsi per seme, per gemme o per tralci; in questo capitolo inten-
diamo però di studiare specialmente la moltiplicazione delle viti nel
vigneto già impiantato, quale si pratica ogni qualvolta si debbono
riempire nei filari i vuoti cagionati dalla morte di qualche ceppaia,
oppure quando, come fanno taluni, si vogliono formare nuovi filari
fra quelli del primo impianto.
La riproduzione della vite può allora ottenersi mercè la propag-
gine, il capogatto o la provanatura.
La propaggine consiste nel coricare e sotterrare a 25 o 30 cen-
timetri di profondità una porzione di giovine tralcio, lasciando che
la punta sorga dal suolo (fig. 189), oppure nel sotterrare la estre-
mità del tralcio a frutto come nella fig. 190; la parte sotterrata dà
radici, e si ha così una nuova pianta (separando con un taglio nel-
l'autunno stesso il tralcio coricato della pianta madre); la qual pianta
o barbatella può portarsi via o lasciarsi sul posto secondochè s1
tratta o non di riempire dei vuoti. Allorquando mediante la propag-
ginazione si vogliono produrre barbatelle da esportarsi è bene, come
si usa in Francia, allevare la ceppaia madre molto bassa (fig. 191)
MOLTIPLICAZIONE E RINNOVO DELLA VITE
593
conservandole un grande numero di tralci, che a primavera si cori-
cano attorno ad essa: taluni anzi fanno le propaggini entro panieri
Pia 189.
Fig. 190.
Fig. 191.
(fig. 192 a) o entro vasi (fig. 192 b), ma questi sono metodi più da
giardiniere che da viticultore.
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 39
594
CAPITOLO XIX
Le piante provenienti da propaggine sono spesso meno vigorose,
meno fruttifere e meno longeve di quelle di talea o barbatella; questo
accade specialmente allorquando invece di propagginare tralci robusti
di viti non spossate per lunghi anni di cattiva coltura, si coricano
Mmx
Fig. 192.
tralci|meschini o peggio i bastardi o succhioni che spuntano nella
parte bassa delle ceppaie, come si fa spesso per maggior comodità:
è curioso che talvolta questi getti bastardi, danno piante assoluta-
mente non fruttifere.
§ 2. Capogatto o infrasconamento. — Il capogatto (infra-
sconawento o capovolto^ differisce dalla propaggine inquantochè non
si sotterra la parte mediana del tralcio, ma bensì la punta fig. 193. Si
hanno ^così varii occhi sotto terra, che danno molte radici; tagliando
poi il tralcio si ha una piantina a sé. Il capogatto è preferibile alla
propaggine, appunto perchè costituisce una pianta a sé, ma esso non
deve farsi se non con tralci di viti robuste e giovani, acciò possano
MOLTIPLICAZIONE E RINNOVO DELLA VITE 595
alimentare il tralcio « margottato. » La piegatura si fa a primavera,
ed il taglio per separare la madre dalla figlia, si eseguisce alla pri-
mavera successiva. In quest' anno stesso si possono avere frutti; si
Fig. 193.
hanno poi certamente alla successiva vendemmia, essendo i capogatti
di fruttificazione molto precoce. Anche ad essi devono però prefe-
rirsi la talea e la barbatella.
§ 3. Provanatura. — Questa maniera di moltiplicare le viti con-
siste nel sotterrare a dirittura tutta la pianta, perchè vecchia, lasciando
fuori terra soltanto qualche sarmento vigoroso e potandolo poscia a
due tre, oppure quattro occhi. I viticultori toscani chiamano questa
operazione far le rimesse e se ne giovano per riempire le lacune
nei filari; a tal'uopo estendono la fossa a tutta la lacuna e poi vi fanno
giacere entro la ceppaia, rilevando nei punti voluti i tralci che do-
vranno costituire le nuove viti; indi concimano e ricoprono con terra.
Ma trattandosi di lacune molto grandi, per riempir le quali non ba-
sterebbero i tralci delle viti vicine, oppure se si volessero formare
nuovi filari, allora è preferibile il sistema adottato dal sig. Dr. A.
Dei: esso consiste nel prendere un tralcio ben vegeto di una delle
viti più vicine, abbassarlo, piegandolo delicatamente, e coricarlo lungo
la lacuna, o nel senso della lunghezza del filare da costituire di
nuovo, dopo avervi tracciato un leggero fossetto di pochi centimetri
di profondità.
Questo tralcio vegeta rigogliosamente, in ispecie se la vite madre
dalla quale proviene fu concimata, e getta radici, che divengono
anche più robuste, allorché essendo cresciuti discretamente i nuovi
germogli, si ricolma il fossetto.
Questi germogli non riescono peraltro, troppo regolarmente di-
sposti, perchè non tutte le gemme vegetano ad un modo, ed i germogli
596 CAPITOLO XIX
troppo deboli conviene staccarli quando si fa il rincalzo: di più, rie-
scono abbarbicati troppo superficialmente; e perciò conviene terminare
l'operazione nel marzo venturo. Il sig. Dei infatti, dopo aver fatto
sbarbare diligentemente, o mandare da parte il vecchio tralcio con
le nuove messe e le radici, senza però staccarlo dalla vite madre,
fa scavar una fossetta profonda un 30 centimetri circa, poco più
poco meno, secondo la qualità del terreno e la posizione, e dentro
a questa torna a far coricare il detto tralcio non solo, ma ancora
l'intera vite vecchia dalla quale proviene, come per le rimesse or-
dinarie sopra accennate indi fa disporre a regolari distanze i nuovi
tralci legandoli a pali.
Alcuni viticultori toscani, e forse il maggior numero, biasimano
questo sistema di propagginare le viti, ed almeno vorrebbero in qual-
che modo che i nuovi tralci venissero separati gli uni dagli altri: perchè,
essi dicono, col tenere insieme unite più viti figlie derivanti da
una medesima vite madre, avviene, che quando alcuna di esse am-
mala e perisce, di necessità ne devono risentire anche le altre.
Questa massima teorica peraltro, per quanto a prima vista sembri
ragionata, non corrisponde poi in pratica. Sono infatti di già non
pochi anni che il sig. Dei pratica questo sistema, ed egli assicura (1)
che mai ha veduto verificarsi un simile guaio : gli è accaduto più
volte di veder deperire qua e là alcune delle dette viti, e di dovervi
riparare con propaggini. Ebbene, le stesse viti vicine, e provenienti
dallo stesso tralcio dal quale proveniva quella deperita, hanno ser-
vito con i loro tralci vegeti e lunghi, a far le propaggini, o ri-
messe.
Noi non consigliamo tuttavia la provanatura se non in casi spe-
ciali, essendo essa pure, come la propaggine, causa di poca longe-
vità e poca robustezza delle viti. La fruttificazione è spesso irrego-
lare e non molto abbondante specialmente dopo qualche anno; infatti
va presto diminuendo così da rendere necessarie nuove provanature;
il sistema sotterraneo del vigneto diventa allora una rete inestrica-
bile di tronchi, tralci, radici e radichette, spesso soggetti al marciume,
e certamente poco favorevoli sia alla fruttificazione, sia alla durata
delle ceppaie, che vivono le une a spese delle altre. Infine, i viti-
cultori più reputati raccomandano la talea o la barbatella e scon-
sigliano la propaggine o peggio la provanatura, perchè è necessario
(1) Vedi Giornate Agrario Italiano, 187S.
MOLTIPLICAZIONE E RINNOVO DELLA VITE 5^7
che ogni pianta di vite sia indipendente e con sistema radicale proprio,
se si vuole che il vigneto sia fecondo e longevo.
§ 4. Rinnovo del vigneto esausto. — Allorquando il vigneto
accenna ad esaurirsi, si deve anzitutto procurare di rinnovare la
terra al pedale delle ceppaie, come abbiamo lungamente detto a pag. 527
Con questo artifìcio quasi sempre si potrà fare a meno, per un certo
numero di anni, di rinnovare a dirittura le ceppaie. Ma quando si
dovessero assolutamente rinnovare le piante, si ricorrerà alle bar-
batelle, od al capogatto, oppure infine si potrà anche adottare, con
certe precauzioni, la provanatura.
Delle barbatelle abbiamo parlato a pag. 414. Il capogatto (pag. 594)
può dare buone barbatelle, che si trapiantano oppure si lasciano sul
sito, costituendo nuovi filari fra i vecchi; questi nuovi filari danno
frutti talvolta al 1° anno, quasi sempre al 2° ed il vigneto è così
rinnovato di pianta. La propagginazione potrebbe servire allo stesso
scopo, se non presentasse gli inconvenienti di sopra enumerati, e
sovratutto quello di creare, a poca distanza dalle superfìcie del suolo,
una fitta rete di radici la quale o rende impossibile i lavori colturali
oppure, se questi si volessero pur tuttavia praticare, trae seco lo
spezzamento e la lacerazione di troppe radici, d' onde il rapido de-
perimento delle piante. La provanatura potrebbe tollerarsi quando
si scavasse il fosso abbastanza profondo da evitare la formazione
delle radici superficiali, facendo uscire soltanto il sarmento più ro-
busto, il quale costituirà la nuova ceppaia.
Senonchè il vigneto può rinnovarsi anche senza sotterrare od in
qualsiasi modo sopprimere le vecchie ceppaie; si può ritenere infatti
che il sistema radicale, salvo il caso di speciali alterazioni, non ha
d'uopo di essere rinnovato per un tempo lunghissimo, e basta rin-
giovanire la parte aerea, la quale, se troppo vecchia e soverchia-
mente lignificata (pag. 123) costituisce un ostacolo al movimento
dei succhi. Ciò è tanto vero che allorquando si abbassa la vite, come
dicemmo a pag. 488, cioè si esporta quasi tutta Y antica sua parte
aerea, si ottengono cacciate vigorosissime subito al primo anno, le
quali, debitamente potate, possono costituire una nuova e robusta
impalcatura della ceppaia. La vite è allora rinnovata del tutto,
mentre d'altra parte si sono risparmiate le spese dello sradicamento o
si sono evitati gli inconvenienti della provanatura.
Ma — oltre all'abbassamento — vi ha un altro mezzo per ringiova-
598
CAPITOLO XIX
nire le ceppaie, il quale consiste ne\V inclinare i sai^menti (1) come
usano alcuni viticultori francesi: supposta la vite fig. 194 a cordoni
orizzontali e con getti meschini, essa può ringiovanirsi piegando i tralci
come lo indica la fig. 195; accade allora che la linfa è come respinta
dalle estremità guernite di fogliame verso il ceppo, ed infatti dall'impal-
(1) Carriere Le Vigne pag. 192
MOLTIPLICAZIONE E RINNOVO DELLA VITE
599
catura sorgono i due sarmenti vigorosissimi a a,che più tardi rimpiaz-
zeranno i cordoni orizzontali. Se al primo anno i due getti a a non
sono sufficientemente vigorosi, si potano a speroni di un occhio, e si
mantengono le branche inclinate, liberandole soltanto dai getti legnosi
che potrebbero generare confusione. Quando i due nuovi getti sono
sufficentemente vigorosi, allora si tagliano via i vecchi cordoni, e la
600 CAPITOLO XIX
vite è ringiovanita senza spesa e senza perdita di raccolto. Durante
questa operazione di rinnovo, è indispensabile cimare tutti i getti
dei cordoni (eccettuati bene inteso i due sarmenti a a) per cacciare
indietro il succo appunto a benefìcio di questi ultimi.
Questo sistema dell'inclinare i tralci può applicarsi, con lievi va-
rianti, che lo stesso viticultare saprà adottare a seconda delle sue
circostanze, ai varii sistemi di educare la vite oggi generalmente
seguiti.
§ 5. Nuovo vigneto su vigneto estirpato o su bosco. —
Secondo alcuni autori, allorquando si sradica un vigneto, e si vuole
ripiantarne uno nuovo allo stesso posto, conviene lasciar passare da
sei ad otto anni; durante questo intervallo si coltivano erbe forag-
giere a radici profonde (trifoglio, medica, ecc.), sia perchè smuovono
il terreno, sia perchè coi loro avanzi lo fertilizzano alquanto. Ma
questa alternanza di coltura non è affatto necessaria, e noi sappiamo
che nei nostri paesi meridionali si ripianta il vigneto su vigneto senza
inconvenienti, colla sola avvertenza di praticare alcuni mesi prima del
ripiantamento uno scasso profondo circa il doppio dello scasso primi-
tivo, cioè di quello fatto allorquando si piantò il vecchio vigneto: rinno-
vata così la terra, nulla vi ha a temere, e solo conviene adoperare i
concimi appropriati al piantamento, quali indicammo a pag. 377. Ot-
tima cosa sarebbe pure un soverscio (pag. 450) seguito dallo scasso;
in ogni caso si tratta sempre di reintegrare il suolo di quegli ele-
menti (specialmente acido fosforico e potassa) dei quali fu impove-
rito colle passate raccolte, onde saranno principalmente a consigliarsi
gli ingrassi fosfatati e potassici, unitamente a quelli azotati per pro-
vocare la formazione di un ampio sistema radicale nelle nuove piante.
Ma allorquando si tratti di piantare un vigneto là. dove esisteva
un bosco, specialmente se di quercia, allora converrà usare talune
precauzioni; infatti accade quasi sempre che i vigneti così piantati,
deperiscono mostrando qua e là saltuariamente dei gruppi di ceppaie
morenti, quasi come si verifica nelle così dette macchie fillosseriche.
Taluni attribuiscono questa mortalità ai residui tanninici lasciati nel
terreno dalle quercie, ma in generale si propende ad attribuirla al
marciume; questa alterazione delle radici è caratterizzata da una ri-
zomorfa, detta volgarmente bianco, bianchetto o fungo, la quale
attacca le radici delle quercie con una certa frequenza, e che può
rimanere nel suolo per molto tempo anche dopo che si è estirpato
MOLTIPLICAZIONE E RINNOVO DELLA VITE 601
il bosco, sulle radici lasciate nel suolo stesso. Se si pianta un vi-
gneto in simile terreno, le radici delle viti vengono a trovarsi a
contatto colla rizomorfa, ed ecco che il male si propaga cagionando
la morte della ceppaia.
Ma, si chiederà, perchè il deperimento e la morte delle ceppaie
si fanno quasi sempre attendere durante molti anni ? Ciò infatti lo
abbiamo noi stessi constatato in alcuni vigneti dell'Alta Italia, dove
la malattia comparve 15 o 20 anni dopo il dissodamento del bosco
ed il piantamento del vigneto. La spiegazione di questo fatto cre-
diamo debba cercarsi in un deperimento delle viti stesse, indipen-
dente dal marciume, ma causato invece dalle cattive condizioni di
fertilità del terreno già sfruttato dal bosco ceduo: è noto infatti che
il marciume attacca di preferenza le viti deboli, e fra esse ad esempio
quelle fillosserate. Se si rinvigoriscono le ceppaie con adatti concimi,
il marciume cessa, e di ciò abbiamo udito parecchie volte la con-
ferma in pratica: questi concimi debbono essere specialmente ricchi
di acido fosforico, potassa e calce, questi essendo gli elementi mi-
nerali esportati sovratutto coi prodotti del bosco, mentre quelli or-
ganici vennero sufficientemente reintegrati cogli avanzi lasciati sul
terreno dal bosco stesso. Il letame di stalla sarebbe poco conveniente,
per le ragioni addotte a pag. 442; dovranno in sua vece adottarsi
le ceneri, la calce, i sali potassici ed i perfosfati.
Con queste precauzioni si potrà, senza inconvenienti, piantare un
vigneto anche su terreno prima occupato da un bosco ceduo.
CAPITOLO XX
Scortecciamento,
§ 1. Opinione di varii autori sullo scortecciamento delle viti — § 2. Vantaggi —
§ 3. Modo di operare.
§ 1. Opinione di varii autori sullo scortecciamento delle
viti. — Lo scortecciamento delle vecchie ceppaie altro non è, pro-
priamente parlando, che il ripulimento dei tronchi dalla corteccia
esteriore rugosa, morta e perciò inutile alla pianta: questa opera-
zione è quanto mai giovevole alle viti, e già gli antichi scrittori
l'avevano raccomandata nelle loro opere.
Columella (1) infatti scrisse che « anche la buccia secca e scre-
« polata che pende dall'alto del tronco, s'ha da scorzare fino al corpo,
« dacché la vite, come da sordidezze sgombra, meglio si assoda, e meno
« feccia porta nel vino. » — Ed il bolognese Pier de C?*escenzi (2)
dava il seguente precetto: « La corteccia ancora recisa e pendente
« dalla vite, si tolga, la qual cosa, come disse Palladio, minor feccia
« rende nel vino. Il musco ancor si rada dovunque è trovato. » In
questi autori si trova accennata concordemente la diminuzione di
feccia nel vino, il che farebbe credere avere essi osservato che le
uve di viti scortecciate maturavano meglio ed erano più sane di
quelle di ceppaie annose e rugose. Infatti questo accade realmente.
(1) Op. cit. voi. I, pag. 215. — Citato dal Prof. Hugues (V. il nostro giornale
II Coltivatore voi. XXX, pag. 142).
(2) Trattato di Agricoltura, volg. da Inferrigno, voi. II, pag. 30.
SCORTECCIAMENTO 603
Il Conte Filippo Re (1) raccomandò a sua volta lo scortecciamento;
« il potatore, dice egli, non permetterà che vi rimanga la vecchia
« scorza, nido di insetti, d'umidità e di lordure. » Ed il Conte Carlo
Verri (2) così lasciò scritto: « Non solo giova lo strofinamento,
« ma ottimamente riesce a raschiare la vite con un ferro, o col ro-
« vescio del falcetto, singolarmente allorché la vite è arida e non
« proclive a spogliarsi. »
Fra gli scrittori francesi possiamo citare 1' abate Rozier (1770)
che consigliava di ripulire le ceppaie delle viti con spazzole a peli
corti e ruvidissimi o con forti treccie di paglia, ed il Prof. Petit
Lafitte (3) il quale raccomanda di scortecciare di tanto in tanto i
vecchi tronchi di viti. — Gnyot e Marès non ne fanno cenno in
modo esplicito, ma pure raccomandano di tenere netti i tronchi.
Ultimamente il Prof. Hugues (ioc. cit.) ed il sig. Angelo Guf-
fanti (4) richiamarono in Italia l'attenzione dei viticultori su quella
pratica, della quale noi pure facemmo le lodi, anche per averla espe-
rimentata, nel nostro Manuale di Viticoltura (5).
§ 2. Vantaggi. — Ma quali sono i vantaggi dello scorzare le
vecchie ceppaie? Giustamente è stato detto che, come si tiene mondo
il suolo del vigneto dalle male erbe, così bisogna tenere mondo il tronco
dai parassiti, massime se la pianta è annosa come succede nei pergolati.
Se è vecchia, allora la corteccia rugosa e morta non cade più al
suolo, come succede nelle piante giovani e vegete, ma rimane ade-
rente al tronco, si accresce, putrefa, è ricovero a molti insetti (non
esclusa la fillossera che depone ivi le ova sessuate e l'ovo d'inverno),
è terreno propizio alla vegetazione di muschi e licheni, inceppa la
respirazione e la traspirazione del vegetabile; in conclusione fa de-
perire assai presto la vite ed indirettamente fa scemare il prodotto
pendente, a cagione dei detti insetti fitofagi. D' altra parte quella
corteccia (che più propriamente è la parte esterna della vera cor-
teccia) non giova a nulla, ed è assolutamente estranea alle funzioni
(1) Nuovi elementi di agricoltura, 3a edizione, voi. Ili, pag. 216.
(2) Saggi di agricoltura pratica, 6a edizione — Milano — pag. 150.
(3) La vigne dans le Bordelais (1868), pag. 256.
(4) Quello che a me. pare la causa prima dell'oidio e della peronospora. Str a-
della 1884, pag. 26.
(5) Manuale Hoepli, 1880,
604
CAPITOLO XX
vitali della vite; prova ne sia che quando la vite è in condizioni
normali, lascia cadere quegli strati corticali esterni. Bisogna adunque
aiutare la pianta se essa, perchè ammalata, non si spoglia da sé,
ingrossando il suo tronco, di quel vecchiume; così si conferisce real-
mente un nuovo vigore alle ceppaie, come lo dimostrano numero-
sissime esperienze.
§ 3. Modo di operare. — Lo scortecciamento deve praticarsi
dopo l'inverno e subito dopo la potatura, perchè allora esso riesce più
agevole, essendo meno aderente per effetto del gelo, quella corteccia
che si vuole appunto esportare. Può operarsi a mano o con appo-
siti istrumenti.
Si scortecciano a mano quei tronchi che presentano la corteccia
già quasi distaccata a striscie; si scoprirà allora, mercè la zappa,
il pedale delle piante, e poscia si scorteccierà dal basso in alto, ve-
nendo fino alla impalcatura, cioè al punto d'onde si dipartono i rami.
Generalmente però la corteccia morta si presenta sotto forma d'uno
strato rugoso aderente al tronco, ed allora lo scortecciamento bi-
sogna farlo o con un ferro qualsiasi a taglio concavo, o coli' arco
Sabato (fìg. 196) o col guanto Sabato (fig. 197), o meglio assai
i<V- 196.
collo scorteccìatore brevettato Vigna. L'arco, che è di filo di ferro
intrecciato, serve alla pulitura degli angoli ascellari dei vecchi tronchi;
SCORTECCIAMENTO
605
il guanto, che è una maglia d'acciaio, è utilissimo per ripulire ceppaie
e tronchi; però esso è pesante (gr. 740), costoso e di difficile ripara-
zione in caso di rottura di qualche anello. È quindi da preferirsi lo
Fi-. 197.
scortecciatore ideato dal Dott. A. Vigna, assistente alla Regia Sta-
zione Enologica d'Asti; esso è costituito da lamine metalliche perforate
a grattugia, e non pesa che 200 grammi; inoltre costa sole 2 lire,
ed è di facile maneggio.
Scortecciando le viti, non si tema di agire con troppa energia
perchè, come dice Filippo Re, la pianta in breve ripara le ferite;
però si badi che è solo la parte morta quella che devesi levare, e
quindi, allorquando si vedrà la parte viva della corteccia (che ha
il colore grigio rossigno dei giovani tralci e che presenta pure striscie
per il lungo (1)) si cesserà dall' approfondire il lavoro, quantunque
la vite non soffra se, per avventura, le venisse fatta qualche lieve
ferita.
Ripetiamo che non si deve dimenticare di ripulire bene in ispecial
modo la parte inferiore del tronco, perchè si è in essa che si annida
la maggior parte degli insetti, per attendere i tepori primaverili: con
questa semplice precauzione il viticultore libererà il suo vigneto dai
(1) Sono i fascii fibrosi del libro, che è la
(V. Botanica della vite pag. 91).
prima parte interna della scorza,
606 CAPITOLO XX
molti bruchi che tanto lo allarmano, si può dire ogni anno, e contro
i quali egli pur troppo può ben poco.
Ma in questi anni in cui la vite è maltrattata da tante vegeta-
zioni parassitarie, sarà cosa di grande utilità far seguire lo scor-
tecciamento dall' imbiancamento del tronco scortecciato con un po'
di latte di calce. È vero che questo intonaco cade dopo qualche
tempo, ma frattanto protegge il tronco ed impedisce che vi si svi-
luppino crittogame, perchè distrugge molte spore. Questo imbian-
camento infatti ha sempre dato in pratica risultati ottimi, onde lo
raccomandiamo specialmente pei vecchi tronchi delle viti annose o
dei pergolati.
CAPITOLO XXI
L' Uva.
1.. Come aiutarne la maturazione — § 2. La crepatura degli acini — § 3. La
maturazione dell'uva ed il sistema di cultura della vite — § 4. La vendemmia:
quando convenga anticiparla e quando ritardarla — § 5. Il bando delle ven-
demmie.
§ 1. Come aiutare la maturazione dell'uva. — Abbiamo
già studiato lungamente (1) il fenomeno della maturazione dell'uva,
accennando alle cause che lo favoriscono nonché a quelle che lo con-
trariano. Ed ora ci poniamo il seguente quesito: può il viticultore
aiutare in qualche modo la formazione del principio dolce nei grap-
poli ? Rispondiamo che lo può, seguendo le pratiche che ora andremo
descrivendo, delle quali noi pure ci siamo talvolta giovati con buon
esito.
Anzitutto è necessario che il viticultore ricerchi quali sono le cause
che, in un dato anno, osteggiano la regolare maturazione dell'uva;
in seguito a ciò potrà scegliere il mezzo più confacente per coadiu-
vare l'importante fenomeno. Queste cause contrarie alla maturazione
si riducono generalmente alle seguenti: la deficienza di luce e di ca-
lore, l'eccessiva secchezza, lo stato pletorico della pianta. Nulla di-
ciamo di un'altra causa, la quale risiede nella essenza del vitigno che
si coltiva, perchè è ovvio che in questo caso bisogna surrogarlo, se
si vuole anche mercè l'innesto, con varietà a frutto Jpiù zuccherino.
(1) Pag. 202 e seguenti.
608 CAPITOLO XXI
a) Deficienza di luce e di calore. In questo caso il viticultore
ricorrerà anzitutto alla parziale sfogliatura autunnale. Noi l'abbiamo
sempre consigliata nei dieci o dodici giorni che precedono la ven-
demmia; essa deve essere moderata, e fatta col solo intento di sco-
prire i grappoli, perchè la piena luce solare attiva il fenomeno della
maturazione. Si deve poi badare bene, nell'atto che si sfoglia, a non
offendere le gemme ascellari in cui è tutta rinchiusa, se così pos-
siamo esprimerci, la vendemmia futura.
Ma se qui consigliamo una ragionevole sfogliatura in estate, non
approviamo però {salvo casi speciali) la sfogliatura fatta in luglio,
locchè alcuni chiamano erroneamente cimatura.
Con questa sedicente cimatura si esportano le parti verdi a par-
tire dalla terza o quarta foglia sopra l'ultimo grappolo; accade al-
lora che i grappoli ricevono assai meno glucosio ed all'atto della
vendemmia si ha, in quanto a zucchero, una differenza in meno che
può oltrepassare il 3 per cento (1). Lasciamo dunque alle viti tutte
le loro foglie: e per riguardo alla cimatura, atteniamoci alla vera
svettatura coll'unghia che si deve fare in varie riprese prima della
fioritura, cioè in maggio.
Nelle annate di cui il calore è deficiente, riescirà di non poco van-
taggio il vendemmiare nelle ore più calde ed in più tempi. Con questa
pratica, negli anni in cui la maturazione delle uve lascia a deside-
rare, si ottiene un certo miglioramento nella qualità del mosto.
Essa è scrupolosamente seguita colà dove si fabbricano grandi vini
da pasto: per esempio nella Costa d'Oro {Borgogna) al rinomato
Clos de Vougeot, non si entra nelle vigne per vendemmiare che
alle 9 del mattino e si cessa immancabilmente prima che si faccia
sentire il fresco delle sere autunnali.
È grave errore quello di anticipare di soverchio l'ora della ven-
demmia, perchè si corre rischio di portare della rugiada in cantina
ed indebolire così il vino; nel 1873 facemmo la seguente prova a tal
riguardo:
Uve colte a 5 ore antim. 10 gradi al gleucometro
11 » 11 »
» 3 ore pom. 11 »
(1) Su ciò potremmo citare all'uopo molti esempi presi alla viticoltura italiana
ed alla francese.
L' UVA 609
Nella notte precedente però v'era stata abbondante formazione di
rugiada.
Usano poi alcuni far la vendemmia in più tempi, scegliendo le
sole uve mature e lasciando le altre a perfezionarsi. Ciò*si fa spe-
cialmente in .Francia e Guyot ci narra nel voi. I della sua grande
opera che nella Dordogna (a Bergerac) i vigneti sono percorsi anche
le cinque voice dai vendemmiatori armati di forbici. Potendolo quindi,
facciasi la raccolta in più tempi per le uve destinate ai vini supe-
riori da pasto. Il maggior valore di questi vini compenserà ad u-
sura il viticultore delle maggiori spese incontrate per fabbricarli.
b) Eccessiva secchezza. Se la siccità è eccessiva già abbiamo
detto (pag. 207) che la maturazione dell'uva non può essere per-
fetta, ed in ogni caso ne scapita la quantità del prodotto.
Riesce di 'incontestabile utilità, in simili casi, lo spruzzare acqua
direttamente sui grappoli, mediante pompe aspiranti e prementi, come
noi abbiamo esperimentato; senonchè questo sistema (pag. 207) non
sempre è attuabile, specialmente quando si tratta di vigneti estesi.
Per dimostrare l'influenza delle bagnature dai grappoli e dalle fo-
glie sull'ingrossamento degli acini, citeremo una nostra esperienza
fatta nel 1881. Addi 28 agosto misurammo il diametro di quattro
acini di barbera; il 1 settembre cadde una discreta pioggia, dopo la
quale ripetemmo le misure; ecco l'aumento verificato:
1° Acino
2° Acino
3° Acino
4° Acino
Ripetuta la prova otto giorni dopo, trovammo l'aumento medio nel
diametro di millimetri 2, vale a dire un terzo più di mosto in peso.
È poi ovvio il comprendere che nelle annate di eccessiva secchezza,
converrà limitarsi molto nelle sfogliature autunnali, o meglio abban-
donarle del tutto.
40
II
giorno
II
giorno
2É
\ agosto
dopo
la pioggia
lunghezza
millim.
16
19
larghezza
»
15
17
lunghezza
»
17
18
larghezza
»
16
16
lunghezza
»
16
17
larghezza
»
15
16
lunghezza
»
16
16
larghezza
»
15
16
610 CAPITOLO XXI
Infine raccomandiamo caldamente, in quelle circostanze, le zappa-
ture estive, delle quali abbiamo parlato lungamente a pag. 523.
e) Stato pletorico della vite. In questo caso il viticultore dovrà
cercare di impedire in qualche modo un soverchio afflusso di umore
acquoso ai grappoli. Giova molto a tal' uopo l'offendere il tralcio a
frutto od il peduncolo del grappolo. È questa una pratica antichis-
sima. Nel capo 30 del libro di Ib-al-A\vm si dice come gli antichi
Nabatei avessero insegnato a rendere più dolce l'uva torcendone il
picciuolo pochi giorni prima della maturanza. I Greci ed i Romani
conoscevano pure questa pratica, ed oggi è ancora in voga in Un-
gheria ed a Cipro dove si aiuta la maturazione del cipro nero collo
spampanamento e torcendo il peduncolo del grappolo. Il dott. Mona
dice (I) che questa torsione, nonché l'acciaccatura dell'intiero tralcio
da frutto, eseguite pochi giorni prima di procedere alla vendemmia,
solvendo la continuità di un gran numero dei vasi che dal terreno
conducono al grappolo gli umori acquei, induce un sollecito appas-
simento dell'uva, i cui acini, da turgidi e freschi che erano, si pro-
sciugano, si raggrinzano ed avvizziscono, senza timore che siano in-
vasi da muffe. L'avvizzimento non è però prodotto da un aumento
di evaporazione, ma da una diminuzione dell'afflusso degli umori del
terreno; che anzi l'evaporazione relativamente scema, e perciò l'uva
si riscalda maggiormente e matura con più sollecitudine.
Si potrebbe anche esperimentare il taglio dei tralci frutticosi. Questa
pratica però non si può adottare che in quei sistemi di viticultura
in cui i tralci che portano le uve sono legati a canne, a fili di ferro,
o comunque sostenuti: essa consiste nel tagliare, otto o dieci giorni
prima della vendemmia, i tralci frutticosi alla base, in modo da
troncare ogni loro comunicazione colla pianta madre: rimangono cio-
nonostante a loro posto, quasi diremmo immobili, e 1' uva compie
meglio allora la sua maturazione. Abbiamo esperimentato questo taglio
nelle nostre viti alla casa lese nel 1875 e ne avemmo i seguenti ri-
sultati, i quali concordano con quelli avuti da qualche vecchio viti-
cultore monferrino:
Zucchero
all'atto della vendemmia
Uva di tralci tagliati chil. 20,50 per cento
La stessa uva di tralci non tagliati » 19,00 »
(1) Studii di enologia; lo.
L'UVA 611
Come si può spiegare qesto aumento di ricchezza zuccherina pel
solo fatto di aver separato il tralcio frutticoso dalla pianta madre?
Noi abbiamo pensato che con ciò si impedisca la retrocessione degli
umori, e si impedisca pure che venga nuova acqua dal terreno all'uva,
onde per questo infine le pigne possano arricchirsi maggiormente
di zucchero. Lo zucchero, come sappiamo specialmente per gli studii
del compianto Dr. Macagno, si forma nelle foglie, di dove passa poi
per mezzo dei tralci, nei grappoli. Nei tralci si trova dello zucchero,
e tutto porta a credere che, separando questi dalla pianta, noi co-
stringiamo lo zucchero stesso ad affluire ai grappoli piuttostochè re-
trocedere dalle foglie e diffondersi per tutte le parti legnosa della
pianta medesima.
§ 2. La crepatura degli acini. — Negli anni piovosi, si hanno
a lamentare spesso inconvenienti gravi, dovuti alla crepatura degli
acini. In generale si suole attribuirla ad una accumulazione di umore
acquoso entro l'acino, che ne straccia la fiocine, la quale è poco ela-
stica, e si pensa che siffatto umore venga dalla terra madida di
acqua.
Questa spiegazione però non è troppo soddisfacente.
Noi sappiamo, per le interessanti esperienze di Hales (1) sulle
cause del movimento della sava entro i tessuti vegetali, che l'eva-
porazione per mezzo delle foglie è, se non la sola, di certo la pre-
cipua causa dell' assorbimento dell' umore contenuto nel suolo per
mezzo delle radici, nonché della sua ascensione sino ai frutti ed alle
foglie stesse. Se il tempo è piovoso cessa l'assorbimento delle radici
perchè cessa siffatta evaporazione: — di notte accade lo stesso; le
foglie non traspirano ed ecco che il sistema sotterraneo della vite
non funziona.
Dunque, data anche una stagione molto piovosa non si può per
questo inferirne che le radici abbiano in ogni caso ad assorbire molta
acqua dal suolo; certo se alle piogge seguiranno molte giornate a
cielo affatto scoperto ed a sole assai caldo, si avrà molta evapora-
zione e quindi molto assorbimento; ma fra l'uno e V altro di questi
importanti fenomeni della vita vegetale vi sarà sempre una completa
armonia, né accadrà che rimanga neh' acino tanta acqua non eva-
porata da farlo crepolare, perchè bisognerebbe supporre assorbimento
(1) Hales: Essais statiques, 1727,
612 CAPITOLO XXI
dalle radici senza evaporazione, dalle foglie, cosa che non crediamo
ammessibile quando la vite è fronzuta. Se è senza fronde, come ac-
cade sul principio della primavera, allora per 1' attrazione capillare
avviene una penetrazione d'umore nel nuovo cappellamento, la sua
ascensione nei tessuti della pianta ed infine il pianto quando si ta-
gliano le punte dei tralci. Ma dal momento in cui compariscono le
foglie pare che Fazione della capillarità scemi; infatti noi sappiamo
che la vite non piange più di giorno in maggio o giugno, cioè
quando incomincia a ricoprirsi di fogliame, ma solo di notte; or se
T attrazione capillare continuasse ad esercitarsi come nel mese di
aprile, si dovrebbe pur avere lo stesso fenomeno del pianto.
Ma facciamo ritorno alla crepatura degli acini: da che proviene
adunque se non si può ammettere che sia causata dall'eccedente succo
della pianta?
Noi riteniamo che essa debba attribuirsi ad un fenomeno di en-
dosmosi, vale a dire che penetri dell'acqua nel granello attraversan-
done la buccia e facendola quindi screpolare.
Non è difficile dimostrare che si ha endosmosi tra l'acqua che sta
sugli acini ed il liquido racchiuso nell'acino stesso: a tal uopo si im-
mergano nell'acqua degli acini d'uva dopo averli esattamente pesati:
si lascino nell'acqua alcuni giorni e dopo si ripesino; si troverà una
differenza molto sensibile nel loro peso. Continuando poi a lasciarli
nel medesimo liquido finiranno per iscrepolarsi — dopo 5, 6 o più
giorni a seconda dell'elasticità del tessuto epidermico — precisamente
come accade degli acini sulla pianta.
L'illustre Boussingault J. trovò che due granelli di tokai i quali
pesavano prima dell'immersione gr. 7,66, cinque giorni dopo pesa-
vano gr. 8,07: per cui in questo frattempo s'erano introdotti dentro
gr. 0,41 di acqua, cioè gr. 0,082 per giorno. Neil' acqua poi trovò
dello zucchero, segno che la fiocine aveva agito come una membrana
interposta fra due liquidi mescolabili e di diversa natura (1).
Oltre a queste esperienze da gabinetto, che ognuno può ripetere,
altre ne possiamo citare fatte nelle vigne stesse: a tal' uopo riman-
diamo il lettore a pag. 207.
Ma l'acqua che entra in tal modo negli acini favorisce la forma-
zione del principio dolce, entro certi limiti.
(1) Agronomie, Chimie agricole e Physiologie par Boussingault. Tom. eia-
(juicme - 1874,
I/UVA 613
Per intendere come l'acqua, che entra negli acini possa aiutarne
la maturazione non accade che di riflettere al fatto che senza una
adeguata proporzione di acqua il mosto da acerbo non può farsi
maturo, e neppure trasformarsi da maturo in vino per la fermen-
tazione. Nell'acino acerbo devono avvenire molte trasformazioni per
cui la cellulosa, la pectina, la fecola ecc., si vanno man mano mu-
tando in glucosio, ma questi processi chimici diventano lentissimi ed
incompleti se l'acqua scarseggia.
Per ciò in molti locali del nostro Mezzodì la pratica dello spruz-
zare acqua sui grappoli può tornare di grande giovamento.
Senonchè come mandarla ad effetto nella grande coltura? È cosa
quasi impossibile, come notavamo nel precedente naragrafo.
Riepilogando adunque diremo: 1°) che la crepatura degli acini non
avviene per eccedenza di umore assorbito dalle radici, ma per troppa
acqua entrata per endosmosi direttamente nell'acino; 2°) che si può
trarre profìtto di questo fenomeno fisico per aiutare la maturanza di
certe uve in quei paesi del mezzodì ove Y umido scarseggia quasi
ogni anno; 3°) infine che il viticultore poco o nulla può fare per
impedire la crepatura degli acini negli anni molto piovosi: solo il
conservare alle viti tutto il loro fogliame potrà giovare a riparare
alquanto i grappoli ed a smaltire per evaporazione una parte del-
l'eccessivo umidore.
§ 3. La maturazione dell' uva ed il sistema di cultura
della vite. — I sistemi di tenere la vite si possono riunire tutti
quanti in due grandi categorie; sistema basso e sistema alto. Ora, è
egli vero che la maturazione dell'uva si compie in modo soddisfa-
cente soltanto nelle viti tenute basse? È egli vero che le viti alte
danno sempre vini aspri di poco pregio ?
Questa è certo l'opinione generale, ed è opinione antichissima. Nar-
rasi che Cìnea (279 anni a. C.) ambasciatore di Pirro presso i Ro-
mani, abituato agli eccellenti vini della Grecia d'allora, quando la
prima volta bevette in Italia il vino delle viti maritate agli alberi,
esclamasse: « meritava bene di essere appesa a forca così alta la
madre di tanto cattivo figlio! » E moltissimi autori antichi e mo-
derni non espressero un giudizio differente sui vini delle viti alte.
Ma può così affermarsi in termini assoluti?
Il quesito è assai importante e dobbiamo studiarlo quanto meglio
ci riescirà possibile: chi lo propose pel primo fu il Prof. 0. Ci-
614 CAPITOLO XXI
nelli (1) il quale volle studiare la maturazione dell'uva anche nelle
viti maritate agli alberi, facendo opportuni confronti colle stesse va-
rietà tenute basse, in identiche condizioni di clima e di suolo. Dai
molti dati raccolti dal Cinelli risulta anzitutto che l'uva dei vitigni
bassi dà più mosto di quelli alti: questo lo constatiamo noi pure da
dieci anni a questa parte sulle nostre viti ad alberello della varietà
Barbera. Il Cinelli lo constatava sulle varietà Aleatico, Pignolo,
Picciol rosso e Cariatolo di Sinalunga (Siena); senonchè li stessi
vitigni coltivati alti, (da lm,80 a 2m90) diedero uva più zuccherina
di quelli posti scrupolosamente nelle stesse condizioni ma coltivati
bassi (0m70 a 0m80) il che parrà molto strano, poiché quasi tutti
gli autori affermano che le viti basse sono quelle che producono le
uve più zuccherine. Convien però dire, per essere esatti, che quella
differenza non si riscontrò nel Canaiolo, poiché tanto le viti basse
(0m,65) quanto quelle alte (lm80) accusarono nei loro mosti la stessa
densità al gleucometro Guvot (13); intanto però ciò proverebbe che
per avere uva bene matura non è sempre indispensabile educare
bassa la vite.
Ma il Cinelli giustamente non volle arrestarsi a questo solo espe-
rimento; egli ne istituì altri e raccolse molti dati, dai quali gli ri-
sultò provato anzitutto, che in effetto le viti basse danno più mosto
delle viti alte, cioè in altri termini, che gli acini ingrossano di più,
la qual cosa a noi pare fuori di contestazione, avendone ogni anno
sotto gli occhi la prova palmare: — gli risultò pure che le viti alte
possono dare mosto tanto zuccherino, e talora anche più zuccherino,
delle viti basse, e con uguale o minore acidità: — infine, che in piano
la vite alta dà più zucchero di quella bassa. Quest' ultima conclu-
sione non si deve però prendere in senso troppo assoluto né generale,
perchè non suffragata da un sufficiente numero di osservazioni (2);
solo si potrebbe dire che taluni vitigni se coltivati in pianura, danno
uva più zuccherina quando siano educati alti, che non se tenuti a
basso ceppo.
(1) V. l'eccellente libro « Quanto costa Uuva ed il vino? » Roma 1872 —
Tip. Centenari (pag. 402).
(2) Solo quattro sono quelle fatte dal Prof. Cinelli; ma in due di esse la diffe-
renza fra le viti alte e basse coltivate al piano è troppo tenue per poterne tenere
calcolo: così, in quelle del Chianti (Ricasoli) fatte sul vitigno Canaiolo troviamo:
viti alte 18,07 0[Q di zucchero — viti basse 17,73 — ed in quelle di Asciano
(Bargagli) fatte sul vitigno Procanico, troviamo: viti alte 20,83 Ouj — viti basse 20,40.
L'UVA 615
Giustamente conclude il Cinelli che vi sono vitigni i quali tenuti
bassi non danno un prodotto più ricco di principio dolce, mentre però,
e questo è incontestabile, altri ve ne sono che per darlo tale deb-
bono tenersi bassi. Ma nemmeno ciò è assoluto; perchè vi sono vi-
tigni i quali in determinate circostanze di terreno di clima e di cul-
tura danno uve più zuccherine se tenuti alti, mentre in condizioni
diverse è preferibile tenerli bassi per ottenere una maggior quantità
di glucosio nell'uva.
Adunque non è soltanto il sistema di educazione della vite che
influisce sulla maggiore o minore ricchezza in glucosio; la varietà
del vitigno e le condizioni locali esercitano esse pure una marcatis-
sima influenza. Negli strati atmosferici più prossimi al suolo la tem-
peratura è maggiore che non in quelli più alti, ed a pag. 264 ve-
demmo che già fra 0m,50 e lm,50 dal terreno, vi può essere in luglio
ed agosto una differenza di circa due gradi; è quindi evidente che
nei paesi nordici, là dove si coltivano vitigni tardivi (il che è molto
importante per ovviare ai danni delle brine) converrà tenere le viti
basse, acciò le uve si trovino in un ambiente più caldo e maturino
meglio. È un fatto notorio che le viti maritate agli alberi dell'Italia
superiore danno, fatte ben poche eccezioni, uve ricche ad esuberanza
di acidi vegetali e però vini asprissimi: invece gli oramai numero-
sissimi vigneti bassi producono vini squisiti per armonia di compo-
nenti.
Ma in condizioni opposte può convenire di alzare le uve, edu-
cando alta la vite, specialmente se così richiede l'indole del vitigno:
la Toscana ce ne porge un esempio luminoso, colle sue viti gene-
ralmente maritate ad alberi, le quali producono squisiti vini, forse i
migliori vini da pasto d'Italia.
D'altra parte non è solo il calore che provoca la formazione del
glucosio; a pag. 237 dicemmo lungamente dalla influenza energica
che esercita la luce, e vedemmo anzi che entro certi limiti essa può
supplire alla deficienza di calore (pag. 259). Ora, il fogliame delle
viti alte gode forse dell' influenza della luce solare in minor grado
di quello delle viti basse? Se i tutori sono molto fronzuti e molto
vicini, senza dubbio vi ha un ombreggiamento; in caso diverso non
vi ha differenza fra i due sistemi, e perciò nulla vi ha di strano se
le uve possono maturare bene anche su viti alte; diremo anzi di più.
La minor temperatura di cui godono le uve alte può sino ad un
certo punto favorire nelle foglie il lavoro della clorofilla (e quindi la
616 CAPITOLO XXI
formazione dell'amido e quella successiva del glucosio) specialmente
nei paesi molto caldi; queste formazioni sono massime a 35° C, ma
spingendosi oltre la temperatura, incominciano a declinare (pag. 158,
261) con discapito nella maturazione dell'uva. Ciò è tanto vero che
in alcuni paesi meridionali, a Lipari ad esempio, nelle annate di ec-
cessivo calore si ombreggiano artificialmente le viti (pag. 345) per
favorire la maturazione dei grappoli.
Infine, oltre al calore ed alla luce influisce pure grandemente sulla
più o meno perfetta maturanza dell'uva, la quantità di umido che
trovasi a disposizione della pianta: le viti alte hanno duopo d' una
quantità di umido maggiore che non le viti basse, perchè in queste
ultime è notevolmente minore il percorso del succo dalle radici ai
grappoli; ma nei paesi meridionali l'umido è spesso deficiente e questo
spiega come le viti alte, sui pioppi di Napoli, generalmente maturino
circa venti giorni dopo le viti basse di Casalmonferrato e come in
generale le uve di viti alte si vendemmiino più tardi di quelle delle
viti basse, anche se quelle sono in climi meridionali e queste in climi
settentrionali.
Riassumendo queste considerazioni, a noi pare che si possa con-
chiudere:
1°) Che il sistema di tenere la vite maritata agli alberi non co-
stituisce sempre, cioè con ogni vitigno ed in ogni circostanza di clima
e di suolo, un ostacolo alla maturazione perfetta delle uve;
2°) Che in alcune circostanze è preferibile la vite alta alla vite
bassa;
3°) Che nelle viti alte la maturanza ritarda alquanto, ma si
compie bene nei climi mediani e meridionali d'Italia.
4°) Che infine nei climi settentrionali, le viti alte danno uve in
cui eccede la proporzione degli acidi vegetali.
§ 4. La vendemmia: quando convenga anticiparla e quando
ritardarla. — La vendemmia è operazione di grande importanza
e giustamente è stato detto che essa fa il vino ; infatti il saper co-
gliere le uve nei momenti più opportuni ed il sapere fare la cernita
e la mondatura, esercitano una influenza marcatissima sul futuro
vino; diremo anzi che la grande fama cui sono saliti certi vini, de-
vesi sovratutto al modo cpn cui si sogliono vendemmiare le uve.
Abbiamo già detto a pag. 608 che possibilmente si deve vendem-
miare nelle ore più calde del giorno, ed abbiamo anche accennato
L'UVA 617
all'influenza della rugiada sul grado gleucometrico, che diminuisce
se quella è abbondante.
Soggiungeremo qui che talvolta potremo tuttavia giovarci di questa
diminuzione, e ciò sarà quando, in paesi molto caldi, avremo uve
troppo zuccherine: cogliendole allora quando sono ricoperte dalla
guazza, avremo un adacquamento naturale del mosto, utilissimo per
rendere il mosto meno denso, meglio disposto ad una regolare e com-
pleta fermentazione alcoolica, e più atto alla fabbricazione del vino da
pasto. In alcune esposizioni a solatìo dell'estremo Sud e della Sicil'a,
converrà appunto cogliere le uve in questo stato, anziché levi il
sole. Negli altri casi la vendemmia deve farsi sempre in tempo se-
reno e secco, e con uve asciutte.
Se poi il tempo è piovoso, sarà miglior partito quello di atten-
dere i giorni di bel tempo, che non mancano mai in autunno: er-
rano infatti coloro che tanto più s'affrettano a vendemmiare quanto
più il tempo ècatt ivo: vuol dire che per inesorabile conseguenza,
tanto più cattivo sarà il vino che fabbricheranno.
Non converrà neppure di vendemmiare subito dopo un abbassa-
mento sensibile di temperatura : in tal caso si avrebbe un mosto
freddo, che tarderebbe di soverchio a fermentare.
Fa poi mestieri separare, per quanto è possibile, le uve acerbe,
o comunque guaste, dalle sane: noi usiamo raccogliere anzitutto le
uve rosse mature, non aromatiche, poiché queste (ad esempio la mal-
vasia nera) non varrebbero ad altro che a rovinare col loro aroma
il nostro vino da pasto ; dopo raccogliamo tutte le bianche da ta-
vola o da vini fini; indi quelle aromatiche che danno vini speciali
(Brachetto, Malvasia, Aleatico, ecc.) ; infine le acerbe o guaste dalla
grandine, o dalla crittogama, o dalla muffa, oppure secche od infra-
cidite, o beccate dagli uccelli ; con esse facciamo pur tuttavia un
vinetto discreto.
Questa vendemmia divisa in varie parti è una pratica della più
alta importanza: nel 1872 volemmo cogliere colle uve solite per vini
da pasto anche la Malvasia nera, e ne ebbimo un vino aromatico e
però non degno di entrare nella categoria dei veri vini da pasteggio.
Dal 1873 in poi abbiamo fatto le suddette suddivisioni e ce ne siamo
sempre trovati molto soddisfatti.
Alcuni usano ritardare la vendemmia per certe varietà, nella cer-
tezza di raccogliere uve più ricche in glucosio. Essi s' ingannano
moltissimo. Vi sono dei vizzati che danno per natura uve poco
6Ì8 CAPITOLO XXI
ricche in zucchero: ora, giunte codeste uve ad un certo punto della
loro maturità — il maximum — esse incominciano a perdere in
glucosio, come accade delle uve appassite, in acidi, in sostanze al-
buminoidi e via dicendo. Ciò proverebbe che veramente nel frutto
dopo la maturità avviene una vera fermentazione alcoolica.
Colla scorta del gleucometro il viticultore potrà agevolmente sco-
prire questo massimo di maturità e prevenire cotali diminuzioni.
Si badi inoltre a non ammostare le uve nelle vigne, cioè a non
comprimerle nei recipienti mercè i quali si fa la vendemmia. Con
siffatte uve rotte, e poste necessariamente al contatto dell' aria,
non si fa mai vino serbevole se si vendemmia entro grossi
recipienti. Infatti, siccome in questo caso si richiede un certo tempo
prima che cotali recipienti siano riempiti e pronti quindi ad essere
trasportati al pigiatoio, avviene che quelle uve rotte e già un poco
ammostate, incominciano ad entrare in fermentazione, locchè è assai
pericoloso. Certo che se la cantina è molto prossima alla vigna, e
se i vendemmiatori scaricano le uve entro piccole bigoncie che pre-
sto si vanno a vuotare nelle pigiatrici, non v' ha poi tutto codesto
pericolo.
In ogni caso se le uve sono di soverchio riscaldate dal sole ed
in tale stato si pongono nei tini, avviene che la fermentazione pro-
cede soverchiamente gagliarda, e ad una temperatura troppo alta il
vino può riuscire a male se la cosa eccede veramente ; in caso con-
trario si farà pur tuttavia un vino più austero e generoso che non
delicato e atto al pasteggio.
Infine si dispongano bene i vendemmiatori o le vendemmiatrici, in
guisa che il lavoro sia continuo e ordinato : la divisione del lavoro
sarà qui, come in tutte le faccende agrarie, ottima cosa.
Una parte — la maggiore — degli operai attenderà a raccogliere
le uve : gli operai saranno armati di forbici e provvisti di cesti ;
prima di deporre un grappolo nel cestello baderanno che non abbia
qualche parte guasta; se ciò è, la taglieranno facendola cadere in
panieri succursali (1). L'altra parte di operai attenderà a prendere
dalle mani dei veri vendemmiatori i cesti ripieni d' uva, dandone
per concambio dei vuoti ; i pieni si porteranno a due a due sulla
spalla (come si usa in piemonte) ponendoli a cavalcioni, pel manico,
ad un grosso bastone : così si andranno a versare in grossi reci-
(1) Con queste uve di scarto si farà vino secondario.
V UVA 610
pienti collocati ai lati della vigna. Questi recipienti (bigoncii, grossi
mastelli, tini bassi, ecc.) sono collocati sopra un carro: pieni che
siano, si conducono, da altri operai, al pigiatolo.
Del resto non è qui il caso di dilungarsi molto sulla parte ma-
nuale della raccolta delle uve, poiché il viticultore, per poco avve-
duto che sia, sa benissimo ordinare una buona vendemmia, ovviando
a che si sprechi tempo e si raccolgano, colle buone, le uve cattive.
Vediamo piuttosto se convenga in ogni caso ritardare la vendem-
mia, come taluni consigliano. Siamo tutti d'accordo che l'uva deve
vendemmiarsi precisamente quando è matura, cioè quando il grado
gleucometrico più non aumenta, poiché se si oltrepassa questo punto,
lo zucchero diminuisce; è perciò un errore quello di credere che quanto
più si ritarda a cogliere le uve tanto più aumenta questo grado.
Vi ha, per ogni vitigno, un limite, raggiunto il quale il viticultore
non può fare più nulla per migliorare il prodotto, e deve vendem-
miare se vuol produrre vini alcoolici e serbevoli, e sovratutto se
vuol produrre vini da pasto. Tuttavia da un esame da noi fatto (1)
sul momento in cui si suole vendemmiare nelle differenti regioni
d'Italia, deducesi che in generale si ha troppa fretta nel vendem-
miare, e che sarebbe molto utile ritardare di circa 8 a 10 giorni.
Conviene sovratutto ritardare la vendemmia delle viti maritate agli
alberi, nei paesi caldi, per permettere che affluisca ai grappoli una
quantità d' acqua sufficiente, e nei paesi temperati acciò essi possano
godere per più lungo tempo del calore necessario alla maturazione.
Spesso converrà pure ritardare la vendemmia negli autunni piovosi,
per attendere le giornate serene che generalmente non mancano in
quei mesi dell'anno, come or'ora avvertimmo.
Invece converrà anticiparla in quei paesi ove per circostanze ec-
cezionalmente favorevoli la maturazione si fa tanto perfetta che i
mosti, soverchiamente sciropposi, fermentano stentatamente e produ-
cono vini dolciastri e cagionevoli: in simili casi se non si anticipa entro
giusti limiti la raccolta dell'uva, è impossibile fabbricare vini da pasto
quali la grande consumuzione richiede. Nella nostra opera sulla Eno-
logia (pag. 153) abbiamo lungamente ragionato intorno a questo grave
soggetto, onde rimandiamo colà il lettore, perchè l'argomento è piut-
(1) Veggansi i molti dettagli che si trovano nella nostra opera Enologia teo-
rico-pratica p. 147.
620 CAPITOLO XXI
tosto enologico che viticolo. Converrà pure vendemmiare con qualche
anticipazione le uve invase dalla crittogama, perchè quando le uve
incominciano a maturare, V oidio sospende momentaneamente i suoi
attacchi per riprenderli con vigore non appena l'uva abbia raggiunto
la maturità, il che abbiamo constatato nuovamente nell'autunno del
1883: è perciò necessario raccoglierle nel momento di tregua della
malattia. Infine si anticipi la vendemmia dei vigneti di terre molto
feraci, peggio se umide, la cui uva è soggetta a marcire con faci-
lità ed a coprirsi di muffa: è sempre preferibile un'uva sana an-
che poco matura, che può correggersi collo zuccheraggio, a quella
fradicia, da cui non è possibile ricavare alcun partito.
§ 5. Il bando della vendemmia. — Tanto in Italia come in
Francia, in parecchie regioni, non è lecito vendemmiare quando più
piace al viticultore, perchè vi sono i bandi che lo vietano. Questi
bandi hanno ancora dei partigiani; eppure noi siamo intimamente
persuasi, dopo un maturo studio della quistione, che anche nelle con-
dizioni attuali dell'enologia italiana e del nostro commercio vinicolo,
nulla vi sia di più illogico e di meno efficace del bando delle ven-
demmie. Si spera con esso di porre un freno alla produzione dei vini
d'uva poco matura, i quali dopo tutto se non sono per nulla pregiati,
non sono però pregiudizievoli all'igiene pubblica, come si credette e
si disse da alcuni zelanti economisti di quella scuola che ancora non
sa darsi pace per la liberale sentenza dello Smith « lasciate fare
lasciale passare ». Ma non si dubiti, che l'esperienza ed il bisogno
faranno assai più di quanto non abbiano sin'ora fatto i bandi; nelle
condizioni economiche attuali e future dell' enologia italiana nessun
viticultore sarà tanto poco accorto da vendemmiare fuor di tempo
le sue uve colla certezza di ottenere un vino deprezzato, perchè
mediocre, e quindi colla certezza di rimetterci un tanto ogni
anno.
Ma non sono soltanto queste le ragioni per cui, a simiglianza del
Médoc (Bordolese) e di varie provincie italiane, si dovrebbe in tutta
la nostra penisola lasciar libero il momento delle vendemmie: noi
crederemmo di poter accennare alle altre seguenti, che ci paiono
gravissime:
1°) La grande promiscuità dei ceppi nei nostri vigneti rende
sommamente dannoso il bando delle vendemmie, il quale suppone ab-
biano tutte le us- e a maturare nello stesso momento o poco meno;
L' UVA 621
2°) Vi sono circostanze speciali (e spesso v' ha la reale neces-
sità) in cui è bene anticipare la raccolta delle uve;
3°) Non si può impedire ad ogni agricoltore di valersi a suo
talento e quando meglio gli accomoda del prodotto de' suoi campi
senza offendere gravemente la libertà individuale;
4°) Spesso accade che ritardando la vendemmia per ordine del-
l'autorità municipale, le uve si guastino gravemente, appunto in quei
vigneti che esigono una vendemmia più precoce che non gli altri
del Comune; in tal caso il Municipio dovrebbe risarcire il viticul-
tore dei danni sofferti, — ma ciò non è;
5°) La legge comunale (e neppure il tante volte citato articolo
104 di essa, che si riferisce all'igiene pubblica, ecc.) non dà ad un
Comune il diritto di emanare così fatti bandi, poiché se ciò fosse
stato nel pensiero del legista, la legge avrebbe sentenziato in modo
tassativo essere l'uso del vino di uve immature, come 1' uso degli
alcool ecc. dannevole alla salute, locchè non fu fatto; quindi a voler
essere logici dovrebbero quei Municipii, che fissano le vendemmie, pro-
scrivere altresì la vendita degli spiriti, che sono immensamente più
pericolosi dell'innocuo vino acerbo;
6°) Infine, siccome l'art. 2 della legge 14 luglio 1852 ed il 13mo
della legge 14 luglio 1864 accordano ai proprietarii colpiti da in-
fortunii atmosferici, la remissione della loro imposta, e siccome esi-
stono sentenze di Corti d'Appello, le quali ammisero che sotto l'ap-
pellativo generale d' infortunii atmosferici si debbano comprendere
tutti quegli accidenti straordmarii che devastano i frutti o disperdono
porzione degli alberi (1), così ci pare che anche il Municipio, il quale
con un suo bando della vendemmia manda alla malora il prodotto
d'un vigneto, dovrebbe essere tenuto a rifare il viticultore per si-
mili danni patiti.
(1) Corte d'Appello di Cagliari: sentenza 11 settembre 1870. Anche rirruzione
delle cavallette si ritenne compresa fra simili infortunii.
CAPITOLO XXII
Sistemi speciali di educare la vite bassa.
§ 1. Qual' è il miglior sistema di educare la vite? — §2. Classificazione dei si-
stemi in uso — § 3. Sistema latino secondo Columella — § 4. Sistema ad al-
berello: modificazione Ottavi — § 5. Sistema ad ombrello — § 6. Sistema a
connocchia — §7. Sistema a capo annoccato — § 8. Sistema a piramide —
§ 9. Sistema casalese e siciliano — § 10. Sistema Guyot; modificazioni Boschiero
e Panizzardi — §11. Sistema Vannuccini — § 12. Sistema Cazenave-Marcon —
§ 13. Sistemi avellinesi — § 14. Sistemi del suburbio di Roma — § 15. Si-
stema di Hooinbrenck a tralci inclinati — § 16. Sistema Aubry o ad S. —
Sistema a cavatappi — § 17. Sistemi di Stradella e Broni — § 18. Sistema
di Asti — § 19. Educazione a tralcio lungo per le pianure, sistema Bisinotto —
§ 20. Coltura della vite nelle dune — § 21. Coltura delle viti eri chaìntres.
§ 1. Qual'è il miglior sistema di educare la vite? — Non
tutti i sistemi di viticoltura sono buoni, cioè razionali e consentanei
alle leggi naturali che governano la vegetazione e la fruttificazione
delle viti; non si può tuttavia dichiarare che un dato sistema, fra quelli
razionali, sia superiore agli altri tutti, e debba solo adottarsi. Le dif-
ferenti condizioni di suolo e di clima in cui può coltivarsi la vite,
nonché le varie esigenze commerciali, fanno sì che fra i quattro o
cinque sistemi razionali che si conoscono, sia opportuno scegliere or
questo or queir altro, a seconda di quelle condizioni medesime. E
poiché abbiamo parlato di esigenze commerciali, diremo che se da
una data regione si pretendono piuttosto vini di lusso che vini da
pasto di grande commercio, dovrà scegliersi un sistema di coltura
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 623
diverso da quello necessario per la grande produzione dei vini usuali.
In quesf ultimo caso — che è il caso più generale, perchè il 90
per 0[o dei viticultori italiani ha sovratutto interesse a produrre
vini da pasto e da commercio — il miglior sistema di viticoltura
è quello che permette di risolvere il problema della produzione
a buon mercato e copiosa, per poter quindi esitare il vino a
prezzi moderati. Infatti oramai pel viticultore torna assai più fa-
cile realizzare vistosi guadagni vendendo molto a buon mercato, che
non vendendo poco ad alti prezzi; sono i vini di grande consuma-
zione che sono quotidianamente ricercati in molta copia, mentre i
vini scelti possono solo offrirsi al ricco che non bada alla spesa. In
generale bisogna produrre vini di gusto franco e di bel colore vi-
vace, da potersi esitare da 30 a 40 lire l'ettolitro, secondo la qua-
lità; con simili vini è impossibile che la merce resti lungo tempo
invenduta in cantina. La vite specializzata, allevata ad alberello,
o col sistema monferrino, o col sistema a piramide, o collo scansa-
nese può produrre senza sforzi 50 ettolitri di vino ad ettare, con
una spesa di circa 800 lire, compreso il fitto del suolo, e supposta
una concimazione triennale del costo di 300 lire (100 annuali); ma
supponendo anche che, per la scarsezza della mano d'opera, la spesa
tocchi le 1000 lire, nondimeno si produrrebbe pur sempre l'ettolitro
di vino a 20 lire. Ora, esso si venderebbe poi facilmente almeno a 30,
tocche rappresenterebbe un beneficio netto di 500 lire ad ettare. In
questi calcoli non vi è nulla di esagerato, poiché un ettare a vigna
specializzata può rendere più di 50 ettolitri, se i vitigni sono fertili,
già al* 6° o 7° anno.
Concluderemo dicendo, che in tesi generale è sempre da racco-
mandarsi quel sistema di viticoltura il quale mentre permette
alla vite di produrre abbondantemente senza grave scapito della
sua longevità e della, qualità del prodotto, non richiede, d'altra
parte, esorbitanti spese di mano d' opera, e permette la buona
e facile esecuzione dei lavori del suolo, specialmente cogli ani-
mali, se si tratta di vigneti di qualche estensione.
Ma, qualunque sia il sistema adottato, noi crediamo" che la vite
debba, salvo pochi casi speciali, coltivarsi intensivamente. La viti-
coltura intensiva è quella che cerca di ottenere un grande prodotto
di uva da una superficie piccola o mediocre, e ciò senza discapito
nella qualità del prodotto stesso; invece la viticoltura estensiva è
624 CAPITOLO XXII
quella per cui si coltivano grandi estensioni di terreno, acconten-
tandosi d' un prodotto anche mediocre. Quale dei due sistemi è il
preferibile? È questa una quistione di pura economia rurale, che si
risolve colla contabilità. Se lo spazio non ci facesse difetto citeremmo
qui molti dati, tolti a casi pratici, dai quali risulterebbe evidente che
la viticoltura intensiva è la più proficua; della qual cosa sono
del resto persuasi tutti i viticultari di qualche levatura, parecchi dei
quali hanno venduto un terzo od una metà delle loro vaste terre
vitate, per coltivare meglio i due terzi o la metà rimanenti. Non
potendo occupare molte pagine a citare i suddetti dati, ci limiteremo
a riassumerne alcuni:
a) La coltivazione d' un vigneto dell' estensione di 30 ettari,
costa circa 800 lire ad ettare, compreso il fìtto e supposta una con-
cimazione triennale: in totale son dunque L. 24,000. Ma il prodotto non
può essere molto elevato, perchè la vite, per produrre molto, richiede
minute cure, e queste le mancano in gran parte nella coltura esten-
siva, non foss' altro perchè lo stesso proprietario non può esercitare
su tutto il vigneto quella sorveglianza che è necessaria, anzi indi-
spensabile. Il prodotto adunque si deve valutare in media a 40 et
tolitri ad ettare, i quali venduti a L. 25 danno un reddito lordo di
L. 1000 ad ettare: in totale L. 30,000. Il benefìcio netto sarebbe
di L. 6000.
b) Invece la coltivazione d'un vigneto dell'estensione di soli 10
ettari, costerebbe (a L. 800 per ettare) L. 8000. Ma il prodotto sa-
rebbe almeno doppio, per le ragioni sovra esposte e come accade
realmente in pratica, cioè 80 ettolitri di vino, che a L. 25 danno
L. 2000 ad ettare, ed in totale L. 20,000 di reddito lordo. Il be-
neficio netto sarebbe allora di L. 12,000.
Per quanto si vogliano ridurre questi ultimi calcoli, facendo
scendere il prodotto netto dalle 12 mila alle 10 mila lire, od anche
alle 8 mila (locchè sarebbe contro i risultati dell'esperienza di pro-
vetti viticultori) rimane sempre dimostrato in modo palmare che la
vite, pianta che esige minute cure di coltivazione, deve colti-
varsi intensivamente se si vuol produrre molto ed a buon mer-
cato. Infatti nel primo caso la produzione di un ettolitro di vino co-
sterebbe L. 20, e nel secondo caso sole L. 10: in quest'ultimo caso,
per quanto i prezzi del vino ribassino, la coltivazione non si farebbe
mai perdente.
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 625
§ 2. Classificazione dei sistemi in uso. — La vite si mostra
cotanto docile nelle mani del potatore, che le vennero inflitte le più
strane forme, alte, basse, bassissime, ad ombrello, a connocchia, a
cavatappi, ad s, ecc. ecc. d' onde gli svariatissimi sistemi di educa-
zione oggi in uso a seconda delle differenti condizioni di clima, di
terreno, di situazione e di vitigno, nonché a seconda dei prodotti che
si vogliono ottenere, se cioè uve da vino comune, da vino scelto
oppure uve da tavola e via dicendo.
Tutti questi sistemi si possono però suddividere in due grandi ca-
tegorie: viti basse e viti alte; queste poi danno luogo ad altre sud-
divisioni, le quali crediamo si possano raggruppare nel modo se-
guente:
( senza sostegni
,7... 1+ ( a potatura corta )
Vltl alte (con sostegni
(ceppaia corta) | a potatura lunga
Viti basse [maritate a tutori
(ceppaia lunga) \a pergoMi
morti
Descriveremo nei paragrafi seguenti alcuni fra questi sistemi di
educare la vite.
§ 3. Sistema latino secondo Colnmella. — Si odono così
spesso citare, dagli studiosi di viticoltura, i precetti dell' eminente
agronomo latino, che vogliamo, prima di descrivere i sistemi mo-
derni, esaminarli colla scorta d'un antico libro molto attendibile (1)
e che abbiamo già ricordato nelle pagine precedenti.
Premetteremo che i Romani antichi avevano essi pure varii si-
stemi di educare le viti, cioè ad alberello senza sostegni, a caval-
letto o giogo semplice, a paliccìata colle canne, e striscianti cioè
distese a terra (2). Le viti senza sostegni ricevevano una canna nei
(1) Il Agricoltura di Lucio Giunio Moderato Columella, volgarizzata da Bene-
detto Del Bene. È questa forse la migliore traduzione del prezioso libro del dotto
agrofilo Columella, che superò Catone e Varrone e che fece le spese di tanti
altri scrittori, che lo seguirono e se ne appropriarono i precetti.
(2) Columella (op. cit. p. 253) dice « 1' ultima foggia è delle viti distese per
terra, le quali dalla pianta, sì tosto che è nata, come gittate innanzi, si allun-
gano sopra il suolo. » Si direbbe che da questo sistema siano venute le viti en
chaintres (v. § 21).
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 41
626 CAPITOLO XXII
primi anni; poi, rinforzatosi il ceppo, si levava il tutore e si pota-
vano le viti o a capitozza, o a speroni, generalmente in numero
di quattro. Nel rimanente il metodo di cultura non differiva da quello
seguito per gli altri sistemi; Plinio Secondo infatti dice (1) « il
sistema delle viti tenute ritte di per sé, non differisce per nulla da
quello delle viti con un sol palo piantato al piede; imperocché solo
per la scarsezza dei pali non si mette anche ad esse il sostegno. »
Ma torniamo ai precetti di Columella.
Columella adunque vorrebbe anzitutto che la vigna fosse piantata
in terreno piuttosto sciolto, ben prosciugato e non troppo fertile;
consiglia quindi ogni viticultore a farsi il suo vivaio mediante talee
piantate in un appezzamento di terreno non troppo fertile, massime
dovendo trapiantare poi le barbatelle in vigneto a sua volta poco
fertile, perchè, dice il nostro autore, « è da coltivatore avveduto il
trapiantare da terreno meno buono in terreno migliore ». Però egli,
dicendo terra non troppo fertile, non intende già di dire terra magra
e sterile del tutto; anzi la sconsiglia chiaramente, perchè allora i
ma§lioli periscono in gran parte, e raccomanda invece uno scasso
profondo fatto colla vanga, per favorire la formazione d' un ampio
sistema radicale della barbatella. I maglioli si debbono prendere solo
da pianta robusta e ferace, e devono essere veri maglioli, cioè col
loro pezzetto di vecchio ad una estremità a guisa di martello, d'onde
appunto malleus (martello) e malleolus (magliolo, cioè martellino).
Columella è un po' contrario — pel piantamento della vigna —
ai maglioli, e consiglia invece le barbatelle, perchè rappigliano più
facilmente, e danno frutti prima: egli tollera il magliolo solo in terre
« maneggevoli e sciolte ». — Quanto qui dice Columella è giusto,
ma è pure esatto di dire che i maglioli e le talee danno viti più
longeve e robuste; e se non fosse per il rappigliamento loro, che è
spesso troppo scarso, sarebbero preferite dai viticultori, laddove ora
accade il contrario, e tutti vogliono barbatelle.
Columella raccomanda poi il piantamento alquanto profondo, ma
egli parla sovratutto di terreni soffici in clima caldo, e noi sappiamo
che ancora oggidì nei dintorni di Napoli, in quei terreni lapillari, i
maglioli si spingono anche oltre 1 metro e 1{2 di profondità: nelle
terre compatte però la cosa muta aspetto, massime nei climi freschi,
ove non conviene scendere oltre a 25 o 30 cent.
(1) La vigna latina (trad. di L. Recchia) pag. 17.
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 627
Il nostro autore latino insiste poi sulla necessità di zappare fre-
quentemente il vigneto « così da ridurre in polvere il divelto » e
di far la guerra alle erbe parassite e « le gramigne principalmente »
che egli consiglia di cogliere a mano, altrimenti si ravviverebbero.
Alle giovani piantine egli consiglia di allevare solo due pampini,
togliendo il restante siccome superfluo (1); quando poi questi ram-
polli si saranno induriti e se si possa fare a fidanza con uno solo
di essi, si sopprima l'altro: ciò accadrà al secondo anno.
Nell'autunno, dice Columella, e precisamente sul finire dell'ottobre,
conviene scalzare la vigna « il qual lavoro mostra scoperte le bar-
boline che essa nella state gittò; e queste dal saggio viticultore sono
col ferro troncate: conciossiachè s'ei lascia che si rassodino, vengono
meno le altre più basse, e ne segue che la vigna, presso la super-
ficie del suolo metta radici, le quali sieno e danneggiate dal freddo,
e ne' calori sommamente ribollano ed al nascere della Canicola fac-
ciano patire gagliarda sete alla madre ». Questo precetto di Colu-
mella è ancora seguito oggidì da varii viticultari, massimamente in
Sicilia e nei paesi caldi in genere; esso però non è del tutto sco-
nosciuto nell'Alta Italia, e l'abbiamo visto posto in pratica in Mon-
ferrato anche allo scopo di immagazzinare nel suolo in maggior copia
le acque piovane autunnali ed iberni: ai primi calori la vite scalzata
si rincalza. Columella raccomanda la scalzatura specialmente nei primi
cinque anni del piantamento della vite.
La prima potatura, secondo l'A. deve farsi solo a due gemme,
praticando un taglio obliquo nell' internodo, quasi frammezzo alla
2a gemma e la terza (che va soppressa col resto del tralcio); il taglio
obliquo egli lo consiglia giustamente acciò « la cicatrice non ritenga
l'acqua che dal cielo vi cadrà sopra » e lo vuole non inclinato dalla
parte ove sta l'occhio, ma a quella di dietro {in tergum) perchè
ove l'umore avesse a sgocciolare sovra 1' occhio, lo danneggerebbe.
In quanto alla stagione più propizia per potare, Columella dice che
la primavera è preferibile « dove è clima freddo », mentre è ottimo
(1) In ciò egli è contrario a Virgilio, a Saserma, agli Stoloni ed ai Catoni,
che dopo il primo anno del piantamento volevano non si potasse affatto la
pianticella, ma si lasciassero intatte tutte quante le cacciate: è chiaro che al
2° anno invece di avere due bei tralci fra cui scegliere per la potatura, si ha.
allora un fascio di getti meno belli, fra i quali la scelta non è sempre possi-
bile. Tuttavia non potando, si favorisce la formazione di un ampio sistema ra-
dicale, onde vi sono vantaggi in tutte e due i casi.
628
CAPITOLO XXII
l'autunno « dove i luoghi sono soleggiati e gli inverni miti »; ma
di questo precetto, al quale in massima sottoscriviamo noi pure, egli
non ci porge alcuna spiegazione, e non accenna al pianto della vite,
copioso quando si pota in primavera e che — nei climi umidi —
può salvare molti fiori dall' aborto (francesamente colatura). Ma
andiam oltre.
Nel quarto autunno la vite si deve potare a stella, come si vede
nella fìg. 198, ove si scorge anche il modo di sostegno detto
da Columella giogo e dai contadini d'allora, il cavalletto: il giogo
Fiff. 198.
era fatto o con pertiche (salcio, pruno, ecc.) o con fasci di canne;
i tralci frutticosi il nostro autore li voleva di tale lunghezza che
piegati e riversati sul giogo, non potessero toccare terra; il soprappiù
doveva quindi tagliarsi dal potatore: i tralci non dovevano essere
più di tre in questo anno ed il giogo più o meno alto secondo che
il terreno ed il clima erano più o meno umidi, perchè in questo caso,
alzando le viti da terra, il frutto si guasta meno, dice Columella:
egli poi soggiunge che « le viti danno il mosto di tanto miglior sa-
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 629
pore quanto su più alti gioghi elle corrono » la qual cosa espressa
in modo così esclusivo abbiamo già visto che è erronea (pag. 614).
Columella poi raccomandava che il tronco fosse tenuto ben diritto,
senza ricurvature e nodi, così da lasciar salire i succhi alimentari
« senza svoltatura né ostacolo », su di che ci riserviamo di ritor-
nare prossimamente: — nel sistema che il nostro autore descrive,
dal tronco partono tre o quattro braccia che si distendono pei quattro
lati del giogo, ed i polloni di queste braccia si piegano in basso, e
sono essi che recano i frutti.
Al quinto anno si procede analogamente: cioè il tronco si lascia
innalzare fin circa ad un piede di distanza dall'impalcatura del giogo;
quivi esso si divide in quattro braccia {induramenti) con ciascuna
un pollone da frutto: ma crescendo la vite negli anni, ogni braccio
può portare anche due polloni frutticosi, massime se il suolo è uber-
toso. Columella insiste perchè non si oltrepassi questo numero, cor-
rispondente ad 8 tralci frutticosi per pianta. Quando poi le braccia
ingrossano, si tagliano e si alleva al loro posto una nuova rimessa
del tronco potandola a 2 o 3 gemme, così da impedire che la pianta
si innalzi di troppo ed oltrepassi la impalcatura del giogo: questa
nuova rimessa Columella la chiama guardia o sussidiatore, e cor-
risponde ai nostri speroni che lasciamo appunto quando vogliamo
abbassare la vite.
La potatura verde (la scacchiatura cioè e la cimatura) era cono-
sciuta ai tempi di Columella.
Il vecchio agronomo è caldo partigiano della scacchiatura delle
viti, le quali egli vorrebbe avessero il loro tronco netto da ogni pol-
lone inutile, o, come diciamo noi, ghiottone: anzi egli vuole che questo
ripulimento incomincii dalle radici superficiali, ìocchè si pratica an-
cora oggidì nei dintorni di Roma ed in altri locali del nostro paese.
Nei paesi molto caldi queste radici superficiali soffrono assai il secco
estivo e^di rimando ne soffre molto la pianta stessa.
« Compita poi la cura per dir così dei piedi, si dee mirar intorno
alle gambe stesse ed a' tronchi (prosegue Columella) sicché né pol-
lone pampanaio nato fra mezzo, né tubercoletto simile a porro si
lasci, fuorché se la vite, gettatasi al disopra del giogo (fig. 198 pa-
gina 628) bramerà di essere richiamata dalla parte inferiore » la
qual cosa noi diciamo ora abbassare la vite. Ed altrove egli dice
che quando le viti si saranno vestite di frondi e d' uva si devono
levare colle mani i pampini sovrabbondanti e sterili, per « rassodare
630 CAPITOLO XXII
meglio i tralci che hanno frutti e soleggiare meglio le uve » e per
« far più spedita la potatura per l'anno vegnente ».
Come si vede Columella non vuole che la vite abbia a disperdere
il suo succo in quelle produzioni inutili che spesso ne ingombrano il
tronco, e questo aureo precetto dello scacchiare si applica special-
mente (come giustamente accenna in seguito lo stesso autore) a quelle
piante nelle quali l'umore non abbonda, vale a dire alle piante at-
tempate e come esaurite e spossate: in queste condizioni è bene,
anzi è necessario, evitare un soverchio frazionamento del succo in
polloni inutili, perchè infruttiferi, e conviene perciò praticare la scac-
chiatura, non solamente a vantaggio dei frutti pendenti, ma anche
a prò delle gemme ascellari in via di formazione, le quali ci debbono
dare la successiva vendemmia. Gli è appunto in vista di questo du-
plice ed importante scopo che parecchi nostri bravi viticultori non
limitano solo la scacchiatura ai getti che spuntano sul tronco delle
viti, ma la estendono a tutti quei polloni che non portano uva, ri-
spettando unicamente quelli (uno o due) che potrebbero giovare ad
abbassare la vecchia pianta.
Ed a proposito di vecchie piante, Columella, vuole, oltre la scac-
chiatura, lo scortecciamento e la ripulitura dei tronchi; « anche
la buccia secca e screpolata, dice egli, che pende dall'alto del tronco,
s'ha da scorzar fino al corpo; dacché la vite, come da sordi-
dezze sgombra, meglio si assoda e meno feccia porta nel vino. Il
musco poi, che a foggia di ceppi, legate comprime le gambe alle
viti, e col lezzo e col vecchiume le fa intristire, vuoisi sbrattar col
ferro, e raderlo via ».
Veniamo ora alla cimatura o svettatura. Columella dice che al-
lorquando i tralci a frutto sono cresciuti per una lunghezza suffi-
ciente, così da poter passare oltre al giogo (fig. 198 pag. 628) « si
debbono rompere le vette ond'essi si rinforzino piuttosto in grossezza
che assotigliarsi in lunghezza inutile ». Ed altrove soggiunge che
« lo spezzar le cime giova a frenare il rigoglio delle viti », il quale
rigoglio è contrario alla fruttificazione, mentre fa sperdere il succo
in una copiosa produzione erbacea. Come si vede anche le cimature
sono assai antiche, e raccomandate dal più dotto fra gli scrittori di
georgica dei tempi passati: di esse però non solo non conviene abu-
sare, ma è necessario praticarle a tempo debito e nei dovuti modi.
Se così avessero operato taluni moderni sperimentatori, non a-
vrebbero scritto cose cotanto assolute contro questa pratica viticola.
SISTEiMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 631
Infine Columella vuole anche la sfogliatura parziale delle viti per
favorire la maturanza dell' uva, massimamente « nei luoghi ombrosi
ed umidi e freddi » dove questa pratica giova ad impedire che « il
frutto infracidi »: però in luoghi molto caldi e soleggiati Columella
non vuole la sfogliatura, anzi consiglia di « coprire le uve coi pol-
loni » per impedire che i grappoli siano « bruciati » dal sole, locchè
noi ora diciamo scottatura. Ed anche in ciò l'autore latino concorda
cogli scrittori moderni.
Come si vede nulla vi ha di nuovo sotto il sole, e molti precetti
della moderna viticoltura anziché recenti sono antichissimi. Ne potrem-
mo avere altra prova esaminando quanto scrisse Plinio Secondo nel
libro XVII della sua Storia Naturale (1); bene a ragione scrisse
dunque Berti-Picliat che la viticoltura latina aveva raggiunto tale
grado di perfezione che le più celebrate pratiche odierne anche di
oltremonte, sono imitazione di quelle degli antichi Italiani!
§ 4. Sistema ad alberello: modificazione Ottavi. — Il
sistema ad alberello senza sostegni è specialmente adottato, da
tempi assai remoti, in Capitanata, nelle Puglie ed in altri locali
de\Y Italia Meridionale e delle Isole del Mediterraneo; perfeziona-
tosi poi; passò in Francia nelVHérauU; varii viticultori lo hanno anche
introdotto, in quest'ultimo ventennio, in Toscana, nell'Umbria, e nel-
l'alta Italia, ovunque con risultati ottimi. Per amor di brevità ci li-
miteremo qui a descrivere il sistema seguito in Capitanata.
Piantata la talea da dicembre a tutto gennaio, a circa un metro
di profondità, il che non può certo raccomandarsi, si pota ad un
solo occhio fuori terra; indi si zappa il suolo tre volte: in aprile, in
agosto ed in ottobre. In fine del primo anno si pota di nuovo ad un
occhio, ed al secondo anno si pratica la succisione (pag. 489) però
non sempre, il che è da lodarsi. Al terzo anno la vite si pota a due
gemme sopra un solo getto, ed allora essa incomincia a dare un po'
d'uva. Crescendo in vigore la vite si pota poi a due speroni frutti-
cosi (fìg. 199) e più tardi anche a quattro (fig. 200); ma se è poco
rigorosa, le si lascia uno sperone solo. Il tronco, cioè il ceppo, è
molto basso; generalmente è alto un palmo, e poscia succedono le
branche sulle quali l^sciansi i detti speroni. Tra novembre e febbraio
(1) C. Plini Secundi. Naturalis Historiae. Liber XVII. Traduzione di L. Recchia
Luciani (1881 — Altamura).
632
CAPITOLO XXII
si zappa scalzando un po' la ceppaia, in aprile si appiana il suolo:
il tutto si fa a mano, essendo le viti distanti 1 metro in tutti i sensi;
le piante però non vi sono molto vigorose. Ogni anno si tolgono i
rimessiticci o femminelle, se troppo numerosi, ma non si fanno ci-
mature, volendo col fogliame proteggere le uve sia dall'ardore estivo
Fig. 199.
Fig. 200.
sia dal favonio, che provoca l' essicamento degli acini. Essendo le
piante molto basse, è necessario impedire che le uve tocchino il ter-
reno; a tal uopo si pratica Va/fasciatura: giunta la fine di maggio,
cioè quando il giovine tralcio si è fatto legnoso e più non si rompe,
il vignaiuolo raccoglie sopra ogni ceppaia i tralci più lunghi e vi-
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
633
gorosi, e fa con essi un grosso nodo, come è indicato nelle fìg. 201
e 202. Questa affasciatura è nota anche nelle Puglie, nel Barese:
Fig. 201
Pig. 202.
mercè di essa, i tralci e le uve non toccano terra, e vi sono anche
riparati dai venti sciroccali. Noi l'abbiamo sperimentata sui colli di
Casalmonferrato, e con buon esito.
634 CAPITOLO XXII
Il prodotto medio ad ettare non supera in Capitanata i 30 etto-
litri di vino; ciò non è molto per vigneti specializzati come sono
quelli ora descritti. Inoltre le viti si fanno vecchie e quasi improdut-
tive al trentesimo anno, e ciò è la conseguenza del piantamento troppo
fitto, su di che abbiamo ragionato a lungo a pag. 427 e seguenti.
Alcuni innovatori intanto (1) da varii anni piantarono le viti a di-
stanze maggiori, ed ora se ne lodano molto.
Per amor di brevità non diremo ora della vite ad alberello quale si
coltiva in Francia, ma bensì della vera vite italiana secondo i perfe-
zionamenti di coltura posti in pratica al nostro podere viticolo, dal
Prof. Giuseppe Antonio Ottavi in quest' ultimo quindennio, con
brillantissimi risultati, e colla soddisfazione di vedere molti proseliti
in varie regioni della penisola.
Col sistema ad alberello si mira: 1° a concentrare la potenza frut-
tificatrice nelle gemme basso locate; 2° a lasciare alla vite uno sfogo
conveniente; 3° ad ottenere miglior uva in grande copia anche nelle
annate sfavorevoli; 4° a non pregiudicare con ciò la longevità della
pianta; 5° infine a realizzare una economia notevole nelle spese di
mano d1 opera. Descrivendo ora il sistema, si vedrà come si conse-
guiscano questi notevoli risultati, in base ai principii esposti in questo
libro.
La vite ad alberello deve piantarsi su scasso reale profondo in
media 50 centimetri, ma però ponendo le talee a non più di 0m,25
in novembre, incalzandole, o in maggio; meglio in novembre, perchè
chi pianta in autunno guadagna un anno. Le file debbono essere
distanti almeno 3 metri e le piante 1 metro o lm,50 al più tra di
esse; nell'interfilarc non si deve coltivare nulla. In aprile (o in giugno
quando si è piantato in primavera) le talee fìg. 203 germogliano
dalle due gemme: in questo primo anno non si devono assolutamente
toccare questi germogli (fìg. 204). Nel marzo o nell'aprile del secondo
anno si potano ad uno sperone con 4 gemme libere (2) come si vede
nella fig. 206 B: quando però la piantina è molto bella ed ha bisogno
(1) Ci piace ricordare qui il distinto agronomo sig. Leone Maury di Cerignola,
il quale vi dirige le grandi possessioni del Principe Larochefoucauld.
(2) Libere, cioè non tenendo calcolo di quelle della base dei tralci, se tali gemme
vi sono.
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
635
di maggior sfogo si possono lasciare 2 speroni, come nella fig. 205 A,
legandone uno al sostegno (canne o paletti). Al successivo maggio
Fig. 203.
Fig. 204.
Fig. 205.
Fig. 206.
si cima leggermente, come si vede nella fig. 207 in a ar: in agosto
si cimano le femminelle e la piantina prende l'aspetto della fig. 208 (1).
(1) Tutti questi disegui sono tolti dal vero (da una pianta di barbera in ve-
getazione normale, cioè fra le più belle del nostro vigneto il Cardello presso Ca-
salmonferrato).
636
CAPITOLO XXII
Cimando a questo modo si fecondano le gemme basso locate, come dìmo-
207.
Fig. 203.
strammo parlando della svettatura. Nell'aprile del terzo anno si pota a
3 o 4 speroni con ognuno 3 o 4 gemme, come si vede nella fig. 209
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
637
(per educare bene la giovine pianta è necessario sin dal secondo anno
legare al sostegno il giovine ceppo). Con quella potagione ricca la
vite mette fuori molti getti; a maggio, prima che la vite fiorisca, si
pratica la cimatura in tre tempi sui tralci frutticosi togliendo appena
le piccolissime punte dei germogli; questa cimatura fu descritta mi-
nutamente a pag. 495.
Fi- 209.
La scacchiatura non si deve praticare nelle vigne giovani e vi-
gorose se non dopo la fioritura, togliendo qualche germoglio. Le
femminelle si devono rispettare, cimandone solo alcune alla fine di
giugno, lasciando però intatta la più alto locata d'ogni germoglio,
perchè ciò contribuisce a far maturare bene e presto Y uva. Nella
primavera del quarto anno si potano le viti a 5 o 6 speroni con 3
gemme, lasciando però solo 2 gemme agli speroni più alto locati. Se
le viti sono robuste e si teme la mal' annata, si può, anzi si deve,
al quarto, quinto, sesto anno e via dicendo, lasciare un tralcio lungo
piegato all' ingiù, come nella fig. 210, oppure due legati insieme
ad arco (fig. 211): con ciò si ottiene molta uva (1). A maggio si
(1) La pianta di barbera di 4 anni disegnata nella fig. 210, benché non fosse
delle più vigorose, portava 36 grappoli di eccellente e mostosa uva,
638
CAPITOLO XXII
cima in tre tempi. Tra giugno e luglio si cimano, in due o tre tempi,
anche le femminelle più lunghe e pendenti, rispettando le altre nor-
Fiff. 210.
mali; se tuttavia le femminelle si allungano di soverchio è utile legarle
con un salice come in B B (fìg. 212). Però 15 giorni prima della
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
639
vendemmia si troncano tutte per scoprire le uve (fig. 212 A A A),
allora questo raccorciamento non reca più danno alla pianta. I so-
stegni si tolgono ad una parte dei ceppi già al quinto anno; in ge-
nerale al settimo anno si tolgono anche ai rimanenti (1). Le viti
sono allora solide, perfettamente resistenti all' urto dei venti, ed i
loro grappoli non toccano al suolo; sono le cimature suddette che
conferiscono tanta robustezza prima al tronco, poi agli speroni, indi
ai getti fruttiferi di questi speroni stessi.
Fiff. 212.
Le spese di mano d'opera richieste con questo sistema sono quasi
la metà di quelle richieste coll'ottimo sistema monferrino, che descrive-
remo più innanzi. E ciò perchè tutte le operazioni sono assai più facili
e spiccie: così mentre il potare ed il far fascine negli alberelli (2) costa
(1) Nei nostri vigneti abbiamo potuto togliere affatto i sostegni, all'Alicante
(Canonao?) al 5° anno; — al Barbera ed al Cabernet al 6°; — al Pinot ed agli
altri vitigni francesi in genere al 7°.
(2) Avvertiamo che questi dati sono tolti dalla contabilità agraria a partita
doppia del podere il Cardello, dove son coltivate viti a varii sistemi: sono dun-
640 CAPITOLO XXII
solo 20 lire ad ettare (3500 piante ad ettare circa), invece nelle viti
alla raonferrina (5500 piante circa) costa 70 lire; locchè è certo in
parte da attribuirsi al maggior numero di piante, alle quali però non
corrisponde generalmente un maggior prodotto. Nel sistema ad al-
berello le riparazioni ai sostegni costano 15 lire ad ettare, 70 invece
nell'altro sistema che ha le viti sorrette da tre ordini di canne (anzi
di fascetti di canne). Bisogna poi notare che dopo il sesto anno, dalle
spese di coltura delle viti ad alberello debbono detrarsi quelle pei
sostegni, per le legature e gli allacciamenti, locchè significa una eco-
nomia annua di quasi 100 lire ad ettare, oggi che la mano d'opera
è tanto cara. In sostanza, mentre nelle viti alla casalese o monfer-
rina i lavori a mano costano circa 450 lire all' ettare ed all'anno,
nel sistema ad alberello non costano più di 250: vi ha dunque una
economia del 45 p. Oiq.
Ma v'ha di più. Col sistema monferrino si richiedono circa 8000
canne ad anno (per ettare), locchè corrisponde ad una spesa di L. 160
almeno; col sistema ad alberello bastano 30 lire ad anno e ad
ettare, notando però che questa spesa, come quella dei salici vimi-
nali (L. 30 circa) dopo il sesto anno scompare: ed allora si realizza
una economia di almeno 190 lire all'anno e ad ettare, in confronto
coll'altro sistema. In conclusione, mentre col sistema ad alberello la
spesa di coltura aunua ammonta al più a L. 450, col sistema ca-
salese si toccano le 800. Aggiungendo 400 lire per fitto del suolo,
imposte ed interessi dei capitali circolanti, si avrebbero L. 850 nel
sistema senza sotegni, e 1200 in quello del Basso Monferrato.
Il prodotto è sempre superiore nelle viti ad alberello; ma quello
delle viti monferrine può raggiungerlo, massimamente se si tratta
di vitigni assai produttivi, come la barbera, la fresia e qualche altro:
supponiamolo però uguale, e valutiamolo (prendendo una media) a
1000 miriagr. d'uva ad ettare del valore medio di L. 2: avremo
quanto segue:
Viti ad alberello Viti monferrine
Prodotto L. 2000 2000
Spesa » 850 1200
Benefìcio netto L. 1150 800
que dati esatti. Avvertiamo pure che la mano d'opera in Monferrato oltrepassa
sempre, nei momenti dei lavori nelle viti, le due lire al giorno per ogni operaio.
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
641
Ma le viti nostre ad alberello diedero, al quinto anno, oltre a 1000
miriagr. d'uva; in media oggidì si può calcolare sopra 1200-1400 (1),
cioè quasi 100 ettolitri di vino ad ettare, e vino ottimo, perchè le
uve, più vicine al suolo, si fanno più zuccherine. In tal caso il be-
neficio netto è almeno il doppio di quello del sistema monferrino;
(a parte qui alcuni casi speciali di distintissimi viticultori casalesi, i
quali, con molto lavoro e molto conciaie e sovratutto con buoni vi-
tigni (2), raggiungono ed oltrepassano talvolta il prodotto degli al-
berelli, toccando i 2000 miriagr. ad ettare).
§ 5. Sistema ad ombrello. — Quando non si volesse potare
a vite a speroni, p^r timore dell'aborto dei fiori, là dove in pri-
mavera fosse abituale una esuberanza di succo, e si stimasse in-
vece necessario avere tralci più lunghi per lasciare maggior sfogo
alla linfa ascendente, si potrebbe adottare il sistema ad ombrello
Fig. 213 e 214.
(1) Il chiarisimo enofilo Sen. Di Sambuy, che visitava queste vigne nel set-
tembre del 1877, per mandato del Concorso Agrario di Pavia, valutò il prodotto a
chili 4 per pianta, cioè per 3500 piante a miriagr. 1400. Ed erano alberelli gio-
vani (cinque anni al più): quel vigneto ebbe allora la medaglia d'oro decretata
dal Giurì ad unanimità di voti.
(2) Generalmente questi grandi prodotti si ottengono colla barbera e la fresia.
O. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 42
642
CAPITOLO XXII
(fig. 213 e 214) che è tanto raccomandato per le pianure soggette
alle brine ed anche pei colli a terreni pingui. Noi pure lo abbiamo
adottato e con successo. Il palo di sostegno vuol essere forte ed
alto da un metro ad un metro e mezzo: la potatura è indicata chia-
ramente nelle figure suddette; i pampini frutticosi si cimano sol-
tanto nei primi anni per dare forza agli speroni: in giugno però .è
utile troncare quelli soverchiamente lunghi. Nel rimanente il sistema
è tanto semplice che non occorrono altre spiegazioni.
§ 6. Sistema a connocchia. — È un sistema molto in uso
Fig. 215.
nei paesi del Reno, specialmente nell'Alsazia e nella Lorena, e ce
lo indica la fig. 215, che prendiamo dal Nane Castaldo: il nome di
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
643
connocchia gli venne dalla rassomiglianza della pianta colla rocca
a tutti nota. Nei detti paesi piantansi le viti ad un metro in tutti
i sensi; il ceppo (P 0 fig. 215) è alto 1 metro, i tralci a legno r q
sono lunghi lm,20 e sono diretti lungo il palo centrale; la vite è
quindi alta circa 2ra,20. Dal disegno si intende facilmente come siano
potate tali viti. Giustamente deplora il Belletti che le ceppaie siano
accoppiate, come in altri sistemi italiani e francesi, a due a due, il
che non si può consigliare, specialmente se si mira a produrre
molta uva.
§ 7. Sistema a capo annoccato. — Capo annoccato vuol dire,
nel linguaggio dei frutticultori, capo piegato; infatti il sistema che
qui vogliamo descrivere, e che fu proposto per la prima volta, varii
anni or sono, dal sig. Pompeo Bilancia di Volturara Appula (Foggia)
consiste appunto nel piegare il capo a frutto ad angolo, dopo aver
praticato un taglio longitudinale là dove deve avvenire la piegatura:
Fig. 216.
ad esempio, supposta la vite fig. 216, si taglia a sperone uno dei
due tralci d o e, meglio il tralcio d, indi si pota a sette od otto
gemme il tralcio a; ciò fatto, praticasi un taglio in f e si piega ad
644
CAPITOLO XXII
angolo il capo a frutto al punto /. Nella potatura seguente il tralcio
a viene tagliato e la potatura è fatta sui tralci che dà lo sperone.
Che se per caso questi ultimi fossero meschini, si potrà sempre di-
stendere e piegare a frutto il getto che sorge dalla gemma sotto-
stante al taglio f, il qual getto è generalmente assai vegeto e con
gemme feconde.
Questo metodo ci ricorda quello adottato dal signor Duchène-
-----~~".
Fig. 217.
Fig. 218.
Thoreau di Chàtillon-sur-Seine, a capo piegato in guisa da fare
col terreno un angolo di circa 115 gradi; l'estremità va entro il
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 645
suolo, ma difficilmente getta radici, a cagione della piegatura che
ne scema il vigore; tuttavia è bene accecare la gemma ultima. Se
si temesse, piegando il tralcio ad angolo, di romperlo, si potrebbe
adottare il sistema della ricurvatura: la fig. 217 ne dà una chiara
idea. Il capo a frutto termina colla sua punta nel suolo, come nei
capogatti, solo che si accecano gli occhi della parte interrata: tuti1
i getti uviferi (fig. 218) si cimano a due foglie sull'ultimo grappolo; la
potatura ha luogo come dicevamo or' ora parlando del sistema Bi-
lancia. In Francia questo metodo, detto des piques, è abbastanza
diffuso, ad es. presso Saint- Cloud, e quei viticultori se ne lodano
molto sia per la sua semplicità sia per la quantità del prodotto.
§ 8. Sistema a piramide. — Ci sono noti due sistemi di e-
ducare la vite a foggia di piramide, la qual. forma è molto utile nelle
pianure basse ed esposte alle brine; uno del sig. Marchi l'altro del
sig. Genesi/. Descriviamoli entrambi.
a) Sistema Marchi. — Il sig. F. Marchi di Mantova, prese la
privativa pel suo sistema, onde non potremo descriverlo in tutti i
suoi particolari: converrà quindi, per altri dettagli, rivolgersi al signor
Marchi stesso.
Il piantamento si deve fare su scasso reale a 60 centimetri di
profondità, praticato in agosto o settembre; in ottobre o novembre
piantansi poi le barbatelle in solchetti larghi e profondi 0m 30 ed a
file distanti da lm,50 a 2™. In fondo a questi solchetti si versa dap-
prima un po' di vecchio terricciato composto di terra, letame, cenere,
vinaccie ecc. poi sopra un po' di terra, iniìne si piantano le barba-
telle a un metro una dall'altra nelle file; su di esse si pone ancora
un po' di terricciato, e poi si ricuopre il tutto con terra, riempiendo
affatto i solchetti.
Fatto il piantamento, se trattasi di barbatelle di talee, il Marchi
le pota a due gemme da terra e le cuopre allora con foglie per ri-
pararle dai forti geli del verno. In seguito lascia alle sue viti un
sol getto e lo cima d'estate all'altezza di 60 centim. Se escono fuori
delle femminelle le toglie tutte sino all'altezza da terra di 20 centim.
senza però toccare alle foglie. Le altre poste più sopra le cima a
quattro foglie, e se infine da quelle sorgono delle sotto femminelle
le cima eziandio, e anch'esse a due foglie.
Quando invece il piantamento è fatto con grosse barbatelle di pro-
paggine od altre, fatto appena quello, le pota a 25 o 30 centim. da
646
CAPITOLO XXII
terra, indi loro toglie le tre gemme più basse per fare ivi il pedale
liscio e lascia intatte le due o tre più alte. Oppure non toglie nes-
suna gemma, toglie dopo invece i germogli che ne provengono sino
all'altezza come sopra di 20 centim. e gli dtri li cima allorché spunta
l'ottava foglia su di essi.
Nel primo caso, giunta la primavera, cioè il momento della potagione,
e così a un anno d'età, lascia tre speroni, due sono di femminelle
e lor lascia due gemme caduno, l'altro, il centrale, è di primo getto
e gli lascia 6 gemme. Che se le dette femminelle fossero troppo te-
nere e deboli, allora lascia il primitivo getto potandolo a 25 o 30
centim. d'altezza come si disse per le grosse barbatelle.
Nel caso di queste gli speroni sono tutti di primo getto e li pota
come i precedenti.
In entrambi in quell'anno qualche uva l'ottiene, cioè circa mezzo
chilogramma per pianta.
Fig. 219.
Fier. 220.
A tutte le sue viti dà allora un palo per sostegno, lungo da 2 a
3 metri, e dura questo quattro anni. Indi lo si rinnova.
Al principio del terzo anno la piramide cimata d'estate, come diremo
in seguito, è rappresentata dalla figura 219. La si pota a speroni —
come accenneremo fra poco — e allora essa piglia l'apparenza della
figura 220.
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
647
Al principio del quarto ha le apparenze della figura 221 e quelle
(tolta l'uva) della fìg. 222 dopo la potagione.
Fig. 221 e 222.
Fig. 223.
648
CAPITOLO XXII
Le corrispondenti figure 223, 224 e 225 — anno per anno cioè — -
furono prese dal vero (dopo averne tolte le foglie) alla esposizione di
Reggio Emilia nell'autunno del 1876.
Le piramidi hanno un'altezza variabile da metri 1,75 a 2.
Il numero degli speroni sopra le medesime, quando siano in piena
Fig. 224 e 225.
produzione, è, puossi dire, indeterminato. Ogni anno essi si abbas-
sano tagliando in a b a b figura 226 (che i lettori devono prendere
per uno sperone isolato) onde poi lo sperone stesso piglia le appa-
renze della fig. 227. Ciò si pratica ogni anno con quello anche della
punta della piramide, acciò questa non si allunghi di troppo. Quelli
posti più al basso presso terra sono i più antichi e i più lunghi. Se
sono pochi loro si lasciano da 4 a 5 gemme caduno; 3 gemme si
lasciano a quelli di mezzo, ed 1 o 2 ai più alto locati. Infine da 4
a 6 si lasciano al tralcio principale e più alto che deve allungare la
piramide.
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
649
Quando gli speroni sono numerosi, sui più bassi e più antichi,
presso terra, si lasciano tre gemme caduno, due a quelli di mezzo
una ai più alti e da quattro a sei, come sopra, al tralcio terminale.
Il sig. Marchi cima tre volte.
Fig. 226.
Fig. 227.
La prima cimatura la fa in maggio a tre foglie sopra il grappolo.
La seconda la fa sulle femminelle in giugno, lasciando loro due
sole foglie.
La terza la pratica in agosto sopra le sotto-femminelle più robuste
(non tocca dunque le più corte) e anche qui a una o due foglie.
Cosicché al disopra dei grappoli vi sono 7 foglie, e se il suolo è
tenuto fresco d' estate, mediante opportuni rimovimenti, il signor
Marchi ritiene che esse agiscono benissimo quali tirasucco e l'uva
vi matura in tempo.
Questo sistema è già stato adottato con esito felice nel Mantovano,
nel Veronese, nell'Emilia ed in Romagna; esso, benché specialmente
raccomandabile per le pianure, è anche adattabile ai colli, come ce
lo dice la esperienza fattane a Valle Policella. — Il prodotto delle
piramidi può essere elevatissimo, e già se ne conosce alcuno di 140
ettolitri ad ettare; in un ettare vi sono circa 5000 piramidi che pos-
sono dare certamente almeno 2 kilog. d'uva cadauna, corrispondenti
a 60 ettolitri di vino. Questo è un prodotto minimo, ma rispettabile,
su cui si può certamente contare.
bj Sistema Genesi/. — Questo metodo fu adottato e proposto
dal distinto frutticultore A avocato Amedeo Genesi/ di Revigliasco
Torinese: da quindici anni egli educa a piramide ben cinquanta va-
rietà di viti, quasi tutte nostrane, e con ottimo esito. I dettagli di
questo sistema sono bellamente riuniti in un opuscolo dal titolo « La
650 CAPITOLO XXII
vite piramidale » (1) al quale rimandiamo il lettore; qui dobbiamo
limitarci a poche notizie. I filari il Genesy li colloca a 2 m. e in
terre di pianura ricche e fresche a 2m,50: le piante, a lm,50 o lm,75.
Per avere un forte tralcio maestro, che deve costituire come l'asse
della piramide, si pota al primo anno ad una od al più a due
gemme fuori terra; al secondo anno si pota esportando tutti i tralci
sorti nel primo anno, ad eccezione del più forte e preferibilmente
centrale, il quale però si taglia esso pure a due o tre gemme:
quindi si lascia vegetare liberamente la vite per 15 o 20 giorni.
Trascorso questo tempo, già si sarà acccentuata, a favore di uno
fra i nuovi germogli, una decisa superiorità di forza. Allora si sop-
primono tutti gli altri germogli, lasciando intatto soltanto quello più
vigoroso, che si assicura al palo legandolo.
In seguito si debbono sempre sopprimere tutti i rimessiticci; le
femminelle si toglieranno dopo due mesi di vegetazioue, rispettando
bene inteso la foglia, alla cui ascella sta la gemma: afferma il Ge-
nesy che sopprimendo le femminelle si rinforza notevolmente il tralcio
maestro. La punta di questo tralcio non si mozzerà che a stagione
inoltrata, acciò non sbuccino le gemme che stanno lungo il tralcio
stesso: anzi sarà bene, nelle viti molto vigorose, lasciare intatte al-
cune femminelle della punta.
Al 3° anno il tralcio maestro si pota tagliandolo alla 8a gemma
circa, per avere una piramide robusta. La gemma estrema darà luogo
col suo germoglio al prolungamento verticale del tralcio, le tre sot-
tostanti daranno tre o quattro getti laterali necessarii per la forma
piramidale; gli altri inferiori saranno soppressi, e cosi il gambo della
vite sarà libero. I getti laterali, quando avranno raggiunto la lun-
ghezza di 0m,60 a 0m,70 si mozzeranno; dopo 20 o 30 giorni si
mozzerà anche il getto terminale o centrale; allora esso sarà lungo
lm,25 circa.
Entrando nel 4° anno la vite si mostra già a forma di piramide:
alla potatura si lasceranno sui tre tralci laterali quattro gemme per
ciascuno, mentre se ne lascieranno sei al tralcio centrale; sui getti
che usciranno da tutte queste gemme si praticheranno le mozzature
seguendo le norme dette or' ora: le femminelle, la cui uscita è pro-
vocata appunto da cotali mozzature, si cimeranno lasciando loro da
due a quattro foglie, per permettere alla vite il suo sfogo naturale.
(1) Richiederlo all'autore stesso in Revigliasco (Torino)
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 651
Le scacchiature poi dei getti inutili e ghiottoni saranno indispensa-
bili se si vuol formare una forte e bella piramide. Al 5° anno ed
ai successivi la potatura seguirà colle stesse regole. Il sig. Genesy
non vuole — per ottenere uve bene mature — che la piramide si
innalzi oltre a m. 2,50, con una larghezza alla base di m. 1,25 a
1,30; perciò è necessario tratto tratto tagliare l'asta centrale ad un
dato punto immediatamente superiore all'inserzione di quella ramifi-
cazione laterale, che si destina a surrogarla e che si raddrizza lungo
il palo.
Infine il sig. Genesy accenna ad un prodotto medio di 10 a 15
chil. d'uva per piramide, che egli suole ottenere, e insiste sulla eco-
nomia del suo sistema, citando all'uopo le sue esperienze. Egli non
raccoglie mai meno di 75 ettolitri ad ettare (2500 piante) e certo
questo prova la bontà del sistema.
§ 9. Sistema Casalese e Siciliano. — Questo eccellente si-
stema di educare la vite è seguito da tempi remoti nel circondario di
Casale (Basso Monferrato) che è forse il più intensamente vitifero del
nostro paese: un sistema simile, se non uguale in tutto e per tutto, se-
guesi generalmente in Sicilia, ma specialmente nell'Agro di Palermo
ed anche presso Messina; vi assomiglia pure il sistema di Cefalù, che
distende un po' il tralcio o i tralci frutticosi come nel metodo di
Gnyot. Il sistema monferrino-siciliano (si conceda che lo chiamiamo
così) si basa sul principio che, potando la vite devesi lasciarle un
tralcio frutticoso (o due) ed uno sperone legnoso. Il dott. Guyot
in Francia e il dott. Hooinbrenk in Austria, dissero a loro volta
che questo sistema era tutto francese o tutto austriaco: sta invece
il fatto che in Italia è conosciuto da tempi remotissimi ed in regioni
assai distanti fra loro e differenti per clima. Vediamo in che cosa
consista essenzialmente il sistema monferrino, il quale, se ben ap-
plicato e con buoni vitigni, può dare cospicui risultati, come lo pro-
vano le frequenti, diciamo frequenti, vendite di terreni vitati nel
circondario di Casale a 10 e 12 mila lire Tettare.
Il terreno si prepara a questo modo: neh' autunno si aprono le
fosse traversalmente alla pendenza del colle (non mai a rettochino),
più spesso leggermente inclinate, larghe metri 1,50, profonde da
cent. 75 ad 80 (misurando l'altezza sulla sponda superiore e distanti
l'una dall'altra circa 6 metri, al più 8, al minimo 4. Alla successiva
primavera (marzo-aprile) si fan scendere nelle fosse due palmi circa
652 CAPITOLO XXII
di terra vergine e poscia vi si sovrappone della buona terra sino
a formare uno strato, comprese le due terre, di centim. 36 a 40.
Quelli che non hanno la lodevole abitudine di porre, sul fondo della
fossa, della terra vergine e della arativa, piantano il magliolo, la
talea o la barbatella addirittura in fondo alla fossa stessa, e cioè
« sul duro »; per questa viziosa pratica la piantagione vi si fa a
75 od 80 centimetri di profondità, e la vigna non può dare un di-
screto prodotto che dopo sei o sette anni; per porre riparo a questo
errore, si usa la fognatura o arrotto (pag. 370) di cui diremo or
ora. Col sistema precedente invece, quello cioè di riempire la fossa,
sino a 40 centimetri circa, di terra, si ha un bel prodotto alla fine
del terzo anno, o al più alla fine del quarto, secondo che il pianta-
mene fu fatto con barbatelle ovvero con maglioli.
Nel mese di marzo od in aprile si eseguisce il piantamento, pre-
ferendo pei maglioli l'aprile od anche meglio il successivo maggio.
Nella linea centrale della fossa si collocano, mediante una cordicella
che è come dire la guida del piantatore, delle piccole canne distanti
0m,60 una dall'altra; alcuni poi aprono lunghesso la corda un
piccolo fossatello o solchettino. Il piantatore prende allora la bar-
batella (o il magliolo o la talea) e la sdraia per una lunghezza di
di cent'm. 60 entro tale solco e tra Y una e Y altra cannetta; indi
la dirizza, la marita ad una canna vicina, e infine la ricopre con
terra fina e buona, per lo spessore di 10 cent, circa. Per questa
disposizione ne viene che le ceppaie rimangono a 60 cent, l'una dal-
l'altra nelle file. Il magliolo così collocato viene poi potato a due
gemme. Neil' anno stesso del piantamento non si riempie la fossa
ove son collocate la talea o la barbatella, ma la si lascia nello stato
in cui rimane appena eseguito il piantamento, cioè con 10 centim.
di terra sopravi. Alcuni vi sovrappongono vinaccie o letame per lo
spessore di tre dita, e questo concime lo ricoprono nuovamente con
un leggiero strato di terra. I giovani filari vengono poi zappati due
o tre volte da maggio ad agosto, e ciò per il lodevole intento di
tenerli mondi dalle male erbe e di aver soffi :e e fresco il suolo.
Altre cure non si prodigano alla vite in questo primo anno, tolto
il caso in cui — essendo stato precoce e rapilo lo sviluppo della
barbatella — si procedesse alla fognatura o arrotto nell'autunno
dello stesso anno.
Se il piantamento venne effettuato con maglioli o talee, allora
l'arrotto non si usa farlo che nell'autunno del terzo anno, e talvolta
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 653
anche nel verno o nella primavera del quarto: trattandosi invece di
barbatella, tale operazione viene praticata o nell'autunno del primo
anno, o più sovente nel verno o nella primavera del secondo anno.
Ecco in che cosa consiste 1' arrotto: la vite è piantata, come di-
cemmo, troppo profondamente e (trattandosi di terre argillose ed in
generale compatte, come le ha il Basso Monferrato) vi sta di certo
a disagio; infatti lasciandola così tarderebbe assai a fruttificare. Ad
evitare questo grave inconveniente si allarga, nei momenti indicati,
da ambi i lati, oppure da principio da un sol lato, la fossa primitiva
mercè due altre fossette laterali. E così dal lato superiore dell' an-
tico fosso, e talvolta contemporaneamente anche dall' inferiore, si
apre altra fossa larga e profonda circa un metro; in fondo ad essa
si collocano delle fascine di olmo, di rovere o di vite, superponen-
dole a mo' delle tegole sui tetti: presso le viti poi, e così nell' an-
tica fossa, si sparge di fianco alle dette fascine un buon strato di
letame, infine si colma tanto la nuova fossa che l'antica e si appiana
il tutto. Con questa operazione si ingrassa la terra che sta attorno
alle radici delle viti, e si richiama 1' aria al basso, per cui il suolo
si fertilizza a dovere e provvede alimenti per la pianta, oltre di che
rimane fresco e soffice per parecchi anni di seguito. I beneficii
dell' arrotto durano, se questo è praticato a dovere e con copiose
concimazioni, circa dodici anni; esso costa però da 300 a 1500 lire
ad ettare.
Veniamo ora al secondo anno ed ai successivi. Se non si è pra-
ticato l'arrotto al primo anno, lo si fa nel verno o nella primavera
del secondo. Nel mese di marzo la giovine piantina viene intanto
potata, lasciandole un sol getto con due gemme fuori di terra; però
se si tratta di magliolo o di talea, la prima potatura non si pratica
che al terzo anno per lasciar tempo alla pianticella di rafforzarsi. Si o-
pera col forbicione perchè pochi sono quelli che sanno maneggiare bene
il falcetto e tagliare nel preciso punto ove deve farsi il taglio (1);
perciò questo strumento è ora quasi abbandonato, e tutti potano
colle forbici. Il falcetto si adopera a lisciare le ferite ampie, acciò
(1) Questo punto, come già abbiamo detto altrove, dovrebbe essere la linea
mediana della gemma superiore all' ultima lasciata sul tralcio o sperone; cosi
questa gemma ultima avrebbe sovra di sé non già un mozzicone che perde il
midollo, e spesso fa perire la gemma stessa sottostante, ma bensì, un internodo
o meritallo intatto ed inalterabile.
654
CAPITOLO XXII
non ristagni umidità. Dalle due gemme lasciate nell'atto della pota-
tura escono varii rampolli, ossiano pampini. In maggio si tolgono,
meno però due (i più belli) che si legano a due piccole canne,
unite con vimine acciò costituiscano un sostegno più sodo. Questa
operazione chiamasi sgarzolatura, ossia scacchiatura, e si pratica
colle dita. Dopo la potatura il suolo si vanga a 0m,25 di profondità,
e questo utilissimo lavoro si ripete tutti gli anni.
Abbiamo adunque nella primavera del terzo anno i due getti
ordinariamente lasciati nell'anno antecedente. Essi sono così trattati:
il più basso si mozza (operando talvolta nel verno) e si forma (figura
228) uno sperone D G con due gemme circa; V altro C F si pota
F'« 22S.
a sette od otto gemme, indi si lega al primo gruppo di canne
per una altezza di quasi 15 centimetri piegandolo poi ad arco sul
davanti del filare, ed infine legandolo in punta ad altro fascio di
canne posto a 30 centimetri di distanza dal primo. Si dice allora
che la vite ha il mezzo passo; essa incomincia a dar frutti, e tal-
volta dà un terzo di prodotto ordinario. Nell'inverno e nella prima-
vera del quarto anno si pota la vite tagliando il tralcio che già
diede frutto e distendendo ad arco su tre fascii di canne (locchè si dice
dar il passo intiero; fìg. 228) uno fra i tralci migliori e più lunghi
che spuntarono dalle gemme dello sperone G, oppure alla base stessa
del tralcio frutticoso dell' anno antecedente. Se il nuovo tralcio a
frutto è molto vigoroso lo si ripiega come è indicato in AB fig. 228,
ove è esattamente disegnata una vite potata al quarto o quinto
anno al più; oppure si dà il mezzo passo indietro, come è chia-
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
655
ramente indicato nella fig. 229; od anche si va a raccomandare il
tralcio frutticoso alla terza canna della ceppaia vicina, come vedesi
nella fig. 230, ove in C S' T' sono punteggiati i fasci di canne della
vite vicina; il tralcio andrebbe a congiungersi al gruppo di canne T\
Quando la vite è distesa su tre ordini di canne, allora è in piena
produzione.
Fig. 229.
Le cure annuali sono: 1° la scacchiatura in maggio dei getti inu-
tili del tralcio frutticoso (lasciando solo i più belli della base e
quelli dello sperone) per spingere così il succo nutritore a beneficio
Fig. 230.
dei frutti ed anche in parte dei getti dello stesso sperone; 2° la
caccia alle male erbe, le vangature e le zappature estive; 3° la sol-
forazione accurata.
656 CAPITOLO XXII
Dei prodotti già dicemmo a pag. 640. Con buoni vitigni (bar-
bera, fresia) si possono pur raggiungere i 200 ettolitri ad ettare,
se la vigna è specializzata e concimata ogni biennio, vangata a
primavera e zappata in estate. È un sistema ottimo, razionale, per
cui la vite non si estenua tanto tanto presto; infatti in Monferrato
vi sono viti più che attempate, le quali producono ancora molto. Ma esso
richiede, come già dicemmo più innanzi, ingenti spese di mano d'o-
pera, di canne, ecc. (oltre quelle non indifferenti per l'arrotto); eco-
nomicamente parlando perciò noi preferiamo di molto il sistema
ad alberello descritto nel paragrafo 4°.
§ 10. Sistema Guyot: modificazioni Boschiero e Panizzardi.
— Il sistema Guyot, di cui si è tanto parlato in quest'ultimo ven-
tennio, costituisce un metodo razionale di educare la vite, ma è ben
lungi dall'essere nuovo, siccome abbiamo già detto al § 9. Introdotto
in Italia, parecchi lo adottarono seguendo con scrupolo e pedanteria
i precetti dell'illustre scrittore francese, ma non tardarono ad accor-
gersi che conveniva modificarlo, specialmente per quanto ha tratto
alle distanze. Noi intendiamo appunto di accennare qui alle modifi-
cazioni che è necessario introdurre nel « sistema Guyot puro » per
adattarlo in generale alle nostre condizioni di clima e di suolo.
Anzitutto descriviamolo brevemente. Secondo quanto il Dr. Guyot
consiglia prima di piantare i maglioli o le barbatelle si scassina (ed è
opera egregia questa) tutto il suolo a 40 o 50 centimetri di profon-
dità, non essendovi qui né fosse né buche. Il suolo deve essere tutto
smosso a quella profondità, e cotale lavoro o si fa con due fìtte di
vanga, previa la concimazione se si vuole, cosa però non affatto ne-
cessaria, ovvero con due aratri, uno dopo l'altro, di cui il secondo
senza orecchio e seguito da uomini che traggono alla superfìcie il
suolo vergine; o infine, il suolo essendo sassoso e duro, colle zappe
ed i zapponi. Il suddetto lavoro della vanga costa in media 300 o
350 lire ad ettare; quello cogli aratri lire 100 compreso il lavoro
dei buoi; e quello infine dei zapponi lire 500 almeno.
Sul suolo così scassato e quindi pareggiato, a mezzo d'una lunga
corda e d' un bastoncino, si tracciano delle linee in lungo e in
largo, a un metro in tutti i sensi, e al punto di intersecazione di esse
o si piantano ad aprile i magliuoli col foraterra, o, molto meglio, si
pratica un foro, con una fitta di vanga, profondo da 20 a 25 centi-
metri, e ivi s'immettono il magliuolo o la talea, ovvero la barbatella,
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
657
per la quale il detto foro (che deve essere largo abbastanza per con-
tenerne le radici) è indispensabile. Infine, e nei due casi, si comprime
bene la terra versatavi attorno. Il piantamento si fa pertanto a 20
o al più 25 centimetri di profondità, e Guyot non vuole che si vada
più oltre: ora specialmente nei climi freschi, egli ha pienamente ragione.
In un ettare vi sono pertanto dieci mila piante, ed il piantamento costa
sole L. 400 in media: — sin qui dunque, all'infuori della distanza,
è preferibile il sistema Guyol al casalese. Con quest'ultimo invece si
spendono per un ettare a vigna lire 2000 in media (§ 9), inoltre
siccome si pianta troppo profondamente (circa come già dicemmo
0,65 cent.) e sul duro, cioè sopra terreno non smosso, così mentre
col sistema Guyot al finire del terzo anno si ricavano spesso oltre
a 30 ettolitri di vino ad ettare, col sistema del Basso Monferrato
ciò non si ottiene che mediante un copioso e costoso arrotto. In
ciò il sistema Guyot è pure preferibile al casalese.
Veniamo alla potatura. Dei soliti due tralci lasciati ad ogni vite,
il più basso locato si pota a sperone (C D' fig. 231). e il più alto
Kig. 231.
si taglia lungo ottanta centimetri circa, e si distende nel filare o-
rizzontalmente a un palmo o poco più da terra, e si va infine a
maritarlo a un piccolo palo (B* fig. 231), posto alla distanza di
20 centimetri dalla vite vicina. Col sistema casalese la potagione è
affatto la stessa, e solo il tralcio A B si distende ad arco incli-
O. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 43
658
CAPITOLO XXII
nato all' ingiù verso V interfilarc (fig. 232, vedi anche fìg. 230)
per trattenere il succo indietro, e ciò senza ricorrere, come consi-
gliava Guyot, alle cimature ripetute. Negli anni successivi, la pota-
gione col sistema alla Guyot (allevando sempre due tralci almeno
Fig. 232.
sullo sperone) è sempre la stessa, e solo il tralcio frutticoso può la-
sciarsi — se è molto vigoroso — • un po' più lungo, ma non però in
generale più di un metro.
Ma col sistema Guyot, le viti essendo molto fitte, cioè vicine
una all' altra, se d' estate non si cimano e ricimano i pampini
del tralcio frutticoso orizzontale, essi traggono a sé con forza
il succo (e per la forza di capillarità e per la evaporazione delle
foglie e di tutte le parti verdi e giovani dell' arbusto, nonché per
essere il tralcio orizzontale) e bene spesso ne privano quelli dello spe-
rone (1), uno dei quali è destinato a divenire tralcio frutticoso per
Fig 233
(1) Colla cimatura si vengono ad avere migliori tralci, più vigorosi, allo sperone
e come si vede nella fig. 233 dove con piccole lineette è segnata 1' operazione in
questione.
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 659
Tanno successivo. Se non si cimassero i pampini suddetti, e se non
si sopprimessero colla scacchiatura i getti inutili, alla successiva pota-
gione a vece d'una vite con vigorose cacciate allo sperone (fig. 233) se
ne avrebbe un'altra meschinissima (avendo lasciato andare nel tralcio
frutticoso tutto il vigore) che riescirebbe quasi impossibile di potare.
Col sistema casalese invece, anche senza cimatura alcuna (ed
infatti i più non la praticano), cotali inconvenienti non si verificano,
o molto di rado. Questo per due ragioni: primo perchè la vite ca-
salese è molto più vigorosa, può vegetare — essendo le ceppaie
ed i filari più distanti — con maggior forza, ed è quasi sempre in
grado di fornire tralci vigorosi allo sperone; secondo perchè il tralcio
frutticoso è ricurvo (figura 232), or in questo caso 1' ascensione
del succo nutritore è più lenta, onde una parte è trattenuta per lo
sperone e pei suoi getti, che si sviluppano molto meglio.
Abbiamo accennato più sopra agli insuccessi che si ebbero a la-
mentare in Italia col sistema Guyot: or bene, essi dipesero appunto
dall'averlo adottato alla lettera, senza riflettere che il compianto dott.
Guyot parlava di un clima diverso dal nostro e di viti assai meno
rigogliose. Diremo anzitutto che, secondo Guyot, avendosi in un et-
tare dieci mila piante, questa piccola distanza fra pianta e pianta ca-
giona, nelle nostre rigogliose viti, molti danni.
Infatti non è sempre possibile introdursi con aratri, erpici, estir-
patori, carri, ecc. nel vigneto, e bisogna sobbarcarsi ad una forte
spesa di mano d'opera: oltre a ciò le viti fìtte, già lo dicemmo nel
Capitolo XI, sono belle nei primi anni, ma ai decimo o dodicesimo
anno incominciano a mostrarsi esaurite, massime nei paesi caldi, e
del resto in tutta Italia, dove questo invecchiamento precoce delle
viti è conosciutissimo. Nel sistema Guyot le cimature e ricimature
estive dei pampini del tralcio frutticoso orizzontale sono indispen-
sabili per permettere ai getti dello sperone di perfezionare le loro
gemme (che debbono dar frutto l'anno dopo): è pure indispensabile
la scacchiatura dei getti inutili. Ma a proposito delle cimature già
facemmo le nostre riserve al Capitolo XIV. Riassumendo noi non
crediamo che il sistema Guyot con 10,000 piante ad ettare sia
in generale da raccomandarsi in Italia, tanto più che abbiamo le
esperienze fatte, le quali ci dicono che si dovettero introdurre va-
rianti notevoli in quel sistema, svellendo molte piante (se pur non
si volevano vedere esaurite le proprie viti dopo 15 anni, e se si vo-
levano ottenere prodotti rimuneratori) oppure aumentando le distanze.
660 CAPITOLO XXII
Modificazioni Boschìero e Panizzardi. — Il distinto enofilo e
viticultore Giovanni Boschìero adottò da varii anni ne' suoi ammi-
revoli vigneti della Galleria presso Asti, il sistema Guyot, ma vi in-
trodusse talune varianti degne di nota. Anzitutto egli sostiene i pam-
pini esclusivamente su tre fili di ferro distanti 35 centimetri 1' uno
dall'altro (v. pag. 549) e quindi non ha né paletti, né canne, salvo
i pali che naturalmente debbono sostenere i fili di ferro; questi pali
distano 10 metri uno dall'altro, sono alti un metro e sono conficcati
nel suolo per 40 centimetri; la loro lunghezza è quindi circa di lm,50.
[ due pali di testa d'ogni filare sono solidissimamente fissati al suolo
con calcestruzzo. La potatura è questa: uno sperone legnoso con due
gemme; un tralcio frutticoso lungo 70 centimetri disteso sul primo
filo; i getti dello sperone distesi sul terzo filo; i getti infine del tralcio
frutticoso, che sono poi quelli che portano l'uva, cimati dopo la fio-
ritura a due foglie sopra l'ultimo grappolo: non appena sono abba-
stanza lunghi da poter essere legati al secondo filo di ferro, si fissano
ad 'esso con semplice filo d'erba; pochi giorni dopo si attorcigliano
benissimo al filo stesso, e vi stanno saldamente assicurati. Il Boschiero
ha egli pure 10 mila piante ad ettare, ma il suo vigneto non è pin-
gue (1) ed egli non spinge la produzione delle sue viti, preferendo una
minor quantità di uva bene matura ad una maggior quantità ma sca-
dente. È molto lodevole nel sistema Boschiero che i tralci dello spe-
rone non si lasciano venire diritti a guisa di ghiottoni, come col si-
stema Guyot, ma si distendono ripiegandoli lungo il terzo filo di
ferro; le gemme si fanno perciò assai più feconde (pag. 507).
Il sistema Boschiero è anche molto economico in quanto ai so-
stegni, e perciò eziandio sotto questo aspetto lo preferiamo a quello
di Guyot.
Nelle terre più feraci sarà però assai giovevole la modificazione
adottata dal sig. Conte Carlo Pelletta di Cossombrato (Asti), il quale
pur seguendo il metodo del Boschiero, lascia a' suoi bellissimi vi-
gneti due tralci a frutto, dando così maggior sfogo alla vite ed otte
nendone risultati cospicui, il che abbiamo noi stessi constatato nel-
l'estate del 1883.
Il compianto Prof. Panizzardi, distinto cultore della viticultura,
(1) È così moderata la vegetazione delle vigne del Boschiero, che può lavorare
gli interfilari coll'aratro tirato da un animale, come abbiamo visto nelT estate
del 1883
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 661
suggeriva ed adottava egli pure una modificazione al sistema Guyot,
consistente nel piantare filari abbinati, e così due file distanti 60
centimetri, e poi un interinare di lm,40, indi di nuovo un filare ab
binato e così di seguito. Con questo espediente è possibile lavorare
coll'aratro l'interfilare, mentre il filare si zappa: è quindi una eco-
nomia di fronte al sistema Guyot puro.
§ 11. Sistema Vannuccini. — Anche questo sistema, che si
deve al compianto Ingegnere Luigi Vannuccini di Scansano, l'ab-
biamo studiato sul posto, e perciò lo abbiamo potuto apprezzare in
tutto il suo valore.
I principii razionali della viticultura sono applicati con molta giu-
stezza di criterii in questo sistema e perciò noi lo chiamammo si-
stema razionale in altra nostra pubblicazione (1), con che però non
intendemmo di dire che fosse da adottarsi ovunque a preferenza di
ogni altro.
Volendo fare una descrizione ordinata del sistema Vannuccini pren-
diamo le mosse dal pìantamento del vigneto. Lo scasso reale di tutto
il terreno destinato alle viti è il solo modo di preparazione del ter-
reno stesso che il Vannuccini segue, e qualsiasi viticultore intelli-
gente non potrà negare che è questo il miglior mezzo per esordire,
inquantochè nel terreno scassato le giovani piantine gettano un folto
e vigoroso sistema radicale; ora, quando le radici sono sin da prin-
cipio bene organizzate, l'avvenire del vigneto, nonché la sua longe-
vità e la sua produttività, sono assicurate.
II terreno su cui ebbe ad operare il Vannuccini è di natura ar-
gillo-calcare, molto sassoso e non facile a scassarsi; ma non per
questo egli si sgomentò, e vi spese circa 2500 lire ad ettare, fa-
cendo praticare uno scasso ad un metro di profondità: la stagione
preferita fu il dicembre o il gennaio acciò il terreno avesse potuto
subire l'azione disaggregatrice dei geli invernali; certo sarebbe an-
cora preferibile uno scasso estivo, ma la durezza del suolo in certe
condizioni obbliga il viticultore a rimandare all'autunno quella ec-
cellente opera. Del resto noi crediamo fermamente che anche l'au-
tunno sia un'ottima stagione per gli scassi profondi, perchè essen-
dovi allora più umidore nel suolo e col lavoro profondo introducen-
(1) II sistema razionale Vannuccini per coltivare la aite. — Monografia del
Prof. O. Ottavi (Casale 1881).
662 CAPITOLO XXII
dovi molt'aria, si facilita la formazione del nitrato di potassa, mas-
sime durante le ore più calde del giorno; ed accrescendosi la pro-
porzione di questo nitro s'accresce anche la fertilità del terreno.
Nel fare lo scasso, si prepararono le fosse per il piantamento, che
si potrebbe chiamare piantamento- fognatura: scavata una prima
fossa della profondità di un metro, vennero collocati in fondo ad essa
i sassi estratti dal terreno stesso neh" apparecchiarlo, in guisa da for-
marne uno strato alto 20 centimetri all'incirca: è questa come si
vede una vera fognatura, cioè un drenaggio, come si dice usualmente
con barbara voce: talvolta però mancarono sul luogo i sassi, ed al-
lora si supplì o con altri, fatti venire da altri campi, oppure con fa-
scine o sarmenti, quasi a simiglianza di quello che si fa in Monfer-
rato allorquando si pratica il già descritto ar rotto o fogna. Preparata
per tal modo una prima fossa, si procedette similmente ad apparec-
chiarne una seconda, e poi una terza, e via dicendo per tutto l'ap-
pezzamento.
Le fosse sono distanti fra loro ad un dipresso lm,45 trattandosi
di vigna fìtta e bassa, alla latina; le piante poi distano una dall'altra
di soli 65 o 70 cent. In un ettare (10 mila metri quadrati) vi sono
dunque circa 10 mila viti con ognuna un metro quadrato di spazio.
Queste distanze sarebbero soverchiamente piccole per molti sistemi
di viticultura; non così per quello che stiamo ora studiando, nel quale
si modera il soverchio vigore erbaceo, o legnoso che si voglia dire,
delle piante e non si teme quindi V aduggiamento dei grappoli :
ma su di ciò dovremo ritornare fra non molto con parecchi det-
tagli.
Per ora ci limiteremo a richiamare l'attenzione del lettore sul modo
veramente razionale con cui il Vannuccini prepara il terreno pel
piantamento, vale a dire non solo con un rimuovimento profondo
generale del suolo, ma con una fognatura efficacissima; la quale
giova a mantenere sane le radici ed esenti da parassiti (come rizo-
morfe ed altri) che cagionano spesso quel deperimento delle piante
di cui noi non sappiamo renderci ragione, e che oltre a ciò vale real-
mente una concimazione, perchè introducendo aria nel terreno, vi
induce delle modificazioni, delle ossidazioni e sovratutto delle nitri-
ficazioni, per cui certi principii inerti si mutano in principii attivi.
Preparato il terreno si lascia tranquillo fino al mese di marzo,
momento prescelto pel piantamento: allora si incomincia collo spia-
nare tutto l'appezzamento colle zappe a mano e poi si piantano i ma-
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 663
glioli: per operare con regolarità si segna la direzione dei futuri fi-
lari mercè una cordicella, che serve di guida ai piantatori. Questi
son muniti di pali di ferro terminati in punta, coi quali ad ogni 65 o
70 centimetri fanno dei buchi profondi da 70 ad 80 centimetri, e
ciò ben'inteso lunghesso la detta cordicella. A questi operai ne se-
guono altri, che sono i veri piantatori: essi portano i fasci di ma-
glioli o di talee e ne conficcano uno in ogni foro.
Come si vede il piantamento il Vannuccini lo fa con tralci collo-
cati in posizione verticale, cioè dritti, ed alla profondità di 70 od 80
centimetri; per ciò occorrono talee lunghe non meno di un metro,
le quali vengono ad avere fuori terra due gemme (g h fìg. 234: per
ora si faccia astrazione dal restante del disegno). Il foro com'è na-
turale non è riempito totalmente dalla talea; bisogna quindi cacciarvi
Fig. 234.
dentro altra terra e farlo con cura, senza di che alcune gemme po-
trebbero rimanere come in una piccola nicchia, e non darebbero ra-
dici: tutta la talea deve combaciare colla superficie interna del foro.
A tal'uopo il Vannuccini fa preparare da altri operai della terra ben
sciolta, prendendola generalmente alla superficie dello scasso, oppure
in quegli appezzamenti di vigna che non furono vangati, perchè al-
lora la terra superficiale ha potuto godere dei benefizii dell'areamento
e delle vicende atmosferiche ed è certamente terra fertile ed attiva:
in sostanza il nostro viticultore non adopererebbe mai, per riempire
i fori suddetti, della terra vergine non ancora panificata o sverginata,
e noi troviamo che ha in ciò molta ragione: infatti quella terra che
664 CAPITOLO XXII
va a circondare tutta la talea, è destinata a porgere il primo ali-
mento alle giovanissime radici delle gemme sotterranee, e deve per-
ciò essere ricca di principii prontamente assimilabili e possibilmente
ricca di sostanze azotate, le quali sono indispensabili alla formazione
di copiose radicelle ed al loro pronto accrescimento: se invece è una
terra sterile, perchè vergine, le radicelle cresceranno meschine assai
sin da' loro primi momenti di vita, e codesto con non piccolo pre-
giudizio della futura pianta.
Le tanto lamentate fallanze dei piantamene colle talee o coi ma-
glioli sono spesso da attribuirsi alle cattive condizioni in cui si tro-
vano le prime radici appena si formano; si tenga dunque calcolo del
bell'ammaestramento del Vannuccin?, se non si vogliono avere piante
rachitiche per difetto di conveniente ed abbondante alimentazione
nell'infanzia, diremo così, del loro piantamento.
Non possiamo andar oltre senze fare alcune osservezioni sulla lun-
ghezza delle talee adoperate dal Vannuccini, e sulla posizione ver-
ticale che è loro data nelle buche.
Abbiamo visto che esse sono lunghe almeno un metro: all'incirca
sette ad otto gemme rimangono dunque sotterra, e da esse prendono
origine sette od otto corone di radici, mercè cui la novella pianta
viene ad avere un sistema d'assorbimento molto potente: questo per
noi spiega in parte il vigore e la fecondità delle viti del Vannuc-
cini, la grossezza degli acini e la frequenza, sullo stesso pampino,
dei grappoli, i quali poi sono voluminosi oltre ogni credere. Con
tutto ciò non si potrebbe consigliare quel piantamento profondo, colà
dove non si fosse praticata la fognatura sovra descritta per lo spes-
sore di circa 20 centimetri, per cui la talea viene a poggiare per
così dire su uno strato molto permeabile e costantemente aerato.
Veggasi infatti la fìg. 234: il disegno rappresenta uno spaccato ver-
ticale d'una fossa A B profonda 1 metro; in C D abbiamo 20 cent,
di pietre, più sopra 80 cent, di terra, frammezzo alla quale sta la
talea e fg h. Or bene, se non vi fosse quella fognatura, e peggio
poi se tutto il terreno non fosse stato scassato e disaggregato con
cura, le corone di radici provenienti dalle gemme più basse e f oltre
ad essere assai meschine ed esili, si dirigerebbero tutte all'insù, verso
la superficie del suolo, in cerca di aria: ma allora sarebbero molto
più soggette ai danni della siccità estiva. Invece, mercè quella fo-
gnatura, ciò non accade, perchè le radici delle gemme inferiori oltre
a svilupparsi tanto robuste quanto le alto locate, trovano sempre
SISTEMI SPECIALI 1)1 EDUCARE LA VITE BASSA 665
nel terreno una quantità sufficiente di aria: esse quindi, perchè molto
profonde, sono indipendenti o quasi dai calori estivi, e possono tra-
smettere ai grappoli il necessario umido anche in luglio ed agosto,
facendoli ingrossare di molto. Ciò è quanto accade nei vigneti del
Vannuccini. Del resto la pratica di -piantare profonde le talee è pure
adottata in certi nostri paesi caldi ove si hanno terreni ciottolosi e
leggeri: ricorderemo al riguardo le terre lapillari e sofficissime dei din-
torni di Napoli, ove si pianta anche a più di 1 metro di profondità,
locchè sarebbe invece il più grave degli errori nelle terre compatte,
a meno che non si ricorresse alla fognatura, come ben fa il Vannuc-
cini: in caso diverso il fusto (cioè l'antica talea) si serberebbe quasi
così sottile come quando fu piantato, e tarderebbe non poco a dar
frutti, causa la sofferenza d'una parte delle radici, se non di tutte.
Esaminiamo ora la posizione della talea, la quale vien collocata,
come dicevamo, verticale o diritta. Ciò è razionale, poiché si tratta
di piantamento fìtto pel quale fa duopo utilizzare il meglio possibile
l'umido del suolo indispensabile ai tanti grappoli di quelle numerose
piante: le talee inclinate o sdraiate, come giustamente si usa di col-
locare nei piantamenti radi fatti in terre pingui delle nostre contrade
fresche, sono raccomandabili quando vi ha timore che la vite sia
pletorica: si ha così nel fasto sotterraneo un cotal rallentamento nel
movimento del succo, il quale scorre poi meno veloce nella pianta e
si elabora assai meglio. Le felici conseguenze di questa elaborazione
sono le seguenti: poca colatura e più copioso attecchimento dei grap-
polini. Nei piantamenti fitti, massime in paesi caldi, se la talea fosse
sdraiata si avrebbe una elaborazione non necessaria, la quale si tra-
durrebbe in una perdita di umidore, mentre le numerose piante del
vigneto ne abbisognano in grande copia: le conseguenze allora sa-
rebbero un intristimento nella pianta ed il raggrinzimento dei grap-
polini per difetto appunto di umido. Nelle vigne del Vannuccini in-
vece i grappoli sono tutt'altro che sofferenti, non ostante le 10 mila
piante per ettare; ciò vuol dire che il collocamento della talea ver-
ticale contribuisce, colle altre pratiche viticole del Vannuccini, a ren-
dere le pigne molto succose.
Però, il lettore ci potrebbe obiettare quanto segue; il rapido mo-
vimento del succo lungo la talea verticale, non nuoce forse alla fio-
ritura annegando, come suol dirsi, i fiorellini e facendoli abortire ?
E l'obiezione sarebbe molto seria; se non che il Vannuccini vi ha pure
pensato, e vedremo fra poco come egli provochi sempre un copioso
666
CAPITOLO XXII
pianto delle sue viti a primavera, appunto per ovviare ai danni gravi
della colatura. In estate poi l'abortimento dei fiori non è più a te-
mersi, ed anzi durante i calori estivi si ha bisogno di molto succo,
con quelle viti così fitte; ed ecco che allora il piantamento verticale
porta i suoi buoni effetti, e l'uva ingrossa rapidamente.
Sin qui abbiamo esaminato ne' suoi particolari il piantamento della
vigna secondo il metodo del Vannuccini: ora dobbiamo entrare in
un altro campo, in quello cioè della cultura ossia del governo della
vite; ed è qui specialmente che il nostro innovatore ha saputo, con
molta maestria, adattare i precetti della fisiologia vegetale alla pra-
tica della viticultura.
Procedendo quindi con ordine, vediamo come tratta le sue viti
il signor Vannuccini al 1° anno. Intanto nell'anno del piantamento
egli lascia che i getti, i quali provengono dalle due gemme lasciate
fuori terra, (fig. 235) crescano e si allunghino a loro bell'agio e con
tutta libertà: e la stessa libertà di vegetazione egli suol lasciarla ad
Fig.
ogni altro germoglio che spunti nel detto anno del piantamento. Non
v'ha dubbio che ciò conferisce assai al vigore della giovine pianti-
cella, perchè ove venissero fatte amputazioni alla sua parte aerea,
sarebbe rotta l'armonia che sempre deve esistere fra questa e la
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 667
parte sotterranea, ed in definitiva il sistema radicale ne soffrirebbe
non poco: ora trattandosi di una pianta che allora appunto sta for-
mandosi, si ingenererebbe in essa come un rachitismo, cui difficil-
mente potrebbesi rimediare in seguito. Il Vannuccini lascia adunque
che le sue viti, nei primi mesi della loro vita, si espandano liberamente.
L'anno successivo a quello del piantamento è il 1° anno di pota-
tura: questa consiste nello scegliere il getto più robusto fra quelli
dell'anno antecedente, e potarlo a due gemme, esportando del tutto
gli altri getti. Da queste due gemme prendono origine due nuovi
getti; il Vannuccini lascia che essi si allunghino a piacimento, ed a
ciò, come egli ci asseriva, ei si attiene con scrupolo, appunto per
non turbare quell'equilibrio fra i rami e le radici cui accennavamo
or' ora. Il Vannuccini ci attestò pure che durante questo secondo
anno egli raccoglie « un poco di frutto », ma questa fruttificazione
precoce egli la teme alquanto, perchè cagiona un indebolimento nella
pianta, come è facile ad intendersi.
Intanto eccoci al terzo anno; esso è il 2° per la potatura, la quale
a simiglianza della precedente consiste nel potare a due gemme il
getto più vigoroso, sopprimendo l'altro; la potatura a soli due occhi
è fatta allo scopo di evitare una relativamente soverchia produzione
di frutti, come dicevamo testé. Dalle due gemme lasciate alla pota-
tura escono due getti, ed anche questi son lasciati crescere con tutta
libertà, con molto vantaggio della robustezza della pianta e della sua
longevità; in quest'anno il Vannuccini vendemmia pure una quantità
d'uva proporzionatamente discreta, ma non esuberante, poiché nei
primi anni si tratta di formare la pianta, e non già di forzarla a
produrre grappoli.
Al quarto anno — che è poi il terzo di potatura — il Vannuc-
cini introduce una variante nel sistema fin'allora seguito nella po-
tatura: egli pota infatti a due gemme ambedue i capi delle due gemme
dell'anno precedente, ed ottiene così quattro getti. Questi quattro
getti non sono trattati ugualmente mentre stanno allungandosi: i due
collocati più in basso il Vannuccini li lascia intatti, mentre i due più
alti o li sopprime (se non portan frutti) oppure li cima o spunta a
due gemme sopra l'ultimo grappolo se han frutti. In questo quarto
anno le viti del Vannuccini sono sufficientemente vigorose, ed
è appunto tempo di porre un limite a questo vigore, cioè di mu-
tarlo in fecondità, senza di che, come già dicevamo, si raccoglie-
rebbe legno ma non frutti. E gli è appunto per rendere feconde le
CAPITOLO XXII
sue viti che egli sopprime i getti sterili, oppure cima quelli che portan
grappoli: ma nello stesso tempo, per non recare soverchia offesa al
sistema aereo della giovine vite, ed anche per ovviare a che questa
si alzi di troppo, egli lascia intatti i getti collocati in basso. E tutto
ciò è assolutamente razionale e bene ponderato.
Siamo così giunti al quinto anno, 4° di potatura. In questo anno
il Vannuccini tratta la vite come nel precedente, riguardo al taglio,
vale a dire che lascia due capi a caduna pianta, e di questi uno è
il capo a frutto, l'altro il capo a legno: ma nello stesso anno no-
tiamo nel sistema Vannuccini una pratica importante e caratteristica,
cioè V accecamento di qualche gemma alla base del capo a frutto;
e ciò oltre alla spuntatura dei getti portanti uva, tal quale come nel-
l'anno precedente. Al sesto anno, 5° di potatura, la pianta è for-
mata, è vigorosa, può fruttificare con una certa abbondanza senza
esaurirsi, ed è perciò che il Vannuccini lascia al capo a frutto anche
tre gemme, oltre le due accecate alla sua base; e qui pure i getti
fruttiferi di coteste tre gemme vengono cimaci come nei due anni
precedenti. Infine, negli anni successivi, il nostro bravo vìticultore
Kig. 230.
regola il numero delle gemme da frutto secondo il vigore delle singole
piante, ma si può stabilire come norma fissa che le gemme del capo
fruticoso non sono mai più di sette, comprese le due che si accecano.
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 669
Nella fìg. 236 qui unita è chiaramente indicato tutto ciò; e vi si
vede anche la disposizione delle canne ed il modo con cui il tralcio
a frutto vien ricurvato. In A abbiamo, disegnata dal vero, una vite
vigorosa, in B una vite debole; a b è lo sperone con due gemme;
la gemma a provvedere lo sperone pel successivo anno, la gemma
b darà invece il tralcio frutticoso. Le gemme 1 e 2 sono quelle che
il Vannuccini fa accecare (e ci occuperemo a lungo di ciò fra poco);
le gemme 3 e seguenti sono i bottoni frutticosi. Nelle piante deboli
sono quattro occhi in tutto (come in B) — nelle robuste sono sette.
Le canne sono il sostegno delle viti in quistione e le legature si
fanno con fili di ginestra; la fìg. 236 mostra come si seguono nelle
file i sostegni. Le viti il Vannuccini le dispone, come usasi a Scan-
sano, a quadrati o rettangoli detti in paese rasole: fra le rasole vi
sono passaggi larghi un metro o due, e profondi da 50 ad 80 cen-
timetri dal piano delle rasole stesse,
Ritorniamo un momento &W accecamento delle gemme; a pag. 198
abbiamo spiegato perchè generalmente le prime gemme dei capi a
frutto siano poco frutticose. È appunto per questo che il Vannuc-
cini le acceca. Nelle stesse viti ad internodi corti, che amano la po-
tatura corta e sono allevate ad alberello, le prime due o tre gemme
negli speroni non sono sempre frutticose in ugual misura, e spesso
conviene allungare la potatura perchè le gemme collocate più in alto
sono assai più fertili: lo osservammo noi stessi nei nostri alberelli.
Abbiamo interpellato su questo punto il Vannuccini^ desiderosi di u-
dire il suo avviso sull'accecamento delle prime gemme nelle viti a
speroni cioè basse, ed egli ci faceva giustamente osservare che l'acce-
camento — che dovrebbe praticarsi sulla terza e quarta gemma (1)
— impediva in tutti i casi soverchia produzione di germogli fron-
zuti per parte di quelle gemme assai vicine le une alle altre, la qual
produzione finiva col formare una fitta ombra sotto cui molti grappo-
lini abortivano e si mutavano in capreoli o viticci. Che i piccoli grap-
poli privati della luce solare si perdano con grande facilità è cosa
che nessuno può porre in dubbio, e per ciò trovammo assai oppor-
tuna la osservazione del Vannuccini.
Ma v'ha di più. Nel caso speciale del sistema Vannuccini, (veg-
(1) Le prime gemme, in questo sistema, servirebbero a fornire gli speroni al-
l'atto della potatura successiva: senza di esse la pianticella si alzerebbe di sover-
chio in poco tempo.
670 CAPITOLO XXII
gasi la figura 236 pag. 668) accecando le gemme 1 e 2 del capo a
frutto, si lasciano liberi nel loro accrescimento i getti dello sperone
a b; vogliamo dire che per tal maniera essi non si adombrano, non
si disputano per così esprimerci l'umore nutritivo coi getti del tralcio
frutticoso, ed il viticultore può essere sicuro di avere, dalle due gemme
a b, due vigorose cacciate. Cosa questa di grande momento, perchè
una di queste cacciate deve essere il tralcio a frutto per l'anno suc-
cessivo. Ed è tanto vero che i getti dello sperone si giovano di quel-
l'accecamento, che le loro gemme, le quali ordinariamente sono in-
feconde, diventano ubertose, cioè portano alquanta uva, come ci fu
dato osservare nel vigneto del Vannuccini.
Infine, mercè quell'accecamento il nostro valente viticultore oltre
a semplificare le operazioni della potatura verde, di cui diremo presto,
ottenne ed ottiene un sensibile maggior prodotto, locchè ebbe a con-
statare sin dal primo anno in cui lo esperimentò, e così sin dal 1872.
Questo prodotto s'accrebbe anzi nei successivi anni, senza scapito
nella robustezza della pianta, anzi con accrescimento di essa, e tutto
ciò — si noti bene — senza veruna concimazione.
Fig. 237.
Infatti, i futuri tralci a frutto nel sistema Vannuccini vengono ri-
curvati, come si vede nella figura 237 in a b e d e f g: i bot-
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 671
toni che si trovano nel tratto verticale ab e è impossibile siano u-
gualmente fecondi come quelli della porzione di tralci.) ricurva d e f g
nella quale il succo subisce come un arresto momentaneo, o per lo
meno un rallentamento, favorevolissimo alla fecondazione delle gemme
e ad un copioso immagazzinamento di materiali nei serbatoi delle
singole gemme stesse. Di qui i copiosi prodotti.
Per tutte queste ragioni crediamo razionale la pratica del Vannaccinì
e pensiamo che l'accecamento delle due gemme inferiori — al mas-
simo tre — possa raccomandarsi ai viticultori generalmente parlando,
non foss'altro per impedire una inutile uscita di getti ghiottoni, che
vegeterebbero a danno sia di quelli frutticosi, sia dei getti dello spe-
rone. Nel sistema Vannuccini l'accecamento delle gemme non espone
neppure il viticultore all'inconveniente di innalzare di soverchio la
vite; infatti — e questo a dir vero può farsi con tutti i sistemi —
volendosi abbassare la pianta si possono allevare dei piccoli speroni
(il Vannuccini ed i suoi compaesani li chiamano sbassatoi) ai quali
si lascia una sola gemma nel primo anno, e due nel secondo; allora
si taglia il vecchio legno alla inserzione dello sperone e la vite vien
abbassata quanto conviene.
Del resto il Vannuccini non si preoccupa molto di codesto, perchè
nello sperone delle sue viti egli trova sempre i due capi occorren-
tigli per l'anno avvenire, e li trova in posizione tale da non alzare
di soverchio la vite: nella peggiore delle ipotesi poi, egli ne trova al-
meno uno, e ciò gli permette di disporre liberamente delle gemme
del tralcio frutticoso, cioè gli permette di distruggere le prime due
o tre.
Concludendo tutto ciò, che ci pare interessante e nuovo, di-
remo che col suddetto accecamento il Vannuccini ottiene i seguenti
risultati: 1°) impedisce l'uscita di germogli quasi sempre infecondi, e
veri ghiottoni; 2°) favorisce l'allegamento dei frutti perchè impedisce
un soverchio adombramento dei grappolini nascenti; 3°) favorisce lo
sviluppo dei getti dello sperone; 4°) rende feconde in certa misura
anche le gemme degli speroni stessi; 5°) infine ottiene un maggior
prodotto, senza scapito nella vigorìa della pianta, perchè usufrutta
le gemme più feconde del tralcio fruttifero.
Vediamo ora quando è che il Vannuccini vuole potate le sue viti.
Premetteremo che, nell'atto in cui pota, egli mira non solo a conseguire
quei vantaggi che sono la conseguenza diretta della potatura delle
viti, ma altresì ad impedire in modo quasi assoluto i danni dell'a-
672 CAPITOLO XXII
borto dei fiori, locchè si traduce in un sensibilissimo aumento di
prodotto.
L'aborto dei fiori, che con barbara espressione tolta dal francese
noi chiamiamo colatura, reca annualmente gravi danni ai vigneti di
tutta la penisola; non è soltanto nelle regioni ove la primavera è
piovosa che si vede talvolta ridotto di metà il prodotto, ma altresì
in quei paesi caldi ove le viti di terreni fertili sono succise, o po-
tate corte; i siciliani di Mascali per esempio, sanno benissimo che
cosa è la scurritina di quelle viti, le quali hanno pochi cornetti o
spaile, ricche di succo acquoso che, se cosi possiamo esprimerci, af-
foga i fiorellini a primavera. Se si facesse una statistica dei danni
approssimativi che arreca ogni anno l'aborto suddetto nei nostri vi-
gneti, si rimarrebbe sorpresi dell'entità del danno medesimo: i viti-
cultori intelligenti ben lo sanno, e non mancano infatti di ricorrere
al salasso, all'incisione anulare, e ad altre pratiche tendenti a pro-
vocare un arresto nel succo ed una migliore elaborazione, oppure
un disperdimento di linfa acquosa.
Il Vannuccini non si preoccupa molto dell'andamento dell'autunno,
dell'inverno e della primavera, che possono essere trascorsi più o
meno acquosi; egli, tutte le primavere, prende invariabilmente le sue
misure di precauzione contro l'aborto dei fiori, e queste misure con-
sistono nella potatura in due tempi seguita talvolta da una specie
di salasso praticato sulle piante pletoriche.
La prima potatura il Vannuccini la pratica dopo la caduta natu-
rale delle foglie: (essendo egli contrario allo stbgliamento, lascia che
questi indispensabili organi di nutrizione cadano di per sé stessi, dopo
di aver giovato per il più lungo tempo possibile al perfezionamento
dei tralci); sul tardo autunno adunque il nostro viticultore fa la po-
tatura al completo degli speroni, seguendo il sistema che descri-
vemmo a pag. 666: per tal modo le gemme anticipano lo sboccia-
mento, i loro getti si fanno assai rigogliosi, più rigogliosi di quelli
del capo a frutto non ancora potato, e per tal maniera si prepara
in essi uria abbondante fruttificazione pei prossimo anno: oltre a ciò
è chiaro che cotesti getti, i quali si sviluppano ed allungano prima dei
germogli fruttiferi del tralcio a frutto, smaltiscono una certa quan-
tità di succo, che attraggono a sé con forza a guisa di getti
ghiottoni, e così impediscono in certa misura che i fiori abortiscano
nei detti germogli fruttiferi.
Ma veniamo alla seconda potatura. Questa il Vannuccini la pratica
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
673
al principio della primavera e precisamente quando la vite incomincia
a piangere: allora egli pota i capi o frutto tagliandoli in guisa
da lasciar loro, come già dicemmo, sette od al più otto gemme
È questo un vero salasso, ossia una svettatura, mercè la quale
la vite perde una copiosa quantità di umore acquoso, i suoi fiori
attecchiscono ed i suoi frutti allegano. Ma nelle viti molto ro-
buste e pletoriche il Vannuccini non si accontenta di questa pota-
tura tardiva; egli, non appena il pianto accenna a voler cessare, ri-
taglia di nuovo la punta dei capi a frutto al disopra dell'ultima gemma,
cioè salassa le sue viti, come pratichiamo noi pure da varii anni con
pieno successo; allora il pianto ricomincia da capo, ed i fiorellini
sono salvi.
E non è ancora tutto qui. È tale il timore che ha il Vannuccini
dell'eccesso di succo acquoso, che, sempre a primavera, egli usa pra-
ticare, sulle piante molto pletoriche e nelle annate umide, un taglio
speciale sulla ceppaia mercè il secatore, il roncolo od un coltello a-
dunco qualsiasi. Questo taglio consiste nell'esportare una piccola
squamma di legno, larga all'incirca quanto è largo un centesimo,
cagionando così una ferita leggera che va sino all'alburno: la fìg. 238
Fig. 23S.
ci mostra in a dove si farebbe il piccolo taglio: ed in b il taglio
stesso già fatto. È una operazione semplicissima, la quale richiede
assai poco tempo e dà risultati veramente ottimi, per impedire l'af-
fogamento dei fiorellini.
Con queste pratiche adunque il Vannuccini scansa i danni dell'a-
borto dei fiori o del non allegamento dei frutti, e non gli occorre
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 44
674 CAPITOLO XXII
perciò di ricorrere alla incisione anulare od alle pratiche tendenti
allo stesso scopo, le quali sono di esecuzione assai più complicata,
e senza dubbio poi di esito meno sicuro.
Ed eccoci ora a descrivere il complesso di quelle importanti pra-
tiche che si sogliono chiamare « la potatura verde della vite »:
il Vannuccini vi attribuisce una grande importanza, perciò, dopo a-
vere studiato accuratamente la quistione, è riuscito ad una soluzione
che può benissimo conciliare fra loro i partigiani ed i non partigiani
della anzidetta potatura verde.
Per maggior chiarezza divideremo le pratiche del Vannuccini in
due gruppi; quelle che riguardano il tralcio a frutto, e quelle che si
riferiscono ai getti dello sperone.
Il tralcio a frutto è come dire il tutore dei grappoli che portano
i suoi getti uviferi; se sullo stesso tralcio il viticultore lascia che si
accumulino le cacciate erbacee infruttifere, i frutti riescono meschi-
nelli e poco ricchi di succo, perciò il prodotto complessivo del vi-
gneto si riduce d'assai. Siccome nel sistema Vannuccini la fruttifica-
zione avvenire si prepara esclusivamente nelle gemme d'uno dei getti
dello sperone, ne segue che nel tralcio a frutto dell' annata il viti-
cultore non ha a considerare altro che i grappoli pendenti, e può
quindi togliere tutto quanto non porta uva. Ma neppure i getti clie
portano i grappoli debbono lasciarsi allungare a tutto loro agio;
è chiaro che così si priverebbero i grappoli stessi di una parte non
piccola di linfa: i getti uviferi debbono quindi spuntarsi. Però non
si deve eccedere nell' esportare le foglie, perchè questi preziosi or-
gani sono il laboratorio nel quale si prepara il glucosio, che emigra
quindi nelle pigne: sopra i grappoli perciò vi debbono essere alcune
foglie, senza di che l'uva maturerebbe male, darebbe un mosto aspro
e povero di zucchero.
Gli è dietro queste considerazioni che il Vannuccini ha stabilito
di trattare nel seguente modo i suoi tralci a frutto (ed i risultati
pratici che egli ottiene sono da varii anni ottimi): — dalle gemme
del tralcio frutticoso, spuntano, come tutti sanno, dei getti uviferi;
questi si devono lasciar crescere a loro talento sino a tanto che sìa
possibile di cimarli o svettarli alla seconda foglia sull'ultimo grap-
polo: nel tempo istesso si osserva se vi sono getti sterili, e questi
si sopprimono tosto, come fa anche in Monferrato qualche intelli-
gente viticultore.
L'effetto di questa cimatura è noto; essa provoca V uscita delie
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 675
femminelle o nepoti (1) all'ascella delle foglie dei getti spuntati. Queste
femminelle il Vannuccini le sopprime; anzi egli sopprime anche la
piccola gemma che si disegna alla loro base, e perciò strappa o
scoscia contr'occhio il nepote (come dicesi nel luogo). Così il tralcio
frutticoso è liberato da ogni produzione inutile, mentre le foglie
lasciate ai getti uviferi, crescono in ampiezza ed in vigore vegeta-
tivo, e si hanno infine grappoli ad acini turgidi e ricchi di mosto,
come ebbimo ad osservare noi stessi con molta compiacenza.
Un'ultima osservazione; il tralcio frutticoso dopo queste cimature
è abbandonato a sé, salvo a schiantare o scacchiare quei nuovi getti
sterili che per caso vi spuntassero sopra. All'incirca 15 giorni prima
della vendemmia si usa generalmente sfogliare il tralcio a frutto:
ebbene il Vannuccini non isfoglia, e per verità le sue viti non ne
hanno bisogno, dopo le cimature e le scacchiature suddette. E notisi
che sono rilevanti le differenze che passano fra le uve delle viti sfo-
gliate e quelle delle viti lasciate intatte; anzitutto le pigne sono più
zuccherine, tanto da potersi riconoscere la maggior dose di glucosio,
e con facilità, al semplice tatto.... spremendo qualche acino; d'altra
parte esse sono anche più ricche di mosto; nella nostra escursione
a Scansano abbiamo potuto calcolare circa il 20 Ojq di più nelle uve
delle viti non sfogliate.
Raccomandiamo perciò ai viticoltori di fare al riguardo delle espe-
rienze comparative; non si tema che le pigne non maturino se non
giungono ad esse direttamente i raggi del sole; si ritenga invece che
l'uva deve rimanersene all'ombra, massime durante gli ardori della
canicola, e pure all'ombra maturare, lasciando che le sole foglie usu-
fruiscano della viva luce solare che è indispensabile alla produzione
di molto glucosio. Gli è per questo che noi abbiamo sempre racco-
mandato una sfogliatura, pochi giorni prima della vendemmia, mo-
deratissima: ma il Vannuccini non ne pratica punto, e crediamo che
sia la sua una pratica razionale, tanto più che egli, non essendo esclu-
sivista, effettua una moderata sfogliatura quando Y estate trascorre
poco calda e poco umida; in tal caso scopre le uve una settimana
al massimo prima della vendemmia acciò le pigne possano godere
per alcuni giorni del beneficio d'un maggior calor solare e della luce
(1) Ci piace assai questo appellativo perchè si tratta realmente dei nepoti del
tralcio a frutto, i cui figli sarebbero i getti uviferi.
676 CAPITOLO XXII
diretta, che, in quelle annate, può giovare al succo degli acini, ren-
dendolo meno acquoso.
Vedremo ora che ad ogni modo il Vannuccini non isfoglia che i
getti del tralcio frutticoso; mai quelli dei capi destinati alla futura
potagione.
Veniamo ora alle pratiche che si riferiscono ai getti dello sperone.
Questi getti, come dicemmo a pag. 669, sono due; uno è destinato
alla futura fruttificazione, l'altro deve essere potato a due gemme.
Avendo scopi ^diversi è naturale e logico che siano trattati diversa-
mente; e così adopera il Dr. Vannuccini.
Il getto più alto locato dello sperone è oggetto di molte cure, perchè
ove fosse trascurato, Tanno dopo darebbe poca uva; nelle sue gemme
debbono formarsi i futuri getti uviferi, quelle hanno perciò bisogno
di molto ed appropriato alimento, cioè di succo convenientemente
elaborato.
Alla elaborazione del succo giova — è cosa oramai nota a tutti
i viticoltori e frutticultori — ricurvare i rami frutticosi, ed è per
questo che il Vannuccini li ricurva, facendo volgere la loro punta
verso terra, come si vede nella fig. 237 in b e d e f g.
Ma non è tutto qui. Questi futuri capi frutticosi il Vannuccini li
lascia crescere a loro bell'agio, cioè non li spunta né sfoglia meno-
mamente: ma cima però le femminelle o nepoti che spuntano alla
ascella delle future gemme frutticose. Questa cimatura la fa sulle
femminelle delle gemme e f g e seguenti, a due foglie, mentre le
gemme ed — che tanto dovranno essere accecate — egli le priva
dei nepoti e lascia loro soltanto le foglie. Tutto ciò è logico; se le
femminelle delle gemme e f g e seguenti si lasciassero allungare a
loro bell'agio, ne scapiterebbero le gemme stesse che stanno alla
loro base; cimandole a due foglie, vi ha un arresto nel succo, che
va a totale| benefizio dei bottoni, cioè della fruttificazione futura. In
quanto alle girarne e d che saranno accecate, è inutile che colle loro
femminelle smaltiscano del succo nutritore a danno dei bottoni sud-
detti e dei frutti pendenti; perciò si devono sopprimere.
Infine vediamo come tratta il Vannuccini il getto della gemma in-
feriore dello sperone: questo getto dovrà poi speronarsi, come si suol
dire, a due gemme, dunque le due sue prime gemme sono pel viti-
cultore assai più importanti che le altre. Ed ecco che il Vannuc-
cini alle due prime gemme a" V (fig. 237) lascia non solo la loro
foglia, ma anche la femminella, spuntata a due foglie m n od anche
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 077
ad una sola; in quanto alle altre gemme e d' ecc. che all'atto della
potatura verranno esportate, egli lascia loro soltanto la foglia, e leva
il nepote, che, ove fosse lasciato stare, crescerebbe a danno di tutti
i bottoni dei due getti dello sperone, nonché dei frutti pendenti.
Anche questo getto, destinato a dare lo sperone, vien piegato ad
arco, come si vede nella figura 237; con questa piegatura si fe-
condano meglio le gemme della sua base, e si ha così uno sperone
vigoroso che dà poi due getti pure vigorosi.
In tutte queste bellissime pratiche si scorge che il Vannuccini
mentre non vuole che la vite sfoggi in produzioni inutili perchè in-
fruttifere, non le infligge però soverchie e capricciose amputazioni,
ma procura di ottenere uve ricche di succo zuccherino e nello stesso
tempo si prepara una abbondante fruttificazione per l'anno successivo.
Sin qui abbiamo parlato della cimatura: ora dobbiamo dire qualche
cosa anche sulla scacchiatura, cioè su quella operazione che ha per
iscopo di privare la~ vite di quei polloni o getti infruttiferi e ghiot-
toni, che spuntano massimamente sul vecchio ceppo.
Questi polloni il Vannuccini li leva non appena sono spuntati, e
solo ne lascia qualcuno in posizione opportuna allorquando la vite
essendosi elevata di troppo egli vuole abbassarla: quel pollone infatti,
come già dicemmo, lo chiama sbassatolo o razzolo. La ragione per
cui il Vannuccini pratica questa scacchiatura precoce è essenzial-
mente questa, che egli non vuole che vi sia nelle sue viti una di-
spersione di succhi in produzioni parassitiche: e i polloni suddetti
sono veri parassiti perchè quasi sempre non portan uva, e se anche
recassero qualche grappolo egli pensa che conviene rinunciarvi, perchè
ove si lasciassero crescere a loro beli' agio ne risentirebbero danno
non solo i frutti pendenti, che riescirebbero meno ricchi di succo,
ma anche le gemme destinate ad apparecchiare la fruttificazione futura.
Si potrebbe obiettare che quando le piante sono molto robuste, ed
hanno bisogno di dar corso alla sovrabbondanza dei proprii umori,
massime in annate umidiccie, la scacchiatura è un danno, perchè quei
polloni sono come tante valvole di sicurezza, tanti smaltitoi dell'ec-
cesso di succo acquoso, e così non si ha troppo pericolo che i fiori
abortiscano per la così detta colatura: e ciò è vero, perchè il viti-
cultore sa benissimo che quando il sistema aereo della pianta non
può smaltire tutto quanto gli viene apprestato dal sistema sotterraneo,
ci vanno di mezzo i frutti.
Ma il Vannuccini ha preveduto questa obiezione, e per impedire
678 CAPITOLO XXII
l'aborto dei fiori egli provoca un copioso pianto dalle sue viti colla
potatura tardiva e con una specie di salasso di cui già discorremmo
a lungo. Egli può dunque con tutta tranquillità far la sua scacchia-
tura precoce, cioè far la guerra a tutto ciò che è inutile: la sua
pratica di molti anni dimostra che questo sistema dà eccellenti ri-
sultati, locchè vuol dire che è razionale.
A pag. 676 abbiamo detto, quasi di passaggio, che il Vannuccini
ricurva i futuri capi a frutto, come lo indica il disegno stampato
a pag. 668. Non abbiamo insistito maggiormente allora sulla utilità
di questa pratica, perchè volevamo dedicarle uno speciale brano,
e gli è ciò che facciamo qui.
Le viti del Vannuccini, quantunque non vengano mai aiutate col
concime, sono di una fecondità degna di rimarco; or bene, noi cre-
diamo (ed è dello stesso avviso anche il Vannuccini con tutti coloro
che hanno fatto osservazioni diligenti sulla fruttificazione della vite),
che ciò debba attribuirsi in grande parte a quella ricurvatura, ef-
fettuata tra il finir di giugno ed il luglio, prima insomma della ca-
nicola estiva. Bisogna ricordare che il Vannuccini lascia allungarsi
a loro bell'agio i detti futuri capi frutticosi, e solo ne cima i ne-
poti; ora un tralcio che si allungasse secondo la verticale, nò fosse
mai spuntato dal viticultore, l'anno dopo sarebbe assai poco frutti-
coso, perchè il succo anziché nutrire bene le gemme ed arricchire
il loro serbatoio di sostanza alimentare, si sciuperebbe in una inu-
tile produzione erbacea o legnosa. Il Vannuccini, che ben sa
ciò, ricurva il tralcio, rallenta il movimento della sava ed ha gemme
feconde; locchè è noto del resto in tutta la Toscana, e qua e là
anche nel Monferrato, nell'Astigiano e via dicendo. Che le gemme
dei tralci nelle viti in questione siano molto feconde lo dimostra
questo fatto da noi osservato: i pampini nati dalle gemme stesse
non solo portano spesso tre grappoli, ma li portano a poca distanza
l'uno dall'altro, e son grappoli di gran peso; spesso il primo grap-
polo si trova appena 5 o 6 centimetri di distanza dall'inserzione del
getto uvifero sul tralcio a frutto, ed il secondo grappolo dista dal
primo d'altrettanto, v' ha cioè un internodo o meritallo assai breve:
il terzo grappolo poi si trova circa a distanza doppia. Questi inter-
nodi cortissimi, nonché la frequenza e la grossezza dei grappoli, di-
notano molta fecondità nelle gemme frutticose, le quali sin dall'anno
precedente debbono essersi organizzate assai bene, mercè le cure
dell'intelligente viticultore.
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 679
La curvatura dei tralci a frutto il Vannuccini la fa in guisa che
essi volgano la loro punta a terra, e perciò li lega alle canne o con
vimini di salice, o con fili di ginestra, locchè è molto più economico.
Raccomandiamo adunque caldamente la ricurvatura dei futuri capi
a frutto, massimamente colà dove le viti sono vigorose e tendono a
sfogarsi, se così possiamo dire, in produzioni legnose. V'ha un mezzo
molto economico per adottarla, ed è quello di recidere in giugno i
capreoli o viticci ai detti tralci, lasciando poi che da sé stessi si fac-
ciano penzoloni od orizzontali, salvo poi ad appoggiarli agli altri tralci
vicini: così si avranno gemme turgide e feconde.
Un' altra eccellente pratica è ormai entrata nelle consuetudini del
Dott. Vannuccini, ed è lo scortecciamento delle vecchie ceppate,
o, diremo meglio, la loro raschiatura.
Egli suole effettuarla ogni due o tre anni, massimamente sulle viti
annose, dividendo il vigneto in varie sezioni o appezzamenti. Questa
operazione, tanto efficace per ringiovanire le vecchie piante, è in
Italia antichissima, e la si trova raccomandata già da Columella
Anche Pier de1 Crescenzi e poi Filippo Re e Carlo Verri ed infine
molti moderni la dissero tanto utile alla vite quanto è utile per esempio
tener mondo dalle male erbe il suolo del vigneto. (Vedi il Cap. XX.)
Infine vediamo la parte economica.
Il reddito medio annuale della vigna deWIng. Vannuccini è la mi-
glior prova della bontà del sistema che abbiamo descritto nelle pagine
precedenti: vediamone adunque la entità.
La vigna in discorso non è un piantamento recente; si tratta in-
vece di ceppaie le quali hanno circa ottantanni d'età, piantate cer-
tamente con metodo poco razionale, ma coltivate dal 1871 in qua
con molte cure dal Vannuccini. Sino dal 1871 i\ podere dei Ripacci
(questo è il nome del vigneto-oliveto) era stato tenuto a colonia, ed
i coloni non volevano saperne di fare nuovi tentativi su nuovi me-
todi di educazione delle viti stesse; perciò il Vannuccini riprese per
suo conto una parte del podere, quella precisamente ove stavano le
piante più attempate, ed ivi incominciò le sue prove su modesta scala
siccome deve adoperare ogni prudente agricoltore. I risultati furono
completi, come lo dimostrano i seguenti dati :
Reddito ad ettare prima del 1871 (colonia) ettol. 5,71
Id. nel 1875 (sist. diret.) » 62,85
e questo aumento di prodotto fu grado grado accompagnato da un
680 CAPITOLO XXII
invigorimento delle ceppaie, che prima parevano esauste e sfinite:
il fatto è degno di rimarco, massime per quei viticuitori che, colti-
vando irrazionalmente le loro viti, sono costretti a rinnovarle ogni
20 o 25 anni.
Dal 1871 al 1875 il vigneto dei Ripacci subì la transizione dal
vecchio al nuovo sistema; poco per volta le singole ceppaie, a se-
conda dello stato in cui si trovavano, vennero ridotte, secondo le
nuove vedute del Vannuccìni, e così nel detto anno 1875 egli potè
avere il primo prodotto, dieci o dodici volte superiore a quello che
ottenevano dapprima i coloni.
Il vigneto dei Ripacci non è specializzato nel senso rigoroso della
parola; infatti fra le ceppaie cresce l'olivo, che in media vi dà frutti
ogni due anni. Ma tolto l'olivo, null'altro si coltiva negli interfìlari,
che anzi sono lavorati spesso e tenuti costantemente mondi da ogni
vegetazione parassitica.
E così il primo lavoro del terreno si fa sempre colla vanga da
30 a 35 centimetri di profondità, avendo cura, mentre si eseguisce
tale vangatura, di togliere tutte le piccole radici che trovansi sulla
ceppaia o pedone delle viti: questa operazione chiamasi in Toscana
e nel Lazio sbarbettatura, e per essa si tolgono tutte le barboline
per un tratto della ceppaia lungo quanto è profonda la vangatura
stessa: si opera da febbraio a tutto marzo, ossia prima che le gemme
si muovano, come dicono i viticuitori. Verso la fine di maggio, o ai
primi di giugno, si zappa il suolo per la prima volta, a 15 centim.
di profondità. Il Vannuccìni ci diceva che colla vangatura del marzo
si porta a 30 centimetri di profondità la terra superiore già fecon-
data, mettendola a contatto del primo palco di radici, mentre colla
zappatura del maggio o giugno vien portata a 15 centimetri sotto
il suolo quella che nell' anno antecedente trovavasi a 30 centimetri
di profondità, essa pure ora fecondata al contatto dell' aria durante
i due mesi che ordinariamente corrono dalla vangatura alla prima
zappatura. Verso la fine di giugno e ai primi di luglio si fa una se-
conda zappatura più superficiale, allo scopo di sminuzzare bene la
terra e renderla poco conduttrice e più fresca durante la canicola
estiva: infine in agosto si fa spesso 1' ultima zappatura, che tanto
contribuisce a far ingrossare gli acini, come appunto ebbimo a con-
statare anche nelle vigne del Vannuccìni. Come si vede adunque, il
vigneto dei Ripacci è lavorato con ogni maggior cura, e quando noi
lo visitammo ci parve un giardino, tant' era ordinato e ripulito per
ogni dove.
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 681
Abbiamo detto or'ora che fra i filari vi sono gli olivi: questi sono
collocati alla distanza media fra le file di 9 metri, con 7 metri tra
fila e fila; si ha così una pianta d' olivo per ogni 60 mq. circa; in
media si può calcolare che vi sono 150 olivi per ogni ettare di vi-
gneto. Attorno al tronco degli olivi non vi sono spazii vuoti : però
se una pianta di vite viene costì a morire, il Vannuccini non la sur-
roga con altra pianta, per non offendere le radici dell' olivo.
I detti 150 olivi danno un prodotto medio annuo di 8 ettol. d'olio,
il quale Vendesi in media, a Scansano, L. 100 all'ettolitro: il prodotto
lordo può quindi valutarsi a L. 800 ad ettare da aggiungersi al pro-
dotto lordo delle viti.
Le viti di Ripacci in media danno 80 ettolitri di vino ad ettare,
che venduti in media a L. 25, danno un beneficio brutto di L. 2000,
e cogli olivi L. 2800. Ma le spese di coltura, comprese quelle di
fabbricazione del vino e dell'olio, e compreso il fìtto del terreno (che
devesi pure notare in ispesa) ammontano circa a 1300 lire per et-
tare, per cui il beneficio netto s' aggira intorno alle L. 1500. Gli è
appunto perchè le spese di coltivazione ecc. assorbono quasi la metà
del prodotto lordo, che nello Scansanese si va ora adottando da ta-
luno il sistema di mezzeria.
Ma vogliamo entrare in maggiori dettagli riguardo alle spese sud-
dette nonché ai prodotti che il Doti. Vannuccini ricava.
Esamineremo perciò la contabilità del podere dei Ripacci nei tre
anni 1878, 1879 e 1880.
— 1878 —
Entrata lorda in vino e olio L. 3807 —
Il vino si vendette L. 24 all'ettolitro e se ne raccolsero ettol. 103.
Spese di coltivazione e successive di manipolazione dei prodotti » 1830,48
Utile netto L. 1976,52
Misurando la vigna ettari 1 lj2 ragguaglia l'utile a L. 1317 —
— 1879 —
Entrata lorda in vino e olio ........ Li 3034 —
Il vino si vendette L. 28 all'ettolitro e se ne raccolsero ettolitri 94.
Spese di coltivazione, ccc » 1343,13
Utile netto L. 1690,87
Ragguaglia ad ettare L. 1126 — ■
Iu quest' anno fu quasi nulla la raccolta dell' olio.
682 CAPITOLO XXII
— 1880 —
Entrata lorda in vino e olio L. 5171,25
Il vino è costato L. 33 all'ettolitro e se ne raccolse ettol. 114. Spese » 1905,69
Utile netto L. 3265,56
Ragguaglia l'utile ad ettare L. 2177 —
Hanno a questo brillante risultato contribuito la simultaneità della buona rac-
colta del vino e dell'olio e il caro prezzo del vino.
RIEPILOGO.
Ragguaglio dell'utile ad ettare nel 1878 L. 1317 —
ld. pel 1879 » 1126 —
Id. pel 1880 » 2177 —
Totale L. 4620 —
Media triennale dell'utile ad ettare L. Io40 —
Ecco ora lo specchio dei lavori annuali di coltivazione e confe-
zione dei prodotti pel 1880, desunto dai Settimanali del Vignaiuolo:
DESCRIZIONE DEI LAVORI.
1. Potatura delle viti in tre tempi, cioè tagliatura dei getti, del frutto Spesa
appena colta l'uva, potatura degli speroni, dalla caduta delle foglie
a tutto gennaio, e svettatura dei capi a frutto, rifinimento della
potatura, cioè raccorciamento dei capi a frutto a seconda della
qualità e vigore delle singole viti, e taglio al posto del vecchio
capo a frutto alla sua inserzione fatta all'aprirsi della primavera
quando la vite piange L. 53,56
2. Remozione dei pali, o spalatura e raccoglitura dei tralci in avanzo
della potatura ........... 19,25
3. Vangatura generale della vigna a 30 centimetri di profondità, e
sbarbettatura delle viti, cioè taglio delle piccole radici a tutta la
profondità della vangatura che si eseguisce entro il mese di marzo » 248,04
4. Ripalatura delle viti, e valore delle ginestre per legarle . . » 150,94
5. Zappatura dei viali interni o stradelle di circolazione per la mon-
datura delle male erbe ......... 72,03
6. Ripulitura degli olivi o taglio dei ghiottoni e del secco, la pota-
tura regolare essendo stata fatta nei due anni antecedenti . » 7,87
7. Sbrucatura o caccia ai bruchi od insetti nocivi alla vite . . » 7,70
8. Scacchiatura e cimatura delle viti fatta in media per tre volte di
seguito, scortecciamento dei pedoni per una terza parte ogni
A riportarsi L. 559,39
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 683
Riporto L. 559,39
anno fatto nei primi della primavera, e scacchiatura dei pedoni
o dei getti ghiottoni che vi si producono » 248,64
9. Zappature due della vigna fatte in maggio e giugno . . » 135,24
10. Zolfatura in più volte e valore dello zolfo consumato . . » 78,90
11. Mantenimento di muri e di siepi » 39,62
12. Lavori della concimaia ......... 13,52
13. Tagliatura e trasporto delle canne, e zappature due del canneto » 26,56
14. Spese per il barbatellaio o vivaio di viti per gli annuali rinnuovi » 26,90
15. Concimazione degli olivi, valore del concio impiegato e ricopri-
tura con apposita zappatura » 53 —
16. Consumo di strumenti agricoli . . . . . » 20 —
17. Spampinatura moderata in prossimità della vendemmia . . »' 25,80
18. Vendemmia » 49,50
19. Trasporto delle uve nella tinaia a Scansano . t> 145,20
20. Spese di pestatura dell'uva, ripulitura dei vasi vinari, svinatura
ed imbottaggio . . . . . . . . . » 88 —
21. Coglitura delle olive » 250,04
22. Trasporto delle olive al frantoio, frangitura e confezione dell'olio » 145,20
Totale L. 1907,51
Il beneficio netto medio di L. 1500 ad ettare che ottiene il Dott.
Vannuccini è la più eloquente conferma della razionalità del sistema
descritto: già sappiamo a che cosa devesi questo elevato reddito, a
cui se contribuiscono le varietà di vitigni coltivate ai Ripacci (1),
contribuiscono pure, e noi riteniamo in maggior misura, le pratiche
sin qui descritte, colle quali si trae grande partito delle attitudini
vitifere dei vizzati medesimi.
Noi terminiamo quindi raccomandando ai viticultori che facciano
se non altro dei saggi: non si tema se si avessero a fare tentativi
anche su vecchie viti; il Vannuccini incominciò le sue prove su vigne
di 80 anni circa, le quali, come egli fermamente crede, non erano
state piantate secondo i sistemi razionali, eppure riuscì pienamente.
Meglio però in ogni caso se si esordirà da un razionale piantamento,
quale descrivemmo in principio di questo paragrafo.
(1) Ecco i nomi di questi vitigni: uve bianche: Aleatico, Trebbiano o Proca-
nico, (prevalente nel vigneto) Malvasia, Moscatello, Moscatellone, Colombana; —
uve rosse: Vaiauo, Aleatico, Caprugnone, Canaiola, Sangioveto, Tinta di Spagna,
Morellino.
684
CAPITOLO XXII
§ 12. Sistema Cazenave-Marcon. — Questo sistema, descritto
e lodato dal I)r. Guyot (1) si deve ai signori Cazenave e Marcon,
il primo di La Réole, (Gironda) il secondo di La Mothe-Montravel
(Dordogna): è un sistema razionale degno di nota, perchè le viti
così educate sono non solo feconde ma eziandio vigorose e longeve.
Eccone una succinta descrizione.
Il piantamento deve farsi con talee o barbatelle alla distanza mi"
nima di due metri in tutti i sensi, oppure a file distanti 2 metri colle
ceppaie a 3 m. nelle file; il terreno vuole essere preparato con molta
prodigalità in fatto di concimi, perchè è indispensabile che le nuove
piante diano alla fine del secondo anno, od al massimo al finire del
terzo, due getti vigorosissimi lunghi 3 o 4 metri. Uno di questi
getti è scelto come tralcio maestro {a b fig. 239) ossia cordone o-
239.
rizzontale, e l'altro, il meno bello, si taglia rasente la ceppaia. L'ar-
matura consta di tre fili di ferro, di cui il 1° dista mezzo metro dal
suolo, il 2° 0"\35 dal 1°, ed il 3° 0"\50 dal 2°; ogni tre metri vi
ha un palo di sostegno, indispensabile perchè il filo possa sostenere
la molta uva che si ottiene col sistema in quistione. Disteso sul 1°
filo il tralcio a b, lungo almeno 2 metri, e convenientemente allac-
ciato, si accecano tosto tutti i bottoni o o o che si trovano nella
sua parte inferiore, conservando soltanto quelli superiori e e e, te-
fi) Ètude des vignobles de France T. I pag. 471 e
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
685
nendoli distanti 30 centimetri in questo 2° anno di vegetazione, onde
bisogna sopprimere quelli intermediarii. I getti usciti da questi occhi
si lasciano allungare di 80 centimetri, poi si mozzano e si filano al 2°
filo; essi intanto daranno due bei grappoli per ciascuno. Le femmi-
nelle si cimeranno esse pure sopra la 4a foglia. Al primo anno di
fruttificazione, come avvertono gli stessi signori Cazenave e Marcon,
Y uva non matura troppo bene, per V eccessiva lunghezza lasciata
d'un tratto al capo a frutto a b; in seguito però la maturazione sarà
perfetta. Questi tralci si potano poi a sei — otto occhi, e si attac-
cano inclinandoli, al 2° filo di ferro. Si hanno allora ad esempio sei
tralci con sette gemme caduno, cioè in tutto 49 occhi, onde la vite
può espandersi con una certa libertà. Al terzo anno, e così nei suc-
cessivi, si poterà sempre a uno sperone (s s fig. 240) con due gemme
Fig. 240
e ad un tralcio frutticoso con sei ad otto gemme come si vede chia-
ramente nel disegno; allora i tralci frutticosi non si tengono più a
30 o 35 centimetri di distanza sul cordone, ma più vicini d'assai, co-
sicché invece di avere sei o sette occhi sul cordone a b, se ne lasciano
quindici o sedici. In questo caso si hanno circa 80 bottoni per pianta,
con aumento progressivo del prodotto, che Guyot valuta a 125 —
150 ettolitri di vino ad ettare. « Tutto ciò, esclama l'eminente scrit-
tore, è naturale, normale e nello sviluppo fisiologico della vite ».
Certo però, per permettere alla vite di dare questi copiosi prodotti
senza esaurirsi troppo precocemente, bisogna tratto tratto provve-
dere il vigneto di un appropriato concime. Il Guyot ha proposto ai
686 CAPITOLO XXII
signori Cazenave e Marcon una modificazione indicata chiaramente
dalla fig. 240, vale a dire la curvatura dei capi a frutto, eliminando
il 2° filo di ferro. Si ha così una economia nella spesa di armatura,
e più uva, o per dir meglio minor perdita di grappoli per aborto.
I getti e e dello sperone s si attaccano al 2° filo ; nulla è cambiato
nel rimanente.
§ 13. Sistemi Avellinesi (1). — La provincia di Avellino, at-
traversata da due catene di montagne, il Partenio ed il Terminio,
presenta varietà grandissime di terreni, di esposizioni, di giaciture
che portano per conseguenza varii sistemi di coltura. Vi sono in-
fatti vigne educate alte ed anche altissime, vigne potate a mezzana
altezza e vigne basse. In alcune parti la vite si coltiva da sola, in
altre zone invece vien consociata a piante erbacee; in alcuni comuni
è sostenuta con canne, in altri con pali secchi di castagno ed in altri
infine vien affidata a tutori vivi (pioppo, olmo).
Non passeremo in rassegna tutti i modi di educazione adottati;
accenneremo solo a qualcuno dei più importanti.
L'impianto si eseguisce ordinariamente con magliuoli costituiti di
legno vecchio di due o tre anni, terminato con un corto tralcio giovine
provvisto di tre o quattro gemme. Provengono o dal capo a frutto
dell' anno precedente, ovvero da cordoni divenuti improduttivi. Da
questi magliuoli speciali, fatti di legno vecchio per tutta la parte
interrata, si ottengono viti robuste. Ne è a credere che essi attec-
chiscano con difficoltà, perchè dappertutto nella detta provincia sono
usati con profitto. Da una prova comparativa eseguita alla Scuola di
Avellino si è visto che la loro ripresa non differisce gran fatto da
quella delle talee ordinarie, almeno per le varietà aglianico e sanginoso.
L' impianto si fa anche con barbatelle provenienti da propaggini
che si ottengono piegando al suolo un vecchio cordone. Queste pro-
paggini nel maggior numero dei casi servono a rimpiazzare le viti
morte; qualche volta vengono estratte, e si destinano all'impianto di
nuove vigne. Da qualche tempo si è cominciato pure a far uso di
barbatelle ottenute da tralci di un anno, messi a radicare in vivaio.
Tanto i magliuoli che le barbatelle si piantano isolati, allorché si
(1) Dobbiamo queste notizie, ed i disegni che le accompagnano, al chiarissimo
Doti. Prof. Michele Carlucti, Direttore della R. Scuola di Viticoltura ed Eno-
logia di Avellino.
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 687
tratta di viti specializzate; quando le viti invece si educano alte e
si consociano alle piante erbacee, si dispongono a gruppi di 2, 3 ei
anche 4 gruppi cui si dea il nome di fossa.
L'impianto delle vigne basse si eseguisce su scasso reale; quello delle
mezzane ed alte in fossati o formelle. Nel collocare i magliuoli o le
barbatelle non si ha sempre cura di fare in modo che le radici delle
3 o 4 piante di ogni fossa riescano disposte in varie direzioni; si
mettono invece nella stessa buca e rivolti dalla medesima parte. I
magliuoli per un tratto di metri 0,20 o 0,40 si coricano orizzontal-
mente nella fossa, e pel resto si rialzano e si affidano ad un paletto.
I gruppi di viti, disposti a quadrati od anche a rettangoli, sono
collocati alla distanza di 3-4 metri, quando la vigna è tenuta a mez-
zana altezza, e di 4-7 metri quando è potata alta. Per le vigne basse
specializzate si adotta la distanza di 1 metro circa, e qualche volta
anche di metri 0,80 tra vite e vite e tra filari e filari.
Piantata la vigna, ad ogni gruppo di piante si dà un paletto di
sostegno, a cui si unisce un ramo secco per dar agio ai germogli
di arrampicarvisi. Spesso si mette per sostegno un grosso ramo con
tutti i suoi ramoscelli, perchè offra presa ai cirri dei tralci.
La giovine vigna non dappertutto vien potata nei primi due o tre
anni. Quando quest'operazione si eseguisce, si lasciano 3 o 4 gemme
ad ogni tralcio.
Per la formazione del ceppo s' impiega un tempo variabile da 4
a 7 anni, secondo il sistema di educazione che si adotta.
La potatura delle piante messe a frutto è diversa secondo i luoghi.
Dove la vite si educa bassa, ad ogni pianta si lascia un capo a frutto
con 5 a 10 gemme. Esso vien steso orizzontalmente ed affidato a 2
canne, delle quali una serve per reggere i tralci legnosi e 1' altra
quelli uviferi. La curvatura si fa ordinariamente al secondo inter-
nodio per facilitare lo sviluppo dei tralci legnosi dal tratto rimasto
verticale. Ordinariamente le due canne si legano in punta, per ren-
derle più resistenti al peso della pianta ed all'azione dei venti.
Alla primavera successiva, dei tralci ottenuti si conserva solo quello
nato alla base del capo fruttifero, il quale vien piegato come l'altro
dell' anno precedente, e serve alla produzione dei frutto. Tutti gli
altri sono portati via insieme al ramo che li sostiene.
Dove la vite è coltivata insieme alle piante erbacee, vi sono due
modi di allevarla, cioè bassa da metri 1 a 1,5, ovvero alta a 2, 3
o 4 metri.
CAPITOLO XXII
Le viti basse sono disposte a quadrati in gruppi di 2, 3 o 4 piante
al vertice dei 4 angoli del quadrato. L'impianto si fa con magliuoli
di vecchio legno messi alla profondità di 1 metro e collocati per un
tratto orizzontalmente in fondo alle fosse. La distanza va da 2 a 3
metri.
Le viti costituenti la fossa sono affidate ad un palo di castagno,
di olmo, rovere od altro, al quale sono legate ad altezza tale, che
la legatura corrisponde a 2 o 3 internodi sull'origine dei tralci.
Il tratto verticale di tralcio compreso fra la legatura ed il ceppo
fa l'ufficio di capo a legno, e la parte superiore, che poi vien stesa
orizzontalmente, fa 1' ufficio di capo a frutto. Dei capi destinati a
produrre uva si fanno ordinariamente per ogni fossa 4 corde, in-
trecciandoli a 2 o 3 fra di loro. Indi si tendono orizzontalmente fino
ad incontrare quelli della fossa vicina. Se la lunghezza dei capi non
permette unirli direttamente, si congiungono mercè un rametto di
castagno, di olmo od altro, cui vien dato il nome di giunto o giunta.
La fig. 241 mostra come si dispongono i capi fruttiferi di due viti
vicine.
Fie. 241.
I capi a frutto si distribuiscono in direzione delle 4 viti vicine,
formando così un reticolo a maglie quadrate. Spesso, se vi sono corde
in eccesso, si distendono in direzioneMelle diagonali.
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 689
Ad ogni palo di sostegno si attacca un ramo secco di castagno,
o faggio, ovvero un fascetto di sarmenti, perchè i tralci legno si che
si svilupperanno possano arrampicarvisi.
L' anno successivo il capo che portò i tralci uviferi vien reciso,
e si piegano a frutto i due o tre tralci legnosi che si svilupparono
alla sua base.
La quantità di gemme che si lasciano ad ogni pianta è variabile;
vi sono viti con un solo capo a frutto, provvisto di 5 a 10 gemme,
e viti che portano 2 ed anche 3 capi, e perciò 20 a 30 gemme.
Le piante erbacee, che ordinariamente si coltivano consociate, sono
il frumento ed il mais, ed alle volte anche la patata. Esse occupano
tutto il terreno, e perciò spesso coprono le viti colle loro estremità,
con grave danno della maturazione del frutto.
Altra maniera di educazione della vite è quella seguita ad Avel-
lino e nei comuni limitrofi, ove essa viene sostenuta da palo secco
di castagno, ad altezza variabile di 2, 3 o 4 metri.
Il modo d'impianto della vigna è quello innanzi descritto. Si ri-
corre cioè ai magliuoli ed alle barbatelle provenienti da propaggini
che si collocano in gruppi {fosse) di 3 a 4, alla distanza variabile
di 4 a 6 metri. La vigna si mette a frutto al sesto o settimo anno.
I pali di sostegno detti spallatroni sono ordinariamente di castagno;
hanno l'altezza di 4, 5 ed anche 6 metri; alle volte sono dei veri
travi aventi 10 o 15 centimetri di diametro. Tale grandezza è ne-
cessaria perchè ad essi si affidano 3 a 4 viti, le quali spesso hanno
diametro di 10 centimetri ed anche più, e come tali sono veri
alberi. Questi sostegni si ricavano da boschi cedui appositamente
coltivati o sulle pendici che guardano il nord, o in appositi appez-
zamenti che si lasciano vicino od intorno a ciascun podere a guisa
di corona. La loro coltura è fatta nell'Avellinese con molta accu-
ratezza. Siffatti sostegni sono impiantati nel terreno alla profondità
di metri 0,40 a 0,50 ed anche di metri 0,70, specialmente nelle terre
sciolte. Per piantarli si fanno delle buche di diametro non maggiore
di metri 0,25 a 0,40, servendosi all'uopo di una vanga speciale, la
cui lama forma un cilindro vuoto con un' apertura laterale per il
lungo. Nelle buche così aperte si colloca il palo ed intorno si com-
prime bene la terra.
Ogni palo porta verso il terzo superiore le basi o mozziconi dei rami,
di cui, come albero, era provvisto, lunghe da metri 0,15 a 0,20. Ad
esse si appendono le frasche, cioè dei rami di castagno, pioppo, faggio
O. Ottavi, Trattato di Viticoltura, 45
690 CAPITOLO XXII
od altro albero, provvisti di tutte le loro diramazioni, perchè servano
di presa e sostegno ai tralci legnosi.
La frasca si compone di due rami, uno messo in alto detto ca-
poncino, e 1' altro più basso detto sottofrasca. Vengono uniti in-
sieme a mezzo di ligatura fatta con vimini di salcio.
La potatura adottata è quella dei cordoni speronati (v. pag. 684)
ai quali si uniscono spesso tralci frutticosi più o meno lunghi.
Il modo di formare i cordoni è il seguente. Allorché la vite è
giunta a fruttificazione, il che succede al sesto o settimo anno, le
si lascia un capo a frutto con 8 a 12 gemme, le quali producono
in primavera dei germogli in parte legnosi, in parte uviferi. Essi non
si sviluppano egualmente: quelli all' origine col capo fruttifero, che
trovansi collocati sulla curvatura e sul tratto ad essa inferiore, si
allungano maggiormente (1 m. a 5 m.), e ciò per la posizione che
occupano sul sarmento che li sostiene e per la posizione verticale
che prendono arrampicandosi alla frasca. Quando la vite è ro-
busta si sviluppa anche molto l'ultimo tralcio. GÌ' intermedii invece,
cioè gli uviferi, non oltrepassano i metri 0,60 a 1. Sicché in
fine del primo anno la pianta si trova ad avere un ramo prov-
visto alla base di 2 o 3 lunghi tralci, all' estremo di altro tralcio,
che possiamo dire di prolungamento, e di tanti tralcetti intermedii
(speroni).
Al successivo anno la potatura vien regolata nel modo seguente.
I tralcetti intermedii sono tutti tagliati a cornetto con due occhi, e
i due della base sono invece lasciati quasi interi, asportandosi sola-
mente la estremità più sottile. Questi due capi possono ravvolgersi
intorno al cordone, ovvero, intrecciati fra loro, destinarsi a formare
una branca novella. La scelta dipende dalla posizione che hanno sulla
pianta e dal numero dei cordoni che si ottengono dalle altre viti della
stessa fossa. In generale se ne formano 4; perciò i giovani tralci
fruttiferi ed i cordoni si distribuiscono in tal modo da ottenere 4
divisioni, dette tesole. Non mancano casi in cui tal numero è mag
giore o minore di quello indicato, Nei terreni feracissimi di Montoro,
Forino, ecc. di frequente da ciascun gruppo di viti si ottengono 5-6
tesole, ciascuna costituita di 2 o 3 capi intrecciati. Questi sono te-
nuti fissi a mezzo di legatura fatta con salcio.
Giunta la primavera dell' anno seguente, cioè del terzo anno di
fruttificazione, ogni vite vien potata nel modo seguente: dei 2 tralci
sviluppati sopra ogni sperone se ne lascia un solo, allorché esso è
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 691
troppo debole; tutti e due sono messi a profitto invece, quando la
pianta si presenta robusta. Vengono tagliati a cornetti con 2 gemme.
Gli altri tralci nati sull'ultimo tratto del cordone sono pur essi ta-
gliati a speroni, meno l'estremo che si destina al suo prolungamento.
Quelli della base invece, o si ravvolgono intorno alla branca, da cui
sono sopportati, o si destinano a formare un altro cordone, o sono
tagliati a 2 gemme.
L'anno successivo, e quelli seguenti, si ripete la stessa maniera di
potatura, per cui le tesole vengono facendosi man mano più lunghe.
Quando si ha la precauzione di tagliare a metà o ad un terzo sol-
tanto il tralcio di prolungamento e le viti sono robuste, raggiungono
dimensioni straordinarie: arrivano ad avere il diametro di 4-6 cen-
timetri e la lunghezza di 10 a 20 metri. In tali condizioni i cordoni
sono denominati passa-sorci a Taurasi, Montemiletto, Torre Le No-
celle e Montefredane.
La fig. 242 dà un' idea abbastanza esatta del come si regola la
potatura. A rappresenta una fossa, le cui viti solo in parte sono
potate, B invece rappresenta altro gruppo di viti dopo la potatura,
e perciò coi cordoni pronti ad essere tirati (intennecchiati). Nell'e-
seguire la potagione il contadino prende per norma la robustezza dei
tralci, che ordinariamente lascia in tutta la loro lunghezza e nel nu-
mero in cui si trovano. Con tale sistema si verifica spesso, special-
mente con viti un po' deboli, che la vegetazione si trasporta verso
1' estremo dei cordoni, facendo perire così i cornetti collocati alla
base ed alla parte mediana. In tal caso la tesola l'anno succes-
sivo vien asportata dalla sua base oppure dal punto ove sorge un
buon tralcio giovine, che si destina alla formazione di un nuovo
cordone. Allorché le viti sono robuste e vengono legate opportuna-
mente, non mancano tralci per tale rinnovamento. In mancanza si
ricorre ai succhioni che numerosi si sviluppano sul tronco e sui
rami. Se questi trovansi ad altezza conveniente, si piegano sul cor-
done od anche in sua sostituzione: quando invece sorgono troppo
bassi, al primo anno si tagliano con 4 a 6 gemme e 1' anno di poi
si piegano a frutto due dei tralci ottenuti. I succhioni, che nascono
su viti robuste, di frequente portano grappoli d'uva.
Una modificazione apportata al sistema innanzi descritto è quella
seguita dai viticultari di Prata, ove si fa la potatura così detta a
terzigno. Ivi al primo anno i capi a frutto si distendono a festoni,
e quest'operazione dicesi potatizzo. L'anno seguente i tralci nati su
602
CAPITOLO XXII
di essi e che portarono uva, vengono tagliati a speroni con 2 o 3
gemme, formando cosi un cordone; mentre i tralci legnosi non si
distendono orizzontalmente come nel caso precedente, ma dopo spun-
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 693
tati si lasciano diritti ed attaccati alle frasche. Essi producono ger-
mogli uviferi al pari degli speroni.
Alla primavera successiva i cordoni vecchi si tagliano ed in loro
vece se ne formano dei nuovi, abbassando i tralci lasciati l'anno pre-
cedente uniti alle frasche. Dopo due anni anch' essi vengono sosti-
tuiti da altri novelli.
Come vedesi questo sistema può dirsi dei cordoni rinnovati pe-
riodicamente, cioè ogni tre anni, e differisce da quello seguito ad
Avellino, perchè quivi la durata dei cordoni non è fìssa, ma è det-
tata dallo stato di robustezza della vite e più di tutto dall' accorgi-
mento che si ha neh' allungare le tesole, ed anche perchè i capi
fruttiferi sono tenuti sempre orizzontali, mentre a Prata si hanno
sulla stessa vite capi a frutto orizzontali ed altri tenuti verticalmente.
I sistemi descritti hanno una base di razionalità e certamente sa-
rebbero molto più produttivi, se fossero applicati con maggior discer-
nimento. Il potatore, come innanzi abbiamo detto, nell'assettare le viti
prende a norma la lunghezza ed il numero dei tralci, che lascia quasi
nello stato e numero in cui si trovano; senza guardare che così si ottiene
spesso una grande produzione di legno inutile, che va a scapito della
quantità e qualità di uva e della durata delle viti. Il difetto più
grave che notasi nell'applicazione di questo sistema di potatura, si
è quello di lasciare ogni anno troppo lungo il tralcio di prolunga-
mento. Perciò verificasi che le viti deboli sviluppano solo le ultime
gemme, e lasciano morire quelle della prima metà del cordone, che,
dopo qualche anno, resta del tutto sfornito di speroni. In questo caso
succede pure che non si sviluppano succhioni sul tronco, e quindi
non riesce possibile ricavare capi fruttiferi. La vite in tale stato vien
recisa fin dalla base e rinnovata con altra, che ottiensi propaggi-
nando qualche cordone preso dalle fosse vicine.
La potatura nell'Avellinese si eseguisce dal gennaio al marzo, se-
condo il corso della stagione. Per eseguirla si fa uso del roncolo,
detto rondilo, o del pennato, detto potatoio, che 1' operaio porta
sospeso ad un uncino che infila in una cinta di cuoio.
Per i tagli che si eseguiscono ad una certa altezza si adopera per
'salire la scala a forbici detta trepiedi, dell'altezza di 2 a 3 metri.
Potate le viti nel modo indicato, si passa alla legatura.
II gruppo di viti viene legato saldamente al palo a mezzo di una
grossa vermena di salcio detta torta, forse perchè si torce per non
farla spezzare. Questa prima legatura si eseguisce ad un metro circa
da terra.
694 CAPITOLO XXII
Poscia si appende al palo di sostegno la frasca, che si prolunga
con la sotto-frasca, in modo che i suoi rametti si trovino dove si
debbono sviluppare i tralci legnosi. Dopo si eseguisce la seconda le-
gatura, detta incollatura, la quale è fatta con maggiore accuratezza
della precedente. I capi giovani vengon legati a tale altezza da la-
sciare un tratto verticale provveduto di due o tre gemme. Quando,
come succede di frequente, vi sono capi di varia lunghezza, si fanno
due incollature, distribuendo i tralci in maniera che si trovino nelle
condizioni sopraindicate, per favorire così lo svolgimento dei tralci
legnosi.
Non sempre queste avvertenze sono seguite e perciò spesso man-
cano i tralci per rinnovare i cordoni.
Eseguita Xincollatura si passa alla formazione dei festoni, che si
dispongono secondo i lati del quadrato, od anche delle sue diagonali
se i cordoni sono in numero superiore a quattro. A quest'operazione
si dà il nome dì intennacchiatura (pag. 691).
Quando le tesole di due gruppi vicini sono tanto lunghe da in-
contrarsi, si legano direttamente con salici sottili; quando invece non
arrivano a toccarsi, si uniscono a mezzo di una giunta, cioè di un
rametto intero o spaccato, secondo la grossezza, di legno castagno,
olmo od altro. Per non farlo scivolare gli si pratica un intacco pel
quale passa il salice.
Allorché qualche cordone non ha l'altro in corrispondenza, cui po-
tersi unire — lo che si verifica all'ultimo filare degli appezzamenti
o quando il numero delle tesole è dispari — per tenerlo teso si fìssa
ad un sostegno qualsiasi a mezzo di un uncino, cioè di un ramo
che all'estremo porta una biforcazione costituita dalla base di un
altro ramo tagliato di una certa lunghezza. Quest'uncino si fìssa ad
un palo, ad un albero, od altro sostegno qualsiasi a mezzo della bi-
forcazione e coll'altro estremo si unisce col capo a frutto.
Eseguita la legatura, la vigna acquista l'aspetto di una grandissima
rete a maglie quadrate più o meno regolari, tenuta sospesa dal suolo
da m. 1,80 a m. 3. — La fig. 243 ne dà un'idea abbastanza esatta
e la fig. 244 rappresenta una parte di essa in piena vegetazione.
Pochi altri sono i lavori che si danno direttamente alle viti. Le
zappature e sarchiature non che la concimazione fatta per le piante
erbacee sottostanti vanno pure a loro profitto. Si eseguiscono solo con
una certa diligenza la scacchiatura e la solforazione, ed una setti-
mana prima della vendemmia da alcuni anche una parziale sfogliatura.
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
695
Le altre operazioni di potatura verde sono poco usate.
Il sistema descritto preso nel complesso dà buoni risultati, allorché
viene applicato con discernimento. Esso però è suscettibile di miglio
ramenti sensibilissimi, e potrebbe dare prodotti più abbondanti e mi-
gliori di qualità, se venissero introdotte alcune modificazioni. Fra
queste ecco le più notevoli.
Il sistema di consociare la vite alle piante erbacee secondo il Dr.
096
CAPITOLO XXII
Cartocci sarebbe giustificabile solo nei terreni pianeggianti ed in
quelli molto fertili. Non è egualmente utile e necessario in collina,
^sn^m^m^
ove i cereali non pagano le spese di preparazione del terreno e di-
minuiscono sensibilmente la quantità di uva, e questo è verissimo.
La coltura erbacea vien fatta fin presso le viti senza lasciare al-
quanto spazio libero per l'esecuzione dei lavori più necessarii. Ciò
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 697
impedisce di eseguire del tutto a tempo debito alcune operazioni in-
dispensabili, con grave scapito della quantità e qualità del prodotto.
Bisognerebbe invece adottare in pianura il sistema di lasciare a di-
ritta e a sinistra di ogni filare almeno mezzo metro di terreno libero,
per poter circolare intorno alle viti e fare quindi i lavori nel tempo
e nel numero dovuti. Si potrebbe adottare anche il sistema di di-
sporre le tesole in una sola direzione da Nord a Sud ed impedire
quindi che il mais venisse a coprire (come spesso succede) colla sua
cima i festoni.
Nei terreni di collina potrebbesi abbandonare del tutto la coltiva-
zione erbacea e lasciare il terreno a solo beneficio della vite, e senza
dubbio il vantaggio del maggior prodotto di uva comprenderebbe ad
usura il poco frumento e l'incerto granturco, che verrebbero trascurati.
Maggiore avvertenza dovrebbe aversi nel formare i cordoni, sia
col diminuire alquanto il numero degli speroni, sia tagliando il tralcio
di prolungamento molto più corto di quello che vuoisi abitualmente.
Dovrebbe anche aversi la cura d'impedire il rapido elevarsi delle
viti, locchè potrebbe ottenersi col lasciare alla base delle tesole qual-
che sperone per la produzione dei tralci legnosi.
Maggiore avvertenza dovrebbe aversi pure nel fare i tagli dei
grossi rami, i quali spesso vengono lasciati lunghi 3-4 centimetri, e
quindi col marcirsi danno luogo alla produzione della carie nel ceppo.
Nelle concimazioni dovrebbe aversi un po' di cura maggiore e
completare il concime di stalla con cenere, vinaccie distillate (che
abbondantemente trovansi in tutta la provincia di Avellino e che
vengono di rado messe a profitto come materie concimanti), ed
altre sostanze ricche di potassa ed acido fosforico.
Potrebbe introdursi anche qualcuna delle operazioni della potatura
verde e principalmente quella della spollonatura, allo scopo di dira-
dare opportunamente i germogli che nascono sui cordoni e che non
hanno uva.
Oltre le avvertenze indicate bisogna ricordare l'altra capitalissima
della scelta dei vitigni più adatti ai varii terreni ed alle diverse espo-
sizioni, nonché la limitazione del loro numero.
Concludendo diremo che il sistema di educazione della vite nel-
l'Avellinese senza essere dei migliori è però di quelli razionali. Non
dà tuttavia tutti quei vantaggi di cui è suscettibile, perchè non si
seguono quelle cu^e minute e diligenti che costituiscono veramente
l'arte e che hanno tanta influenza sul risultato ultimo dell'industria.
698 CAPITOLO XXII
Riporteremo qualche cifra fornitaci dallo stesso Dr. Carlucci.
I pali che si adoperano per sostegno della vite costano in media
da L. 0,80 a 1,30 ed anche 1,50, secondo la grandezza. Durano in
media da 6 a 10 anni. Le frasche portate nella vigna costano in
media L. 0,70 il fascio, e bastano per n. 10 gruppi di viti. .
Per la coltivazione di un ettaro di vigna occorrono in media per
i soli lavori dati alla pianta, cioè potatura, legatura, quota dei pali, ecc.
L. 290 a 300. A queste bisogna aggiungere la quota dei lavori dati
al terreno, del concime assorbito e del fìtto. Sicché facendo il cal-
colo per un ettaro, complessivamente, cioè per la coltura erbacea
sottoposta e per la vite, occorrono in media da 950 a 1000 lire
l'anno, comprendendovi il fitto di L. 300 a 350 per ettaro, quanto
cioè si paga per i buoni terreni di Avellino.
La produzione media dell'uva per un ettaro varia sensibilmente:
oscilla dai 20 ai 60 quintali. Nella parte del podere della Scuola,
ove vien seguito ancora il sistema Avellinese di educazione della
vite, si ottennero per ettaro:
nel 1882
Frumento .
. Ettol.
23,61
Uva .
. Quint.
44,46
Mais . . .
»
22,03
Id.
»
73,53
Patate . .
. Quint.
87,02
nel 1883
Id.
»
44,72
Frumento .
. Ettol.
17,54
Uva .
. Quint.
36,57
Mais . . .
»
18,88
Id.
»
38,77
Patate . .
. Quint.
121,43
Id.
»
74,28
Produzione media quintali 47,00 di uva.
Bisogna notare però che tale vigna trovasi buona parte in ter-
reno argilloso, e per giunta è costituita di viti vecchie in uno stato
non molto florido. Da vigne giovani fatte di sanginoso ed impian-
tate in terreno alluvionale, si ottengono prodotti molto elevati che
raggiungono nelle migliori annate anche i 200 quintali 1' ettaro, e
nelle annate ordinarie i 100 a 150 quintali. Il vino che se ne ot-
tiene però è debole, non contenendo più del 5 all'8 p. 0\q di alcool.
« Le condizioni climateriche e telluriche della provincia, conclude
il Boti. Carlucci negli appunti favoritici, sono adattatissime alla prò-
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
699
duzione di buona uva, da cui possono ottenersi degli eccellentissimi
vini da pasto, tali da poter rivaleggiare coi migliori oggi conosciuti
È da sperare quindi che i proprietarii imparino a valutare una buona
volta il tesoro che essi sciupano senza comprenderne il valore, e che,
abbandonando i vecchi sistemi di vinificazione, si mettano su quella via
che ci viene additata dalle mutate condizioni politiche ed economiche. »
§ 14. Sistema del Suburbio di Eoma. Modificazioni. — La
viticoltura nel Suburbio di Roma ha qualche lato lodevole; senonchè
qualche ^rave errore che il viticultore commette nella potatura delle
sue viti, rende nullo l'effetto delle buone pratiche ch'ei segue. Il vi-
gneto si impianta su scasso reale, profondo anche 2 metri se si tratta
di terreno sul quale abbia già vegetato altra vigna; si adoperano
lunghi maglioli, che si spingono sino ad 1 metro di profondità, ser-
bando loro 2 gemme fuori terra, e durante due anni si lasciano svi-
luppare a loro beli' agio, senza potarli. Al terzo anno si taglia la
vite rasente terra, e le si lascia solo il più basso dei getti, che si
pota a 2 gemme. Alla primavera del quarto anno, disposte tre canne
sulla stessa linea, come nella fìg. 245, si fa la potatura a 3 o più
Fig. 215.
Fiar. 246.
gemme; al quinto o sesto anno si lasciano alla vite 2 tralci frutti-
cosi, come nella fig. 246, ed in progresso di tempo il numero di
questi tralci si porta anche a 3.
Senonchè, quando la vite dovrebbe essere in piena produzione, si
pratica come una potatura a cornetti di 2 o 3 gemme, e cotesti cor-
netti o speroncini spuntano su legno vecchio lungo anche 1 metro:
ciò si fa, come ebbe a dirci qualche viticultore di colà, in omaggio
700
CAPITOLO XXII
al dettato « fammi povera e ti farò ricco » che si attribuisce a Co-
lumella. Già vedemmo a pag. 625 che i precetti di Columella, che
realmente sono ottimi in gran parte, suonano ben diversamente; onde
speriamo di dimostrare qui che il detto sistema di potatura è la prin-
cipale causa dello scarso prodotto delle viti nel Suburbio di Roma.
Quasi tutte le vigne del Suburbio di Roma sono piantate, secondo
un antichissimo sistema locale, ad ordini distanti l'uno dall'altro m. 1,20,
mentre le viti distano fra loro di cent. 60. Esse sono sostenute da
canne, nel modo indicato dalla qui unita fig. 247; e così ogni pianta
Fi"-. 247.
ha la sua canna verticale o a, ed inoltre 2 altre canne inclinate e
legate in o alla prima mercè un vimine; ad una di queste 2 canne
si fissa, con vimini, il tralcio o capo a frutto e che si ricurva for-
temente e che colà è detto « il piegatore. »
Questo sistema, per chi è avvezzo a ricercare, nella educazione
della vite, l'economia delle spese in un coli' entità del prodotto,
appare difettoso per molti riguardi, nel che conviene piena-
mente un valente viticoltore del luogo, il Dolt. F. M. Apotlonj,
che ci fu valida e cortese guida nella nostra escursione, fatta
nel Suburbio di Roma nel 1881, Infatti, col metodo in quistione
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
701
si dispongono anzitutto le canne sullo stesso piano verticale, e non
già le une contro le altre in guisa da formare un prisma, cosicché
esse non oppongono se non una debolissima resistenza all' urto dei
venti, specialmente quando sono sopracaricate di tralci e di grappoli:
il sistema descritto da Columella (V. pagina 268), è bensì assai
più costoso, ma non presenta questo inconveniente. Oltre a ciò il
metodo del Suburbio esige l'impiego di tre canne per ogni vite, ri-
chiedendo così un dispendio non indifferente. Le canne sono poi di-
sposte tanto vicine le une alle altre, che il capo a frutto vuol essere
ricurvato eccessivamente così da fare quasi un angolo, massimamente
nelle viti alte: ora, si è osservato colà che non di rado le gemme,
le quali si trovano sulla porzione troppo ricurva del tralcio, non
germogliano: il sig. Apoìlonj ritiene che il succo nutritore affluisca
più facilmente alle gemme che si trovano all'estremità del capo a
frutto, e che a ciò sia da attribuirsi l'inconveniente suddetto.
Per questi motivi lo stesso Dr. Apoìlonj introdusse alcune impor-
Fig. 248.
tanti variazioni nel modo di tendere la vite, e le applicò negli stessi
appezzamenti già coltivati col metodo antico. A tale uopo riunì a
702
CAPITOLO XXII
gruppi di sei viti le sue piante, disponendo le canne a connocchia,
come si vede nella fìg. 248, ove sono disegnati due gruppi, com-
prendenti 3 viti di un filare e 3 dell' altro vicino. È evidente che
con questo sistema, che piacque a noi pure, si realizzano parecchi
vantaggi: — anzitutto adoperando una sola canna per ogni vite si
ha un risparmio di due terzi nella spesa dei sostegni, risparmio certo
non indifferente; d' altra parte le canne essendo poste a connocchia
le une contro le altre, presentano molta resistenza ai venti, i quali
non possono romperle o sbatterle, ed è questa pure una cosa di
grande momento avuto riguardo ai venti di scirocco, ai quali si è
colà molto esposti in estate. Infine, col metodo modificato dal signor
Apollonj, non si è costretti a piegare eccessivamente i capi a frutto
(f fìg. 248), ed inoltre è possibile adottare anche la disposizione in-
dicata in A B dalla stessa fìg. 248: A B è una canna trasversale
intorno alla quale si legano i tralci frutticosi.
Lo stesso viticultore ha adottato in altre sue vigne un sistema
che è pure usato in alcuni Castelli Romani, applicandolo anche a
vecchie viti. La fìg. 249 ce ne porge un' esatta idea; esso consiste
Fig. 219.
nel lasciare ad ogni ceppaia parecchi capi a frutto, però potati corti,
e così a 5 o 6 gemme; questi capi frutticosi vengono legati ad una
canna trasversale C D, la quale è fuori del filare e sostenuta da
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 703
piccoli" paletti. Con questo sistema oltre ad avere un piccolo risparmio
nella spesa dei sostegni si ha un forte aumento di produzione, il che
ci attestava il sig. Apollonj dietro più anni di esperimento.
Nei precedenti sistemi (fìg. 248 e 249) ogni vite ha il suo spe-
rone (detto dai Romani la testar ella), che fornisce il tralcio a frutto
per l'anno seguente; invece col metodo dei Castelli si usa allevare
il tralcio che nasce dalla gemma più bassa di ciascun capo frutti-
coso; questo tralcio si lega alla canna verticale che sta accanto ad
ogni ceppo (fìg. 249), e nel successivo anno, potato corto, si mette
a frutto.
Ma entriamo nei dettagli di coltura.
Nel Suburbio di Roma la vigna generalmente si pianta su scasso
reale, profondo in media 1 metro; questo scasso si fa tutto cogli
uomini, che sono pagati in ragione di cent. 10 per ogni metro cubo
ad 1 metro di profondità; la spesa ammonta quindi a L. 1000 per
ettare, ma essa potrebbe ridursi circa di metà ove si facesse lo scas-
sato col sussidio dell'aratro.
Il sistema da adottarsi in tal caso sarebbe quello descritto a pa-
gina 357, cui rimandiamo il lettore.
Il piantamento delle viti nel Suburbio si fa spesso con talee; esse
vogliono essere lunghe circa un metro; nello scassato si aprono fosse
profonde 50 centimetri ed a questa profondità si coricano le talee
stesse per una lunghezza di circa 50 o 60 centimetri, drizzandole
poscia e lasciando 2 gemme fuori terra, per cui si hanno all'incirca
80 centimetri sotto terra e 20 sopra terra; il suolo si comprime po-
scia accuratamente, acciò le talee ne siano bene a contatto. Questo
metodo di piantamento è costoso, ma la vite si giova molto delle
copiose radici che escono dalle gemme della porzione coricata, e si
fa più vigorosa e meglio resistente ai calori estivi, tuttoché vegeti
su terreno siliceo scioltissimo, che proviene da roccie vulcaniche. In
queste condizioni il piantamento profondo è fino ad un certo punto
razionale; ma in quanto al coricare la talea, ci pare che ciò convenga
meglio nei piantamenti che si fanno nei terreni pingui e nei climi
freschi, dove la vite per un eccesso di succo acquoso tende a farsi
per così dire pletorica e dove può quindi giovare un certo rallen-
tamento nel succo, appunto nella parte sdraiata della talea.
Veniamo ora a qualche considerazione sulla distanza dei pianta-
menti: abbiamo già detto che, in quasi tutti i vigneti del Suburbio,
fra un ordine (o filare) e l'altro intercede una distanza di metri 1,20,
704 CAPITOLO XXII
mentre le piante stantio a centimetri 60; ora, se pure non ci ingan-
niamo, queste distanze sono troppo esigue, ed è da attribuirsi ad
esse il precocissimo invecchiamento di quelle viti, che spesso a 40
anni sono esaurite e non di rado cedono il posto al frumento.
Questo fatto abbiamo avuto occasione di notarlo in altri vigneti
di paesi caldi: quivi, se le ceppaie sono molto prossime le une alle
altre, le viti soffrono per difetto di alimento e di umidità, essendo
troppo esiguo il cubo di terra posto a disposizione di ognuna di esse,
e perciò si esauriscono presto e conviene rifare il vigneto colle pro-
paggini. Poniamo queste considerazioni sotto gli occhi dei viticultori
del Suburbio, poiché essi hanno a lottare con un clima assai arido;
infatti colà da maggio a settembre il cielo è abitualmente sereno,
prova ne sia che durante l'estate l'acqua caduta non supera in media
i millimetri 82,7, e sono poi soli millimetri 775,3 neh' intero anno
(osservazioni di un novennio (1) ), laddove a Torino, ad esempio, la
sola media estiva è di millim. 220,4, a Milano 174,5, a Firenze 210,2,
e via dicendo. A noi pare quindi che non si errerebbe colà allonta-
nando le ceppaie ed i filari, così da porre le prime alla distanza di
1 metro una dall'altra, ed i secondi almeno a 3 metri. Ma andiamo
oltre.
Allorquando si pianta una vigna si usa nel Suburbio associarvi
un carciofeto; vedremo nel Capitolo seguente, sino a qual punto
ciò sia conveniente.
Abbiamo già detto che la potatura delle viti del Suburbio si fa
generalmente assai corta, in omaggio al precetto « fammi povera
che ti farò ricco » erroneamente attribuito a Columella. Invece
questo dotto agronomo latino consigliava una ricca potatura per le
viti madronali, ossia in pieno sviluppo, e consentiva anche che per
ogni ceppaia fossero lasciati da 6 ad 8 tralci frutticosi pendenti dal
giogo o cavalletto (fig. 198, pag. 628), sempre quando però il suolo
fosse ubertoso. Infatti in questo caso, come pure quando si concima
convenientemente il vigneto, si può anche forzare una abbondante
produzione senza timore di esaurire in breve tempo le ceppaie.
La potatura troppo povera, oltre a rendere esiguo il prodotto,
nuoce alla longevità delle piante, perchè il loro sistema radicale non
può svilupparsi così ampio come sarebbe necessario; è infatti una
(1) 1866-74. Condizioni dell'agricoltura nel quinquennio 1870-74 (Pubblicazione
de] Ministero d'agricoltura, voi. 1°, pag. 133),
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 705
L.
150
»
75
»
100
»
430
Totale L.
755
legge fisiologica che quando il sistema aereo è assai limitato per ab-
bondanti tagli, anche quello sotterraneo ne soffre sensibilmente.
Il bravo sig. Apollonia oltre alla coltura ad alberelli (che noi
crediamo la preferibile sia per l'abbondanza del prodotto che per la
qualità) adottò pure una potatura più ricca, e ne ebbe tosto un forte
aumento nel prodotto. Ecco alcuni dati che provano come, col si-
stema in voga, non si possa durare più a lungo, e che spiegano come
la vite, essendo esaurita verso il quarantesimo anno, ceda man mano
il posto al frumento:
Spese ad e tiare: Fitto del suolo
Vignaiuolo .
Tasse .
Coltura
Ora, col prodotto usuale delle viti coltivate poco razionalmente, di
15 ettolitri ad ettare, venduto a L. 35 in media, si ha una perdita
anziché un guadagno. Il sig. Apollonj, portando il prodotto ad etto-
litri 35 con semplici pratiche di razionale potatura, mutò quella per-
dita in un beneficio netto di oltre le L. 450 ad ettare. E chiunque
sia un poco versato in fatto di viticoltura, saprà che un prodotto
di ettolitri 35 ad ettare, non è certamente un grande prodotto; prova
ne sia che lo stesso sig. Apollonj lo ha oltrepassato di molto con
altre sue vigne delle quali diremo prossimamente. È dunque neces-
sario che quelli fra i viticultori del Suburbio i quali usano quella
potatura povera, riflettano su quanto dicemmo sin qui; presso lo
stesso sig. Apollonj troveranno molti fatti a conferma della nostra
tesi, e fra gli altri vedranno un antico pergolato il quale fintantoché
fu potato corto, non produceva quasi nulla, mentre ora che lo si
lascia ricco di lungi tralci, i quali corrono per così dire sul pergo-
lato stesso, produce moltissima uva.
Le operazioni della potatura verde (scacchiature cioè e cimature)
sono praticate presso il sig. Apollonj colla scorta di sani criterii.
Per regola generale questo distinto viticultore non ammette che deb-
basi mutilare di troppo la vite, perchè non vuole turbare soverchia-
mente l'equilibrio che deve sussistere fra le radici e la parte aerea;
d'altra parte egli riconosce che sarebbe un errore lo abbandonare
la vite a sé stessa, cosicché avesse a mutarsi in un arruffato ce-
O. Ottavj, Trattato di Viticoltura. 46
706 CAPITOLO XXII
spuglio, nel quale la parte erbacea e legnosa prenderebbe un for-
tissimo sviluppo a detrimento dei frutti presenti e futuri. Il viticul-
tare mentre deve favorire l'ingrossamento e la maturazione dei grap-
poli pendenti, deve anche coadiuvare la buona costituzione delle
gemme ascellari, le quali debbono darci i germogli uviferi nell'anno
successivo.
Il sig. Apollonj pertanto incomincia in maggio collo scacchiare
le sue viti, cioè sopprime a dirittura i getti sterili e ghiottoni che
spuntano sul ceppo; ciò accade circa verso la prima settimana di
maggio. Venendo poi sin verso il 25 giugno, egli pratica due altre
scacchiature, sempre collo scopo di portar via i getti succhioni, i
quali smaltirebbero inutilmente una non piccola parte del succo di
cui la vite abbisogna, massimamente in quel clima arido.
Però dopo la terza scacchiatura, la vite non si tocca più presso
il sig. Apollonj, e ciò perchè durante il solleone, e quando il ca-
lore è al massimo, è sempre assai dannoso alle viti il toccarle; in-
fatti sarebbe un errore la semplice solforazione, che provocherebbe
la scottatura degli acini, i quali rimarrebbero come appassiti, benché
ancora verdi.
Veniamo ora alla cimatura. — Il sig. Apollonj lascia almeno
due foglie sopra l'ultimo grappolo, ed a questo punto cima il ger-
moglio uvifero, operando fra il 20 ed il 25 di maggio: però egli è
concorde con noi nell' ammettere che sarebbe bene lasciare anche
quattro foglie, e ciò per favorire la emigrazione di molto zucchero
dalle foglie stesse superiori ai grappoli.
Riguardo ai tralci che dovranno distendersi a frutto 1' anno suc-
cessivo, il sig. Apollonj non vuole che si privino dei loro pampini,
per non pregiudicare l'accrescimento e lo sviluppo delle gemme a-
scellari; però egli accetta la spuntatura di essi, appunto per con-
centrare maggior dose di succo sulle gemme stesse ed arricchire così
il cuscinetto o serbatoio di sostanze alimentari su cui per così dire
riposano. Noi abbiamo proposto al sig. Apollonj la ricurvatura di
questi futuri tralci frutticosi, perchè crediamo che con questa effi-
cacissima pratica otterrebbe più uva che non lasciandoli verticali sino
alla sommità delle canne di sostegno; tutti coloro che adottarono
questa ricurvatura ne ebbero risultati completi, e ciò in disparate
regioni italiane, come il Veneto, il Piemonte, la Toscana ecc.
Nel Suburbio di Roma abbiamo visto anche una pratica per noi
nuova; vogliamo alludere alla scacchiatura dei viticci. I viticci o
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 707
capreoli, si possono considerare come grappoli abortiti; essi però
continuano a vivere, quali parassiti, a spese dei succhi nutritori della
vite, alla quale ne sottraggono una quantità non indifferente quando
sono assai numerosi, come accade spesso. Per questo, è uso gene-
rale nel Suburbio di levare a dirittura i viticci nei primi giorni di
maggio; questa ripulitura la praticano anche sul futuro tralcio a
frutto, per non privare le gemme ascellari d' una certa quantità di
succo. La soppressione dei viticci giova, per quanto si è osservato,
all'ingrossamento dei grappoli, della qual cosa abbiamo parlato lun-
gamente a pag. 501.
Il sig. Apollonj non pratica nessuna sfogliatura sulle viti, e questo
lo troviamo razionale: però qualche giorno prima della vendemmia
egli fa levare « qualche foglia » tal quale pratichiamo noi nel nostro
vigneto, tanto per scoprire leggermente i grappoli. Le rimanenti nu
merose foglie giovano a provvedere di molto zucchero i grappoli
sottostanti, ed infatti l'uva vi matura bene, e si raccoglie fra la la
e la 2a settimana di ottobre.
Di solforazione quasi non si discorre nel Suburbio, perchè l' oidio
è raro si mostri. Anche le altre malattie della vite vi sono poco
conosciute, forse perchè il clima vi è assai arido, laddove le crit-
togame esigono una temperatura calda ma umida.
Fatto è che il sig. Apollonj produce vini ottimi e sanissimi, che
abbiamo degustato con piacere. Per esempio il Cesanese rosso è
vino di bel colore, con sapore speciale amandolato, con una alcooli-
cità media del 13 0[q in volumi; il Cesanese rosso (1) con miscuglio
d'un po' d'uva bianca nella proporzione di 1[4 lo trovammo anche
più fino e delicato; questo miscuglio infatti è pure consigliato da
qualche distinto enologo francese. — Infine il vino bianco spumante
lo trovammo pure distinto, delicato, col 12 per cento di alcool, e
più gentile dello Champagne.
Abbiamo già fatto cenno delle viti ad alberello del sig. Apol-
lonj: con questo sistema di cultura egli volle risolvere il problema
di ottenere molta uva a buon mercato, e vi riusci, come vi riu-
scimmo noi al nostro podere il Cardello. I suoi alberelli sono pian-
tati alla distanza di soli 50 cent, un dall' altro in tutti i sensi, ma
sono tenuti molto bassi e per così dire poveri; infatti a tre anni si
(1) Il Cesanese è un vitigno prezioso, perchè oltre a dare vino ottimo, produce
molto, sbuccia tardi e non teme perciò le brine,
708 CAPITOLO XXII
lasciano loro due speroni frutticosi con due gemme caduno, ed a 4
anni, quattro capi con due gemme caduno. Il loro tronco è alto 20
centimetri e non di più, ed ogni pianta porta usualmente da 20 a
25 grappoli. Il prodotto medio tocca i 50 ettolitri ad ettare già ora
che i piantamene del sig. Apollonj sono ancora giovani; certo però
aumenterà di molto in avvenire. È questo un prodotto cospicuo,
tanto più se si riflette che le spese di cultura (canne, legatura, mano
d'opera ecc.) sono ridotte di un terzo di fronte a quelle del sistema
usuale del Suburbio sovra descritto. Di fronte a questi fatti, è
da augurarsi che questo sistema ad alberelli si diffonda anche nel
Suburbio, che così il benefìcio netto per ogni ettare vitato potrà e-
levarsi oltre le 600 o le 700 lire.
La coltura della canna è una conseguenza del sistema di viticul-
tura romano, come accade in alcuni locali di Sicilia ed in molti del
Piemonte. Nel Suburbio la si coltiva bene: si incomincia col praticare
uno scasso a 60 o 70 centim. di profondità; poscia si piantano gli occhi.
Il sig. Apolloni li pianta a 0,35 cent, di distanza Y uno dall'altro:
mercè lo scasso si hanno prontamente canne atte a sostenere le viti,
ma la distanza di 35 cent, ci pare alquanto piccola, e sarebbe meglio
portarla ad un metro. In Monferrato, ove vi sono abili coltivatori
del canneto, si usa disporre sullo scassato le file a due a due; ogni
fila dista 40 cent, dall'altra, e fra ogni ordine di due file intercede
una distanza di 3 metri circa; così al primo anno si ottengono già
canne servibili per sostenere le viti.
§ 15. Sistema Hooinbrenk a tralci inclinati. — Questo si-
stema, che si potrebbe chiamare a tralci inclinati, non fu inventato
dal sig. Hooinbrenk, ma solo perfezionato; esso è assai antico e ben
noto in Francia. Il suo scopo è questo: inclinare regolarmente i sar-
menti sia per provocare alla loro base lo sviluppo di getti sempre
più vigorosi, sia per conferire maggior vigore alla ceppaia. L'incli-
nazione adottata dal Hooinbrenk è di 112 gradi e mezzo circa, cioè
22 1(2 sotto l'orizzontale; ma il sig. Carrière crede che si possa
andare anche oltre a 130 gradi, ad esempio quando si voglia inde-
bolire la vegetazione di una parte qualunque, a profitto di un'altra:
ma scendiamo ai dettagli. — Supponiamo che dopo il primo anno
di piantamento la vite — che si sarà lasciata crescere liberamente —
si trovi nelle condizioni indicate dalla fig. 250; al momento della prima
potatura si inclineranno i due sarmenti inferiori sotto la orizzontale
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
70U
Fig. 250.
mantenendoveli mediante forchette di legno o in qualsiasi altro modo,
e si poteranno ad una gemma i due superiori (fìg. 251 a b). Qua-
lora i sarmenti inferiori fossero meschini e troppo corti per essere
Fig. 251.
inclinati, allora si sopprimeranno i getti deboli e si curveranno gli
altri sarmenti, legandoli al ceppo come mostra la fig. 252; questi sar-
Fig. 252.
menti servono ad attirare il succo verso gli occhi della loro base
e ad attivarne lo sviluppo. Sarebbe pure ottimo, non volendosi ri-
curvare i getti, potare i due o tre più forti a due occhi caduno:
così si avrebbero l'anno dopo ottimi tralci da inclinare.
710
CAPITOLO XX11
L'inclinazione si deve fare con precauzione: V angolo deve essere
regolare e lontano da una parte obliqua, come sarebbe in a fig. 253,
Fig. 253.
perchè potrebbe accadere che le gemme poste su quest'ultima parte
si sviluppassero male, ed allora mancherebbero i getti di rimpiazza-
mento. La fig. 254 mostra invece una inclinazione regolare in a.
Fig. 254.
Ma ritorniamo alla pianta disegnata nella fig. 250 e 251. I due getti
che sortono dagli occhi a e b si sostengono con un tutore; si ci-
mano le loro femminelle, e si mozzano i due getti stessi allorquando
hanno raggiunto una lunghezza di lm,50 circa. Alla potatura si in-
clinano, ed allora alla loro base sortono getti vigorosi (a a fig. 255)
che si sostengono con tutori. Ogni anno si opera in questa guisa,
potando a due speroni ed a due tralci frutticosi inclinati.
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
711
Ma qualora, per deficienza di vegetazione, mancassero i getti di
rimpiazzamento, specialmente al primo anno della inclinazione, allora
Fig. 255.
si conserva intatta la parte inclinata, ma i getti che sorgono su di
essa si speronano ad un occhio, come indica chiaramente la fig. 256
Fig. 256.
in a a a. Al secondo anno si dovranno poi cimare tutti i getti del
tralcio a frutto al disopra dell'ultimo grappolo, come mostra la fig. 257
712
CAPITOLO XXII
in a a, lasciando sviluppare liberamente due getti b b della base i
quali formeranno buoni tralci di rimpiazzamento. Al terzo, od al più
Fig. 257.
tardi al quarto anno, la pianta è formata regolarmente, e la pota-
tura procede di poi come or' ora dicevamo.
La vite, con questo sistema, può tenersi più o meno alta, a se-
Fig. 258.
conda del vitigno e delle circostanze speciali in cui si trova il vi-
gneto; per esempio si può disporla a sistema unilaterale, come indica
la fig. 258 guidando i getti su due fili di ferro, oppure anche come
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
713
la fìg. 259 cioè più elevata; si può anche tenerla a sistema bilate-
Fig. 259.
rale, come mostra la fìg. 260; e qualora si volessero sopprimere
Fig. 260.
fili di ferro, si potrebbe adottare la disposizione della fìg. 261, fis-
sando i tralci fruticosi di una ceppaia b all'altra vicina a. Faremo
Fig. 261.
notare inoltre che invece di un solo tralcio a frutto, se ne possono
lasciare due (fig. 259); il secondo tralcio può sorgere presso al primo,
ma si deve guidarlo verticalmente lungo il sostegno, e poscia indi*
narlo, come in a fig. 261, oppure può sorgere sopra un prolunga-
mento della ceppaia, come si vede in b.
714
CAPITOLO XXII
§ 16. Sistema Aubry ad S. — Sistema a cavatappi. — Il
sistema ad S fu ideato dal Sig. Aubry, distinto viticoltore di Tho-
rigny (Seine- et- Marne), ed è esso pure un sistema a tralcio frut-
icoso lungo. Condotto il tronco principale all'altezza cui si desidera
di tenere la vite, si tende un filo di ferro a a fig. 262 sul quale si
distendono due tralci frutticosi curvandoli a guisa di una S. I futuri
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 715
capi a frutto b, ossia i capi a legno, si guidano lungo il tutore, op-
pure si sostengono mercè un secondo filo di ferro. La curvatura
dei tralci a frutto, rallenta il movimento del succo, con beneficio
delle gemme, onde si hanno ottimi capi a legno; inoltre anche un
lungo capo a frutto occupa uno spazio relativamente piccolo, ap-
punto per le curve che esso fa. Questo sistema è molto lodato in
Francia.
Sistema a cavatappi. — Con questo metodo di potatura il tralcio
frutticoso anziché essere curvato accanto ad un filo orizzontale, è
come avviticchiato a spirale attorno al palo di sostegno, onde la
vite ricorda le spire d'un cavatappi. Il sig. Champin lo loda molto
sia per le uve da tavola sia per i vitigni bimembri franco -americani.
Alla prima potatura, dei due getti più belli della nuova vite, il più
basso potasi a sperone con due gemme, ed il più alto si attorciglia
attorno al tutore per una lunghezza di soli 30 cent.; al secondo
anno si potrà portarlo a 60 cent, crescendo la lunghezza col crescere
del vigore della pianta, e potando sempre ad uno sperone ed un
tralcio frutticoso lungo, il quale dura solo un anno, ed è surrogato,
alla potatura, dal più alto fra i due dello sperone legnoso. Questo
sistema è molto semplice e di facile applicazione; la curvatura del
tralcio a frutto giova alla fruttificazione, ed i grappoli maturano
assai bene. Champin asserisce di aver ottenuto con questo sistema,
sin dal secondo anno, un paniere d'uva per ogni ceppo innestato.
§ 17. Sistemi di Stradella e Broni. — Secondo questi si-
stemi le viti si coltivano a gruppi anziché isolatamente pianta per
pianta; nello Stradellese infatti, nelle fosse (le quali sono larghe un
metro e mezzo, profonde 80 centim. e distanti fra di loro 8m) si
piantano da 9 a 10 maglioli attorno a piccoli cumuli di terra che
si innalzano entro le fosse stesse: questi cumuli distano 2m,20 in
pianura e 1 m ,80 in colle. Dei maglioli piantati non ne rappiglia che
una metà circa, ma bastano anche soli 4 per costituire un gruppo,
che allora riesce composto di 4 piante, disposte per così dire ai
quattro angoli di un quadrato avente 50 centimetri di lato. Queste
quattro giovani piante si lasciano crescere liberamente al 1° anno e
senza sostegni; lo stesso si fa al 2° anno, curando solo la nettezza
del suolo. Alla fine del 2° anno si incomincia a potare, tagliando le
viti rasente terra, e piantando poscia ad ogni gruppo 4 pali lunghi
circa 2 metri, uno per barbatella, in modo che vengano a riunirsi in
716 CAPITOLO XXII
una sola punta — chiamata coppa — dove si legano con un vi-
mine. Si chiama questo intreccio di pali la gabbiera.
Durante il terzo anno si lasciano pur crescere liberamente i getti,
e si tien netto il suolo dalle mal'erbe. Alla primavera del quarto
anno si potano a terra in ogni barbatella i piccoli getti e il mi-
gliore si pota a due o tre occhi e si lega al palo vicino della
gabbiera. Esso dà un po' d'uva. Se la vite è robusta si lascia un
maggior numero di gemme per modo che il tralcio sia lungo tanto
da raggiungere la coppa. Se lo è poco invece, si fanno al quarto
anno gli arrotti chiamati colà controfossi. Questi si fanno a
70 o 80 centim. dalle barbatelle. Consistono in due fosse laterali
fatte con due fitte di vanga, una sopra l'altra. Della seconda si la-
scia la terra vergine sul sito, sulla quale si pone del letame che si
copre colla terra della prima vangatura. Alla primavera del quinto
anno, il getto si lascia lungo tanto da raggiungere certamente la
detta coppa e a quella del sesto anno il ceppo delle barbatelle s'in-
nalza sino alla medesima, poi si distende di esso orizzontalmente il
miglior tralcio frutticoso, che vien detto colà il co, e si va ad ap-
poggiarlo ad un palo posto in mezzo al tratto che separa l' uno
dall'altro gruppo. Ogni barbatella ha qui il suo palo posto in mezzo
e il suo co che dalla gabbiera si distende sopra un rametto oriz-
zontale detto racca sino all'accennato palo. A questo punto ogni
gruppo si marita a 12 pali, 4 alla gabbiera, 4 diritti (2 per parte)
in mezzo ai gruppi, e sui quali vanno ad appoggiarsi le travarse o
racche, infine 4 racche. Alla primavera del settimo anno, non ba-
stano i co o tralci frutticosi distesi sulle racche e si fa sul davanti
— cioè verso l'interfllare — il mezzo passo alla Casalese (pag. 654)
da ambi i lati. Quindi è necessaria l'aggiunta di due altri pali.
All'ottavo si fa il passo intiero, quindi due altri pali, uno per lato,
e questi devono essere fortissimi e lunghi cinque o sei metri. Il fi-
lare ha allora tre metri di spessore.
Giunte le ceppaie sui detti pali lunghi, o pertiche, i tralci frutti-
cosi o co si distendono in ispalliera — vale a dire tra un gruppo e
l'altro — coll'appoggio di altre racche orizzontali o di altri paletti
diritti posti tra l'una e l'altra pertica.
Al nono anno adunque, oltre ai co delle racche e quelli del mezzo
passo e del passo, si hanno anche quelli della spalliera in una fila
orizzontale.
Al decimo, a questa fila se ne aggiunge un'altra; e all'undecimo
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
717
una terza; e sempre da ambi i lati del filare, se le viti sono ro-
buste, loro si lasciano anche dei co obliqui diretti cioè tra quelli del
passo e quelli delle vacche. Allora il filare è completo e si dice
madronale.
Non neghiamo che questo sistema sia molto produttivo (1) ma certo
è costosissimo perchè richiede molti pali e molte pertiche.
*9 II sistema di Broni presenta alcune buone varianti; esso ci è
rappresentato dalla fig. 263; in essa vedesi anzitutto la suddetta
gabbieva formata dai pali C D; dal basso partono le ceppaie A, che
Fi?. 263
giunte all'altezza di un 20 centim. circa, od un poco più sul palo C,
sono legate con un vimine. Di qui esse prendono due principali di-
rezioni; il maggior numero si dirige lateralmente, cioè sul davanti
verso gli interfilari, sui pali o pertiche grosse e, come si vede forse
meglio, sulla pianta nella fig. 264. Dai detti pali poi i tralci frut-
tuosi, in una sola fila, si dirigono orizzontalmente — condottivi da
rametti o vacche poste all'altezza di circa un metro e 1{2 da terra — ■
(1) Il filagnone dell'Ori. Ministro A. Depretis, composto di 30 gruppi posti in
mezzo ad un prato, produceva or sono varii anni 14 ettolitri di vino da sé solo!
718 CAPITOLO XXII
verso il palo I e l'altro palo posto più sopra; tutti, come si vede, sono
segnati colla cifra in bianco 2 collocatavi internamente. Co testa linea
orizzontale di co o tralci frutticosi si chiama colà garlanda o pa-
lata. Nelle vigne madronali gli stomboli o speroni a a a fig. 263
(che possono dare già nell'anno un po' d'uva, ed ai quali non do-
vrebbero però lasciarsi, nell'atto della potagione, che due o tre gemme)
danno dei co robusti e numerosi, che non solo si distendono sul da-
vanti, lunghesso le ceppaie, che accompagnano da E in G e da G
in F (fig. 264) ma fanno a questo punto una diversione verso il palo
il li
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• Palo
«i. ._._..' Tralcio
Fiff. 284.
H (cifra 1) e quindi una parallela alla suddetta garlanda detta a
Broni tironata o contropalaia, sulla quale alcuni prendono una di-
rezione all'infuori, cioè verso il gruppo vicino, e gli altri si dirigono
internamente da F in H. Si noti che gli stomboli dei pali E E (fi-
gure 263 e 264) danno i tralci per le direzioni E I ed E G e quelli
dei pali G G le danno da G in F e da F in H e all'infuori, cioè per
la contropalata. A questa però servono meglio quelli del palo F fi-
gura 264, dove s'arresta la ceppaia o tronco vecchio della vite.
Dicemmo qui sopra che dalla prima legatura sul palo C (fig. 263) le
ceppaie, o tronchi, oltre la direzione sopra descritta ne avevano
un'altra, e questa ha luogo nell'interno del filare stesso, cioè verso il
gruppo vicino. Difatti tra due gruppi vi sono uno o due paletti che
non furono notati nelle suddette figure (posti sempre vicino allo stom-
bolo), sui quali si distende una ceppaia all'altezza da terra di circa
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
719
60 centim. e giunta che è sul palo C della gabbiera del vicino
gruppo, stende indietro uno o due tralci frutticosi, verso la propria
gabbiera, appoggiati sui suddetti paletti e all'altezza di circa un metro
e 1[2 da terra. Al posto della suddetta ceppaia nei primi anni vi
sono tralci frutticosi detti i navet, ma poi essendo questi coperti in
gran parte dai pampini vicini, le si lasciano solo degli stomboli che
mandano i loro germogli sui paletti, e l'anno dopo questi germogli
si stendono più in alto dei navet, cioè, come dicemmo, all'altezza d'un
metro e mezzo: danno frutti e si chiamano allora le bovaline.
Di queste come dei navet si ha il profilo nella fìg. 265.
Fig. 265.
Tanto le bovaline che le contropalate da ambo i lati (corrispon-
denti alla triplice fila di spalliera degli Stradellesi) non si vedono però
che nelle vigne madronali ben tenute.
Queste vigne danno buoni prodotti, cioè in media 1000 miriagrammi
d'uva ad ettare; però se si tiene conto delle spese di palatura, è ovvio
concludere che i descritti sistemi oggidì non stanno certo fra i più
commendevoli.
§ 18. Sistema di Asti. — Due sono i sistemi che si seguono in
questa regione, quello detto alla garret e quello a spalliera o taragna.
Descriviamo anzitutto il primo: premetteremo che nell'Astigiano la
vigna si pianta generalmente mediante barbatelle provenienti da pro-
paggine in fosse larghe 1 m. e profonde 75 cent, che si aprono in
720
CAPITOLO XXII
senso trasversale alla pendenza del terreno, siccome è lodevole con^
suetudine in Piemonte ed in genere nell'Alta Italia. Durante il 1°
anno si lasciano crescere liberamente le piantine; al marzo successivo
si tolgono tutti i getti, meno uno che potasi a 3 o 4 gemme; all'altro
marzo potasi invece a 5 o 6 gemme, ma si allevano due tralci;
al terzo anno si fa l'arrotto (pag. 370). Ciò fatto se la vite è ro-
busta si pota a circa sette o otto gemme e si distende inclinata
sin;) ad un secondo palo posto a circa 40 centina, più in là nel fi-
Fig. 266.
lare. Che se invece fosse un po' debole si pota ancora a 4 o 5 gemme
come negli anni andati e si attacca (due getti ogni anno) vertical-
mente al primitivo palo. In questo caso che è il più comune, il se-
condo palo si dà al principio del quinto anno ed il getto che, come
dicemmo, si lascia con 7 o 8 gemme, si chiama mezza chena e si di-
stende obliquamente come sopra. Esso darà uno o due grappoli d'uva
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
721
e si alleveranno tre getti. Un anno dopo il getto più basso si pota
a 3 o 4 gemme per fare lo scoti (sperone), all'altro si lasciano 8 o
IO gemme e formerà la mezza chena, e ad un terzo che sarà il mi-
gliore e il più lungo si lascieranno tutte o quasi tutte le sue gemme,
cioè si conserverà quasi intatto e formerà la chena, che si distende
orizzontalmente sino ad un terzo palo posto a 50 centim. dal secondo.
Infine al settimo anno, se la vigna sarà vigorosa e ben tenuta,
oltre lo scott (due per ceppaia) la mezza chena e la chena, si avrà
un ultimo importantissimo tralcio frutticoso, detto il siarè. È il mi-
gliore fra quelli che darà la branca, che l'anno avanti avrà portato
la chena, o la mezza chena, e si va ad attaccare ad un quarto palo
posto a 60 centim. all'infuori del filare, dopo averlo fatto passare
fra gli altri come si vede nella fìg. 266. In essa c'è la mezza chena,
la chena e il detto siarè, che alla successiva primavera (ma solo
se robustissime le viti), si può piegare sotterra, la punta eccettuata,
cioè si può propagginare per avere nuove barbatelle come si vede
alla lettera E._
Generalmente la mezza chena non oltrepassa il secondo palo e la
Fig. 267.
chena il terzo. La mezza chena al successivo anno dà la chen a
questa dà poi il siarè, il quale non esiste che nelle vigne vigorose.
Vediamo ora brevemente in che cosa consiste il sistema delle
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura.
47
722
CAPITOLO XXII
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
723
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724 CAPITOLO XXII
taragne che è il più diffuso nell'Astigiano: esso costituisce una vera
spalliera (fig. 267). Ad ogni 70 centina, di distanza vi ha un gruppo
composto però di sole due ceppaie, una con un tralcio o chena A e
D D, e l'altro con due tralci B, C, E e F. Come vedesi invece dello
stare (pag. 721) si hanno le chene, piegate ad arco come indica la
fig. 267. Questa figura mostra pure come è costrutta la spalliera,
che si rinforza anche con traverse p q.
Tutti questi sistemi, per quanto produttivi e fino ad un certo punto
razionali, non sono troppo raccomandabili oggidì, poiché ognuno pro-
cura di economizzare nelle spese di palatura e dei sostegni in genere
a fine di produrre l'ettolitro di vino al minor prezzo possibile.
§ 19. Educazione a tralcio lungo per le pianure, sistema
Bisinotto (1). — Il sig. Giovanni Bisinotto già da parecchi anni
si studiò di risolvere il quesito della coltivazione economica dei vi-
gneti specializzati in pianura. Egli prese le mosse da questa consi-
derazione, che anzitutto conveniva modificare i sistemi comune-
mente adottati, avendo egli osservato che per l'impianto di un'ettaro
di vigneto in pianura e per l'allevamento delle viti fino al 4° anno
bisognava spendere da 2000 a 3000 lire, prima di avere una produ-
zione qualsiasi. L'anticipazione è gravosa e impossibile alla maggior
parte dei proprietarii, nelle presenti loro condizioni economiche. Al
sistema Guyot, troppo costoso, che richiede anticipazioni così rile-
vanti, bisogna quindi sostituirne un altro più economico e più adatto
alle tristi condizioni della nostra economia rurale. Questo è appunto
quello che il Bisinotto si è studiato di fare, tenendo conto tanto
delle esigenze geologiche e climatiche, quanto dei precetti fondamen-
tali suggeriti dalla scienza, per la conveniente preparazione del ter-
reno e pel razionale allevamento della vite. I risultati di questo suo
sistema economico corrisposero pienamente alla aspettazione, di ma-
niera che dal 1° al 3° anno d' impianto la produzione compensò la
spesa sostenuta, quasi senza anticipazione di capitale ; ed al 4° anno
egli ottenne un reddito netto di lire 300 per ettaro, nel 5° lire 600,
nel 6° e nei seguenti da 800 a 1000 lire. Con tale sistema è superato
(1) V. Rappresentazioni grafiche per la coltura della vite in vigneto nelle pia-
nure, con esposizione del costo e prodotti, secondo i risultati ottenuti nei teni-
menti del Senatore Conte G. B. Giustinian, nei distretti di Oderzo e San Donò
di Piave per Giovanni Bisinotto. Estratto dal fase. XVI del Bollettino ampelo^
grafico, Roma, 1882.
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 72o
adunque l'ostacolo principale che comunemente si opponeva alla specia-
lizzazione colturale della vite. Brevi cenni basteranno a chiarire il si-
stema Bisinotto, coll'aiuto delle unite figure 268 a 271. Nell'appez-
zamento che egli vuole mettere a vigneto fa economicamente lo scasso
coli' aratro a 40 centimetri di profondità, e con Y aiuto della vanga
dispone il terreno smosso in ciglioni larghi metri 4 da solco a solco
e alti dal solco al colmo metri 0.80. Pianta sulla cima del ciglione
le viti, e quindi sopra un terreno alto ed asciutto e gli riesce pos-
sibile, senza portar pregiudizio alle viti stesse, la coltura di piante
sarchiate, da cui ritrae per ciascuno dei tre primi anni il rimborso
delle spese. Al quarto anno il Bisinotto ha già la vite a buon frutto
e mercè la larghezza dei filari gli è dato applicarvi il drenaggio (di-
mostrato nelle figure 270 e 271), divìdendo, a comodo e volontà,
il dispendio in più anni. In conclusione con questo sistema egli ritrae
dal terreno i mezzi di far fronte all'impianto ed allevamento della
vite, e nel corso di sua produzione gli è sempre possibile effettuare
i lavori di perfezionamento al terreno, richiesti per la sempre mag-
giore sua fecondità.
« Alcuno potrà osservare, nota il Bisinotto, che si perde così molto
terreno, perchè con le file a 4 metri e centimetri 75 da pianta a
pianta nelle file, un ettaro non ne contiene che N. 3333, mentre col
sistema Guyot, le file che stanno a un metro una dall' altra, e le
piante pure a un metro, un ettaro ne contiene 10,000. Rispondo :
Guyot dà ad ogni vite un metro quadrato di terreno e mette a
frutto un tralcio lungo 80 centimetri; col mio sistema dò ad ogni
vite tre metri quadrati, ma metto a frutto tre volte 80 centimetri
di tralcio, ossia due tralci lunghi metri 1,20 ciascuno, disposti come
vien dimostrato nelle figure qui unite: mi trovo quindi ad avere in un
ettaro una sviluppata lunghezza di tralci a frutto quanta ne ha il
sistema Guyot, a un metro. Il sistema Guyot richiede che tutti i
lavori di preparazione e perfezionamento del terreno precedano l'im-
pianto delle viti; il sistema Guyot non è adatto alla maggior parte
delle pianure e specialmente ove, il terreno è di natura argilloso o
argilloso- calcare, che pel difficile scolo delle acque vuole esser posto
a ciglioni il più possibile elevati; il sistema Guyot non permette la
coltura di alcun cereale nei tre primi anni, in cui la vite non dà
frutto e che pur dimanda spese continue; di qui la forte anticipa-
zione di capitali, la quale costituisce appunto l'ostacolo che ho preso
a combattere e sono riuscito a superare. »
726
CAPITOLO XKll
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
7.27
728 CAPITOLO XXII
Per brevità dobbiamo ommettere i quadri dimostrativi delle spese
e dei redditi che il sig. Bisinotto univa all' accennato opuscolo; da
essi però risulta che il suo sistema merita di essere seriamente preso
in considerazione. Le quattro figure 268, 269, 270 e 271 ne danno
una chiara idea: la fìg. 268 disegnata esattamente nel rapporto di un
centim. per metro, ci mostra la planimetria d'un vigneto alla Bisinotto.'ìa.
fìg. 269 ci porge tre sezioni trasversali dei tre primi anni; la fìg. 270
ci rappresenta le sezioni trasversali del 4°, del 5° e del 6° anno, col
drenaggio in quest'ultimo; infine la fìg. 271 ci mostra le sezioni lon-
gitudinali del 1°, 2° e 3° anno, col detto drenaggio tubulare nel 3°
anno. Le viti sono sostenute dal 3° anno in avanti con pali di acacia
e fili di ferro, come si vede nella fìg. 271; la disposizione dei capi
a legno e dei due tralci a frutto, è chiaramente rappresentata dalla
fìg. 270, anno 5° e 6°.
§ 20. Coltura della Vite nelle dune e nelle sabbie. — La
vite non solo può coltivarsi nelle terre sabbiose, ma vi dà ottimo
prodotto; questo è un fatto noto. Ma la vite può coltivarsi eziandio
nelle dune, cioè nelle sabbie quasi pure: in Francia sono note le vigne del
Cap-Breton (dipartimento delle Lande) coltivate sovra dune presso
le coste dell'Oceano; queste dune sono quasi intieramente composte
di piccoli sferoidi di quarzo ialino, d'una grande mobilità « troppo
leggeri per resistere ai venti, ma non abbastanza per essere dissi-
pati come la polvere » (1). A questi piccoli cristalli si trovano me-
scolati dei detriti di conchiglie visibili ad occhio nudo; l'analisi mec-
canica di queste sabbie diede 98, 80 per 0\q di sabbia silicea, e
1,2 per 0[o di detriti conchigliferi formati da carbonato di calce:
l'analisi chimica svelò pure la presenza d'una piccola quantità di sai
marino. Per impedire lo spostamento di queste sabbie, e rendere al-
lora possibile la coltura della vite, quei coltivatori dovettero cingere
gli appezzamenti vitati con palizzate, formate da erica e paglia, so-
stenute da pali e rinforzate mercè opportune traverse: queste pa-
lizzate giovano eziandio a preservare le viti dai venti marini (pa-
gina 293). Inoltre la vite vi si coltiva soltanto sui versanti est delle
dune, perchè opposti all'azione diretta dei venti di mare. Fra i varii
recinti, a forma di parallelogrammi detti tournets, nei quali si col-
tivano le viti, esistono degli spazii liberi dai quali togliesi la sabbia
(1) Così si esprime il sig. A. Petit- La fitte. (Ladrey, op. cit. pag. 157).
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 729
destinata a surrogare quella dei recinti coltivati, la quale va via esau-
rendosi; ciò corrisponde alla tanto raccomandata rinnovazione della
terra al pedale delle viti. L'insabbiamento si fa tutti gli anni, por-
tando 0m.10 di nuova sabbia entro i tournets, che si sparge alla
superficie del vigneto. I vigneti del Cap-Breton datano dalla se-
conda metà del XV secolo: il vino che producono è buono. De Can-
dolle (1) dice che la vite è tenuta tanto bassa che i grappoli « ri-
posano sulla sabbia, la quale riscaldata dal sole, li fa maturare con
rapidità. » E Guyot (2) .lice che i vini del Cap-Breton hanno « il
bouquet ed il sapore dei vini di Bordeaux, e la generosità del Bor-
gogna; » egli soggiunge che vi riescono benissimo il Cabernet, il
Sémillon, e specialmente il Chasselas, che si vende a Bayonne
come uva da tavola. Il prodotto medio è di 30 ettolitri di vino ad
ettare.
In Francia sono pure noti, anzi rinomati dopo l' invasione fìllos-
serica, i vigneti che sorgono sulle sabbie di Aigues-Mortes, nella
regione del Basso Rodano; ma di questi diremo studiando la qui-
stione della fillossera.
In Italia eziandio abbiamo buoni esempii di viti coltivate se non
nelle sabbie quasi pure almeno in terre molto sabbiose, ma conte-
nenti un po' di calcare; alludiamo a taluni vigneti coltivati sulla così
detta sabbietta del Basso Veneto (3) e tenuti alla Guyot, ma alla
distanza di lm,25 in tutti i sensi. Ivi si coltivano il Raboso, il Pinot
ed il Cabernet, ed il prodotto è cospicuo.
Volendosi impiantare e coltivare razionalmente un vigneto in si-
mili condizioni specialissime di terreno, converrà attenersi alle norme
seguenti. I filari debbono tracciarsi alla distanza di 3 metri l'uno dal-
l' altro e non meno, perchè le viti possano durare maggior tempo;
con minori distanze vi sarebbe a temere l' invecchiamento precoce.
Le talee si piantino mediante uno speciale foraterra, rappresentato
dalla figura 272; ove A indica il foraterra a guisa di tubo, cioè
vuoto, e B un ago di ferro che si spinge nella sabbia dopo averlo
collocato entro il foraterra colla punta conficcata nella estremità in-
feriore della talea. Spingendo il tubo nel terreno si guida la talea
(1) Voyage botanìque et agronomìque dans les départements du sud-ouest.
(2) Étude des vignobles de France, voi. 1, pag. 361.
(3) Al podere Rettinella (presso Adria) dei Conti Papadopo li diretto dal signor
Carlo Bisinotto.
730
CAPITOLO XXII
alla voluta profondità, indi con una mano togliesi il foraterra A,
mentre coli' altra si tien fermo 1' ago B per impedire alla talea di
risalire: dopo si leva anche 1' ago, comprimendo la sabbia attorno
alla talea stessa. Questa dovrà avere una sola gemma fuori terra,
l
B
Fig. 272.
la qual gemma è necessario ricoprire con sabbia per ritardarne lo
sviluppo, e fare sì che non anticipi su quello delle gemme inferiori.
Al primo anno non occorrono sostegni; al secondo si darà ad ogni
pianta un tutore (paletto o canna) e si potrà poi educare la vite
o ad alberello o a piramide o alla Guyot-Boschiero e via dicendo.
§ 21. Coltura delle viti a cordoni strisciali ti, ossia a spal-
liera orizzontale bassa (Chain tres). — Le viti en Chaintres (1)
si devono ad un contadino di Chissay (2) chiamato il pére Benys,
celebrato da scrittori francesi con apposite monografie, nelle quali
si decanta, fors'anche con esagerazione, il sistema da lui ideato; noi
crediamo che queste viti possano chiamarsi cordoni striscianti,
(1) A nostro avviso Chaintres è una contrazione di Chaines trainantes, cioè
catene o cordoni striscianti. (Anche in Piemonte i tralci frutticosi chiamansi ca-
tene, chene).
(2) Presso Montrichart (Loire-et-Cher).
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
731
oppure spalliere orizzontali basse, e ciò apparirà evidente dalla
descrizione che ci accingiamo a farne.
La figura 273 ci rappresenta una pianta di vite en Chainti es in
piena fruttificazione; le singole piante vogliono essere molto distanti
Fie 273.
una dall' altra, e così da 4 a 6 metri tra fila e fila, e da 2 a 3
metri tra pianta e pianta. Le branche madri, da cui partono i capi
a frutto, si fanno quindi strisciare orizzontalmente al terreno, soste-
nendole però con paletti biforcati lunghi 30 a 40 centimetri: come
si vede abbiamo una vera spalliera orizzontale molto bassa, ed è
per questo che abbiamo collocato il sistema en Chaintres in questo
capitolo dedicato esclusivamente alla vite bassa.
Il piantamento può farsi nei solchi aperti coll'aratro (come operava
il pére Denys o meglio nelle fosse (come fanno oggi i suoi imita-
tori) dando ad esse la profondità di 0m,60 e la larghezza di 1 metro.
In fondo alle fosse si pongono fascine e terra in guisa da alzarne
il fondo sino a 25 centimetri circa, indi piantansi le barbatelle o le
talee, potandole a 2 occhi fuori terra. (È bene preferire quelle va-
rietà di viti, le quali prediligono la potatura lunga). I getti lasciansi
crescere liberamente; l'anno dopo, nell'inverno, si pota a due gemme
732 CAPITOLO XXII
il più bello e più basso, gli altri si sopprimono. Al secondo anno si
pota nello stesso modo: però al terzo anno il getto più bello e più
basso si pota lungo circa un metro, mentre gli altri si tolgono tutti.
Nello stesso tempo si fa l'accecamento delle gemme, come col sistema
Vannuccini, per un tratto di 70 centim. di lunghezza del tralcio po-
tato lungo un metro, lasciandogli così le sole gemme della estremità,
cioè del rimanente tratto di 0m,30: si debbono lasciare intatti a poco
presso i soli tre occhi estremi. È facile intendere che così operando
non è possibile che si formino dei nodi lungo il tralcio, che deve
divenire la futura branca madre, onde esso si serba assai pieghe-
vole e non si rompe spostando la vite per operare i lavori cultu-
rali nel vigneto. Volendosi avere due branche madri, si dovrà la-
sciare due di siffatti tralci alla terza potagione; quasi nessuno però
alleva più di due branche (fig. 273).
In questi primi anni si deve dare un tutore alla vite; i getti delle
tre gemme non accecate si piegano ad arco, nel maggio, nel filare
stesso, e così si lasciano durante Y estate. Al quarto anno il getto
di mezzo si sopprime, gli altri due si lasciano intatti.
L'ultimo (B fig. 274) serve a prolungare la giovine branca madre,
l'altro (A fig. 274) si spunta leggermente; si avverta poi nella pri-
mavera successiva a sopprimere tutti i pampini che non portano uva,
Kiy:. 274.
nonché (in estate) tutti i getti ghiottoni che nascono sul ceppo e
sulla giovine branca madre. Al quinto anno il ramo A scompare sino
al disopra del getto più basso locato su di esso, che si lascierà come
capo a frutto, e cosi si farà negli anni successivi, come se quel
punto fosse una pianticella separata dalle altre; cosa che del resto
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA
733
si pratica in pressoché tutte le nostre vigne. Del ramo B (fig. 275)
il getto terminale si raccorcia, gli altri, 0, 2, 3, 4, ò, (fig. 275) si
sopprimono all' eccezione d' uno posto dalla parte opposta a quello
Fig. 275.
lasciato alla base del ramo A (a 40 o 50 centimetri dal medesimo)
e anch'esso si raccorcia un poco. Si avranno cosi tre capi a frutto
Fig. 276.
(fig. 276) che metteranno molti pampini e daranno molt'uva. Durante
l'estate si potranno liberare, colla scacchiatura, dai getti inutili e i
734
CAPITOLO XXII
più alti fra i rami frutticosi si potranno cimare (il che però non si fa
a Chissay) per favorire lo sviluppo del più basso locato in ognuno di
essi e che si dovrà lasciare a frutto l'anno dopo. Cosicché alla sesta
potagione tutto ciò che sarà posto al disopra di questi due getti
irte. 277.
sarà tolto, mentre si lascierà intiero — però colla solita raccorciatura
— il solo getto terminale per prolungare la branca madre. Si avrà
così un altro capo a frutto ed in tutto quattro a vece di tre (fi-
gura 277).
Si continua allo stesso modo negli anni successivi allevando — a
misura che si prolunga questa branca madre — dei nuovi capi a
frutto, a 40 o 50 centimetri un dall'altro e or di qua or di là della
medesima e così alternandoli appunto come si vede nella figura 277
— o meglio nella fig. 273.
A 10 o 12 anni si sarà raggiunta la lunghezza eguale, poco su poco
giù, alla distanza delle file, che dicemmo essere di 4 o 6 metri, ed il
suolo sarà pressoché intieramente coperto. Allora il getto terminale
non si dovrà allungare di più e si tratterà come i capi a frutto la-
terali, troncandolo cioè alla sua base ogni anno e lasciando ivi per
l'anno dopo, al suo posto, il più basso locato per servir da capo a
frutto.
Molti ora trasformano le antiche vigne in vigne en Chaincres, al-
SISTEMI SPECIALI DI EDUCARE LA VITE BASSA 735
levando un getto, il più basso locato possibile, per farne la branca
madre e svellendo poco per anno le piante più vicine se troppo fìtte
tra le file e nelle file sino alla distanza voluta dai Chaintres.
I piccoli sostegni biforcati vogliono essere circa 3 per capo a fratto;
al quarto anno ne occorrono circa 2400 ad ettare, e quando la vite
è in pieno sviluppo, 12 mila, del valore di L. 6 ogni mille; siccome
la durata di essi è calcolata in media a 4 anni, così la spesa an-
nuale a Chissay è valutata appena a 20 lire Tettare.
I paletti tolgonsi dalla vigna, tutti gli anni, nell' inverno; appena
finita la potatura e quando le branche madri sono liberate dai so-
stegni, si sollevano e si distendono lungo il filare, cosicché è poi
possibile lavorare lo interfilarc coli' aratro: è così che si opera a
Chissay. Coloro che hanno adottato il sistema en Chaintres, asse-
riscono che esso non impedisce menomamente la caccia alle male
erbe né le operazioni della potatura verde: noi ne abbiamo intrapreso
Tesperimento soltanto nel decorso anno col Cabernet, onde per ora
nulla possiamo dire a conferma di quanto leggesi nei libri francesi fra
cui quello dello stesso Dr. Guyot, il quale è entusiasta del sistema
in quistione (1).
Ci limiteremo quindi ad accennare al vigneto a cordoni stri-
scianti del signor Monpouet, il quale dicesi produca 175 ettolitri di
vino ad ettare, e di ottimo vino; questo e gli altri vigneti si con-
cimano moderatamente, a preferenza con concimi chimici a base di fo-
sfati e potassa come asseverano l'abate Frandin ed il Prof. Bernard;
la concimazione si pratica dopo la caduta delle foglie. La Società
degli Agricoltori di Francia tenne, alcuni anni or sono, una ap-
posita seduta per discutere sui pregi e sui difetti delle viti en Chain-
tres', leggendo il sunto di quelle discussioni, alle quali presero
parte valenti viticultori che già adottarono il sistema in discorso, non
si può a meno di concludere raccomandando si facciano anche in
Italia dei saggi come già vennero fatti, con ottimo esito, persino in
Algeria, tanto più perchè all'atto pratico molte difficoltà che si affac-
ciano alla mente del viticultore leggendo la descrizione del sistema,
scompaiono o si attenuano di molto.
(1) « Le viti en Chaintres (dice l'eminente scrittore) sono l'ultima parola della
filosofia della vegetazione, della fecondità f- della longevità delle vigne, di cui
esse ne offrono la più alta espressione » (Op. cit, voi. 2° pag. 707).
CAPITOLO XXIII
Vigneti specializzati e vigneti misti,
§ 1. La nostra professione di fede — § 2. Danni che recano alla vite le colture
dell'interfilarc — § 3. Danni che la vite reca alle colture dell'interfilarc —
§ 4. La vite consociata alle patate — § 5. La vite consociata alle piante fo-
raggiere a lungo fittone — § 6. Consociazione della canapa coi filari di vite
nel Bolognese — § 7. La vite consociata ai carciofi nei dintorni di Roma —
§ 8. In quali condizioni si può ammettere la coltura promiscua — § 9. Ob-
biezioni alla vite specializzata — § 10. La specializzazione ed i patti colonici
— §11. Conclusione.
§ 1. La nostra professione di fede. — L'illustre agronomo
britanno Arturo Young traversava negli anni 1787-89 il Veronese
ed il Vicentino, e vedendo quelle estese regioni tutte coperte di viti
maritate ad aceri e ad olmi, dicesi che abbia esclamato: « Che in-
venzione! concimare degli aceri e poi obbligare il grano a crescer sotto
la loro ombra ! » Il padre dell'agricoltura inglese, l'uomo la cui fama
riempì l'Europa agricola e giunse sino alle estreme solitudini dell'A-
merica, non pronunziava mai giudizii alla leggera; era osservatore
scrupolosissimo, e nelle relazioni dei suoi viaggi in Italia, in Francia,
in Spagna, si dimostrò amatore costante del vero, anche a costo di
rendersi impopolare. In Italia era ammiratore del sistema lombardo
d'irrigazione, e lodò anche assai la coltura asciutta specialmente della
cosi detta isola tra V Adda e il Brembo. Orbene, per i nostri sistemi
di viticultura promiscua non ebbe che un mordace sarcasmo.
Accettata la censura di Arturo Young, si viene a dare una severa
condanna della viticultura di intiere provinole italiane. Quasi tutto
VIGNETI SPECIALIZZATI E VIGNETI MISTI 737
il Veneto e l'Emilia vi sarebbero compresi, vi sarebbero compresi il
Vigevanese, la Bnanza, il Biellese, la Savoja, la Toscana, le Marche,
l'Umbria e altre provincie dell'Italia media e meridionale. Che più!
Sotto un certo aspetto non andrebbero illesi neanche i circondarii in
cui la coltivazione della vite è più intensiva e più razionale, e nei
quali pure sono rarissimi i viticultori che accettino la specializzazione
nel senso più rigoroso della parola. In generale anche tra i filari
delle viti sostenute da palo secco o da canne si sogliono coltivar
grano, granturco, baccelline, patate ecc.
Ma si può egli dire che Arturo Young fosse perfettamente nel
vero? In altre parole, la vera specializzazione della vite è essa pos-
sibile e consigliabile per tutti i climi, per tutte le esposizioni, per
tutti i sistemi di coltura e di condizione dei fondi ora esistenti nella
nostra Italia?
La specializzazione è quel principio pel quale una coltura deve
stare sola nel modo più assoluto. — Nessuna consociazione è am-
messa, e ciò perchè altre piante non tolgano a quella che noi vo-
gliamo coltivare e massimamente sfruttare i principii nutritori, per
impedire l'ombreggiamento e la scarsa circolazione dell'aria, per e-
seguire con maggior comodità e cura i lavori necessarii, per som-
ministrare quei concimi che a quella data coltura sono più confa-
cienti. In generale questa definizione è ammessa, ed è ammesso in
viticoltura ed accettato senza discussione il principio che chiama la
vite specializzata una condizione per raggiungere i prodotti più alti.
Dice il Cìnelli: « la verità di questo principio scientifico, che ha
per base fatti veri e pratici, non può alcuno disconoscerla e trascu-
rarla » (1).
Abbiamo ricordato il Cimili essendo egli uno fra i più strenui di-
fensori dell'attuale sistema di viticoltura promiscua nella Toscana.
L'aver egli accettata la specializzazione come un vero principio scien-
tifico dell'economia rurale ci dispensa dal mettere innanzi l'opinione
d'altri autori, che formano una schiera compatta, autorevole per la
dottrina e pel numero, a sostenere le viti specializzate e le viti non
maritate ad albero.
Il Prof. Cinellì e quelli che la pensano come lui, (citiamo il Ga-
lanti, il Mazzini, ed altri che scrissero su questo argomento) una
volta enunciato ed accettato il principio si affrettano ad accampare
(1) Quanto costa l'uva ed il vino? Studii di 0. Cinelli pag. 432.
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 48
738 CAPITOLO XXIII
l'eccezione, e l'eccezione è di tal gravità per essi da far loro scor-
dare ed abbandonare il principio stesso. Così essi s'inchinano alla
necessità della vigna non specializzata. La teoria — dicono — sa-
rebbe buona, ma la pratica non ci corrisponde. Dunque releghiamo
la specializzazione nei trattati, ma conserviamo le nostre alberate, i
nostri testucchi, i matrimonii di Bacco con Cerere e via via. Nelle
nostre condizioni speciali l'attuale sistema non si può mutare senza
danno.
A procedere ordinati nello svolgimento di questo difficile capo e-
numereremo gli appunti principali che si fanno alla vite non specia-
lizzata, riassumeremo in seguito le ragioni accampate da coloro che
reputano la vera specializzazione quasi sempre impossibile, e d'ognuna
di queste faremo un esame spassionato, opponendovi poi una breve
risposta. Poiché noi — dichiariamolo senz'altro — per principio siamo
seguaci della specializzazione e se non vogliamo escludere quei casi
in cui essa non è possibile, crediamo tuttavia che tali casi non
siano molto frequenti e che molte fre le obbiezioni che alla specia-
lizzazione si fanno possano con facilità essere rimosse.
§ 2. Danni che recano alla vite le colture dell'interfilarc
— Diceva Guyot che « la vicinanza delle piante erbacee altera i
succhi dei frutti rendendo questi più acidi e fiacchi»; e altrove «la
vicinanza dei foraggi cagiona la colatura delle viti nei bottoni e nei
fiori; » e in altro luogo poi: « le mal'erbe fanno marcire un terzo
dell'uva (1).
Della verità di queste asserzioni nessuno dubiterà, essendo ben noto
il principio che una fra le operazioni più importanti per la vite è quella
di tener soffice e monda la terra. Si dice e con ragione che chi
zappa la vigna in agosto la cantina riempie di mosto; ma come
si può introdurre nelle vigne la zappa, l'aratro e l'estirpatore se gli
interfilari sono occupati dalle altre colture? Queste faranno nella vigna
lo stesso malefico effetto delle mal'erbe, toglieranno a lei il nutri-
mento, e non permetteranno che si dia aria al terreno nella stagione
appunto più soggetta al seccume. È verissima anche l'altra asser-
zione del Guyot, che cioè le colture dell'interfilarc e gli alberi della
vigna favoriscono la colatura (ed anche la càscola), perchè nelle pri-
(1) V. Vignobles de France. Voi. I, pag. 519. 587 e voi. II, pag. 714.
VIGNETI SPECIALIZZATI E VIGNETI MISTI 739
mavere umide ombreggiando e coprendo il terreno, lo conservano
per maggior tempo umido e freddo.
Un altro svantaggio lo vediamo pure nella cattiva divisione dei lavori
a cagione delle cure che richiedono le coltivazioni secondarie. Certe
operazioni di essenziale utilità per la vite, come la cimatura, la scac-
chiatura, o non si fanno o si fanno male. Ed infine durante l'estate
si urtano in mille modi i pampini colle gambe, colla schiena, coi buoi,
coi carri, ritardando così ed inceppando la maturanza delle uve. Arature
e zappature estive negli interfìlari e nelle prode non se ne possono
fare, e ciò nuoce non solo al prodotto pendente ma al futuro, perchè i
bottoni dei tralci e degli speroni legnosi mal nutriti si fanno poco fe-
condi. In sostanza, pressati da altri lavori si trascura la vigna nel
momento appunto in cui essa ha più che mai bisogno dell'opera no-
stra. Nella stagioue in cui essa ha maggiormente bisogno d'umido
noi glie lo togliamo in tutti i modi. Ogni chilogramma di rugiada
di cui il suolo non trae profitto quando si tralascia di renderlo sof-
fìca e poroso, ogni chilogramma d'acqua che quotidianamente sper-
dono coll'evaporazione le colture erbacee e le mal'erbe, rappresenta
tanti litri di vino che si raccoglieranno di meno.
E non solo gli acini non si ingrossano, ma l'uva riesce meno ricca
di mosto, come avemmo a provare noi stessi in uno sperimento nel
quale confrontammo l'uva raccolta in filari specializzati con quella di
filari entro a cui era stato coltivato il frumento. Dunque si scapita
non solo nella quantità ma anche nella qualità.
Dove poi si marita la vite al sostegno vivente, nei terreni a ca-
napa ricchi di materie azotate, si hanno uve talvolta in gran copia,
è vero, ma talmente ricche di albuminoidi che i loro vini non giun-
gono mai ad oltrepassare l'estate.
Altri fatti che non sfuggono all'occhio dell'osservatore sono quello
che la brina coglie di preferenza le viti non zappate, ingombre di
mal' e^be, o vicine a prati ed a cereali; quello che le colture degli
interfìlari chieggono molto concime, mentre escludendole si potrebbe
concentrarlo sui prati; quello infine che esse diminuiscono d'un quinto,
d' un quarto, d' un terzo, il prodotto delle viti, e in questo le cifre
tolte a molte regioni italiane non si possono mettere in dubbio.
§ 3. Danni che la vite reca alle colture dell' inter filare.
— Se volgiamo lo sguardo alle nostre migliori regioni viticole, se
domandiamo ai pratici, se consultiamo gli autori, vi troveremo in
740 CAPITOLO XXIII
grande maggioranza i seguaci della specializzazione. Nel Barese « dove
si lascia vegetar la vite sgombra da ogni vegetazione, essa dà ottimi
risultati, dove poi si ha la smania di piantare nei vigneti l'ulivo, il
mandorlo, il fico e tutti gli alberi da frutta, non esclusa la semina
dei cereali, si fa un cattivissimo ricolto dalle viti, dagli ulivi e dagli
altri alberi » (1). E che il danno sia reciproco, si capisce di leg-
geri. Scalzate le viti nel novembre o dicembre, potate, mettete le
canne, tirate il fìl di ferro, legate, scortecciate, date il vetriolo verde
ai ceppi, ecco tante operazioni che torneranno tutte a danno del po-
vero seminato; e questo sino a che, venuta la primavera, si fa poi
un cambio tra l'agente e il paziente. La pecora si fa lupo e procura
all'antico oppressore i danni che già abbiam detto! E quando poi a
disputarsi il nutrimento vi è, oltre alla vite e ai cereali, anche il
sostegno vivo, le colture sottostanti si trovano nelle condizioni più
misere che mai. Sotto gli alberi le piante panifere, frumento, orzo e
granturco, soffrono l'umido e tardano a maturare. Ma venuti poi i
grandi calori l'albero toglie con forza l'umido al suolo, e il cereale,
il granturco specialmente, benché posto all'ombra soffre poi i danni del
secco. Sotto i gelsi, i noci, gli olmi, le viti, si vede infatti a giugno
il frumento ancora molto addietro, mentre più tardi, cioè in luglio
e agosto, il granturco, se l'anno corre secco, vi immiserisce e secca.
§ 4. La vite consociata alle patate. — Una fra le colture
più dannose alla vite è quella della patata (pomo di terra). Eppure
dal Veneto al Napoletano molti persistono nell'associare alla preziosa
ampelidea, la tuberacea, ghiotta appunto di quei sali alcalini e spe-
cialmente di potassa, che sono indispensabili alla vite. Fra gii altri che
condannano questa consociazione havvi il Prof. Comes, nel suo studio
Sul marciume delle radici e sulla gommosi della vite. Egli vede
nella difettosa consociazione d'altre piante alla vite una delie cause
che inducono alterazione e gommosi nelle radici. Disse egli parlando
della provincia di Napoli:
« Qui si sogliono d'ordinario consociare nei vigneti altre piante,
fra le quali segnatamente quelle che hanno bisogno di letame. Ora,
se il letame che si somministra nei vigneti fosse ben fermentato o, come
si dice, maturo, di certo la vite, lungi dal soffrire, ne avvantagge-
rebbe; ma se questo letame è immaturo, continuando a fermentare
(1) V. Il Coltivatore, voi. XII, pag\ 318.
VIGNETI SPECIALIZZATI E VIGNETI MISTI 741
sotterra, deve aggravare la malsania delle radici e indurvi un più
rapido disfacimento. Quel che poi riesce sommamente dannoso ai vi-
gneti è la coltivazione di quelle piante che hanno bisogno di molti
sali alcalini, come le patate. Ed invero, tali piante assorbono dal ter-
reno a preferenza quei sali che sono indispensabili alla vite. Quindi
se la vite è debole per diminuito assorbimento dal terreno e per de-
generazione gommosa, la coltivazione delle piante concimate nel vi-
gneto l'aiuta a ben morire. »
§ 5. La vite consociata alle piante foraggiere a lungo
fittone. — Lo sviluppo preso in questi ultimi anni dalla coltura dei
foraggi è una fra le principali cause del poco reddito delle viti in va-
rie regioni italiane. Noi crediamo che i prati, specialmente quelli da
vicenda, siano la coltura meno consociabile alla vite. Scrive il pro-
fessore F. Viglietto nelle sue applaudite Conferenze di viticoltura:
« Anche quando si lasciano libere due colmiere per ogni lato del fi-
lare, ciò che non si fa quasi mai, riesce enorme la sottrazione di
materiali indispensabili alla vite che si appropriano questi foraggi.
Quando poi viene il momento di romperli, moltissime radici che a-
vevano potuto formarsi ed ingrossare ad una profondità accessibile
all'aratro, vengono malamente lacerate e divelte : di più la vegeta-
zione erbacea, coprendo la superfìcie, la mantiene più umida e meno
riscaldarle di quello che potrebbero influire le altre colture (1).
Le piante foraggere medica e trifoglio, per la lunghezza del fìttone
vanno a sfruttare il terreno negli strati meno superficiali, togliendo
evidentemente il nutrimento alla vite. Nel giornale II Coltivatore è
raccontato l'esempio di un bravo viticultore pratico Monferratese, il
quale avendo posto il trifoglio biennale in mezzo ad alcuni filari di
vite larghi sei metri, e dal quale raccolse anche il seme, recò tanto
danno a queste che per otto anni di seguito non poterono riaversi
del male patito (2). Il citato prof. Viglietto afferma che la medica
è la pianta che più di tutte le altre erbe danneggia la vite. E la
danneggia, oltre per le cause già dette, anche perchè impoverisce il
terreno principalmente delle tre sostanze che in maggior copia oc-
corrono anche alla vite. [(v. Chimica della vite, Capo V.)
(1) Bollettino dell 'Associazione agraria friulana, 1884, pag. 70.
(2) Vedi // Coltivatore voi. 22, pag. 73.
742 CAPITOLO XXIII
§ 6. Consociazione della canapa coi filari di vite nel Bo-
lognese. — Ecco un altro bell'esempio del danno reciproco che vite
e coltura associata si recano fra di loro. Abbiamo visto che tra le
canapaie si raccolgono uve grasse i cui vini si alterano colla mas-
sima facilità alla ventura estate. Ma alla lor volta i filari nuocciono
alla canapa perchè d'estate fanno sì che i prodotti del suolo rice-
vano improvvisamente i raggi del mezzogiorno, cosicché l' investi-
mento della luce e del calorico e il conseguente asciugarsi della rugiada
avvenendo non per gradi ma all'improvviso, ne segue quello sviluppo
di piante parassite cui si dà volgarmente nome di ruggine o di
melarne (1).
§ 7. La vite consociata ai carciofi nei dintorni di Roma. —
Nei dintorni di Roma troviamo spesso, negli interfilari, i carciofi i quali
si associano alla vigna sin dal momento del piantamento: i carciofi si
piantano ad 1 metro circa di distanza nell'interfilare e talvolta si con-
tinua in questa coltura promiscua, cioè col vigneto-carciofeto, mentre
tal'altra dopo cinque anni circa si sopprimono i carciofi, poiché si rico-
nosce allora che le viti incominciano a soffrire. La vicinanza della città
di Roma rende molto proficua la coltura di questo ortaggio; infatti po-
nendo che in un ettare vengano a trovarsi, ed è un minimo, 4000
piante di carciofo le quali diano un reddito netto di soli 0,25 caduna,
si ha in totale un benefizio di L. 1000. Senonchè il vino che si ottiene
da questi vigneti-carciofeti vale circa un terzo di meno dell'altro, a ca-
gione del sapore speciale amaro (di carciofo?) che contrae; tale vino è
tosto conosciuto dai consumatori, che sogliono chiamarlo vino d'orto
o vino di carciofeto. Taluni attribuiscono questo sapore all'uso del
letame che si suol spargere a beneficio dei carciofi, e senza di cui
il reddito loro sarebbe assai esiguo: ma noi crediamo che si debba
invece attribuirlo esclusivamente al carciofo stesso, perchè il letame
di stalla, che in alcune provincie è molto usato pei vigneti, non con-
ferisce sapore amaro al vino, ma lo rende solo più instabile, causa
una maggior ricchezza dell'uva in sostanze azotate.
Le circostanze speciali del Suburbio di Roma, nonché la buona usanza
di concimare il carciofeto, rendono proficua quella associazione senza
detrimento delle viti, e permettono di far fruttare maggiormente il
(1) Conte F. Bianconcini. Belle convenienze dì sopprimere o no i filari arborei
vitati nelle terre da canapa.
VIGNETI SPECIALIZZATI E VIGNETI MISTI 743
terreno, cosa di grande momento di fronte ai molti gravami che deve
oggi sopportare l' agricoltura. Perciò noi non sapremmo recisamente
condannare questa promiscuità di coltura, massime se ridotta ai soli
tre o quattro primi anni.
§ 8. In quali condizioni si può ammettere la coltura pro-
miscua. — Esposti sommariamente i danni che derivano dal con-
sociare alla vite le altre colture, facciamo ora qualche riserva, perchè
non ci si accusi d'essere troppo assoluti nei nostri precetti. Invero
chi volesse agli argomenti da noi svolti contrapporre l'opinione di
qualche sommo agronomo, non avrebbe che ad aprire Gasparin, il
quale a pag. 512 del volume terzo del suo Corso d'agricoltura, par-
lando di queste consociazioni dice: Les oullières (così chiamansi
in Provenza gli spazii ed interfìlari delle vigne) soni cultivées al-
ternativement en blé et légumes et bien fumées. Les vignes prò-
fitent des engrais et des cultures, et le prodait de ce genre
mia) te de culture est très considérable.
Premettiamo che noi Italiani cadremmo in non lieve errore ove
volessimo accettare alla cieca i precetti degli scrittori francesi di
viticoltura, per quanto portino nomi illustri come Gasparin. V è
un altro francese illustre, il Guyot, che percorse l' intiera Francia
viticola e dalle sue osservazioni trasse molti precetti; ma varie di
quelle norme che Guyot diede in modo assoluto trovano una palese
contraddizione nei fatti che la nostra Italia presenta. Scegliamo un
esempio e scegliamo quello che si riferisce al nostro argomento.
Stando al Guyot non si dovrebbero fare vangature né lavorature
profonde nelle vigne. Ora, il meno osservatore tra i viticultori delle
regioni calde d'Italia avrebbe un'infinità di fatti da contrapporre a
questo precetto. Il Guyot parve scordare che, se nei paesi freschi
o freddi, dove un certo grado d'umido non viene mai meno al suolo,
è alla vite massimamente necessario il calore, nei paesi caldi invece
è somma necessità nell'estate 1' avere un po' di freschezza per la
cresciuta e la maturazione dei frutti pendenti e per l'elaborazione dei
succhi destinati a fecondare le gemme della futura vendemmia.
Dunque, bando ai consigli troppo assoluti; vogliamo dare noi pei
primi l'esempio della conciliazione ammettendo col Guyot la verità
dei suoi precetti, ma in paesi nordici. Anche in Italia abbiamo zone
viticole fresche e fredde in cui i consigli di Guyot possono venire
accettati, come sarebbero certe vallatelle al nord, certe bassure hi
'44 CAPITOLO XXIII
cui però l'acqua non stagni, come sarebbero i versanti delle nostre
Alpi dove la neve si fa vedere per buona parte dell' anno. Ivi non
è 1' umido che manchi, è il calore; ed ivi noi pure daremmo con
Gnyot il bando alle lavorature profonde e ci limiteremmo a distrug-
gere le malerbe con ripetute superficiali sarchiature. In queste con-
dizioni di clima la presenza dei cereali (e perfino quelle delle ma-
lerbe) nell'interfìlare fa sì che molt'acqua giornalmente si evapori, e
ciò rende il suolo molto duro, onde si riscalda assai, ed ecco rag-
giunto l'intento, se realmente è il calore che manchi. Invero un
eccesso di vigore nella pianta ed una dose eccessiva d'umido nei mesi
di luglio, agosto e settembre dovuta al terreno, alle concimazioni,
alle estirpature, si opporrebbero alla perfetta fecondazione delle gemme
destinate alla futura raccolta.
Ecco adunque che V opinione di Gasparin, il consiglio di Gayot
e le obbiezioni che ci potrebbero fare molti pratici, si .possono con-
ciliare con quello che noi abbiamo premesso. Noi crediamo che la
coltura delle cereali nell'interfìlare possa essere tollerata quando que-
sti sono larghi otto e più metri, quando il terreno sia terreno av-
vallato, ferace per natura e fresco, ed in clima fresco e generalmente
umido in maggio o nei primi di giugno, quando infine si tratti di
viti giovani, vigorose e abbondantemente concimate.
Non si dimentichi mai che la concimazione abbondante è in questo
caso indispensabile. Chi concima abbondantemente può anche passati
i primi cinque o sei anni, e in un interfilarc si e nell'altro no, semi-
nare un foraggio autunnale come veccia, e falciarlo a maggio arando
subito dopo il suolo ed estirpatando. Tuttavia se la distanza tra i
filari fosse maggiore di 5 o 6 metri gioverebbe molto di più — a
nostro avviso — piantare un altro filare in mezzo anziché conso-
ciarvi il frumento o i foraggi.
§ 9. Obbiezioni alla vite specializzata. — Detto fino a che
punto si possano conciliare le nostre idee con quelle dei nemici della
specializzazione, veniamo ad altre obbiezioni che costoro ci fanno, ob-
biezioni però alle quali crediamo di poter vittoriosamente rispondere.
Essi dicono: si, la specializzazione è una cosa ottima anche in vi-
ticultura, ma non basta fare i calcoli solo col terreno. Vuol essere
considerata anche l'atmosfera, la quale ci presenta fenomeni ora u-
tili ora dannosi alla vegetazione. Quindi soggiungono: non è consi-
gliabile lo applicarsi solo ad una coltura, come ad esempio quella
VIGNETI SPECIALIZZATI E VIGNETI MISTI 745
della vite, perchè se più annate di seguito corressero fortunose, il
coltivatore, privo d'ogni risorsa, precipiterebbe al fallimento, mentre
se si coltivano più piante, mancando il prodotto dell' una avremo
quella dell'altra, e si conclude che: almeno una delle due colture
frutterà.
È giustissimo che 1' agricoltore debba badare non solo al terreno
ma anche al clima ; il principio della specializzazione suona infatti
così: adatta le piante alla natura del terreno e del clima.
Ma se questo enunciato è vero noi dovremo conchiuderne che
qualora il clima fosse soverchiamente contrario alla vite in modo di
mettere in forse per lungo numero d'anni il prodotto di questa pianta,
allora non sarebbe più quistione di specializzazione ma bensì di colti-
vazione. La coltura delle viti si lascerebbe allora da parte. Non biso-
sogna ostinarsi a voler coltivar vite dapertutto. Lo dice anche il Ga-
relli, uno dei nostri buoni autori di viticoltura, alludendo special-
mente alle regioni fredde ed umide. Parlando della pratica che vige
in certe piane dell'Italia del Nord di slegare d' inverno i tralci, di
abbassarli, e coprirli di terra per ripararli dai danni del freddo, sog-
giunge: « Bisogna pur dire che la necessità di questa pratica basta
senz'altro ad indicare che sì fatte regioni sono poco adatte alla col-
tura della vite, o per lo meno che la coltivazione di essa economi-
camente riesce forse più dannosa che utile » (1). E più sotto con-
chiude: « si destinino le bassure e i luoghi umidicci ad altre colti-
vazioni » (2).
Se adunque in una data località la vite non ci cresce sicura o
per brine certissime, o per frequenti grandinate, o per la natura dei
venti, o per le eccessive piogge o per la eccessiva siccità, si abban-
doni senz'altro la vite e si coltivi altra pianta che meglio si adatti
a quelle condizioni di clima.
Ma lasciamo pure a parte questi climi contrariissimi alla vite, e
consideriamo soltanto quelli i quali, pur essendo adatti in gene-
rale alla vite, lasciano però che alle annate buone si frammettano
annate cattive, come succede pur troppo in tutte le regioni viticole;
studiamo se anche in questo caso generale sia proprio necessario
abbandonare la coltura specializzata e coltivare la vite in mezzo ad
altre colture.
(1) Id. pag. 30.
(2) Garelli, pag. 25.
746 CAPITOLO XXIII
Innanzi tutto quando in un dato paese si consiglia di specializzare
nella coltura della vite, vale a dire di coltivare la vite sola, solis-
sima, senza alcuna altra coltura promiscua, non si intende mica e-
scludere dallo stesso paese qualunque altra coltivazione. Non è sem-
pre facile trovare un tratto di terreno di qualche estensione che si
presti unicamente ad una sola pianta; nelle prime pendici dei monti
e nelle colline, dove più specialmente si coltiva la vite, per la con-
figurazione topografica del suolo quasi sempre avviene che nello
stesso podere, anche non molto vasto, si trovino condizioni tali non
solo da permettere, ma da imporre la coltivazione di piante diverse,
quantunque specializzate ossia tra loro separate.
Ne viene da ciò che si può mettere in pratica l'antico proverbio:
la vigna è destinata, a dar uva, uva dia e seguire nel medesimo
tempo la massima: una delle due colture frutterà.
Ma vi ha di più : un proprietario può avere un terreno oppor-
tunissimo alla coltura della vite, ed allora scapiterebbe nel torna-
conto finale se volesse destinare speciali appezzamenti ad altre col-
tivazioni. Nessuna coltura gli renderebbe più della vite. Alcuni di-
cono: sì, la vigna non specializzata rende meno, ma questa diminuzione
è compensata ad usura dai prodotti del frumento, del grano turco,
delle civaie, della canapa, della foglia e della legna dagli alberi frut-
tiferi che si tengono fra le viti. Ma è questa una illusione derivata
dal fatto che o non si tengono conti, o si tengono in modo assolu-
tamente inesatto. Infatti si è constatato che mentre un vigneto a
filari distanti 3 metri e specializzato può dare almeno 70 ettolitri di
vino ad ettare, un altro coi filari a 6 metri, ma con frumento e
civaie negli interfilari, o con foraggi, ecc., non ne produce che 30
pure ad ettare. Vi ha dunque un minor prodotto di 40 ettolitri di
buon vino, che valutati almeno almeno a 25 lire danno un totale
di 1000 lire, e (dedotte tutte le spese, compreso il fitto) un totale
netto minimo di 500 lire. Ora ognun vede che il prodotto in fru-
mento o altro degli interfilari, in verun caso può ascendere a 500
lire di beneficio netto ad ettare.
Le cifre che abbiamo dato rappresentano delle medie; non si potrà
dunque dire: queste cifre sono ottime ma potrebbe sopraggiungere
una grandine, una malattia, un infortunio qualunque. No, perchè le
perdite per questi infortunii sono già state calcolate nel formare le
medie suddette.
E qui cadono in acconcio due osservazioni. La prima è che le
VIGNETI SPECIALIZZATI E VIGNETI MISTI 747
male annate sono assai più terribili per quei coltivatori i quali con col-
tivazioni promiscue guadagnando annualmente poco sono, con uno o
due cattivi raccolti, messi in rovina; mentre i coltivatori che raccol-
gono molto possono far fronte alle annate cattive coi risparmii di
quelle buone. La seconda osservazione è questa che la specializza-
zione permettendo una coltura più accurata serve a diminuire i danni
delle mal'annate; poiché permette di mettere in pratica colla massima
cura tutti quei mezzi che si credono più ovvii a difendere la vite
dalle avversità atmosferiche e dai parassiti; e quindi cimature, rici-
mature, piegature dei tralci, salassi, spampinature, zappature ecc.
§ 10. La specializzazione ed i patti colonici. — I diversi
metodi di conduzione dei fondi possono creare ostacoli non indiffe-
renti all'attuazione del principio della specializzazione nelle nostre
plaghe vitifere. Nei contratti di colonia la divisione del prodotto col
proprietario può essere regolata per modo che questi sopprimendo i
filari a vite non farebbe che V interesse del colono a cui per patto
spettasse intiero o quasi tutto il prodotto delle cereali sottoposte.
Intanto il proprietario portata la vite in speciali appezzamenti ne at-
tenderebbe pazientemente per qualche anno il prodotto, e il colono,
cui le cereali liberate dall'inopportuna compagnia delle piante arboree,
aumenterebbero il prodotto, godrebbe solo i frutti dell'iniziato can-
giamento di coltura.
E dove regna la mezzadria le difficoltà non sono minori. Il mez-
zadro vuole ad ogni costo produrre di tutto, lo si direbbe bloccato
nel suo possesso, tanto da doversi produrre anche quello cui a stento
il suolo può dargli. Dice Cuppari che « in Toscana e in molti altri
luoghi d'Italia ove prevale il sistema di mezzeria, il contadino vuol
ritrarre dal suolo la maggior varietà possibile di derrate » (1) e per
questo a grandissimo stento lo si può indurre a diminuire il numero
dei suoi raccolti. La varietà delle colture rende poco incerto l'esito
complessivo dell' annata. È un' agricoltura ben meschina questa, ma
pure diversi scrittori toscani accettano questo ragionamento. Fra gli
altri il Sig. Mazzini negli Atti dell' Inchiesta Agraria, il Dottor
Fonseca nella Viticoltura del Fiorentino, il quale dice il sistema
indispensabile nelle pianure e nelle mezze coste, ed il Sonnino, il quale
scrive: « Questo (dell'aver sempre assicurato un prodotto medio) è un
(1) Lezioni d'agricoltura, voi. 2°.
748 CAPITOLO XXIII
fatto importantissimo per i mezzadri, i quali difettano di capitali e
quindi non possono nelle annate cattive aspettar le buone, e in queste
rifarsi di quelle » (1).
E qui si presenterebbero casi infiniti ed esempi di tutte le regioni
italiane in tal numero, che non breve fatica sarebbe l'esaminarli tutti.
In generale però a tutte queste obbiezioni si potrà rispondere che
non è necessario fare ad un tratto la trasformazione, ma per gradi,
sopprimendo le vecchie piantate man mano che si aumenta la su-
perfìcie a vite specializzata, e cercando nel frattempo di persuadere
i coloni, specialmente mostrando loro l'esito eccellente del nuovo si-
stema di fronte all'antico.
§ 11. Conclusione. — Ma ci pare ormai che a questo tema della
specializzazione abbiamo data un' ampiezza sufficiente e presentata la
questione nei suoi diversi aspetti. Nelle nostre conclusioni procu-
rammo di non essere troppo assoluti, e questo teniamo a far notare;
che valenti pratici d'ogni parte d'Italia, i quali scrissero in questi ultimi
anni di viticoltura, sono ben più severi di noi nel condannare la vite
promiscua. Lasciamo stare gli agronomi illustri, e teniamoci ai veri
pratici.
Basterà citare il Toscanelli, il quale ha impiantato vigneti bassi
specializzati in pianura nella sua tenuta di Cava, nonché il Dott. Gioiti
e 1' ' Ardinghi, toscani, i quali se qualche corrispondenza pubblicano
sui giornali agricoli, fanno ciò rubando un' ora di tempo alla vera
vita dei campi: ebbene, essi condannano recisamente la coltura pro-
miscua.
Uno tra i pia popolari scrittori di viticoltura, Nane Castaldo {Dottor
Bellati) dice: « conservate nel fare il vigneto l'unità di luogo. » Il Vi-
ghetto,, che già abbiamo citato, scrive dal Veneto che la vigna vuol
essere esclusiva, e che molti vecchi pratici già riconoscono i gravi
danni che portano alle colture annuali ì filari troppo addossati (2).
Il Prof. Rosi, Direttore d'una Scuola agraria pratica nelle Marche,
dice che il sistema di quella regione è falso perchè vi prevale la
promiscuità dei vitigni e il sistema specialmente delle alberate asso-
ciate alla coltivazione ordinaria erbacea (3). T. Carnevale dall' e-
(1) Donnino. La mezzeria in Toscana, pag. 199.
(2) Loc. cit. pag. 68.
(3) Atti del Congresso dei produttori di vino a Roma, pa^
VIGNETI SPECIALIZZATI E VIGNETI MISTI 749
stremo Mezzogiorno d'Italia scrive enumerando tutti i danni della
vite promiscua, e conchiude che in quelle regioni alla vite alta e
maritata ad albero si deve preferire quella bassa specializ-
zata (1).
Esistono adunque molti inflessibili sostenitori della specializzazione,
i quali ad ogni costo vorrebbero separata la vite da ogni coltura: esi-
stono al contrario altri, che il Marconi (2) chiama opportunisti, i quali
combattono a tutt' oltranza affinchè V unione o la consociazione sia
mantenuta ed estesa. Fra questi noi, pur avvertendo però che le
nostre simpatie sono per gli specializzatori, vogliamo esser conci-
liativi. A questo scopo, a differenza d'altri autori di viticoltura, de-
dichiamo un capitolo alla coltura della vite maritata ad alberi.
Ne condanniamo come essi il principio; ammettiamo però che in certe
piane essa possa tollerarsi, che in taluni casi non si possa difendere
diversamente la vite dai geli, e che qualche vitigno vi sia che mal
sopporta la potatura dei sistemi a viti basse, come già avvertimmo
a pag. 616; ammettiamo infine che molti per ora non possano o
non vogliano trasformare. Ecco ragioni bastanti perchè ci abbiamo
ad occupare di questo tema, e studiare i modi di rendere meno in-
termittente, più abbondante e più scelto il prodotto delle viti mari-
tate ad alberi.
(1) V. Agricoltore Calabro-Siculo 1884, pag. 283.
(2) Marconi. Saggio di economia rurale, pag. 267.
CAPITOLO XXIV
Le viti maritate ad alberi ed i pergolati,
§ 1. Scelta dell'albero — § 2. Le viti accoppiate ai gelsi e il sistema Castaldis
— § 3. Piantamento — § 4. Cure nei primi anni — § 5. Potatura e legatura.
Disposizione della vite sull'albero — § 6. Sfrondatura degli alberi — § 7. Eco-
nomia nei sostegni — § 8. L'albereto Falisco — § 9. Coltura dei pergolati.
§ 1 . Scelta dell' albero. — Gli alberi che s' adoprano come
sostegno vivo delle viti sono aceri, noci, ciliegi, frassini, gelsi, pioppi,
ulivi ed altri molti, fruttiferi o no. Tra questi i meno convenienti
sono: il noce, perchè fa troppa ombra, ed infatti nel Veneto lo si
va man mano abbandonando, mentre prima vi era comunissimo; l'olmo
il quale in terre compatte, argillose si sostituisce al pioppo: ma esso
ha un sistema radicale troppo sviluppato; il frassino e il rovere per
la medesima ragione. L'ulivo ha una ramificazione ampia, foglie nu-
merose e persistenti, e richiede poi cure e nutrimento, per cui mentre
sarebbe di danno alla vite ne soffrirebbe non poco dal canto suo.
In terreni paludosi alcuni maritano la vite al pioppo, al salice, le
quali piante possono sopportare il terreno umido; non lo può per
altro la vite, la quale ben presto vi intristisce. Gli alberi da frutta
non ci paiono convenienti, quantunque consigliati dal sommo Ridolfi
nelle sue Lezioni orali, perchè « produrranno poco, diceva egli, ma
pur sarà qualche cosa, mentre i sostegni infecondi non fanno che
estenuare la terra inutilmente. » Senonchè, salvo il rispetto al grande
maestro, noi osserviamo che i nostri comuni alberi da frutta, peri,
meli, susini, mandorli estenuano troppo il terreno, ed essendo troppo
fronzuti avrebbero bisogno di forti e pericolose potature.
LE VITI MARITATE AD ALBERI ED I PERGOLATI 751
Ci paiono adunque piuttosto consigliabili quegli alberi il cui sistema
radicale è pochissimo esteso e che poco possono sfruttare il terreno.
In questa condizione trovansi il ciliegio selvatico e V acero che fu
chiamato dal Gasparin un palo vivente. L'acero campestre (acer
campestre) è molto meno sviluppato neh' altezza che non gli altri
(acer pseudoplatanus e acer platanoides), ha lento accrescimento,
si accontenta di terreni aridi e vien su anche dalla semente. Ad ec-
cezione dei terreni tufacei esso prospera ovunque. Le pianticelle sono
atte a porsi a dimora dopo 4 o 5 anni. L'acero ha radici brevi e
poco profonde e facilmente si presta ad essere potato in diverse
foggie.
L'acero campestre riceve diversi nomi, secondo le provincie in 'cui
viene coltivato come sostegno vivo delle viti: loppo, chioppo, fìstucchio,
testucchio, stucchio e anche pioppo. Il pioppo dei contadini toscani
non è dunque il Populus comune, anzi è noto che in varie parti
della Toscana i contadini sogliono dare il nome di pioppo o chioppo
a qualunque sostegno vivo delle viti.
§ 2. Le viti accoppiate ai gelsi e il sistema Castaldis. — Il
gelso è accoppiato alla vite in molti luoghi, e ciò allo scopo di sostituire
ad un albero quasi improduttivo un altro che dia colla sua foglia
una qualche utilità. In generale si dispone il gelso a quattro branche
a sostegno della vite tesa a festone, ma è chiaro che la vite tro-
vando un pronto appoggio allunga le sue cacciate avvitichiandosi al
gelso e in breve lo opprime; e d'altra parte al momento della sfron-
datura dell'albero troppa diligenza si richiederebbe per non danneggiare
i getti ancora fragili della vite. V ha però un sistema nel Veneto
col quale si accoppia la vite al gelso, sistema premiato, ed accettato
da molti viticultori di là come buono. È il sistema Castaldis, il quale
permette alle viti di essere vigorose e annualmente in piena frutti-
ficazione. Lasciamolo descrivere dal Prof. Viglietto che lo studiò
da presso nel Friuli, e conchiuse che dove si è costretti ad allevar
alta la vite, il metodo Castaldis permette la massima economia pos-
sibile. Esso ha il vantaggio di tener le viti molto distanti dal gelso,
di modo che questo non le nuoce per la vicinanza delle radici; i tralci
poi delle viti che danno frutto non restano molto ombreggiati, se il
gelso è educato un po' a piramide piuttosto che a vaso.
Ecco come il Viglietto descrive il sistema del Castaldis.
« La preparazione del terreno anche il Castaldis la propone come
752 CAPITOLO XXIV
quella consigliabile nella piantagione di filari distanti, cioè fosse larghe
circa 2 metri, profonde da 70 centimetri ad 1 metro e preparate
meglio che sia possibile molto tempo prima di mettervi le viti. In
queste fosse si piantano alla distanza di metri 5 dei forti gelsi di
circa tre anni; alla metà dello spazio che divide un gelso dall'altro,
e distanti fra loro mezzo metro, si pongono delle barbatelle vigorose
in modo che la loro riuscita sia certa. Le cure nel primo e secondo
anno sono ancora quelle generali indicate per gli altri sistemi. Ma
al terzo anno, se la gettata è vigorosa, la si dirige in modo che
incrociandosi colla sua contigua formi una diagonale indirizzata verso
la prima biforcazione del gelso che è alta due metri da terra. A
questa biforcazione si arriva al quarto o quinto anno a seconda che
la vite è più o meno forte. »
« Lungo questa diagonale si ottiene intanto la prima fruttificazione,
ed essendo la sua estremità piegata in alto, la forza vegetativa si
spinge verso questo punto. Così il ceppo facilmente si allunga e lo
si può adagiare presto sopra la prima biforcazione del gelso.
Da questo punto i tralci si stendono orizzontali fino a raggiungere
un palo che è a metà della distanza fra due gelsi. Una volta che
la vite è legata a questo palo non la si muove più, e le ordinarie
potature si limitano a diradare ed a scegliere i tralci che sono sul
tratto dal gelso al palo. Sicché nell'interspazio fra un gelso e l'altro
avremo due ceppi nudi che si spingono diagonalmente sui gelsi; e
sopra questi a circa metri 1,50 da terra una piccola pergola di tralci
fruttiferi ». (Ballettino Ass. FriuL, n. 19 — 1884.)
§ 3. Piantamento. — È assolutamente da condannarsi quel
sistema di piantamento che consiste nell'aprire tante buche della lar-
ghezza di 1 metro quadrato e profonde da 70 a 80 cent, ed ivi in-
torno al fusto delle piante collocar le talee. Ciò è rappresentato
dalla fig. 278, quantunque non esattamente perchè la pianta e le
talee ad essa appoggiate dovrebbero stare nel mezzo della fossa sca-
vata e non appoggiate ad uno dei lati.
Si deve adunque nel piantamento adottare o il vero scasso del-
l'intiera striscia su cui sorgerà il filare, o almeno il sistema delle
fosse. Queste si aprono alla fine di settembre o nell' ottobre larghe
un metro e mezzo circa e profonde da 70 ad 80 centimetri. In To-
scana, dove la vite coltivata ad alberi è tutt'altro che trascurata, e
dove molti intelligenti viticultori la studiano per sempre migliorarne
LE VITI MARITATE AD ALBERI ED I PERGOLATI
753
la coltura, abbiamo nelle fosse una larghezza e una profondità di
m. 1,20 in colle, una larghezza di m. 1,50 e una profondità di
m. 0,90 in piano. Il brutto sistema delle buche persiste specialmente
Fig. 278.
nel Veneto e nel Modenese e vi è condannato da chiunque conosca
un po' le esigenze della vite e delle piante arboree in generale.
Fatte le fosse nel Veneto vi si piantano subito gli alberetti tolti
dal vivaio e alti già da 5 ad 8 metri, e tra una pianta e l'altra si
collocano, sdraiate nella fossa, da 6 ad 8 talee di vite lunghe da
un metro a un metro e mezzo (fìg. 279 b) talee che — se l'annata
corre propizia ■ — possono radicar bene ed esser condotte fin dal
secondo o terzo anno sino al piede della pianta. Ciò lo spiega assai
bene la fìg. 279 a. Fatto il piantamento spargono lungo l'intiera fossa
un po' di letame, e ricoprono il tutto con terra.
In Toscana si fa di meglio: queste fosse non si aspetta ad aprirle
poco prima del piantamento, ma si fanno d' inverno, dal novembre
all'aprile: quelle aperte in novembre si piantano in primavera, quelle
aperte in aprile si piantano, o come dicesi, si ritirano nel venturo
novembre. E ciò è buono assai, specialmente per quelli che lasciano
le fosse aperte d'estate, lasciando così il terreno esposto agli agenti
atmosferici nella stagione più propizia per lo sverginamento della
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 49
754
CAPITOLO XXIV
terra inerte. I vignaiuoli toscani pare che sieno ben compresi del-
l'importanza di ciò, perchè cercano di aumentare tale benefìcio gra-
Fìs. 279,
tuito, disponendo il terreno cavato dalla fossa in due larghi argini
lateralmente alla fossa stessa, e così esponendo all'aria una più grande
superfìcie di terreno.
La distanza tra gli alberi è di 3 a 5 metri.
§ 4. Cure nei primi anni. — Si rimpiazzano gli alberi e le
viti che la siccità avesse già fatto soccombere, si mettono alcuni
pali o frasche attorno alle viti stesse acciò i nuovi tralci vi si pos-
sano arrampicare. Se il piantamento fu fatto con barbatelle esse, ap-
pena piantate, si tagliano a 2 gemme sopra terra per avere bei
getti, e si deve subito cominciare a zappar loro intorno la terra
almeno 2 volte durante la state. Si nettano gli alberi dai polloni che
spuntano sul tronco. Ciò sin dal 1° anno. Al terzo si potano le viti
a due gemme e si vanga e zappa l'interfilare facendo così la guerra
alle malerbe. Questo interfilarc, che nel Veneto vien chiamato bina,
vuol essere assolutamente sgombro per non portar sino dai primi
anni un grave colpo alla vitalità della vite. Lasciando sgombri
quei due o tre metri che formano l' interfilarc si possono avere al
quarto anno le viti già così robuste da poterle propagginare e po-
tarle con una gemma almeno fuori terra, alla distanza di mezzo
metro dall'albero.
E cosi al quinto si può giungere a possedere tralci d'una discreta
LE VITI MARITATE AD ALBERI ED I PERGOLATI
755
lunghezza i quali vengono assicurati al tronco dell1 albero (fi-
gura 280).
Anche l'albero frattanto ha bisogno di cure, come sarebbero la
potatura, la mondatura dei ramettini esili, accorciando anche i ghiot-
toni, si deve cercare infine di dare all'insieme dei rami la forma d'un
vaso regolare. La forma di vaso o di bicchiere, o di paniere come
dicesi in Toscana, molto aperto nel mezzo, si raggiunge verso il sesto
o settimo anno. Gli alberi vanno ripuliti annualmente dai piccoli getti
inutili, e siccome questa ripulitura rigorosa fa acquistare alle branche
una forma bitorzoluta si rimedia a ciò « lasciando all'apice d'ogni
branca un paio di germogli, i quali attirando verso loro l'attività della
vita della pianta, evitano in certo modo l'uscita di un maggior nu-
mero di gemme sulle branche, e mantengono in più miti proporzion1
quelle forme bitorzolute sulle branche stesse (1). »
Fig. 280.
Le viti si continuano a potare sempre a due o tre gemme sino a
che dimostrino di aver acquistato una certa vigoria, e diano getti
della lunghezza almeno d'un metro. Non si abbia troppa premura a
tagliar via tutti i polloni laterali che spuntano sulla vite nel corso
dell'anno. È necessario che il succo della vite non vada tutto ad al-
lungar l'asta, ma la rinforzi anche per cui questi polloni o si rispet-
tano o spuntano solo a quattro o cinque foglie.
Giunta la vite all'altezza dell'albero la si dispone ed acconcia alle
(1) Doti. G. Fonseca. La viticoltura nel fiorentino,
756 CAPITOLO XXIV
branche di esso in uno dei molti sistemi di cui son ricche la Toscana,
1' Emilia, 1' Umbria, la Terra di lavoro e le altre che adottano questo
sistema di educar le viti.
Siccome non è nostra intenzione descrivere questi differenti sistemi,
il che ci porterebbe troppo lungi dal nostro assunto, ci limiteremo a
dare alcune norme generali, e da non trascurarsi in nessuno di essi,
togliendo ad esempio di preferenza la Toscana che è in ciò maestra
alle altre regioni italiane.
§ 5.' Potatura e legatura. Disposizione della vite sull'al-
bero. — Non bisogna applicare troppo alla lettera il proverbio:
fammi povera ed io ti farò ricco. Esso si dee intender nel senso
che se alla vite si lasceranno più tralci fruttiferi di quello che essa
ne possa portare, si avranno tralci carichi d'uva ma questa stenterà
a maturare e si scapiterà non poco nella qualità del vino. Si prenda
norma della vigoria della vite stessa; se essa non presenta che tralci
e tronco debole si lasci pur povera procurando di provocare l'uscita
di tralci da legno.
Nelle vigne a basso ceppo si pota la vite a speroni, sistema ra-
zionalissimo; ora un valente viticultore modenese, il sig. L. Terra-
chini, volle provare questo risultato anche per viti alte e ne ottenne
un risultato buonissimo. « In questo caso, egli dice (1), i tralci corti
e tutti quelli che si tagliano per alleggerire la vite si potrebbero po-
tare a 2 o 3 gemme e così si avrebbero tralci vigorosi, senza de-
viare il corso del succhio diretto a quelli che devono portar uva. »
È da condannarsi la pratica di unire, affastellandoli e torcendoli,
tre o più tralci per menarli poi ai pali o a quelli delle viti vicine.
Così facendo si perderà una buona parte del prodotto. Non si uni-
scano assieme più di due tralci.
La potatura per circa dieci anni si fa annualmente nel Modenese;
ma poi fattosi forte l'albero, non si pratica da alcuni che un anno
sì e l'altro no. L'anno che si pota ad ogni vite si lasciano 2, 3, 4, o
5 tralci in tutta la loro lunghezza e si distendono a ghirlande o tral-
ciaie tra l'uno e l'altro olmo. Si è osservato che nell'anno in cui si
potano, le viti danno uve solo nelle ghirlande o tralciaie e quest'uva
è grossa, dolce, matura; nell'anno in cui non si potano, dell'uva ve
(1) Vedi II Campagnuolo 1880, ri. 11,
LE VITI MARITATE AD ALBERI ED I PERGOLATI
757
n' ò anche nell'impalcatura, ma è uva più piccola, più dura, più ver-
dognola, specialmente negli anni molto secchi.
La vite ha bisogno d'aria, di calore e di luce, perciò saranno sempre
preferibili quei sistemi che meglio mettono in grado la pianta di pro-
fittare di questi preziosi agenti. Alla potatura cosi detta a testucchio
(fig. 281) è preferibile adunque quella che ammette le penzane o
Fie osi
Fig. 282.
catene o tirelle nel Modenese. Ivi i festoni, fatti come si sa intrec-
ciando i tralci fruttiferi di due viti vicine, o sono sostenuti da un
758
CAPITOLO XXIV
palo confitto a terra (fìg. 282), o sono doppi e si acconciano nei modi
che si vedono alle figure 283 e 284; qualcosa di simile hanno anche
i Modenesi a Sorbara (1). Uno dei migliori sistemi di vite maritata
%. 283-
ad alberi è quello usato nel Chiantifdescritto dal Mancini nell'operetta
citata. « Si pota il testucchio in modo da lasciargli due soli rami che
si allevano orizzontali per la lunghezza di m. 1,20 e ad essi si ap-
Pig. 284.
poggiano 4 viti, due da una parte e due dall'altra. Spesso i rami di
un acero si congiungono a quelli del vicino e talora si saldano ad-
(1) Ing. C. Mancini. La Toscana viticola e vinicola.
LE VITI MARITATE AD ALBERI ED 1 PERGOLATI
759
dirittura assieme. Allora il vigneto prende l'aspetto d'una vera per-
gola come dimostra la fìg. 285 » (1).
FV- -285.
§ 6. Sfrondatura degli alberi. — Nel Modenese gli olmi,
nelle piantagioni già adulte, si sfrondano ogni anno. Quest'operazione,
si fa dalle donne generalmente, mediante scale di 25 a 30 gradini.
La sfogliatura comincia a San Pietro e dai coloni si procede dagli
olmi potati, che essi dicono avanzoni in pota, e si finisce coi non
potati detti avanzoni in frasca.
Ma cominciando invece dall' avanzone in frasca si scoprirebbero
un po' per tempo le uve dell'impalcatura, e si darebbe maggior tempo
agli olmi potati di rimettersi dal danno avuto nel potarli; le bestie
non sarebbero esposte al passaggio d'un alimento tenero (quello degli
olmi potati) ad un alimento assai duro (quello degli olmi in frasca);
infine cominciando dai non potati, la foglia di questi sarebbe men dan-
neggiata dalle morsicature delle gallerughe che ne sono ghiottissime.
§ 7. Economia nei sostegni. — Dobbiamo ora accennare
ad alcune economie che si potrebbero fare nei varii sistemi di
educar la vite alta. E noto che quali sussidiarli agli alberi vivi,
molti hanno poi anche pali di salice, d'acacia, e di pioppo ai quali
vanno a metter capo e s'appoggiano le trecce o ghirlande dei tralci
a frutto. In certi sistemi (Mantovano, Bolognese) la razionale distri-
(1) V. Op. citata pag. 54.
760 CAPITOLO XXIV
buzione di queste trecce esige cinque, sei spesso più di dieci pali per
ogni albero. Ora non si potrebbe sostituire ai costosissimi pali il fìl di
ferro? Il sig. TI. liberti nel Giornale d'Agricoltura, Industria e
Commercio, si dichiara per esperienza propria e dietro facili calcoli e-
conomici, favorevole assai a questa modificazione. La quale oltre all'es-
sere più economica dà luogo ad una distribuzione di tralci perfetta,
potendo legare lungo il filo tutti i tralci isolati e non avvolti in
trecce come si fa nel caso della tiratura a pali. Si otterrebbe infine
una vegetazione più abbondante, perchè più libera, più aerata, più
esposta alla luce e al calore.
Un'altra modificazione è proposta dal Prof. Viglietto, il quale a
stento ammette la vite maritata ad alberi e anche nelle condizioni
in cui è necessario tenere la vite molto alta vorrebbe che il numero
di alberi vivi fosse il più piccolo possibile. « Un albero fruttifero
rigoglioso — egli dice (1) — ogni 8 o 10 metri, e neh' intermezzo
dei pali di basso costo, legati da tre o più fili di ferro in senso lon-
gitudinale al filare, possono generalmente sostituire il numero esor-
bitante di vivi coi quali imboschiamo le nostre vigne. » E conchiude:
« Siamo dunque intesi: vigna esclusiva ed allevamento sul secco, od
almeno preponderanza di questo mezzo di sostegno. »
§ 8. L'albereto Falisco. — Questo sistema di tenere la vite
alta fu adottato e proposto dal distinto cultore della agronomia Conte
Dr. Alberto Cencelli-Perti di Roma (2) coll'intento speciale di appli-
carlo alle viti americane. Certo è però che può consigliarsi anche
per la vite europea, ed in ogni caso con molti vantaggi, poiché,
mercè l'albereto Falisco, mentre si lascia una grande espansione fo-
gliacea e radiculare alla pianta, se ne favorisce la longevità, si ot-
tiene una produzione abbondante e costante, si ottiene eziandio buona
uva, ed il tutto con economia di spesa. Il Dr. Cencelli ha chiamato
falisco questo sistema perchè esso è una modificazione, abbastanza
sostanziale però, del sistema oggi in uso nella regione abitata dagli
antichi Falisci, della cui città, Fabria, esistono tuttora i maestosi
avanzi: questa regione comprende Vignanello, Vallerano, Canepina,
Nepi e Fabrica di Roma, ove il Cencelli possiede i suoi vigneti.
(1) Bollettino delV Associazione agr. friulana, 1884, pag\ 70.
(2) Albereto Falisco. — Sistema di viticultura specialmente adatto alla coltiva-
zione delle viti americane (Conegliano 1884).
LE VITI MARITATE AD ALBERI ED I PERGOLATI 761
Ecco, in breve, in che cosa consiste questo sistema. Premetteremo
che i filari debbono essere distanti 6 metri, e gli alberi 2m,50; in
in un ettare si hanno quindi 640 alberi: le fosse vogliono essere
larghe e profonde lra, con fognatura di sassi, erbacce ecc. L'albero
a preferirsi è l'acero campestre (oppio), ma il Cencellì adopera anche
Tornello (frassino minore): in ogni caso è necessario farsi prima un
piantinajo per avere dopo tre o quattro anni alberi bene sviluppati
ed ottimi per essere posti a dimora. Il magliolo o la barbatella si
piantino a non più di 40 centina, di profondità ponendo il tralcio
della vite sdraiato nella fossa in modo che la sua punta esca alla
superficie del suolo ad una distanza di 1 metro circa dal pedale del-
l'oppio; ad ogni albero il Cencellì prescrive si dia una sola vite.
Fin dal secondo o terzo anno, secondo la robustezza dei tralci, si
potrà propagginare il sarmento più grosso e robusto, che si sarà
ottenuto da ciascuna pianta, le cui estremità, come si ricorda, di-
cemmo che dovevano farsi uscir fuori dal terreno alla distanza di
1 metro dall'acero. Con la presente propagginatura, da farsi alla
solita profondità di 40 centina., si porta la vite alla base dell'acero,
al quale dovrà poi essere sposata. In questo modo, secondochè la
lunghezza primitiva del magliuolo fu di m. 0,50 o 1,00, il tronco
sotterraneo della vite raggiungerà una lunghezza di m. 1,50 o 2,00;
dal quale, essendo tutto a una conveniente profondità, uscirà un gran
numero di robusti fasci di radici, che arrecheranno copiosissimo
alimento alla pianta.
Gli alberi anch'essi, se si sarà fatto uso di piantoncelli robusti di
vivajo, al secondo o terzo anno dacché saranno stati messi a posto
nel vigneto, potranno essere spuntati all'altezza voluta, cioè a m. 1,50
dal suolo; e da quel punto si avrà cura li formare la corona dei
rami, che dovranno sostenere la vite. Questi rami è bene che siano
disposti con un certo ordine all' intorno, a distanze più che si può
eguali uno dall'altro, per potervi comodamente disporre sopra, tanto
i tralci che dovranno restare nel calice dell'albero, quanto gli altri,
che dovranno formare i cordoni. Questi rami o « bracciuoli » si fa-
ranno crescere in una direzione quasi orizzontale e dovranno essere
spuntati a una lunghezza di circa m. 0,35. In questo modo, l'albero,
quando sia giunto alla sua forma definitiva, non avrà più di m. 1,60
o 1,70 d'altezza.
Se la vite si sarà coltivata con le debite cure, sopratutto potan-
dola fin dal primo anno, al terzo si potrà avere un bel tralcio da
762 CAPITOLO XXIV
poter tirare sull'albero. In seguito, man mano che la forza della vite
lo permetterà, si tireranno i cordoni o tralciaie, le quali si faranno
allungare un po' per anno, fino a raggiungere l'albero vicino, e in-
tanto si sosterranno o sul cordone formato nel modo anzidetto di
due rami di aceri, o con filo di ferro o con salci, ecc. Di queste
tralciaie non si può stabilire a priori il numero; dovendosi tener
calcolo della feracità del terreno, dell'età della vite e della quantità
di concime di cui si può disporre. In generale si possono consigliare
quattro tralciaie, due da una parte e due dall'altra di ogni albero;
le quali incrociandosi con le tralciaie dell' albero vicino, vengono a
formare tanti festoni di quattro tralci ciascuno. È bene che queste
quattro tralciaie componenti il festone non si trovino addossate le
une alle altre: una distanza di circa m. 0,15 a 0,20 fra loro gioverà
a favorire la libera circolazione dell'aria, quando ci saranno i pam-
pini e i grappoli, il passaggio della luce e del calore diretto dei
raggi del sole, e quindi l'allegamento dei fiori. La solforatura sarà
anche facilitata.
Fin dal primo anno, in cui le tralciaie verranno stabilite, bisogna
curare la distribuzione regolare su di esse degli speroni che dovranno
servire alla produzione annuale. L' avvertenza principale è di man-
tenere una distanza quanto più si può uniforme tra essi, perchè non
abbiano coi grappoli e coi tralci a darsi noia un con l'altro. La pota-
tura di questi speroni si fa nel solito modo, lasciando i due capi,
l'uno a legno e l'altro a frutto.
I cordoni, una volta stabiliti, si lasciano per più e più anni, cioè
sino a quando i suddetti piccoli speroni si siano tanto prolungati,
che non possa più con regolarità eseguirsi la potatura; purché però
a questo guaio non possa rimediarsi con qualche tralcio avventizio
sorto alla base dello sperone stesso.
Al quinto o sesto anno, quando cioè la vigna comincia a produrre
una discreta quantità di uva, e quindi il vignaiuolo può permettersi
qualche spesa, cominciando la vite a prendere sviluppo in propor-
zioni piuttosto grandi, qualora il terreno non sia di buona qualità e
permeabile alle radici della vite, il Cencelli crede di dover consigliare
l'apertura di nuove forme, parallele e contigue alle prime, delle stesse
dimensioni, egualmente fognate, le quali dopo che saranno state esposte
qualche mese all' aria, al gelo, alle pioggie, ecc. si richiuderanno,
mettendo sempre in fondo la terra che prima era alla superficie.
La fìg. 287 rappresenta una proiezione orizzontale colla distribu-
LE VITI MARITATE AD ALBERI ED I PERGOLATI
763
zione dei rami degli alberi di sostegno e dei tralci o festoni delle
viti; mentre la fig. 286 ci mostra l'albereto falisco colla disposizione
delle ceppaie e dei festoni tirati sull'albero.
2S(>.
Fie. 287.
Il Dr. Cancelli asserisce che questo suo sistema gli dà eccellenti
risultati; egli ottiene circa 70 ettolitri di vino ad ettare, pure colti-
vando gli interfìlari. Inoltre le viti vi sono sempre sanissime perchè
più lontane dall'umidità del suolo, e quasi immuni dal gelo: infine,
e questo ha certo grande importanza, coltivando con tal sistema le
viti americane quali resistenti alla fillossera, si potrà andar sicuri di
non scemarne la forza di resistenza, come accade certo coi sistemi
a potatura corta; coi quali si lascia alle viti d' America, che hanno
d'uopo di tanta espansione, uno sfogo vegetativo soverchiamente li-
mitato e tanto fatale per la resistenza, siccome ci provano le molte
viti americane introdotte in Francia nelle quali si è, per così dire,
spenta quella preziosa facoltà.
§ 9. Coltura dei pergolati. — Un distinto viticultore ligure,
il cav. Accame di Pietra Ligure, fu quegli che perfezionò questo si-
stema, e di esso solo pertanto diremo qui in breve. I pergolati sono
alti 2m,25 circa, larghi 2m,25 con strisce vuote tra uno e 1' altro
di 2m,50, Nelle file, e da ambo i lati, le piante sono poste ad un
metro o 1,50 fra Luna e l'altra. Il piantamento, con barbatelle di
un anno, si pratica su scasso reale a un metro di profondità, e la
764
CAPITOLO XXIV
barbatella si pota ad un occhio fuori terra, allevando un sol getto
0 tralcio. Questo getto si pota Tanno dopo a due gemme; al terzo
anno si pota a un metro e mezzo di altezza, accecando le gemme
più basse e lasciando solo le tre o quattro più alto locate. Al
quarto anno il pergolato è coperto e dà già molta uva, cioè
circa 40 ettolitri ad ettare: il tronco ha una altezza di lm,50, ma
poi si alza ancora un poco e si divide in quattro o cinque branche.
1 sostegni sono sottili fili di ferro zincato (num. 14) sostenuti da
forti pali distanti tre metri l'uno dall'altro; nelle pareti laterali del
pergolato i fili di ferro sono però del num. 18, e l'altro filo si ado-
pera solo nella parte orizzontale superiore del pergolato stesso. Così
questo è più leggero che non usando le pertiche, e costa meno (1[3).
Le figure 288 e 289 mostrano la proiezione verticale ed orizzon-
Fig. 288.
*W\
f
Fig. 289
tale del pergolato, colla indicazione di tutte le distanze. Alla pota-
gione (febbraio-marzo) si lasciano da 3 a 11 speroni frutticosi, in
media 6 o 7, con circa 8 gemme cadauno. A maggio si sopprimono
le più grosse femminelle, che hanno allora 8 o 10 centimetri; prima
poi che l'uva fiorisca si tolgono da due a tre foglie di quelle che
sono attorno al grappolo, onde questo sia meglio esposto alla luce
solare, senza di ciò l'uva non fiorisce bene e accade la sgranatura
o cascola, di cui diremo al capitolo XXVII. — Ai primi di luglio
si sfoglia leggermente, e quando l'uva incomincia ad essere matura
si tolgono i due terzi delle fronde, compresi non pochi germogli, ma
rispettando sempre le foglie della punta, cioè delle parti superiori dei
LE VITI MARITATE AD ALBERI ED I PERGOLATI 765
tralci; mercè questa sfrondatura si ottiene un arresto nel movimento
del succo, il quale va a tutto beneficio delle gemme che sono de-
stinate alla fruttificazione dell'anno successivo; infatti l'anno dopo si
ottiene molta uva; ma sono soltanto le viti vigorose e robuste che
possono tollerare quella sfrondatura.
Le viti a pergolato debbono esse pure coltivarsi specializzate; oltre
a ciò il suolo deve essere mantenuto fresco, soffice e pulito mercè
le vangature. La concimazione poi non deve far difetto; essa deve
consistere in terricciati composti con tralci di viti tagliati a pezzetti,
letame, cenere, residui del carbon fossile, delle fornaci di calce, vi-
naccie, ecc. Con pergolati trattati a questo modo si possono ot-
tenere 100 ettolitri di vino ad ettare; in media 60. La spesa an-
nuale può essere di circa 1000 lire ad ettare, comprendendo il fitto,
i lavori, l'ammortizzazione della spesa per fili di ferro e pali, i con-
cimi e via dicendo. Ma quei 60 ettolitri di vino possono valere co-
modamente 30 lire caduno, lasciando così un benefìcio netto di 800
lire al viticultore per ogni anno e per ogni ettare.
CAPITOLO XXV
Coltura delle viti nei giardini
(Uve da tavola).
§ 1. Importanza della produzione di buone uve da tavola — § 2. Metodo dei cor-
doni orizzontali (a tralci diritti ed a tralci inclinati) — § 3. Metodo dei cor-
doni verticali — § 4. Palmetta a tralci inclinati — § 5. Le contro-spalliere
§ 6. Coltura in vasi e in casse — § 7. Come favorire l'ingrossamento dei grap-
poli ed anticiparne la maturazione — §8. Conservazione e commercio dell'uva
da tavola.
§ 1 . Importanza della produzione di buone uve da tavola.
— Non è d' uopo spendere molte parole per dimostrare la grande
importanza che avrebbe per l'Italia la produzione di molta e buona
uva mangereccia; un uomo molto autorevole in fatto di esportazione
di prodotti agricoli, il sig. Cirio, va insistendo da molti anni su
questo punto, e nelle adunanze tenute in Roma, nel febbraio del 1884,
dai viticultori italiani radunati dal Ministro di Agricoltura, egli os-
servava che la esportazione delle uve da tavola italiane va bensì cre-
scendo continuamente, ma che tuttavia non può esplicarsi; raccontò
che l'anno precedente non potè esportare neppure la decima parte di
quanto avrebbe potuto mandare nel Nord d'Europa; infine consigliò
ripetute volte — quasi in ogni seduta — di estendere e migliorare
la coltura delle uve da tavola, perchè in questo articolo non ab-
biamo tanto a temere la concorrenza come in altri, e quindi il viti-
cultore può fare assegnamento su uno smercio vasto, proficuo e du-
revole.
È doloroso dover constatare che l'Italia, in fatto di commercio di
COLTURA DELLE VITI NEI GIARDINI 767
uve da tavola, si trova propriamente alla coda degli altri paesi vi-
tiferi del vecchio continente. La Francia, l'Austria, la Germania, la
Crimea ne esitano in copia in Russia, nella Gran Brettagna ecc.
entro apposite scatole eleganti e ne ritraggono non poco lucro: questi
scelti prodotti poteronsi ammirare alla Esposizione mondiale di Vienna,
ove spiccavano sovratutto le uve francesi. L' Italia invece vi fece
una mediocrissima figura. Eppure il nostro paese abbonda di squisite
uve mangerecce, e questo non solo nell'Italia inferiore, ma altresì nell'I-
talia superiore, ove è nota ad esempio la squisita Erbaluce di Caluso
(Ivrea) che noi coltiviamo con ottimo successo in Monferrato. Confi-
diamo quindi che si darà d'or innanzi maggior importanza a questa
coltivazione speciale, e che le squisite uve italiane si faranno presto co-
noscere sul mercato mondiale, specialmente nel Nord ove il delizioso
frutto di Bacco è avidamente ricercato (1). Il sig. Cirio ci assi-
curò più volte che lo smercio, quando il prodotto sia buono, bello,
sano ed elegantemente messo, non potrà mai mancare: ciò essendo,
come noi non dubitiamo punto, e tenuto calcolo del prezzo cui si
vendono le uve mangerecce, è facile intendere come la loro produ-
zione non può non riescire assai lucrosa.
Vediamo pertanto i principali sistemi di educazione della vite per
la produzione di uve mangerecce, che ha luogo generalmente nei
giardini o in luoghi cinti da muri.
§ 2. Metodo dei cordoni orizzontali. — a) A tralci diruti.
— Le viti che voglionsi educare con questo sistema, si piantano
contro un muro, mettendo le barbatelle o le talee alla distanza di
6 ad 8 metri una dall'altra, col solito sistema, e si potano a due
gemme. Nell'anno seguente si sopprime il getto meno robusto, mentre
l'altro potasi lungo 1 metro circa. Durante la primavera e Y estate
si scacchiano tutti i getti che sorgono lungo il fusto, meno il più
alto, perchè deve servire a prolungare il fusto stesso; a tal uopo
anzi qualche autore (2) consiglia di tenerlo in posizione verticale,
(1) In Inghilterra e Scozia si coltivano le uve da tavola nelle serre. È rino-
mata ad esempio quella del sig. Douglas a Dalkeith (Scozia) la quale suole in-
viare alle esposizioni scozzesi ed inglesi enormi grappoli, spesso del peso di pa-
recchi chilogrammi.
(2) V. Roda nell'Enciclopedia Agraria (parte V 282). Il Prof. Roda è uno fra
i più competenti scrittori di questo ramo speciale della viticultura, onde faremo
tesoro spesso de' suoi precetti.
768 CAPITOLO XXV
acciò si allunghi maggiormente. Al terzo anno si pota di nuovo lungo
lm il tralcio di prolungamento dal punto della sua inserzione, sop-
primendo le messe laterali ma rispettando la cacciata estrema. È
molto utile, sopprimendo questi getti, rispettare le foglie, ed è facile
intenderne il perchè. Al 4° anno la vite è abbastanza alta per es-
sere tirata a cordoni, lungo un filo di ferro posto orizzontalmente a
50 centim. al disotto del coperto del muro ( V. in seguito). Ma ciò si
fa solo al 5° anno; al quarto invece potasi la vite pochi centim. al
disotto del punto lungo cui scorreva il filo stesso, ed i due sarmenti
(fìg. 290) delle due gemme superiori si allevano possibilmente in
Fig. 290.
senso verticale, scacchiando tutti i getti inferiori. Infine al 5° anno
i due getti A B si piegano uno a destra e l'altro a sinistra, lungo
il filo, potandoli lunghi 60 o 70 centim.; ed i getti che escono dalle
Fig. 291.
gemme si allacciano ad un secondo filo posto a 0,40 sopra il primo,
cimandoli alla seconda foglia sopra l'ultimo grappolo. Si avrà cura
di lasciare però intatto il getto estremo, per poter prolungare i cor-
COLTURA DELLE VITI NEI GIARDINI
769
doni, onde lo si terrà orizzontale. Al 6° anno si speronano ad una
gemma (fìg. 291 A) i getti uviferi dei cordoni A B (fig. 290), mentre
i due prolungamenti si potano a 60 o 70 cent.; i getti uviferi che
escono dalla gemma degli speroni si allacciano al secondo filo di
ferro, mentre la gemma A della corona o punto di inserzione si ac-
ceca, salvo si voglia fare uno sperone di rimpiazzamento (fig. 292,
Fig. 292
ove è indicata anche la potatura nell'inverno successivo, cioè la sop-
pressione del vecchio sperone). Al 7° anno e nei seguenti si procede
analogamente. Il Prof. Roda (1) dice che quando, dopo alcuni anni,
le estremità dei cordoni arrivano ad incontrarsi, si possono innestare
fra di loro per approssimazione i due tralci opposti, oppure (fig. 293)
Fig. 2J3.
allevare orizzontalmente il getto A, potarlo poi in a b, cioè lungo
25 o 30 cent., ed esportare in D l'estremità del cordone D C.
Il Roda dice che allorquando il muro di cinta è più alto di 3m,
si può coltivare con profitto la vite a cordoni alti 3m, e sotto edu-
(1) Op. cit. pag. 283.
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura.
50
CAPITOLO XXV
care a spalliera peschi o albercocchi (fig. 594); così si utilizza com-
pletamente il muro.
b) A tralci inclinati. — I cordoni si conducono nello stesso
modo indicato or'ora, ma i getti uviferi si piegano ad angolo di 115°
circa, sul cordone stesso, legandoveli: la fig. 295 mostra chiara-
mente questo sistema, nel suo lato destro, mentre il lato sinistro
offre la vite non ancora potata, ma coi piccoli tratti indicanti dove
COLTURA DELLE VITI NEI GIARDINI
771
devesi potare per rendere uniforme e regolare [il cordone coi suoi
getti. Nulla è variato nel rimanente. Questo sistema si ritiene più
produttivo di quello a tralci diritti. Si potrebbe anche adottare la
disposizione della fìg. 296, avvicinando le ceppaie; nel lato sinistro
del disegno la potatura è fatta, nel lato destro vedonsi i getti dei
tralci frutticosi, col tralcio a frutto di rimpiazzamento alla loro base,
772
CAPITOLO XXV
cioè col capo a legno. In tutti questi sistemi si raccomanda calda-
mente di non scordare le cimature dei getti uviferi.
§ 3. Metodo dei cordoni verticali. — Giova questo sistema
quando si vuol coprire colle viti la intera parete del muro; il Prof.
Roda lo ritiene preferibile al metodo alla Thoméry « il quale è
COLTURA DELLE VITI NEI GIARDINI
773
troppo complicato e di lenta formazione, quantunque raccomandato
dagli antichi autori francesi (1). » Per ottenere presto dei buoni
cordoni verticali, si piantano le viti ad 1 metro di distanza contro
297.
un muro, lungo il quale si tirano parecchi fili di ferro orizzontali
distanti l'uno dall'altro 30 centina., mentre il primo dista 40 centim.
dal suolo (fig. 297), e si educano due tralci, uno laterale e F altro
di prolungamento. Alla terza potatura il tralcio laterale si pota al
^j Al i "Ai 3
Fig. 298.
disopra della seconda gemma, e quello di prolungamento a 0,30 pro-
curando che abbia una gemma a destra all'altezza del secondo filo,
ed una gemma superiore di prolungamento. Alla quarta potatura si
(1) Op. cit. pag. 284.
774
CAPITOLO XXV
ha la pianta disegnata nella fig. 298, ove le lineette indicano come
si deve potare; il tralcio di prolungamento si pota di nuovo a 30
centim. ma questa volta si lascia una gemma al livello del terzo filo,
V
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Fig. 299.
ma non più a destra, bensì a sinistra, e sempre con una gemma di
prolungamento alla estremità. Prima della quinta potatura si ottiene
allora la pianta disegnata nella fig. 299, ove si vedono due tralci doppi,
poi uno laterale a sinistra, ed uno di prolungamento: il disegno in-
COLTURA DELLE VITI NEI GIARDINI
775
dica pure come si deve potare in quest'anno, cioè non diversamente
di quanto si è fatto nel 4° anno, e così di seguito si vengono ad
avere le viti disegnate nella fìg. 300, la quale presenta una spalliera
compiuta. Dice il Prof. Roda che questo sistema è facile ma lungo,
perchè occorrono non meno di 10 anni per coprire un muro alto 3
metri; tuttavia si può guadagnare un bienno allevando, a partire
dal 4° anno, due tralci produttori ognia nno invece di uno solo e po-
tando i tralci di prolungamento lunghi 60 centimetri con 2 gemme
alternate distanti 30 centimetri.
§ 4. Palmetta a tralci inclinati. — Per educare una vite
con questo sistema, che ha molti pregi, si procede nel modo seguente:
supponiamo di avere, al 3° anno del piantamento, la vite (fìg. 301),
Fig. 301.
con un bel tralcio a; allora gli altri due getti si potano ad uno o
a due occhi per avere uva ed anche per avere buoni capi a legno;
il tralcio verticale a si deve inclinare, come lo indica la fig. 302; i
getti uviferi a a a si lasciano crescere a piacere, a meno che non
776
CAPITOLO XXV
si allunghino di soverchio; si cimano invece le femminelle. Verso il
Fig. 302.
Fig. 303.
finire dell' estate, si rialza il tralcio inclinato, e si colloca vertical-
mente come lo indica la fig. 303: i getti laterali a a a si drizzano
COLTURA DELLE VITI NEI GIARDINI
777
procurando di dare loro una forma regolare senza però spezzarli;
piuttosto si lascino crescere in libertà. Il tralcio frutticoso centrale
si lascierà che si allunghi quanto vuole per poter dare in seguito
alla palmetta maggiori dimensioni. Al momento della potatura tutti
i getti laterali a a a si conservano intatti, inclinandoli nel modo
preciso indicato dalla fig. 304: però quelli soverchiamente lunghi vo-
Kiff. 304.
gliono essere alquanto raccorciati. — La stessa inclinazione si darà alla
parte terminale del tralcio principale, come vedesi in b fig. 304. —
Questa parte inclinata si tratta poi analogamente al primo tralcio
inclinato (fig. 302), cioè lo si drizza verticalmente quando i suoi getti
sono sufficientemente sviluppati, e così si prolunga la palmetta. — I
getti uviferi si debbono rimpiazzare ogni anno, allevando dei capi a
legno (fig. 305 a) nella parte più bassa dei getti stessi; i capi a legno
non si cimano; si cimano però le femminelle e si mozzano i getti
uviferi a 2 foglie al disopra dell' ultimo grappolo. Ma qualora fai-
778
CAPITOLO XXV
lisca il capo a legno, allora si conserva il capo a frutto inclinato e
Fig 305.
Fitr. 306.
si pota a speroni (fig. 306 a a a); oppure si potano a piccoli tralci
COLTURA DELLE VITI NEI GIARDINI
119
i suoi getti più vigorosi, e si legano al tralcio inclinato, come indica
la fig. 307 a a a. —
Fig. 307.
§ 5. Le contro-spalliere. — Le contro-spalliere sono intela-
jature lungo le quali conduconsi le viti a spalliera in mancanza di
muri. Quanto si disse pei cordoni orizzontali si attaglia a questo si-
stema, di cui la fig. 308 ci dà lo schema. Per acquistare spazio si
Fig. 308.
alternano ì piani dei cordoni bipartiti, e se le piante sono molto ri-
gogliose, come spesso accade per le viti ad uve mangereccie colti-
vate nei giardini, si possono lasciare 4 cordoni (2 a destra e 2 a
sinistra) per pianta, guidando i due superiori lungo il secondo filo.
Questo sistema, esperimentato dai fratelli Roda, diede ottimi risultati.
§ 6. Coltura in vasi ed in casse. — È noto che la vite può
coltivarsi anche in vasi od in casse; la coltura in vasi può farsi o
780
CAPITOLO XXV
ad alberello (fig. 309) o a tralcio lungo, secondo che indica la fi-
<^\/9
Fig-. 309.
gura 310. La figura 311 mostra la coltura in casse per ornamento
dei balconi.
COLTURA DELLE VITI NEI GIARDINI
781
Dalle viti in vaso, possono ottenersi bellissimi grappoli per la con-
servazione. La fig. 310 mostra come deve ricurvarsi il tralcio a
frutto; dopo l'allegamento dei grappoli è indispensabile diminuirne il
numero, riducendolo ad uno solo per ogni germoglio uvifero spun-
tato dal detto tralcio frutticoso; senza di ciò non si otterrebbero
grossi grappoli. Non debbono neppure trascurarsi l'incisione anulare
e lo spuntamento dei grappoli stessi, (pag. 784). Essendo piccolo il
Fig. 310.
cubo di terra a disposizione della vite, è indispensabile far uso di
concimi adattati, possibilmente adoperati in soluzione nell'acqua. Si
incomincierà a somministrarli dopo che i frutti avranno allegato, e
si ripeterà la concimazione per tre volte prima dell'iniziarsi della ma-
turazione dell'uva. Se nel verno il freddo è intenso, è indispensabile
sul finire dell' autunno avvolgere la pianta in paglia o erba secca,
in modo da difendere e tralcio e radici.
Dalle viti in cassoni possono pure ottenersi ottimi grappoli: la fi-
gura 311 riproduce fedelmente una di consimili viti che adorna i
balconi del signor D. M. Aranguren, a Bilbao, al quarto piano
della sua casa, in via Camiceria Veja, num. 12. Questa casa con
782
CAPITOLO XXV
tutte queste pergole cariche ò" uva, desta Y ammirazione di chi la
osserva. Il signor Aranguren adopera cassoni a base rettangolare,
alti 0m,72, lunghi 0,48 e larghi 30; essi non riposano sul pavi-
mento del balcone, ma bensì entro una cassa di zinco contenente
acqua; questa cassa è alta soli 7 centina., ma le altre dimensioni
superano di 2 centim. quelle del cassone in cui sta la vite. Il fondo
di questo cassone porta, inchiodati, diversi traversini di legno di 2
centimetri di lato, perchè possa circolare l'acqua anche per disotto;
COLTURA DELLE VITI NEI GIARDINI 783
la parte del fondo che sta fra i traversini è bucherata, e così l'acqua
può penetrare nel cassone e diffondersi per capillarità. La terra
vuol essere fertile, ma il signor Aranguren la rinnova ogni anno:
la cassa di zinco deve sempre contenere acqua, per cui nei forti
calori accade di doverla riempire anche tre volte al giorno. Con
questo metodo il signor Aranguren ottiene grappoli d'una bellezza
rimarchevole.
Per riuscire bene con simile coltura è necessario anzitutto colti-
vare vitigni che vi si adattino; bisogna a tal' uopo scegliere vitigni
ad interno di corti, e questo è facile a spiegarsi: vi si adattano assai
bene i diversi Chasselas, come il Chasselas Cioutat, il Chasselas
de Fontainebleau ed il Chasselas rosa. Inoltre conviene concimare
convenientemente il piccolo cubo di terra posto a disposizione della
vite, per compensare appunto il suo piccolo volume: a tal uopo è
necessario adoperare miscugli di solfato d' ammoniaca, perfosfato
d'ossa e cloruro di potassa, mercè cui si possono ottenere da ogni
pianta parecchi grappoli succosi.
§ 7. Come favorire l' ingrossamento dei grappoli ed an-
ticiparne, la maturazione. — A pag. 607 abbiamo lungamente
studiato come si possa favorire la maturazione dell' uva; quanto ivi
dicemmo si applica eziandio alle uve mangerecce, anzi talune pra-
tiche sono indicate specialmente per queste uve, che ordinariamente
coltivansi su modesta scala. Accenneremo specialmente alla torsione
dei picciuoli, che descrivemmo a pag. 610; ma oltre alla torsione
può suggerirsi la incisione anulare, specialmente se si intende di
far anticipare la maturanza dei grappoli per venderli a caro prezzo
come primizie. Coll'incisione la maturanza può anticipare anche di
quindici giorni; essa si pratica sui getti uviferi, al disotto del primo
grappolo, se ve ne sono due, operando delicatissimamente con un
coltello, in guisa tale da esportare un anellino di corteccia, senza
però offendere l'alburno (fig. 312); l'operazione deve farsi appena si
sono formati gli acini, cioè circa 15 giorni dopo la fioritura (1).
Ottime pratiche sono pure la cimatura dei grappoli di cui par-
(l) Il Prof. Roda dice (op. cit. pag. 288) che con questa incisione la linfa di-
scendente essendo ivi trattenuta, si porta tutta a beneficio del grappolo vicino,
ingrossandolo maggiormente ed accelerandone la maturanza.
784
CAPITOLO XXV
lammo a pag. 504, e il loro diradamento, consigliato a pag. 505:
rimandiamo ivi il lettore per non ripeterci.
Fig. 312.
Ed infine vi si riesce anche coltivando le viti in apposite serre o
stufe, cioè colla coltivazione forzata.
§ 8. Conservazione e commercio delle uve da tavola. —
È assai importante il saper conservare bene le uve mangerecce. A
tal uopo conviene anzitutto proteggerle dagli insetti avviluppandole
in sacchetti speciali (1) o anche con semplice carta e raccoglierle non
soltanto quando sono bene mature, ma quando sono asciutte. Spesso
però cogliendo le uve anche solo dopo un tempo umido e per quanto
appaiano secche, esse non si conservano: conviene quindi, se possi-
bile, raccoglierle asciutte e dopo una certa serie di giornate secche.
(1 ) Questi sacchetti, a rete di tela cerata, sono di varie dimensioni; si possono acqui-
stare presso l'Agenzia Enologica di Milano, o lo Stabilimento Barbero eli Torino,
COLTURA DELLE VITI NEI GIARDINI 785
Staccati i grappoli si mondano con grandissima cura dagli acini
guasti o rotti, operando con forbici a punta aguzza; poscia si por-
tano in locale apposito, il quale deve essere al primo piano, asciutto,
buio e fresco. L'aria, il calore, l'umido e la luce debbono penetrarvi
il meno possibile; perciò il locale vuoisi tenere sempre chiuso. Al-
l'interno si collocheranno dei piani di legno, che siano movibili a
guisa dei cassetti, per poter esaminare prontamente tutta l'uva che
si conserva. Sui piani si distenderà anzitutto uno strato di felci ben
secche, e sopra si disporranno i grappoli. In Francia, dove si con-
serva l'uva negli appositi fmiitiers, si pone molta attenzione a che,
nell'inverno, non geli nel locale, e perciò o si aprono speciali bocche
di calorifero oppure si portano nel locale bracieri ardenti, special-
mente se l'umido accenna a danneggiare i grappoli.
Usasi pure in Francia di appendere i grappoli, mediante uncino
ad S, a fili di ferro tirati lungo la camera, evitando che tocchino i
muri: altri sostengono che il metodo più sicuro per conservare l'uva
durante parecchi mesi è quello di appenderla a cordicelle entro grossi
armadii posti in luogo secco: altri ancora le mettono entro cassettoni,
chiusi poi ermeticamente con striscie di carta.
Infine vi sono quelli che conservano l'uva mettendo il sarmento,
a cui è attaccato il grappolo, dopo averlo sfogliato, entro bottiglie
piene d'acqua e contenenti uno strato di carbone vegetale ben pol-
verizzato. Comunque si conserti l'uva, si deve visitare spesso il lo-
cale, e ripulire i grappoli dagli acini guasti: penetrando nella camera,
bisogna adoperare un lume anziché aprire le finestre.
Nei paesi però, ove l'autunno è molto umido, si riesce difficilmente
a conservare l'uva, perchè questa, mentre sta sulla pianta, riceve
soverchia umidità. È per questo che a Thoméry si proteggono
contro le pioggie le viti per uve da tavola, mediante tele incatra-
mate larghe 1 metro: le uve così protette, si conservano sanissime
per lungo tempo, prima sulla pianta stessa poi nei fruitiers.
Ci rimane a dire poche parole sul commercio delle uve man-
gerecci I Francesi, che in questo sono maestri, usano smerciare l'uva
da tavola in apposite scatole assai eleganti; queste scatole sono lunghe
d'ordinario 30 centimetri, larghe 20 e profonde 10; sono di legno
bianco a pareti sottili, internamente rivestite di carta fina e assai
bianca. I grappoli vengono collocati uno accanto all' altro, interpo-
nendo fra uno e l'altro dei ritagli di carta, con cui poscia si coprono
tutti, prima di applicare il coperchio. Così si evitano le ammaccature.
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 51
CAPITOLO XXVI
Ampelografìa
Sed neque. quam multae species, nec nomina quse sint,
Est numerus; neque enim numero comprendere refert.
Virgilio (1).
1. Scopo ed importanza dell' Ampelografìa — § 2. Sistemi ampelografici —
§ 3. Di alcuni vitigni italiani — § 4. Cenni su alcuni vitigni forestieri più ri-
nomati — § 5. Di alcune uve da tavola — § 6. Le viti americane.
§ 1. Scopo ed importanza dell' Ampelografìa. — Ampelo-
grafìa è parola formata da due voci greche (ampelos vite, grafon
descrizione) e significa precisamente descrizione della vite. Ma si
ingannerebbe chi credesse che Tampelografia altro non fosse se non
un arido catalogo di descrizioni, vale a dire un inventario delle viti
d'un dato paese colla sinonimia, cioè coi nomi che si corrispondono
fra i molti dati allo stesso vitigno: questa non è che una parte del-
Tampelografia, per altro utilissima; ad essa debbono accoppiarsi tutte
quelle nozioni che riflettono la natura intima, le esigenze, i pregi
d'ogni vitigno, onde l'ampelografia deve formare un tutto da cui e-
mergano i veri e sani precetti della viticoltura e della enologia, adat-
tati all'indole delle diverse varietà e sotto varietà delle viti coltivate.
(1) Georgica, Lib. II.
Ma nò quante
Sian lor specie, e quale il nome, esporre
Potrei; né tutte annoverarle or monta.
G. Sapio trod.
AMPELOGRAFIA 787
Una arapelografia simile, quando sarà completata, costituirà il mi-
glior libro sulla viticultura e l'enologia che si possa offrire, nel caso
nostro, ai viticultori italiani. Colla sua scorta ognuno sarà in grado di
semplificare la propria viticultura, eliminando quei molti vizzati a uve
mediocri, che oggi ingrombano i vigneti italiani; allora, avendosi pochi
tipi costanti nella materia prima, li avremo anche nel vino, purché
sia fabbricato con quelle cure che la scienza e l'arte suggeriscono.
\1 ampelografia comprende quindi tre ordini di studii: la sino-
nimia, V ampelografia propriamente detta e Y ampelenologia (1).
La sinonimia raccoglie e raffronta fra di loro i nomi diversi di
ciascun vitigno nei varii paesi e nelle varie lingue, raggruppando
quelli che sono sinonimi: essa è come l'indice generale dell'ampelografia,
che ci guida, colla scorta del nome, a trovare tutte quelle nozioni
che si riferiscono ad un dato vitigno.
U1 ampelografia propriamente detta descrive le qualità esteriori
d'ogni vitigno, cioè la forma e l'aspetto d'ogni sua parte, le carat-
teristiche della varietà, nonché le sue esigenze vegetative. A queste
descrizioni potrebbe precedere, come giustamente osserva il Barone
Mendola, la storia del vitigno, comprendente le notizie sulla sua
stazione originale o consueta, ed all'ora si avrebbe 1' ampelografia
comparata topografica o regionale, pur essa utile al viticultore.
L' 'ampelenologia infine (come lo indica il suo nome composto di
ampelos vite, enos vino e logos discorso) studia la vite nel suo pro-
dotto che è il vino, indaga cioè le virtù interiori d'ogni vitigno, la
sua produttività, come e quando ne maturino i frutti, quali pregii e
quali difetti questi abbiano ed a quali usi, se alimentari o enologici o
industriali, servano. Come si vede l'ampelenologia è parte importan-
tissima della ampelografia; ne è come il succo, se ci è lecito così
esprimerci, e perciò essa è più d' ogni altri giovevole alla pratica
della viticultura e della enologia.
Riassumendo abbiamo:
Sinonimia ! cianografica
(esteriore)
Ampelografia ( Ampelografia propriamente detta
Ampelenologia
viticola
(indole e costumi)
comparata
(fra regioni)
(1) V. il nostro giornale II Coltivatore, voi. XX ove il dotto ampelografo Barone
A. Mendola propose pel primo questa voce, giustificandola con acute osservazioni.
788 CAPITOLO XXVI
Come si vede è vastissimo il campo de\Y ampelografia, e però si
richiederà ancora molto tempo e molto lavoro prima che questo studio
sia completo. Oggi quasi tutti i paesi vitiferi se ne occupano atti-
vamente, ed in Italia questo arduo compito è affidato ad un Comi-
tato Centrale Ampelografìco (presieduto dallo studioso e dotto Cav.
Giuseppe di Rovasenda e di cui fanno parte l'onorando Bar. Men-
dola ed altri specialisti) il quale deve raccogliere e coordinare i la-
vori delle Commissioni ampelografiche provinciali. Ci auguriamo che
questo importante lavoro sia presto compiuto.
§ 2. Sistema ampelografici. — Varii sistemi furono proposti
per classificare i vitigni, basati or su questo or su quest' altro ca-
rattere; ne diremo qui brevemente.
L' illustre ampelografo francese Conte Odart divise (1) i nu-
merosi vitigni della sua rinomata collezione della Dorée presso
Tours, secondo il momento della loro maturità in quel suo vigneto.
Classificò perciò le viti in sei epoche o gruppi; la maturità delle uve
di ognuno dei gruppi differisce di circa 10 giorni da quello dei due
gruppi fra cui esso si trova: così nel 1° gruppo troviamo i vitigni
precoci per uve da tavola (il morillon precoce, Yuva d'Ischia, la
luglienga, il madera verde ecc.); nel 2° gruppo ì pinots, il tein-
turier, la malvasia rossa, il chasselas rosato, ecc.; nel 3° gruppo
il merlot, la barbera, il dolcetto, il gros gamai, il pinot bianco ecc.;
nel 4° gruppo i syrrahs, la barbera fina, il siloaner rosso, la
malvasia verde ecc.; nel 5° gruppo Y aleatico, Y aramon, il girò,
il canajolo, il moscato ecc., e nel 6° gruppo il g renache, il refosco,
la vernaccia e via via.
Questa divisione ha un valore soverchiamente locale, ma a dir
vero lo stesso Conte Odart non pretese di aver proposto una
vera classificazione; infatti il sig. Marès nella sua collezione di
Launac (Montpellier), trovò notevoli differenze nella maturità re-
lativamente alle epoche stabilite dal Conte Odart. D'altronde questo
solo carattere della maturità più o meno precoce non può costituire
la base di descrizioni e classificazioni ampelografiche.
L' Acerbi nelle sue descrizioni Delle viti italiane, propose una
classificazione fondata sul colore dell' uva, sulla forma degli acini e
sul loro sapore, con suddivisioni fondate sulla forma delle foglie, il
(1) Ampelographie univer selle.
AMPELOGRAFIA 789
che è molto importante per condurre ad una soddisfacente classifi-
cazione dei vitigni. Il sig. Oudart, già presidente della Commissione
Ampelografica di Alessandria, proponeva, anni addietro, le seguenti
divisioni:
Classe: I. Uve colorate — IL Uve bianche.
Tribù : I. Uve ad internodi corti — II. Uve ad internodi mediani
— III. Uve ad internodi lunghi.
Ordine: I. Uve ad acino rotondo — IL Uve ad acino oblungo.
Genere: I. Uve a sapore semplice — IL Uve a sapore profumato.
Questo metodo sarebbe ottimo se non comprendesse la divisione
in tribù a seconda della lunghezza degli internodi, che non è per
nulla un carattere costante; infatti esso varia per lo stesso vitigno,
(come per esempio il moscato, che offre viti a internodi corti, mediani
e lunghi) e lo stesso viticultore può farlo cangiare a suo talento,
come lo provano le esperienze da noi fatte (pag. 182).
Il Cav. Giuseppe di Rovasenda (1), il quale possiede a Ver-
zuolo (Saluzzo) una raccolta di oltre a 4000 varietà di vitigni, clas-
sifica le uve, dopo averle divise in uve nere rosse e bianche, in
due grandi divisioni: I. Uoe a sapore semplice. IL Uve a sapore
moscato o di fragola. Queste due classi si suddividono ciascuna in
uve ad acini sferici, uve ad acini sferico-ovali, ed uve ad acini
decisamente ovali. Il Rovasenda tiene anche calcolo dei caratteri
delle foglie, e propone quattro suddivisioni dicotomiche: 1° foglie
glabre, foglie tomentose; — 2° foglie trilobe o intiere, e foglie
cinquelobate; — 3° germoglio glabro e germoglio lanuginoso; —
4° foglioline unicolori e foglioline più o meno colorate. Con questa
classificazione si arriva a formare 88 divisioni, corrispondenti a 88
caselle di colori differenti ove è segnata la forma degli acini e nelle
quali devono trovare posto tutte le uve conosciute. L'illustre ampe-
lografo francese V. Pulliat, lodando molto questa classificazione,
conclude dicendo: « a mezzo di questa chiave dicotomica si può giun-
gere a determinare una varietà di vite di cui si ignorasse il nome
o che si conoscesse sotto una denominazione erronea, caso troppo
frequente nelle collezioni. Non sappiamo quali siano la precisione e
(1) Saggio di una ampelografia universale (E. Loescher, 1877). Sin'ora è uscita
la parte La (Elenco dei vitigni) che è completa, e destò grande rumore fra gli
studiosi. Facciamo vivissimi voti perchè le tengano dietro presto le parti II. e III.
790 CAPITOLO XXVI
l'esattezza di questa chiave dicotomica; in tutti i casi essa merita di
essere provata ».
Ci associamo alle parole del Pulliat, essendo a nostro avviso questa
classificazione del Rovasenda fra tutte quelle proposte la preferi-
bile, inquantochè con essa si tiene calcolo dei caratteri principali e se-
condarli più costanti e più apparenti delle viti, e perchè nel proporla
il Rovasenda ha tratto partito degli studii degli ampelografì, specie
Italiani, che lo precedettero. Che se si volesse tuttavia obbiettare
qualche cosa a questo sistema, si dovrebbe mettere in dubbio la co-
stanza nella forma degli acini, che il Rovasenda collocò fra i ca-
ratteri primarii; lo stesso autore riconosce tuttavia questa menda, e
ne dà infatti avviso agli studiosi di ampelografìa (op. cit. 206).
§ 3. Di alcuni vitigni italiani. — Se volessimo descrivere
anche soltanto i principali vitigni d'ogni provincia italiana e d'ogni
regione straniera, ci occorrerebbe uno speciale volume: dovremo quindi
limitarci assai in questi cenni ampelografici, in attesa che qualche
lavoro speciale e possibilmente completo possa soddisfare ai desiderii
dei viticultori. Diremo prima di alcuni vitigni italiani (per vini da
pasto scelti e comuni, nonché per vini di lusso): — descriveremo
poscia alcuni vitigni forestieri rinomati; — indi accenneremo alle
uve da tavola. Tutto ciò si riferirà esclusivamente alla vite euro-
pea (1): in quanto alle viti americane vi dedicheremo in modo spe-
ciale il Capitolo XXXI.
Nebbiolo piemontese (Sin. Spanna, Prunent, Melasca, Picotener, Chiavennasca).
— Si coltiva in Piemonte, nel Novarese e nella Valtellina in una grande zona
o striscia sulle falde delle Alpi. — Germoglio tomentoso bianchiccio, tralci ros-
sicci a lunghi internodi, foglie 5 lobate o solo 3 lobate a seni larghi e profondi,
alquanto tomentose sotto, glabre sopra quasi liscie, peziolo lungo rossiccio finis-
simamente peloso, grappoli per lo più lunghi, alati, piuttosto uniti che spargoli
ma non serrati, acini nericci, coperti di pruina o nebbia d'onde il nome; legger-
mente ovali, a buccia fina; maturazione verso la prima quindicina di ottobre. —
Soffre il freddo umido durante la fioritura, è delicato, non riesce bene in pia-
nura, vuole terre sane, asciutte, leggere, discretamente fertili, preferisce la po-
(1) Queste descrizioni e notizie viticole ed enologiche su parecchi vitigni ita-
liani sono il frutto delle nostre poche osservazioni e dei nostri studii snlle opere
di ampelografìa italica sin qui pubblicate, fra cui meritano speciale menzione
quelle dell'Acerbi, del Rovasenda, del Mendola, del Demaria e del Leardi, del-
l' Odart e la incipiente del nostro Comitato Centrale Ampelografico.
AMPELOGRAFIA 791
tatura lunga. — Vino austero, fragrante e ricchissimo di eteri se vecchio e asciutto,
alcool 13-14 Oft} in volumi, acidità 6 0{00 e anche solo 4,50 nel vino vecchio;
suol dirsi barolo il nebbiolo coltivato a Barolo e La Morra; si chiama invece da
alcuni nebbiolo il vino dolce fatto con questa uva. Il nebbiolo secco può espor-
tarsi ed all'estero si è sempre fatto molto onore; il nebbiolo dolce è un vino spesso
spumante e ripudiato come vino da pasto scelto.
Dolcetto (Sin. Nebbiolo, Uva d'Acqui, Ormeasca, Bignona, Uva del Monferrato,
Dolutz nero). — Si coltiva in Piemonte nell' alto Monferrato, in Lombardia, nel
Genovesato e nel Trevigiano: il Prof. Frojo lo introdusse in Basilicata in regioni
poste a 600 metri sul livello del mare. — Tralci color nocciola, nodi vicini, foglie
di media grandezza, più larghe che lunghe, quasi lucide sopra, poco tomentose
sotto, a 3 o 5 lobi con seni rotondi, dentatura frastagliata, peziolo rossigno, ner-
vature rosse, grappolo medio, piramidale, alato, né troppo serrato nò spargolo,
acini neri turchini pruinosi generalmente rotondi, che cadono facilmente prima
di maturare. — Vitigno precoce buono pei climi freddi, non conveniente pei caldi,
vuole umido e caldo moderati, terreno fertile, meglio se sciolto, è molto fertile
e si adatta a varii modi di potatura. — Vino nero, leggero, passante, se ben fatto
e se viene da luoghi elevati; alcool 12 0[0, acidi 6 OfOO? Pu0 farsene vino dolce;,
il dolcetto è ottimo misto ad altre varietà di maturanza meno perfetta.
Sangioveto piccolo o forte (Sin. Sangiovese). — Si coltiva in tutta la pro-
vincia di Firenze e nella Valle di Sieve nella tenuta di Pomino e di Nipozzano,
ed alla Pievecchia. — Germoglio tomentoso, foglia di media grandezza più lunga
che larga, color verde vivo chiaro, sopra glabra, sotto verde chiaro, pelosa a peli
disposti a fiocchetti, 5 lobata, dentatura rada, picciuolo terete, grappolo medio
conico piramidale alato, molto serrato, acini medii subrotondi e depressi, buccia
pruinosa di color nero violaceo, resistente. — Preferisce essere coltivato alto, al-
lora produce molto e dà grappoli più grossi; vuole terreno fertile argillo-calcareo,
vuole potatura corta, a cornetto, benché allevato alto; maturità tardiva. — Vino
da pasto aspro da solo, ottimo per miscugli; molto colore; invecchiando acquista
aroma speciale.
Sangioveto grosso o dolce (Sin. Sangiovese). — Si coltiva nelle provincie di
Firenze e Siena, ove forma la base di quegli ottimi vini (Chianti, Rufìna, Po-
mino, Nipozzano) associato a Canaiuolo nero ed al Mammolo nero, e da alcuni
anche al Trebbiano per avere vino più morbido. — Germoglio verde chiaro, foglia
completa più lunga che larga, color verde scuro opaco, con macchie color fulig-
gine in autunno, sopra pellucida levigata, sotto quasi glabra, verde più chiara,
3 lobata, lobi allungati in punta, seni regolarmente profondi, ellittici, seno aperto
all'inserzione del picciuolo, dentatura fitta, grappolo conico, con un grappolo in
appendice che si distacca dal peduncolo, semplice, sciolto, corto, di media gros^
sezza, peduncolo robusto, corto, acini grossi, ovali, nero-violacei, pruinosi, co-
riacei, resistenti. — Se allevato alto produce di più, ma può allevarsi basso; anche
se alto devesi potarlo a cornetto con due gemme per avere grappoli più volumi-
nosi; potatura ricca ma corta; preferisce esposizioni Sud ed Est, terre fertili ar-
792 CAPITOLO XXVI
gilloso-calcaree; matura nella prima decade di ottobre. — Vino da pasto squi-
sito, color granata: però si associa alle indicate varietà.
Canaiolo nero comune (Sin. Cagnina, Canaiuola). — Si coltiva in Toscana e
nelle Marche: è una fra le principali uve con cui si fa il Chianti, mista alla pre-
cedente. — Tralci striati fittamente, color nocciola, internodi lunghi 6-8 centim.,
foglia completa, verde carica, con macchie giallo chiare in autunno, sotto molto
tomentosa, seni laterali elissoidei stretti, dendatura rada, poco profonda, appena
mucronata, nervature rilevate, picciuolo lungo, grappolo conico allungato, un
po' alato, spargolo, di media grossezza; acini medii subovali, nero violacei a buccia
sottile, pruinosa. — Preferisce essere coltivato sull' albero, produce poco a basso
ceppo, ama i terreni argillo-calcarei e specialmente i galestri, e le esposizioni
Sud ed Est. — Vino troppo austero da solo, e molto colorato; invecchiando prende
Tamaro, perciò si usa mescolarlo col Sangioveto ed il Trebbiano.
Mammolo nero (Sin. Uva Mammola asciutta, Manteca di Novoli?) — Si coltiva
nella provincia di Firenze, e, salvo errore, a Novoli in provincia di Lecce. —
Tralci striati, nocciola chiaro, internodi lunghi, germoglio verde chiaro, foglia
più lunga che larga, 5 lobata, seni profondi, sopra rugosa, sotto molta peluria,
verde più chiaro, seno della base stretto, dentatura fitta, grappolo conico, acini
subovali, buccia molto dura, nero violacea. — Ama l'albero, cioè educazione alta,
ma può tenersi bassa meglio degli altri vitigni toscani, resiste all'oidio, ma vuole
le solfature, ama il terreno argillo-calcare, fiorisce tardi. — Vino con profumo
di mammola, molto colorato; si associa sempre alle altre uve del Fiorentino, e
si ha vino più gentile. Rovasenda dice che per le provincie settentrionali il Mam-
molo è un po' tardo alla maturazione: tuttavia ne consigliamo la coltivazione per
conferire gratissima fragranza ai vini da pasto scelti, uso Rufina e Bordeaux.
Barbera (non ha sinonimi: forse lo Sciaccarello nero di Corsica, secondo noi,
ma il Rovasenda non lo ammette). — Si coltiva in Piemonte e specialmente in
Monferrato. — Tralci nocciola chiaro, germoglio verde, lanuginoso, foglie piut-
tosto grandi, 5 lobate a seni profondi, sopra glabre, sotto cotonose, seno del pic-
ciuolo chiuso verso il margine, dentatura larga e corta, grappolo ramoso, pira-
midale, gambo lungo, acini ovali allungati, neri violacei pruinosi, buccia assai
ricca di colore, maturità dal 20 settembre al 1° ottobre. — Vitigno prezioso per
la sua fertilità e pel suo prodotto; si adatta all'alberello ed al tralcio lungo; si
adatta quasi ad ogni terreno, ma predilige quelli argillo-ferruginosi ai calcari,
è robustissimo, produce molto; è però soggetto all'antracnosi ed alla peronospora,
come moltissimi altri vitigni (1). — Vino austero, ricco di colore, d' alcool e di
materie estrattive; alcool 12-14 0{o; acidità se giovane 10 0[00> se vecchio 6 0[00
circa: resiste ai viaggi se ben fabbricato; ricercatissimo dai commercianti. Mista
colla bonarda, lo zane, la moscatellina ed altre uve del Monferrato dà vino da
pasto squisito.
(1) Chi desiderasse dettagliate notizie sul Barbera vegga lo studio esteso che noi ne abbiamo fatto
nel <liornale Vinicolo Italiano del 1883.
AMPELOGRAFIA 793
Fresia. (Sin. Fleisa, Freisa, Fresa, Fresietta; non ci consta che esistano altri si-
nonimi). — Si coltiva in tutto il Piemonte, specialmente a Chieri, Torino, Asti
e Casalmonferrato. — Tralci color cannella chiara, striati, foglie 5 lobate piccole,
lobo rotondato e molto largo al peziolo, seni poco profondi, rugosa sopra, dura,
con peli sotto ma senza lanuggine, grappolo quasi cilindrico, mediocre, acini
alquanto ovali color nero azzurrognolo, di maturità non sempre uguale, buccia
opaca poco pruinosa. — Si adatta a qualsiasi potatura, produce molto, resiste
alle malattie come pochi altri vitigni. — Vino aspro che invecchiando in luogo
caldo si fa squisito, sul genere dei Borgogna: alcool 10-12 0[(), acidi 8-10 0[Q0
se giovine, sempre meno invecchiando. — Misto al barbera dà vino da pasto e
da commercio, di corpo e colore avidamente ricercato e che si esporta molto in
Isvizzera.
Fresia grossa. (Sin. Fratina, Fresia maschio). — Variante della precedente, con
grappolo più voluminoso, quasi conico ed acini più grossi. — Si trova a Valenza
nell'Alessandrino.
Fresia pica. (Sin. Fresia piccola?). — Altra variante: ha grappolo più piccolo
e corto a forma di pigna, colore più carico e nero; vino meno aspro e più colorito.
La Fresa di Nizza (Neiretta) ed il Freisone delle Langhe, non sono Fresie.
Grignolino. (Sin. o sotto-varietà, Barbesino, Verbesino, Balestra, Arlandino, Gi-
rodino, Rossetto). — Si coltiva in Piemonte (Casale e Asti). — Tralci canella
chiaro, internodi mediani, foglia media, 5 lobata, seni profondi ed aperti, sopra
rugosa, sotto poco lanugginosa, color verde scuro, grappoli piramidale ma di forma
poco costante, acini densi, serrati, color rosato pruinoso quando sta per maturare,
rare volte violaceo carico, fiocine sottile. — Vuole siti caldi, terre magre e so-
leggiate, allora dà vino scelto da pasto, molto passante; la sua coltura si va re-
stringendo in Monferrato ai soli luoghi più adattati. — Vino passante, rare volte
oltre al 12 0[0 di alcool, poco colorato salvo casi speciali, ricco di tartrato po-
tassico e perciò molto diuretico. Non invecchia molto, al secondo anno è general-
mente al culmine della sua bontà. Nelle annate poco calde e poco asciutte il
grignolino è vino mediocre. È bene associarlo al barbera, per avere ottimo vino
da pasto. (In parecchi libri di ampelografia si leggono notizie molto inesatte sul
grignolino, che vien lodato oltre i suoi meriti).
Bonarda. (Sin. Crovattina nera. Nebbiolo di Gattinara). — Si coltiva in Pie-
monte (Casale, Asti, Torino). — Tralci canella rossicci, internodi medii, foglia
allungata, 5 lobata, seni discretamente profondi, larghi e quasi circolari in fondo,
sopra liscia, sotto un po' tomentosa, verde bello, grappolo tra il conico ed il ci-
lindrico, alato, acini rotondi, densi neri, di maturazione uniforme, buccia spessa,
polpa densa e dolce. — Vitigno robusto, atto ai terreni tufacei, amante del caldo,
ferace se si sa potarlo; bisogna potarlo sul vecchio cioè alto, speronando i getti
bassi sulla ceppaia per Tanno successivo: a noi produce tanto quanto il barbera,
— Vino squisito, o dolce di lusso o da pasto, secondo il metodo di fabbricazione.
Alcool 12 0[0 in media nelle annate regolari. Si associa con molto successo al
"barbera, al fresia ed al grignolino. Acidità normale, vino vellutato, fragrante,
794 CAPITOLO XXVI
serbevole, igienico. L'uva si conserva bene per l'inverno, secondo le nostre nu-
merose esperienze.
Bonardone d'Acqui. — Identico al precedente ma assai più voluminoso: il vino
è meno pregiato, perchè il mosto è più copioso e più acquoso nei grappoli.
Bonarda di Cavaglià, di Gattinara e Ghemme. — Differente dalla B. Piemontese
(Rovasenda) è uva da mensa. (Sin. Balsamea).
Croetto o Lambnisco. (Sin. Croetto, Crovino, Porcino d' Acqui, Lambrusca di
Alessandria e delle Langhe, Moretto di Asti, Lambrusa). — Si coltiva in Pie-
monte, in Lombardia, nell' Emilia e nell' Italia Centrale. Conta numerose sotto-
varietà. — Tralci avana rossicci, robusti, internodi mediani, foglia grande, 5 lo-
bata, seni poco profondi, rugosa sopra, leggermente tomentosa sotto, color verde
cupo, grappolo lungo, voluminoso, acini copiosi, rotondi, talvolta però oblunghi,
nero azzurri, che cadono con facilità, d' onde forse il nome di Croetto (da croà,
cadere) fiocine spessa e poco pruinosa, ricca di colore. — Vitigno molto robusto
e produttivo, mette tardi e non teme le brine, matura presto e bene, si adatta a
tutti i terreni. — Vino colorato, ma un po' aspro e non troppo alcoolico; ottimo
per mescolare con altri più fini; allora ottiensi vino assai domandato in commercio
come vino da pasto di grande consumo.
La Lambrusca di Sorbara nera (Modena) sarebbe secondo alcuni un tipo affatto
differente dal descritto: così pure quella ad acino oblungo. Le differenze non sono
però sempre tali da giustificare le creazioni di nuovi tipi, come spesso si fa per
troncare le discussioni a risparmio di fatica!
Balsamina nera. (Sin. Marzamina e Vernaccina di Pesaro, Balsamino e Berga-
mina di Ascoli Piceno). — Si coltiva nelle Marche. — Tralci striati ranciati, in-
ternodi alquanto brevi, gemma allungata, germoglio poco lanuginoso, foglia 5 lo-
bata, spesso piccola, col lobo medio ben distinto dagli altri, seno della base aperto,
sopra glabra verde giallastra, sotto con leggera caligine verso le nervature, color
più chiaro, margine irregolare, acuto, spiccato, grappolo quasi cilindrico, lungo,
non serrato, acini sferici nero violacei, pruinosi, buccia poco resistente, polpa
zuccherina acidula fragrante. — Vuole terreni sciolti calcari-siliceo-argillosi,
se no dà uva poco zuccherina; si adatta ad essere educato alto e basso, è sog-
getto all'oidio, non ha tralci robusti. Il vino da solo è aromatico, mescolato con
altre uve dà buon vino da pasto; alcool in voi. 10 0ft) in media, anche 12-13,
acidi 6 OjoO- — Le balsamine di pianure asciutte hanno poco aroma e possono
dare vino da pasto scelto.
B alsamina Galloppa. (Sin. Gaglioppa, Galloppa o Galloffa). — Vitigno affine che
si va sostituendo al precedente, massime a Macerata, Forlì, Ascoli, Teramo, perchè
più robusto e non aromatico.
Be rzemino. (Sin. Merzemino, Marzamino, Balsamira). — Si coltiva in Monfer-
rato, nel Veneto, in Lombardia, nell' Emilia, nel Tirolo. Non deve confondersi
colla balsamina nera. — Tralci avana rossicci, robusti, gemma alquanto depressa'
AMPELOGRAFIA 795
foglia grande, allungata, 3 lobata, seni poco profondi, leggermente rugosa sopra,
ma tomentosa sotto, color verde cupo, grappolo conico, racemoli grossi e spargoli,
acini densi, copiosi, assai disuguali, color bigio con fondo violaceo quasi neror
fiocine spessa, molto pruinosa. — Polpa senza profumo. — Vitigno robusto, di
media feracità, alligna quasi in ogni terreno, in esposizioni calde secche resiste
all'oidio. — Dà vino da pasto buono e fino.
Lacrima. (Sin. Lacrima di Napoli, Lacrima Christi; differisce però dal notissimo
Lacrima dei paesi meridionali (1)). — Si coltiva nelle Marche ed anche un po'
negli Abruzzi. — Tralcio verde rossastro, internodi corti, foglia completa, 5 lobata
mezzana, dentatura irregolare, arcuata, sopra glabra verde scura, sotto glabra
meno intensa, grappolo lungo, piramidale, acini subovali, con lunghi pedicelli
violacei, con pruina biancastra e buccia dura. — Vitigno abbastanza vigoroso, pre-
ferisce essere tenuto alto e potato lungo, nemico dell'esp. nord: resiste alle pioggie.
ma è soggetto all'oidio: produce poco ma il prodotto è eccellente. — Vino rosso
fra i migliori delle Marche, color rubino, fragranza graziosa, le bucce dell' uva
si adoperano per dar colore agli altri vini; alcool 11-12 Ojo, acidi 6-7 OfoO-
Uva di Troja. (Sin. Troja, Uva di Canosa). — Si coltiva nelle Puglie su va-
stissima scala. — Tralcio liscio rigato, rossatro, internodi corti, foglia media o
piccola, sopra verde chiara, rugosa, senza peli, sotto tomentosa, verde-bianchiccia,
5 lobata regolarmente, seni poco profondi, dentatura minuta, grappolo cilindrico,
alato, acini medii, rotondi, buccia lucida, coriacea, azzurro-cupa, non soggetta a
marcire, sapore dolce, un po' aromatica. — Vitigno robusto, resistente, però mu-
tabile nei caratteri dell'uva, potendo dare vini coloratissimi e vini poco colorati.
— Vino notissimo da taglio detto vin di Barletta, o vino di Bari, alcool 13 Ojo
in mosto, molto colore, si associa ad altre uve, fra cui il Somarello o Mondonico;
è un vitigno rinomato essenzialmente per il vino da taglio o concia: non è con-
sigliabile pei vini da pasto di diretto consumo.
Verdicchio bianco (Sin. Trebbiano bianco, Verdea, Verdicchio giallo, peloso). —
Si coltiva nelle Marche, negli Abruzzi, nell'Umbria, in Romagna e fino nel Friuli.
— Tralci color nocciola, rigati, ruvidi, internodi corti, foglia mediana, 5 lobata,
lobo di mezzo cuoriforme, seni stretti, elissoidei, sopra glabra, ruvida, verde scura,
sotto con sottile peluria, grappolo conico, allungato, alato, acini di media gros-
sezza, sferici, subrotondi, buccia coriacea, pruinosa, polpa un poco croccante, sapor
semplice, dolce. — Vitigno di media forza e produttività, si coltiva basso o alto,
più spesso basso; nelle terre sciolte dà uva più zuccherina, nelle terre argillose
produce di più, ma uva meno fina: l'uva può conservarsi anche nell' inverno. —
Si può fabbricare vino da pasto, o vino di lusso; se ne raccomanda la coltiva-
zione per produrre di preferenza i primi, che si potrebbero esportare se secchi,
limpidi, bene depurati. Alcool 11-12 0\q, acidi 7 Ojoo-
Erbaluce (Sin. Erbalucente, Erbalus: dice Rovasenda che è erronea la sinonimia
(1) « Lacrima, Lacryma o Lagrima sono nomi cosi diffusi in Italia ed applicabili a tante uve di-
verse, che non sarà cosa facile lo sceverare le sinonimie o le diversità dalle une alle altre >> Cosi iL
Rovasenda (Amp. Un. 96).
796 CAPITOLO XXVI
con Trebbiano gentile affermata da varii ampelografi). — Si coltiva specialmente nel
Canavesano (Caluso), ma anche nel Basso Monferrato e nell'Astigiano. — Sarmenti
cannella giallastri, internodi medii, foglia piccola, allungata, 5 lobata, sottile, sotto
e sopra glabra, verde vivo, grappolo cilindrico, acini densi, quasi compressi, ro-
tondi, fiocine dura, quasi senza pruina, polpa croccante, con sapore gradevolis-
simo benché non profumato. — Vuole buone esposizioni e terreni non troppo
tenaci. È avvezzo alla potatura lunga nel Canavesano; noi pure lo coltiviamo a
lungo tralcio, con eccellenti risultati. — Coli' appassimento delle uve si ottiene
il famoso Vin Santo di Caluso; noi la coltiviamo come uva da tavola; si conserva
assai bene.
§ 4. Cenni su alcuni vitigni forestieri più rinomati. —
Dobbiamo limitarci molto in queste descrizioni, perchè non è in un
libro dedicato in special modo alla coltura della vite, che si debbono
radunare le descrizioni ampelografiche. Ciò valga a scusarci presso
i lettori.
Pinot noir (Sin. Pinot frane, Noirien, Sauvignon noir, Noirien des riceys). —
Si coltiva nella Borgogna ed è notisimo anche in Italia, ove fu introdotto nei
decorsi anni. — Grappolo compatto, corto, acini mediani, rotondi, serrati, matu-
razione precoce, circa al 15 settembre. Rovasenda dice che bisogna coltivare il
Pinot a speroni, in terreni poco ricchi, e non mai a potatura lunga; il vino ò
squisito, ma tende all'amaro se si raccolgono le uve a maturazione troppo inol-
trata.
Cabernet (Sin. Cabernet, Vidure). — Si coltiva nel Bordolese e specialmente
nelle graves del Médoc. Ve ne sono tre sotto-varietà, petit C, C. frane e C. Sau-
vignon. Quest'ultimo è il più stimato. Differiscono poco una dall'altra; grappoli
conici, acini rotondi, serrati, neri violacei, buccia consistente, ricoperti di pruina
abbondante, sapore dolce; foglie 5 lobate, a seni profondi, color verde carico, a
denti larghi, ottusi. — Vuole terreno siliceo pietroso con poca argilla, esposizione
aerata e soleggiata.
Molti credono erroneamente che il famoso vino di Bordeaux sia fabbricato co^
solo Cabernet; possiamo dire per le prove fatte che quest'uva, se sola, non dà un
gran vino; nel Bordolese si usa infatti mescolare col Cabernet il Merlot, il Malbec
ed il Verdot, nonché i varii Cabernet, perchè si è osservato che solo in questo
modo può ottenersi quel rinomato vino. L'unità di ceppo colà non è guari am-
messa, e si consiglia dai più intelligenti del luogo, di impiantare il vigneto, ad
esempio, con 2j3 di Cabernet Sauvignon ed il rimauente con Merlot, Verdot e
Camernelle in uguali proporzioni (1|9).
Sauvignon (Sin. Surin, Fié, Blanc-fumé, Servoyen, Savagnin, Punechon). — Si
coltiva specialmente nel Bordolese (Gironda), ma anche nella Borgogna ed in altre
regioni francesi. Taluni sostengono che il famoso Riesling è un Sauvignon; Odart
non lo ammette però. — Tralci grigi giallastri, meritalli corti, foglia verde ca-
rica, grandezza mediana, lobi distinti, 3 lobata, dentata, tomentosa abbondante-
AMPELOGRAFIA 797
mente sotto, grappoli serrati, piccoli, acini oblunghi, piccoli, color ambra, dolci,
gradevolissimi. — Vitigno di grandi pregi; esso dà i rinomati vini di Sauterne
e di Chàteau-Iquem. Rovasenda dice che esso riesce perfettamente nelle colline
Saluzzesi, e noi possiamo soggiungere che in Italia ha dato dappertutto ottimi
risultati. Ne raccomandiamo caldamente la diffusione nel nostro paese, per la
produzione dei vini bianchi scelti.
Teinturier (Sin. Tintoria, Tinta francisca, Nerone? Rame noir, Titilla de Rota,
Tinto de Grenade, Rome de Motril, Fcerber). — Si coltiva in Francia, in Italia,
in Spagna, in Portogallo e nei paesi Renani. Si riconosce facilmente per le sue
foglie macchiate di rosso, vario tempo prima della vendemmia, e rosse del tutto
al momento della raccolta. Grappoli rossi, tondeggianti, acini serrati, neri, con
succo rosso-sangue. E una fra le pochissime uve che abbia la materia colorante
non solo nella parte interna della buccia, ma anche distribuita nella polpa. —
Vino mediocrissimo; serve solo per colorare; bisogna usufruttare anche le buccie
facendole macerare in acqua alcoolizzata ed àcidulata con acido tartrico. Anche
le foglie contengono una materia colorante da noi trovata nei 1882 (pag. 217).
Sirah (Sin. Sirac, Siras, S'rane franche). — Si coltiva nelF Hermitage e nella
Còte Ròtie; fu introdotto anche in Italia; in Monferrato riesce bene. — Tralci in
inverno di color grigio speciale, quasi un fondo bruno coperto con velo grigio,
internodi lunghi, nodi violetti, foglie grandi, un po' cotonose sotto, grappoli ci-
lindrici, acini neri, eguali, poco serrati, oblunghi. — Dà vino ottimo, ricco di
alcool e di colore; riesce bene quasi in ogni terreno, specie però nel calcare. Se
ne raccomanda la diffusione.
Gamai (Sin. Gamet). — Molto diffuso in Francia; introdotto con successo in
Italia. Si adatta alla potatura corta ad alberello. — Vi sono molti Gamais; in
generale si riattaccano tutti ad un tipo solo, con grappoli mediani, serrati, quasi
cilindrici, fiocine spessa, nera, acini subrotondi, spesso deformati dalla pressione,
foglie mediane, 3 lobate, a lobi larghi, seni poco profondi, sopra glabre, verde
cariche, sotto pochi peli e color verde poco carico. — Pianta assai fertile, poco
soggetta alle colature; vino rosso ottimo da commercio. Se ne può estendere la
coltivazione in siti elevati alpestri e freddi, nei quali la vigna con altri vizzati
non sarebbe coltivabile: così Rovasenda.
Grenache nero (Sin. Bois jaune, Alicante, Canonao? Girò?). — Si coltiva in
Francia, in Spagna ed in Italia (Sardegna). — Foglia piuttosto 3 lobata che 5 lo-
bata, tralci color gialliccio, grani poco serrati, di un bel colore nero, sapore zuc-
cherato fino. — Vitigno ottimo per fare alberelli; produce molto, resiste alle ma-
lattie e dà vino ricco di alcool e di colore. Noi lo coltiviamo in Monferrato con
grande successo; ne raccomandiamo la diffusione.
Riesling bianco (Sin. Gentil aromatique). — Si coltiva nelle provincie Renane,
nel Trentino e fu introdotto anche in Italia, ma con esito non dappertutto buono,
perchè il suo grappolo serrato è soggetto a marcire. — Legno fino, foglia me-
diana, profondamente lobata, dentatura ottusa, sopra verde cupa, sotto grigio ver-
798 CAPITOLO XXVI
dastra, discretamente pelosa, grappolo non serrato, acini rotondi, verdi giallastri,
punteggiati in bruno, buccia sottile, con sapore speciale che si ripresenta poi nel
vino. — I rinomati vini del Reno, specie il Johannisberg, sono fabbricati con
quest1 uva.
§ 5. Di alcune uve da tavola. — Vi sono uve da tavola le
quali servono anche a fabbricare vino, ma talune fra le migliori non
servono affatto alla vinificazione. Le uve mangerecce debbono avere
buccia spessa e polpa carnosa, poco acquosa cioè croccante: inoltre
i grappoli possibilmente non debbono essere troppo serrati. Descri-
viamone alcune (1).
Chasselas bianchi. — Nei cataloghi dei pepinieristi se ne trovano moltissime
sotto- varietà, con troppi nomi differenti e spesso inutili. Il Chasselas bianco, quello
di Bordeaux e quello di Fontainebleau sono buonissime uve da mensa, precoci, a
buccia sottile ma che non impedisce la conservazione dell' uva per molto tempo.
— Il Chasselas moscato è un vero Chasselas bianco ed è pure un vero Moscato,
ma più fino e gentile; acini poco serrati, abbastanza grossi: non è molto fertile.
Quello di Fontainebleau ha grappolo mediano o grosso, acini rotondi, poco serrati,
di color bianco giallo: rende molto. Quello detto Cioutat si riconosce facilmente
per le sue foglie frastagliate; uva non molto sapida.
Chasselas rosati. — Quello detto fendant doux o Tokai dei giardini, ha acini
rotondi color rosa chiaro: è molto fertile e si conserva bene: matura in ottobre.
— Quello detto di Montauban ha grappoli grossi, sapore fino, si serban bene,
maturano in settembre. Quello detto di Nég?*epont ha color rosa carico, acini
rotondi, sapore spiccato ottimo, matura in principio di settembre. Oltre a molti
altri C. rosati, vi ha quello detto grossissimo, perchè ha grappoli voluminosi,
acini grossi sferici; è molto fertile.
Moscato bianco. — Uva notissima e che si coltiva dovunque specialmente per
far vino. LT accenniamo solo per far noto che ve ne ha una sola qualità, e che
il moscato di Siracusa, quello di Asti e Strevi, quello di Ciambava, quello di
Frontignan ecc. ecc. è tutt'uno. Il Rovasenda, che ha potuto fare studii di con-
fronto, lo attesta.
Moscatellone bianco. (Sin. Zibibbo in Sicilia, Saramanna in Toscana, Muscat
d'Alexandrie in Francia). — Foglie per lo più 5 lobate, ma talvolta 3 lobate:
acini ovoidi, grossi, poco serrati, grappoli voluminosi, vitigno fertile, vuole la
spalliera. Ottima uva profumata; in Francia si usa spuntarne i grappoli (v. pag. 504).
(1) Chi desiderasse acquistare barbatelle di buone uve da tavola deve rivolgersi
al sig. Giuseppe Ruatta a Verzuolo (Saluzzo) che può fornirle delle rinomate col-
lezioni del Rovasenda.
AMPELOGRAFIA 799
Luglienga. (Sin. Bona-in-ca nel Trentino). — Uva notissima, acini ovali, car-
nosi, con sapor semplice ma delicatissimo, rinomata per la sua precocità. Bisogna
coltivarla ad esposizione calda.
Moscato di Madera. (Sin. M. violetto). — È un eccellente moscato nero-violaceo
per la mensa; taluni lo ritengono il migliore. Rovasenda dice che riesce meglio
in vigneto che a pergolato, perchè se vien dato grande sfogo alla pianta, i suoi
acini rimpiccioliscono.
Muscat Hambourg. — Uva di grande apparenza e squisita per tavola. Grandi
grappoli, acini ovali, neri, profumati.
Occhio di pernice. — Ricercato per la mensa: si coltiva in Piemonte ed in To-
scana, ha sapore moscato, acini belli, rossi, croccanti.
Pansé precoce. (Sin. P. Sicilien). — I Francesi chiamano generalmente pansé
le uve ad acini grossi, ovali, giallognoli; questa è abbastanza precoce, con polpa
tenera sugosa ed è, a detta del Rovasenda, una delle migliori per la mensa.
Paradisa bianca. — Coltivata nel Bolognese. Ottima per la tavola; si conserva
bene fino all'inverno. Acini bianchi, o meglio dorati.
Gros Damas Violet. (Sin. Gros Maroc, Gros Ribier? Damaschener dei Tedeschi).
— Coltivata nella Francia Meridionale; aspetto bellissimo, acini grossi, ovoidali,
poco serrati. Vuole esposizioni calde perchè l'uva maturi bene. È vitigno fertile.
Honigler blanc (Sin. Mezes di Ungheria, Bela Okrugla Ranka, cioè bianco ro-
tondo precoce). — Rovasenda dice che questo vitigno è da consigliarsi per la
sua precocità e fertilità; riesce bene costantemente nelle colline del Saluzzese.
Uva bianca da tavola.
Morillon d' Espagne. — Non è accertato che venga dalla Spagna; coltivato in
Piemonte con buon esito. Pare una grossa luglienga, matura più tardi: è una
fra le migliori uve bianche da tavola.
Bicane bianca (Sin. Pansé jaune, Occhivi). — Uva bianca da tavola di primis-
simo ordine; acini bianco dorati, grossi; di aspetto assai elegante. — Il vitigno
però vuole terreno fertile. Matura a mezzo settembre.
§ 6. Le viti americane. — (Veggasi il Cap. XXXI, ove sono
diffusamente studiate quelle, fra le V. americane, che sin'ora meglio
resistono alla fìllosseronosi).
CAPILOLO XXVII
Malattie della Vite,
1. Spiegazioni — § 2. L'aborto dei fiori o colatura — § 3. La sterilità —
§ 4. La càscola o caduta dei frutti — § 5. La scottatura degli acini — § 6. Il
marciume dell'uva — § 7. La melata o manna — § 8. La clorosi — § 9. La
rogna o malattia dei tubercoli — § 10. La cancrena o seccume — § 11. Il
bastardume.
§ 1. Spiegazioni. — Dividiamo le malattie della vite in tre
grandi classi; quelle prodotte dalle condizioni speciali di clima e
di terreno in cui vive la pianta, quelle prodotte da insetti, e quelle
causate da crittogame.
Le malattie della prima classe si potrebbero chiamare infermità
le altre lesioni, e crediamo che esse abbraccino tutte quelle altera-
zioni intrinseche ed estrinseche, le quali costituiscono la nosologia
della vite.
In questo capitolo studieremo quindi le infermità principali cui la
nostra preziosa pianta va soggetta, e come logica conseguenza fa-
remo tosto seguire altro capitolo sulle « avversità atmosferiche » le
quali sono così spesso la causa di quelle. Diremo poi degli insetti
dannosi alle viti (Cap. XXVIII), infine ci occuperemo di alcune fra
le più temibili crittogame (Cap. XXIX).
Le malattie della vite dovute alla influenza del clima o del suolo
sono essenzialmente le seguenti:
1°) L'aborto dei fiori o colatura, 2°) la sterilità, 3°) la càscola,
4°) la scottatura degli acini, 5°) il marciume dell'uva, 6°) la melata.
MALATTIE DELLA VITE 801
7°) la clorosi, 8°) la rogna, 9°) la cancrena o seccume, 10)° il ba-
stardume.
§ 2. L'aborto dei fiori o colatura. — È questa una fra le
più gravi malattie della vite, cui essa va soggetta in primavera: ac-
cade allora che dopo la fioritura non si mostrano i piccoli acini, in-
vece il grappolo s'allunga in viticcio o capreolo (1), per cui si dice
che il fiore ha abortito, il frutto non ha attecchito, è colato (fran-
cesismo venuto da coulure). I danni che arreca la colatura in tutta
Italia, dalla Sicilia al Piemonte, sono annualmente gravissimi, perchè
è ingente la quantità d' uva che per essa si perde. Ciò accade in
iscala tanto più vasta quanto più le viti crescono in terreni pingui
e piuttosto umidi per natura, specialmente poi se V autunno e l'in-
verno furono tali da fornire all' arbusto una soverchia quantità
d'umore, e se piovve molto massime con tempo freddo in prima-
vera. Allora tutte le viti giovani, rigogliose e potate corte, vanno
soggette all'aborto, perchè gli organi sessuali non possono acquistare
quello sviluppo che loro è necessario. Nel Brindisino l'aborto arreca
gravissimi danni, perchè si succide la vite (pag. 489); in Sicilia (per
esempio Mascali) si ha, in certi terreni e con piante vigorose, molta
colatura {scurritina) se si lascian pochi cornetti o spalle, perchè al-
lora v'ha troppo succo, ed i fiori rimangono come affogati.
Fra tutte le pratiche suggerite per impedire la colatura, la mi-
gliore è certamente il salasso della vite in maggio, prima della
fioritura. Il salasso è il taglio delle punte dei tralci legnosi, da cui
sorgono i getti portanti uva, e sua mercè la vite si libera dall'eccesso
di umore acquoso. Si esporta solo la punta del tralcio, per circa un
centimetro, operando quando le gemme sono tutte sbucciate. Se l'u-
mido è abbondante si salassa di nuovo, riaprendo la ferita, locchè
si deve fare circa ogni 4 o cinque giorni. L'operazione si può ripe-
tere quattro o cinque volte, e spesso accade che si veda la necessità
di ripeterla anche otto volte, cioè fino oltre alla metà di giugno. Non
si tema però: se ne avranno sempre reali vantaggi, purché però
la pianta richieda veramente, essendo pletorica, quei tagli. Si
(1) Si ritiene che quando spunta un viticcio (o grappolo abortito), per quanto
il germoglio si allunghi, non porta più grappoli al disopra del viticcio stesso.
Questo aborto può anche verificarsi per difetto di succo alimentatore, ma più
spesso accade per un eccesso di succo acquoso.
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 52
802 CAPITOLO XXVII
noti poi che quando i tralci hanno già le foglie, il salasso giova a
provocare una perdita di umore di notte tempo, se non di giorno;
intanto ciò influisce sempre assai a prevenire 1' aborto. Il salasso si
fa col forbicione, ed è operazione quanto mai spiccia: abbiamo del
resto constatato che la spesa occorrente è compensata ad usura dal-
l'aumento grande che verificasi per certo nel raccolto dell'uva.
È superfluo notare che se la primavera trascorre asciutta, non
occorre salasso, massime con viti vecchie e non molto rigogliose;
anzi allora il salasso sarebbe nocivo assai.
Altro mezzo per prevenire la colatura è Yincisione anulare dei
tralci, per cui il succo affluendo con minor impeto sui grappoli na-
scenti, si elabora alquanto, e non fa abortire i fiori. Questo taglio
circolare si fa sulla corteccia andando fino all' alburno {che però
non si deve intaccare) e precisamente alla base dei tralci frutticosi
più robusti, operando prima della fìoratura, come si fa nel Lazio. Si
apre per questo fine un coltello, ma solo tanto quanto basti perchè
tra la lama ed il manico possa essere contenuto in tutto il suo spes-
sore il tralcio che si vuol incidere. Quando il detto tralcio è così
collocato, l'uomo che tiene il coltello colla destra, gli imprime un
moto circolare attorno al tralcio praticando l'incisione.
È però molto più spiccio incidere le viti mediante una apposita
tenaglia, a due lame taglienti nel mezzo, e con una molla da seca-
tore quale è disegnata nella fig. 313: con essa si fa una incisione
Fig. 313.
anulare della larghezza di 4 ad 8 millimetri, secondochè il ramo è
più o meno grosso.
Che l' incisione impedisca in parte la scomparsa dei grappoli, lo
dimostra la seguente esperienza da noi fatta al podere viticolo del
Cardello: scelte varie piante di viti vecchie e giovani nelle identiche
MALATTIE DELLA VITE 803
condizioni le dividemmo in due categorie: le incise e le non incise.
Prima di praticare questo taglio anulare contammo i grappoli; li
contammo di nuovo 40 giorni dopo la incisione, ed eccone i risultati:
Piante vecchie non incise . . . grappoli 150
Dopo 40 giorni » 54
Perdita grappoli 96
Piante vecchie incise .... grappoli 125
Dopo 40 giorni » 122
Perdita grappoli 3
Piante giovani non incise . . . grappoli 116
Dopo 40 giorni » 80
Perdita grappoli 36
Piante giovani incise .... grappoli 120
Dopo 40 giorni » 115
Perdita grappoli 5
Anche il sig. De Tarrieux in Francia, a Saint-Bonnet, ha fatto
esperienze decisive sull' argomento, e con tanto esito, sia riguardo
alla quantità che alla qualità del prodotto, che egli da quarantanni
suol incidere le sue viti. Egli però non vuole che si faccia l'operazione
né prima né dopo la fioritura, ma quando questa è al suo culmine,
quando cioè il vigneto è in « piena fioritura » come egli si esprime (1):
facendola prima l'uva maturerebbe circa 10 giorni prima del con-
sueto, facendola dopo l'incisione non gioverebbe più a nulla contro la
colatura. Egli adopra la tenaglia fìg. 313, ma con moltissima pre-
cauzione, poiché se si intacca l'alburno, le foglie si fanno rossiccie,
cadono ed il ramo si essica; inoltre egli procura di fare l'anello com-
pleto, perchè il più piccolo tratto di corteccia non incisa rende inu-
tile l'operazione, lasciando quasi libero il movimento dei succhi.
Un lavorante può incidere in una giornata 30 are di vigneto spe-
cializzato: l'incisione costa quindi assai poco, ma in compenso arreca
grandi vantaggi.
(1) Comunicazione alla Società degli agricoltori di Francia — 1877.
804 CAPITOLO XXVII
Non ostante questa rapidità di esecuzione, noi riteniamo che al-
l'incisione anulare debba preferirsi il salasso sovra descritto, perchè
più efficace e perchè assolutamente non pericoloso.
Contro l'aborto ricorderemo ancora il metodo ideato dal Vannuc-
cini (pag. 673) e quello del sig. Farina di Pontecurone nel Torto-
nese, consistente nel ferire le ceppaie sotto l'impalcatura e fuori
terra, con un coltello a punta, in guisa da provocare una perdita
di umore. A tal'uopo crediamo che gioverebbe anche la incisione longi-
tudinale, che si pratica talvolta per far crescere il diametro dei tronchi.
Noteremo per ultimo che se i fiori sono bene esposti al calore ed alla
luce solare, è difficile abortiscano; lo abbiamo esperimentato diretta-
mente sulla malvasia nera, cimandone i germogli prima della fioritura:
con ciò impedimmo un soverchio sviluppo fogliaceo ed una fìtta ombra,
ed i fiori atttecchirono assai meglio che non in condizioni usuali.
§ 3. La sterilità. — La sterilità delle viti può provenire da
varie cause che abbiamo enumerato a pag. 145, 188 e 189; se gli
stami ad esempio sono più corti dell'ovario, spesso non vi ha fe-
condazione, onde la pianta non dà uva; altre cause poi pos-
sono impedire la fecondazione stessa, inceppando il movimento ed il
trasporto dei granuli pollinici (p. 144); infine abbiamo visto a pag. 191
che è sempre a preferirsi rincrociamento dei pollini delle varie piante,
perchè allora la fecondazione è sicura ed efficace, come è efficace in
sommo grado la fecondazione mercè il polline dei soggetti maschii.
.0. sil.
Fi- 314.
Ma come favorire questo incrociamento ed impedire la sterilità? In
Francia venne proposta ed esperimentata con buon esito la feconda-
zione artificiale coll'arnese disegnato nella fig. 314. Esso consiste in
un grosso fiocco di lana attaccato ad un bastoncino a guisa di un
MALATTIE DELLA VITE 805
aspersorio: quando le antere si aprono, si passa questo pennello sui
fiori operando con leggerezza; così si impregna di polline, il quale,
mercè il movimento di va e vieni impresso al pennello stesso, si
porta a contatto degli stimmi, penetra così nell'ovario e la feconda-
zione non può fallire (pag. 142). Il distinto sig. Carrière (1) ac-
cenna a risultati « magnifici » ottenuti con questo metodo di fecon-
dazione artificiale sul Chasselas Napoléon, spesso sterile: sulla stessa
pianta si osservò che i grappoli così fecondati avevano acini grossi
e compatti, mentre quelli non fecondati artificialmente, ma solo na-
turalmente mostravano pochissimi acini e piccoli.
§ 4. La càscola o caduta dei frutti. — Accade spesso che
i fiori attecchiscono e danno il piccolo acino; ma questo poi non al-
lega, cioè cade, e volgarmente si dice allora che i grappoli si sgra-
nano. Anche questa malattia arreca talvolta gravissimi danni; ciò
accade specialmente quando il mese di giugno trascorre umido o
freddo, locchè pur troppo non si verifica tanto raramente: l'eccesso
di succo acquoso è certo la causa di tale caduta (v. pag. 267).
Il malanno si può prevenire con varii mezzi: il più efficace è senza
dubbio il salasso testé descritto. Ma anche una buona solforazione,
data o all'atto della fioritura (2) o poco dopo, giova all'allegamento
dei frutti; è questo un fatto non spiegato, rna bene accertato in pratica.
La cimatura giova altresì allo stesso intento, e giova pure il tener il
suolo ben prosciugato e mondo dalle male erbe. Noi avemmo anche ot-
timi risultati dalla scalzatura delle viti: a tal'uopo in aprile o maggio si
apre come un canaletto, lungo il filare e sotto i pampini, profondo circa
una spanna e largo tre o quattro: allora essendo maggiore il riflesso
del calore del suolo verso i grappoli, questi tengono meglio gli acini.
§ 5. La scottatura degli acini. — In giugno, e più ancora
in luglio ed agosto, accade talvolta che scoprendosi d' un tratto i
grappoli nelle ore più calde, molti acini rimangono come appassiti
(v. p. 265) benché verdi, e non proseguono oltre nel loro sviluppo co-
sicché è ben raro che riescano a maturità. Lo stesso fenomeno accade
toccando le uve nelle ore più calde, ad esempio per insolforarle. Per
evitare la scottatura si deve adunque sfogliare al mattino dal lato
(1) La Vigne, pag. 245.
(2) Di ciò parleremo in disteso fra poco.
806 CAPITOLO XXVII
del filare non esposto al sole, ed a sera dall' altro lato; non mai
nelle ore di grande calor solare, né mai tutto d' un tratto: sarebbe
anzi miglior consiglio quello di farlo soltanto, come già consigliammo,
dieci o quindici giorni prima della vendemmia. Le foglie siano pure
al sole cocente e vivo; ma i grappoli devono maturare all'ombra e
adagio. In quanto alla solforazione, si deve operare, nel cuor dell'e-
state, solo al mattino.
§ 6. Il marciume dell' uva. — Le uve colte dal marciume
imputridiscono prima di passare alla maturazione completa, e ciò si
verifica tanto nell'Italia Meridionale ed in Sicilia, quanto nel Setten-
trione: il marciume non solo fa scemare la quantità del raccolto, ma ne
deteriora la qualità, poiché dalle uve così alterate si ottengono vini sca-
denti, soggetti assai facilmente a fermentazioni di cattiva natura. Questo
malanno può provenire o da soverchia pinguezza del terreno o da in-
setti. Nel primo caso, che noi verificammo più volte, si ha un acino il
cui succo è soverchiamente ricco di albuminoidi provenienti dalle co-
piose letaminazioni del vigneto, ed allora, massime se l'autunno tra-
scorre piovoso, gli acini stessi marciscono e bisogna affrettarsi a
vendemmiare. Nel secondo caso si tratta di insetti (forse le tortrici)
che vivono allo stato di larva negli acini, e ne perforano poi la
buccia per uscirne perfetti: dopo tale perforazione gli acini marci-
scono. Appoggiandosi al fatto che nelle uve esposte alla polvere
delle strade rotabili questi insetti non recano danno agli acini, mentre
nei vitigni che ne distano producono molto marciume, si consigliò
l'impolveramento, ripetuto varie volte, dei/grappoli in estate; oppure
l'uso di cenere vegetale mescolata con zolfo nelle solforazioni ordi-
narie. Il prof. G. Inzenga crede, non a torto, che la cenere mercè
la rugiada andando in deliquescenza, formi a poco a poco una so-
luzione alcalina di potassa scorrevole per V intero grappolo e che,
essendo caustica, sia micidiale per le larve suddette.
§ 7. La melata o manna. — Abbiamo già accennato a pa-
gina 268 alle cause della così detta melata, che è una alterazione
nei tessuti delle foglie della vite la quale si manifesta mediante macchie
rosso-nerastre, che riscontransi anche sui giovani germogli. Ignoriamo
perchè in Toscana ed in Liguria si chiami con tal nome questa altera-
zione dei tessuti che non ha nulla a che fare colla vera melata; essa in-
fatti giustamente da alcuni in Toscana è invece detta braciola. La vera
MALATTIE DELLA VITE 807
melata (manna o melume) è invece la emissione d'una sostanza scirop-
posa zuccherina dalla pagina superiore delle foglie e dai rami gio-
vani. Della brùciola parleremo al capitolo seguente studiando le av-
versità atmosferiche; qui diremo della vera melata.
La vera melata adunque si presenta di solito in estate, e la so-
stanza sciropposa di cui parlammo or' ora, impatina come una ver-
nice i giovani rami e le foglie (massime la loro pagina superiore)
senza risparmiare i fiori ed i frutti (1). Questa sostanza contiene
zucchero, mannite e sostanze analoghe ai glucosidi; la sua composi-
zione varia secondo le piante e non ci consta che siano stati fatti
studii diretti sulle viti, li Prof. Comes accenna al fatto che « sugli
organi coperti di melata trovansi concomitanti (sebbene non sempre)
tanto alcuni insetti (Cocciniglie, Afidi) designati dai contadini col
nome di pidocchi, quanto una particolare crittogama (fumago va-
gansj denominata fumaggine, nero, morfea, ecc. Se l'abituale con-
sociazione degl'insetti e della fumaggine alla melata ha fatto credere
talora ad un nesso di causa ad effetto tra quegli esseri e la melata,
tuttavolta non mancano dei fatti, i quali distruggono tale pretesa
correlazione. Ed invero, hanvi dei casi, in cui, mentre la melata in
larga copia si ravvisa sulle piante, non si può constatare nel pari
tempo la presenza di tali esseri; di più foglie con melata alcune hanno
insetti, altre ne mancano; sullo stesso organo con melata in alcuni
punti trovansi gl'insetti, in altri no. Lo stesso si ripeta per la fu-
maggine ».
Il fatto è che quegli insetti sono ghiotti del trasudamento zuc-
cherino, e perciò vi si recano numerosi a succhiarlo; nello stesso
tempo pungono la pianta per facilitarne l'emissione, la pianta perciò
intristisce ed ecco che la fumaggine trova a sua volta condizioni
più propizie per svilupparsi e moltiplicarsi.
Il Prof Comes ritiene che la causa principale della melata risieda
quindi, non nella presenza di insetti o di crittogame, ma nella diffe-
renza fra la temperatura del terreno e quella dell'aria sovra-
stante. « Se a misura, dice egli, che la temperatura si abbassa nel ter-
reno, viene a diminuire il potere assorbente delle radici, ed a scemare,
per conseguenza, la quantità di acqua che dovrebbe arrivare nelle
foglie; e se, a misura che la temperatura dell' aria s' innalza, viene
(1) V. la recentissima nota del Prof. 0. Comes « Sulla melata o manna e sul
modo di combatterla » (Marzo 1885,, Portici).
808 CAPITOLO XXVII
ad aumentarsi la traspirazione, ossia 1' emissione del vapore acqueo
dai tessuti della foglia e degli organi teneri, poiché in questi organi,
in tali circostanze, la resa in acqua risulta maggiore dell' entrata,
deve per necessità aver luogo in essi una concentrazione negli u-
mori. Successa tale concentrazione, è molto probabile, che sotto la
sferza dei cocenti raggi del sole, in una estate molto calda e secca,
il glucosio formatosi nelle foglie a spese dell' amido, lungi dell'emi-
grare dalle foglie, quale componente della linfa elaborata, si modi-
fichi nella sua composizione, e si riversi alla superficie degli organi
erbacei sotto forma di umore siropposo ».
Per scongiurare i danni del melarne il Doti. Comes consiglia special-
mente i lavori profondi del terreno e la caccia alle cattive erbe, per
avere il terreno stesso aerato e nudo di erbe. Che se il male avesse
colpito con intensità un vigneto, rendendo stanche le piante, allora
sarebbe necessaria nell'autunno, dopo la vendemmia, una concima-
zione copiosa e razionale, escludendo lo stallatico, come ben consiglia
lo studioso autore.
§ 8. La clorosi. — Chiamiamo clorosi l'ingiallimento delle
foglie prodotto non già da crittogame bensì dalle condizioni speciali
del terreno su cui vegeta la vite. A pag. 369 abbiamo accennato a
questa infermità, che colpisce tanto la vite europea quanto quella
americana, e 1. abbiamo detto che in generale la si attribuisce alla
deficienza di ferro nel terreno, a cagione di che non può formarsi
il verde delle foglie o clorofilla (pag. 136): abbiamo pure indicato
come deve adoperarsi a tal uopo il solfato di ferro. Dobbiamo tut-
tavia qui accennare che il Prof. G. Foèx, il quale fece studii spe-
ciali sulle cause della clorosi nelle viti americane e specialmente nel-
THerbemont (1) non crede che questa malattia sia dovuta alla man-
canza del ferro necessario alla vigna. L'analisi gli avrebbe dimostrato
che le ceneri di viti venute in terre rosse non contengono quantità
di ferro più considerevoli eli quelle del medesimo vitigno venuto su
altro terreno. Il perossido di ferro piuttosto che un' azione chimica
avrebbe secondo il Foèx, nel color rosso che dà al suolo, un'influenza
considerevole sulla temperatura di quest'ultimo.
(1) Mémoire sur les càuse de la clorose de 1' Herbemont (Revue des sciences
naturelles) Montpellier.
MALATTIE DELLA VITE
809
La riescita dell1 Herbemont in terre rosse sarebbe dunque dovuta
alle loro proprietà assorbenti rispetto ai raggi calorifici.
Avvertiamo inoltre che la clorosi può anche provenire da soverchia
umidità del suolo, come ci è spesso accaduto di notare; in questo
caso è rimedio sicuro la fognatura o drenaggio (pag. 371).
§ 9. La rogna o malattia dei tubercoli. — La rogna dei
vitigni o malattia dei tubercoli non è del tutto sconosciuta in Italia (1);
il tronco ed i rami, non mai però quelli dell'annata, offrono speciali
escrescenze a forma di bitorzoli (fìg. 316) la corteccia è rotta a
tratti, e quando è caduta il colore dei tubercoli passa dal giallo-
bruno ad una tinta quasi nera. Allora il tessuto legnoso dei tuber-
coli si sfibra e si altera del tutto comunicando poi il male all'interno
del fusto (fìg. 315). Le viti affette dalla rogna muoiono presto, ta-
lora in due anni. Secondo ogni probabilità la causa di questa alte-
razione nel tessuto corticale sarebbe a ricercarsi nelle brine tardive
Kisr 315 e 316.
primaverili e nei rapidi disgeli, che offendono e disorganizzano in
alcuni punti il tessuto cellulare o cambio destinato a formare il legno
dell'annata, e che sta fra il legno e la corteccia; infatti il malanno
(I) V. Giornale Vinicolo Italiano, nota di A. F. Negri (1880, pag. 126). In
Germania è notissima, secondo R. Goethe, da cui togliamo le due fìg. 315 e 316,
nonché secondo Thumen che 1' anno scorso pubblicava una nota (Ber Pilzgrind
der Weinreben) sulla rogna.
810
CAPITOLO XXVII
si rivela in modo quasi esclusivo nei vigneti esposti a tali geli, e
infierisce poi con molta veemenza negli anni in cui le brine tardive
danneggiano assai le viti: — si consiglia il taglio dei tubercoli, e
la successiva spalmatura delle ferite con un mastice da innesto; ma
in certe località basse ed umide, se questa malattia si sviluppa con
veemenza, bisogna abbandonare la coltura della vite, a meno che
non si riesca a risanare quei terreni colla fognatura.
§ 10. La cancrena o seccume. — Questa infermità della vite
è nota in Italia (1), in Spagna e nel Portogallo (2), nonché in altri
paesi vitiferi. Ecco come essa si manifesta: in estate, nei momenti
dei forti calori agostani, le foglie delle viti colpite incominciano ad
ingiallire, indi si fanno rossiccie, i contorni si arricciano, quasi fos-
Fig. 317.
sero scottati con ferro rovente, e poco stante cadono. Non è infre-
quente il caso, nota il Prof. Viglietto, che una vite in breve tempo
(1) Bullettino dell'Associazione Agraria Friulana, studio del Dott. Viglietto
n. 5 — 1885.
(2) Los vinos y los aceites — Madrid (n. 2, 1883) — e Gaceta dos Labradores
— Lisboa (1883).
MALATTIE DELLA VITE
811
rimanga coi grappoli semi-maturi totalmente spoglia dei suoi organi,
la qual cosa è accaduto a noi pure di osservare. Noteremo però che
spesso già in primavera osservansi le viti affette da cancrena, cac-
ciare germogli poco vigorosi e di un verde poco intenso; talvolta
questi germogli ingialliscono, si atrofizzano e cadono, tal' altra con-
tinuano a vegetare, ma la loro uva non resiste, e cade essa pure.
Osservando bene un germoglio colpito dal seccume, si vedono ta-
lune macchie cancrenose presso alle gemme, ossia presso alla inser-
zione del picciuolo della foglia (fig. 317), le quali macchie vanno
quasi sempre approfondendosi sino al midollo. Tagliando longitudi-
nalmente un ramo infetto, si osserva nella parte superiore, che ap-
pare sana, come certi vasi molto vicini all' astuccio midollare, sono
più neri del tessuto vascolare rimanente. Se con una lamina bene
affilata si continua a tagliare il ramo per seguire la direzione di
quei vasi, si nota che vanno a terminare all' epidermide del ramo
nei punti 2 2 fig. 318, ove trovansi i nodi e ove nascono i pedicelli
Fig. 318.
delle foglie. Come già dicevamo è in questi punti che si incomincia
ad osservare la cancrena, la quale guasta così, a poco a poco, il tes-
suto vascolare, in guisa che i vasi paiono iniettati di un liquido color
caffè.
La malattia prosegue generalmente dalle parti alte alle parti basse
812
CAPITOLO XXVII
della pianta, cosicché le radici possono essere sanissime e la parte
esterna ammalata; ma la cancrena invade più tardi le radici stesse
ed allora la pianta muore. È facile all'inizio del male riconoscere la
cancrena esaminando il legno della vite presso i tagli delle potature;
a tal uopo si debbono praticare i tagli stessi sul tronco, come è in-
dicato nella fig. 319 e 320: se la vite è sana i tagli vecchi si pre-
Fig. 319 e 320.
sentano perfettamente cicatrizzati (fig. 319), se è ammalata si mo-
strano come indica la fig. 320, e tanto più affetti da seccume e
marciume quanto più il taglio della potatura è antico.
Questa osservazione, unita ad altre analoghe, hanno indotto nella
convinzione che la causa della cancrena risieda nei tagli male ese-
guiti, per cui le acque piovane, infiltrandosi nel legno, ne provocano
il marcimento. Sono specialmente, anzi quasi esclusivamente, le viti
vecchie che ne sono colpite, e questo prova indirettamente l'influenza
della mala potatura, d'onde il consiglio vecchio, ma pure molto tra-
sandato, di fare sempre quando si pota, tagli netti (pag. 486).
§ 11. Il bastardume. — Con questo nome si suole designare
una infermità della vite per la quale essa cessa dal dar frutti, pur
continuando a vegetare; oppure porta grappoli i quali non maturano,
mostrano gli acini più piccoli del consueto, od anche mostrano acini
grossi ed acini piccoli sullo stesso grappolo, i grossi poco maturi, i
piccoli acerbi del tutto e con colori svariati dal verdognolo al ros-
sastro se le uve sono colorate. La pianta ha un aspetto rigoglioso,
ma è infeconda del tutto.
I casi di bastardume sono abbastanza comuni in tutti i vigneti,
MALATTIE DELLA VITE 813
e noi ne abbiamo osservati nelle differenti regioni viticole d' Italia,
tanto nel Nord che nel Sud, in terreni differenti e svariati, in ogni
esposizione ed in ogni sistema di educazione. Qualche vecchio viti-
cultore ci ha confermato che piantando una talea di vite bastarda
se ne ha sicuramente una pianta essa pure bastarda; in ciò non vi
ha nulla di strano. Ma come spiegare la degenerazione delle piante
fertili, le quali imbastardiscono? Se fosse il sistema di coltura, perchè
il male non si estenderebbe all'intero vigneto invece di colpire qua
e là le piante saltuariamente? Tuttavia riflettendo che non tutte le
ceppaie d' uno stesso vigneto hanno un egual grado di vigorìa, e
perciò non tutte vogliono uguali trattamenti di potatura secca e verde,
mentre il viticultore tutte le tratta nell'istesso modo, o per ignoranza
o per acquistare tempo, si sarebbe indotti a cercare appunto in
questi fatti la causa del bastardume.
La potatura secca deve variare a seconda delle condizioni spe-
ciali delle singole piante, ed è qui che si vede l'abilità del potatore;
lo stesso dicasi della potatura verde, su di che abbiamo a lungo di-
scusso nei Capitoli XIII e XIV. Trattando opportunamente le piante
bastarde noi crediamo che si possa mutarne il loro vigore in fe-
condità.
§ 12. Inoculazione o umettamento di liquidi entro i tes-
suti della vite. — L'idea di preservare la vite, ed altre piante,
dalle malattie mercè la inoculazione di speciali liquidi è assai vecchia;
gli antichi autori latini ne fanno cenno, e più tardi qualcuno credette
persino di poter modificare il sapore dei frutti con tale sistema! Ul-
timamente venne citato un libro (1) nel quale si consiglia questo
procedimento: si fa un foro nel tronco dell'albero con un succhiello
e poscia si riempie il foro con scamonea o colloquintida o rabarbaro,
e simili sostanze, ciò basterà perchè i frutti riescano purgativi...
Nel 1860 si parlò di injettare lo zolfo in polvere... (?) entro il tronco»
delle viti, operando in marzo e mercè un foro fatto con un suc-
chiello da falegname; le prove fatte pare abbiano dato buoni risul-
tati (2) ma taluno attribuisce giustamente questo successo alle fa-
vorevoli condizioni dell'annata, che fu secchissima e quindi poco pro-
pizia allo sviluppo dell'oidio (volg. crittogama). Nel 1875 i giornali
(1) De Art. Magnet. — Kirker, Parigi 1719, Capo IV pag. 224
(2) Il Coltivatore anno IX pag. 615.
814 CAPITOLO XXVII
agrari (1) narrarono pure degli esperimenti riusciti bene per cura di
un viticultore palermitano, il quale inoculò lo zolfo entro i tessuti
della vite ! Pochi anni or sono (2) nella Revue horticole si leggeva
che una commissione di agronomi, la quale visitava la Turenna, fece
la conoscenza di un viticultore che da molto tempo vaccinava (?)
le sue viti per preservarle dalla crittogama, cosa che non gli riesci
mai ugualmente bene solforandole coi metodi usuali: a tal uopo egli,
in un foro fatto al basso del ceppo, introduceva una discreta quan-
tità di granelli d* uva molto crittogamati, indi chiudeva il foro e la
vaccinazione era fatta. Credat Judaeus Apelta, ego non, deve
aver detto la prefata Commissione!
Ma veniamo a tentativi più serii. Nel 1880 l' illustre viticultore
viennese Barone Di Babo, direttore della rinomata Scuola viti-
cola di Klosterneuburg , propose di incettare una soluzione di
solfato di rame nel legno dei ceppi fìllosserati, allo scopo di farla
giungere, per tutti i vasi delle radici, sino alle più piccole radichette;
con questa injezione la vite deve bensì immancabilmente perire, ma con
essa perirà pure la fillossera, per difetto di alimento; onde dato un
vigneto di recente invaso, si sarà sicuri di distruggere completamente
la fillossera, impedendo che il male si allarghi. Ognuno vede quanta
importanza avrebbe un risultato simile per limitare e soffocare le
invasioni, senza dover ricorrere allo sradicamento e ad altre costose
operazioni d'esito incertissimo. Senonchè il Prof. Babo fece le sue
prove in laboratorio, su una vite estratta di fresco dal terreno, che
in pochi minuti e colla sola pressione di una atmosfera potè imbi-
bire di liquido così da farlo sgocciolare dalle estreme radichette;
mentre le contro prove fatte dal compianto Dr. Macagno su una
vite coltivata in vaso, colla pressione di 3 atmosfere durante due
ore, diedero risultati negativi: l'injezione riesci completa solo quando
egli la sottopose alla pressione di 1 atmosfera e Indurante ben 14
ore consecutive: con questo metodo riuscì ad iniettare una soluzione
intensa di fucsina sino alle più piccole barboline. Concludendo, è
possibile uccidere una vite con questo sistema ed in ogni sua parte,
ma il tempo che si richiede, rende inattuabile il processo.
La soluzione di solfato di rame e quella di solfato di ferro vennero
(1) Il Coltivatore anno XXIII, voi. I. pag. 253.
(2) Conversazioni agrarie di G. Marchese, pag. 133.
MALATTIE DELLA VITE 815
proposte anche dal sig. De La fitte (1) per attossicare il succo della
vite e far perire così le fillossere, rispettando però la pianta: non
pare tuttavia che le esperienze fatte abbiano corrisposto.
Accenneremo infine ad una osservazione fatta dal Prof. Goethe (2)
il quale avendo concimato con sali potassici un melo molto invaso
dai cosidetti pidocchi sanguigni, li vide sparire completamente; il
Prof, Goethe non volle trarre conclusioni precipitate da questo fatto,
ma solo si chiese se il succo, più ricco di potassa, non avesse reso
per caso impossibile la vita di quei pidocchi.
Nulla di positivo può quindi dirsi sin' ora sui vantaggi della ino-
culazione di sostanze antisettiche nei tessuti della vite per preser-
varla dai parassiti.
(1) La Villa e la Fattoria n. 7 — 1883 pag. 97.
(2) Wiener- Obst und Garten Zeitung (1876).
CAPITOLO XXVIII
Avversità atmosferiche.
§ 1. La grandine — § 2. Le brine — § 3. Il gelo — § 4. La manna o bra-
ciola — § 5. Le pioggie, il soverchio calore, le nebbie ed i venti.
§ 1. La grandine. — Abbiamo già studiato a pag. 278 questa
funestissima idrometeora, onde qui poco ci rimane a dire. È triste
dover confessare che non esistono mezzi pratici per impedire che la
gragnuola si formi, o per impedire che colla sua percossa danneggi
le viti: a semplice titolo di curiosità accenneremo ai tentativi fatti
nei paesi che circondano il lago di Ginevra (1) dove, per sottrarre
l'elettricità alle nubi e scaricarle, si popolarono i vigneti zon para-
grandini composti di lunghe pertiche armate di punte metalliche e
munite di fili conduttori; senonchè una abbondante e funesta gran-
dinata dimostrò la insufficienza di questo sistema, ed i paragrandine
scomparvero. Nel 1874 furono riproposti in Italia dal Prof. Gianni
di Pistoia, ma il consiglio rimase lettera morta. Il celebre Arago
propose, a titolo di esperimento, di lanciare verso le nubi tempora-
lesche dei palloni armati di punte metalliche, sempre coli' intento di
scaricare le nubi stesse della loro elettricità, che secondo parecchi
fisici sarebbe la causa principale della gragnuola: Gasparin acca-
rezzò a sua volta l' idea di Arago; non ci consta però che siano
state fatte esperienze al riguardo. Berti- Pichat (2) si domanda perchè
(1). Gasparin — Cours d' Agricolture t. II, pag. 171
(2) Istituzioni di Agric. voi. 5°, pag. 1289.
AVVERSITÀ ATMOSFERICHE 817
mai, dal momento che si sono adottati i ripari diretti contro la brina,
non si adottano anche contro la grandine Perchè non si esperiinentano
ad esempio le tele imbevute in soluzioni di solOp di rame? Senonchè
il Laivley, raccomandandole per le brine, calcola la spesa in L. 570
Tettare, compresa l'ammortizzazione e la mano d'opera annua: come
si vede è una spesa enorme. D' altronde come mettere in pratica
questo sistema dei ripari? La cosa ci pare impossibile, tenuto calcolo
del lungo periodo durante il quale può cadere la gragnuola.
Il rimboschimento dei monti gioverebbe certamente a moderare la
frequenza delle grandinate; infatti è noto che i paesi disboscati sono
oggi assai più soggetti alla funesta idrometeora: il Basso Monferrato
ce ne porge un esempio.
In quanto alle compagnie di Assicurazione, esse generalmente pre-
tendono un premio di 16, 17 o più lire per ogni 100 lire di capi-
tale assicurando, riducibile bensì a seconda dell' entità di questo ca-
pitale, ma che è sempre tanto elevato da meritarsi l'appellativo iro-
nico di « tempesta assicurata »! Ma se d'altra parte quelle Società
riducessero di soverchio il premio, allora avrebbero la certezza di
rimetterci, e non presenterebbero sufficiente garanzia pel viticoltore
oculato. Bisogna dunque guardarsi dalle Società che si accontentano
di premii troppo moderati. Si è anche proposto il pagamento di una
tassa al Governo, il quale risarcirebbe poi i danneggiati; ma ciò sa-
rebbe una ingiustizia, benché in Francia nel bilancio dello Stato vi
sia un fondo di oltre a 2 milioni per soccorrere l'agricoltura in caso
di disastri, fondo che in fin dei conti non è altro che il risultato
d'un aumento d'imposta. Il miglior sistema è perciò quello delle As-
sociazioni mutue fra i viticoltori.
*% Vediamo ora come debbono trattarsi le viti colpite dalla gran-
dine. In tesi generale esse debbono potarsi esportando le parti molto
offese; così si salva il prodotto avvenire serbando per questo qualche
getto basso locato o qualche sperone. Ma questa potatura energica
non si deve fare subito dopo la caduta della grandine; sarà bene
invece di aspettare cinque o sei giorni, acciò la vite, malconcia, possa
invigorirsi alquanto e sopportare i tagli; abbiamo visto a pag. 279
quale abbassamento di temperatura segua sempre alla caduta della
gragnuola, ed in questo periodo non ci pare conveniente toccare le
viti. Si deve poi avere molta cura di solforare le uve colpite par-
zialmente, perchè è un fatto constatato che dopo la percossa della
grandine l'oidio si sviluppa prontamente.
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 53
818 CAPITOLO XXVIII
Questo parlando in generale; volendo scendere ai dettagli diremo
che se la gragnuola pade quando i germogli uviferi sono già svilup-
pati, la potatura doV-rà farsi a speroni di circa due occhi caduno, i
quali ci daranno buoni e fecondi getti per la fruttificazione avvenire:
coloro i quali nel funesto 1884 seguirono in Monferrato questo
metodo di potatura, se ne dichiararono soddisfatti. Bertì-Pichat
nelle sue Istituzioni narra che nel 23 giugno 1868 la grandine de-
vastò le vigne di Clermont-l'Hérault non lasciando che i più grossi
tralci scortecciati e scapezzati. A tanto male un viticultore di quel
dipartimento rimediò in parte potando tutti i tralci ad un sol occhio.
In tal modo ebbe ottimi tralci, da cui ebbe pure uve buone quan-
tunque alquanto acidule.
Il sig. Petit-Lo fitte nella sua monografia sulle viti del Bordolese,
loda il sistema seguito varie volte dal sig. Bouchereau e dal conte di
Kercado, valenti viticultori, che consiste appunto nella potatura e-
nergica a uno o due occhi degli stessi getti uviferi dell'anno in corso,
cioè di quelli che si sarebbero potati nell'inverno successivo.
È adunque saggio partito quello di potare, e chi non lo facesse,
per conservare i pochi grappoli rispettati dalla gragnuola, otterrebbe
poca uva talora anche durante tre anni di seguito.
Se poi la gragnuola avesse a cadere più tardi, cioè nel luglio o
nella prima metà di agosto, sarà pure sempre utile la potatura più
o meno energica secondo la maggiore o minor gravità del male.
Quando infine la grandine cadesse in principio del periodo vege-
tativo, cioè quando le cacciate sono affatto tenere, allora, se il danno
é grave, bisogna sopprimere queste cacciate erbacee, operando con
molta delicatezza col forbicione, per non danneggiare il secondo oc-
chio o contr'occhio, che sta all'ascella della cacciata stessa, e che è
come un provvido bottone di riserva. Soppressa la cacciata, questo
occhio di soccorso si sviluppa prontamente, e se la stagione non è
troppo avanzata, si può sperare di ottenere ancora un certo raccolto.
§ 2. Le brine. — Abbiamo già lungamente studiato la brina
dal lato meteorologico (pag. 282) e come danneggi le viti (pag. 285);
qui dobbiamo esaminare questo grave soggetto dal lato strettamente
viticolo, per vedere se sia possibile impedire la formazione delle brine,
se sia possibile ovviare ai loro danni e come si debbano trattare le
viti danneggiate.
Ecco i mezzi principali per impedire che la brina si formi:
AVVERSITÀ ATMOSFERICHE 819
a) Uno fra i mezzi che se non impedirebbe affatto la formazione
delle brine le renderebbe però rarissime in aprile e maggio (e sono
queste le brinate nocevoli, perchè tardive) quello sarebbe di popo-
lare di boschi le nostre alte montagne. Ma invece da molti anni noi
lavoriamo a disboscare senza pensare ai danni gravissimi che ne
sono la conseguenza, e fra questi non ultima la brina. Tutte le no-
stre valli che scendono dalle Alpi o dagli Appennini hanno quasi an-
nualmente a lamentare brinate tardive che distruggono in un coi te-
neri germogli delle viti, la foglia dei gelsi, con incalcolabile danno
della bachicultura: or bene di codesto si deve incolpare l'inconside-
rato disboscamento delle vette alpine ed appenniniche. Da queste par-
tono quei freddi venti che nelle notti primaverili producono notevoli
abbassamenti di temperatura, come abbiamo detto a suo luogo, ab-
bassamenti che sono affatto fuor di stagione e che le piante non rie-
scono a sopportare essendo spesse volte la causa delle brinate. Se
tali montagne fossero coperte di boschi ciò non avverrebbe.
Anche in Francia si accagionano le tante e sì frequenti brine pri-
maverili al disboscamento, e non andrà molto che il Governo dovrà
preoccuparsene seriamente fissando all'occorrenza dei premii per ogni
nuovo bosco impiantato.
Per l'Italia poi, simili provvedimenti, uniti ad altri che non è qui
il caso accennare, sono ancor più necessarii trattandosi d'un paese
che è per oltre i due terzi montagnoso.
Ma lasciamo questo argomento, che eravamo però in obbligo di
toccare almeno di passaggio, e veniamo a quegli altri mezzi per im-
pedire la formazione delle brine i quali sono in potere dell'agricoltore.
bj II miglior mezzo che siasi sino ad oggi suggerito per impe-
dire la formazione della brina sui teneri germogli delle viti, quello
si è di solforare precocemente la vite in quelle fra le sue parti che
possono soffrire dalle brinate.
Si fu l'intelligente ed appassionato agrofilo Dott. Demetrio Giotti
di Empoli che pel primo pensò di impedire che si formi la brina
sulle giovani messe delle viti ricoprendole d'una sostanza che facesse
ostacolo all'irradiazione notturna. Il Dott. Giotti per tanto si vale da
qualche anno del metodo seguente, di cui egli dicesi contentissimo:
appena apertesi le gemme egli fa dare la prima solfatura e la fa
dare abbondantissima, non già col soffietto bensì col bussolotto. E
per non isprecare troppo zolfo, egli fa un miscuglio di due o tre
parti di cenere stacciata ed una di zolfo. Quantunque in certo qual
820 CAPITOLO XXVIII
modo si ammonticchii, con questo sistema, buona dose della predetta
mistura sulle gemme, pure non si viene a consumare in definitiva
che la quantità di zolfo occorrente per una solforazione ordinaria.
Se per caso poi V acqua dilavasse le parti solfate od il vento fa-
cesse cadere il miscuglio di cui sono ricoperte, dovrebbesi ripetere
tosto l'operazione e ciò quante volte fosse a temersi più o meno una
brinata. Non v'ha dubbio che queste tre o quattro solforature co-
stano qualche cosa, ma ciò è un nonnulla di fronte alla perdita del
prodotto ed allo strazio delle viti.
Abbiamo qui parlato di tre o quattro solforazioni: si badi però che
ne potrebbero occorrere anche di più, perchè il tralcio cresce sempre,
e gli ultimi getti han bisogno di essere coperti siccome quelli che
sono i più teneri.
Se ora prendiamo ad esaminare il sistema Giotii dal lato dei
principii scientifici su cui si fonda, troviamo che esso non urta
contro la teoria di Wells sulla formazione della brina; anzi questa
ne costituisce il fondamento. Ci pare infatti che non sia affatto fuor
di proposito l'ammettere che quella cenere e quello zolfo facciano
l'ufficio di corpi riflettenti i raggi calorifici che tenderebbero a pas-
sare dai germogli negli spazi celesti; per essi dunque verrebbe ad im-
pedirsi quella irradiazione dalla quale hanno origine il gelo prima e
di poi la brina. Ove poi non volesse accettarsi questa spiegazione, si
dovrebbe per lo meno ammettere che la mistura suddetta che sta
sui germogli è atermana, cioè non lascia passare che a stento il
calorico raggiante dei germogli stessi.
Comunque siano le cose, raccomandiamo questo procedimento al-
l'attenzione dei lettori acciò, se non altro, ne facciano dei saggi.
e) Anche con una leggera variante alla tanto raccomandata po-
tatura in due tempi si può impedire che si formi moka brina sulle
gemme del tralcio o dei tralci frutticosi. Ricorderemo che il potare
in due tempi consiste essenzialmente: 1° nel togliere durante il verno,
od al più tardi in febbraio, buona parte del sarmento che ha dato
frutto l'anno prima, lasciando però provvisoriamente molto ricca la
vite; 2° nel togliere poi il rimanente dei tralci lasciati in più ai primi
di aprile od anche più tardi se le viti sono rigogliosissime e se è
pingue il terreno; quando insomma la vite potata piange. — È un
sistema di trattar la vite che si diffonde oggi presso i migliori vi-
ticultori perchè presenta tre rilevanti vantaggi; infatti, colla prima
potagione si viene a ripulire quasi totalmente la vite in una stagione
AVVERSITÀ ATMOSFERICHE 821
in cui non si hanno altri lavori, o ben pochi, generalmente parlando;
— colla seconda si fa piangere la vite con grandissimo vantaggio
della fruttificazione, poiché codesta perdita di umori scema l'afflusso
soverchio del succo verso i grappolini nascenti e previene così in
essi il danno dell'aborto; — infine con questa potatura in due tempi
noi possiamo tenere verticale il tralcio frutticoso sino a che non
siano scomparsi affatto i timori delle brinate, ma nello stesso tempo
non manchiamo, come si disse, di mondare una prima volta la vite
durante il verno, con sensibile economia del lavoro.
A quest'ultimo proposito del tralcio verticale diremo come siasi
osservato che quanto più le gemme sono prossime al suolo, tanto
più sono tartassate dalla brina: quindi il consiglio, dato anche dal
compianto Doti. Guyot, di tenere alto e diritto sia il tralcio che deve
poi distendersi a frutto quanto l'altro destinato a dare lo sperone, le-
gando il tutto al palo di sostegno, o alle canne se nel sistema del
Basso Monferrato. Si è tuttavia fatta una obiezione a questo sistema,
obiezione che, come vedremo, cade di per sé seguendosi il sistema
della potatura in due tempi, che il Guyot però non conosceva. —
Si disse adunque che il consiglio di lasciar verticale il tralcio frut-
tuoso è ottimo, ma che è lungo e dispendioso poi il piegare e legare
in due o tre punti cotesti tralci con messe che contano già qualche
buon centimetro di lunghezza e che hanno la base tenera così che
il più piccolo urto basterebbe a farle cadere per terra.
Si capisce benissimo che facendosi cotale operazione in presenza
dei teneri germogii si può danneggiare la vite; ma ci pare che si
possa facilmente ovviare a questo guaio fissando verticalmente i
tralci suddetti al momento della prima potatura, cioè nel verno: al-
lora non ne possono soffrire in nessuna maniera.
Piuttosto può reggere l'obiezione che un tale metodo non può se-
guirsi che con viti alla Casalese, alla Guyot, e dove si seguono
sistemi analoghi di potatura, come in Valle San Martino di Ber-
gamo, ecc, e non ad esempio colle viti all' italiana, senza sostegni,
ad alberello, o all' Héraultiana. — Dopo tutto però, ciò nulla toglie
all'efficacia del sistema.
d) Le nubi artificiali servono pure, ad impedire la formazione
della brina. Su questo tema si è tanto scritto in questi anni, così in
Italia come in Francia, che non staremo qui a ripetere cose dette e ri-
dette le mille volte. Tuttavia, siccome dalle numerosissime prove fatte
in proposito ne sono risultati utili ammaestramenti non a tutti noti,
822 CAPITOLO XXVIII
così scenderemo a poche considerazioni tutt'affatto pratiche e forse
non prive d'interesse per chi volesse tentare novelle prove in pro-
posito.
Anzitutto in tesi generale può ritenersi che se il termometro, col-
locato come dicemmo a pag. 284, indica meno di cinque gradi C. a
2 ore del mattino (1), fa mestieri porsi tosto all'opera onde pro-
durre fumo. Non si tema di anticipare, poiché è naturale che se le
nubi sono prodotte assai per tempo, l'irradiazione del calorico vien
diminuita sensibilmente; tardando, spesso non si arriva più in tempo
e la vite si è già raffreddata al punto da coprirsi di brina anche in
presenza del fumo artificiale. Di qui molti degli insuccessi lamentati
in questi ultimi anni.
La scelta del combustibile ha anche molta influenza sul buon e-
sito dell'operazione: l'esperienza ha dimostrato che la loppa e la se-
gatura di legno mescolate, umidiccie, al residuo delle storte del gaz,
(godrone o brek) sono le sostanze più convenienti sotto tutti i rap-
porti. Esse mescolansi in proporzioni tali che la loppa sia ben co-
perta dal bitume: nella vigna si preparano delle buche larghe circa
60 centimetri e profonde tanto da contenere su per giù 8 litri del
miscuglio; ogni 15 metri vuoisi praticare una di tali buche, e non
importa se avesse a piovere sopra il combustibile così preparato,
poiché esso brucerebbe egualmente presentandosene il bisogno. Si è
calcolato che con tre ettolitri di tale combustibile si può preservare
un ettare di superficie. — Altri si trovarono molto contenti dall'uso
del suddetto godrone collocato entro ciotoli o vasetti di ghisa della
capacità di 2 litri almeno: in 4 o 5 ore ogni ciotolo consuma da 8
a 10 litri di godrone. L'accendimento di questo bitume è cosa facile;
basta prendere dei piccoli pezzi di stoffa in cotone, impregnarli d'olio,
accenderli qumdi ad una torcia ed allora collocarli con una pinzetta
alla superficie del godrone che subito prenderà fuoco. Siccome poi
trascorsa una mezz'ora dall'accensione, la superficie del godrone ri-
copresi d'un buon strato di carbone, cosi farà mestieri levarla con
un cucchiaio in ferro. Non v'ha dubbio che il primo sistema è molto
preferibile al secondo.
Abbiamo detto sopra che si reputano sufficienti 3 ettolitri circa di
miscuglio fra bitume e loppa per un ettare a viti; or se stiamo alle
(1) Talvolta indica solo un grado già a mezzanotte: allora il pericolo di una
brinata è quasi certo.
AVVERSITÀ ATMOSFERICHE 823
accurate esperienze eseguite gli scorsi anni dal chiarissimo enologo
Ippolito Pestellini di Firenze, ce ne vorrebbero almeno 10, se pure
vuoisi produrre uno strato di fumo sufficiente ad impedire l'irradia-
zione. È necessario tener conto di questa osservazione dell'egregio
agrofilo.
Ma le nubi artificiali non giovano sempre contro le brine; infatti
siccome è molto difficile che nelle notti serene d' aprile o maggio
l'aria sia affatto tranquilla, così accade soventi che il fumo prodotto
in una vigna va a beneficare altro vigneto vicino. Bisognerebbe fare
dei consorzii. ed allora riescirebbe molto più agevole di conseguire
lo scopo prefissosi. E non bisogna lasciarsi illudere dei vantaggi con-
seguiti negli orti, poiché ivi sonovi quasi sempre dei muri di cinta
che impediscono alle correnti suddette di spingere via il fumo: al-
l'aperta campagna la bisogna corre molto diversamente.
/¥ Vediamo infine come si debbano trattare le vigne danneggiate
dalla brina. Si possono dare due casi: o la brina sopraggiunge a sta-
gione poco inoltrata, oppure è veramente tardiva: nel primo caso
naturalmente troverebbe una vegetazione poco sviluppata e in certe
condizioni non potrebbe arrecare che danni assai lievi; nel secondo
caso invece, la vite essendo già tutta in certo qual vigore, avrebbe
campo a produrre maggiori guai come accadde nel 1874 nell' Um-
bria. Allora la brinata della notte fra il 27 ed il 28 aprile rovinò
circa i due terzi eli quelle deliziose vigne le quali avean dei getti
lunghi sino a 20 centimetri che i viticultori già s'apparecchiavano ad
insolforare. Disastri simili s' ebbero in quel di Siena (28 aprile) in
quello di Parma e Piacenza (28 aprile) nel Bresciano (29 aprile)
e via dicendo.
Facciamo anzitutto il primo dei suddetti casi e vediamo se con-
venga o non potare la vigna danneggiata. Riteniamo fermamente
che se la vigna ha le gemme così dette principali da poco sbucciate
e se il tralcio frutticoso è bello e rigoglioso, non sia conveniente di
potare. In queste condizioni muore bensì pel gelo il primo bottone, ma
siccome all'ascella ne v'ha un altro (il sott'occhio) che in allora non
è ancora morto, noi possiamo far sì che esso si sviluppi e rimpiazzi
l'occhio principale. Si può ben dire che in ciò la natura fu molto
provvida, essendo questi due occhi (che talvolta sono anche in
numero di tre) una vera provvidenza per molti tristi casi di bri-
nate precoci: la vite, il pesco, l'arancio, ecc. si trovano appunto in
queste condizioni di aver gemme duple. Dunque bisogna trarne par-
824 CAPITOLO XXVIII
tito. In questo intento noi ci regoleremmo nel modo seguente: taglie-
remmo con lama bene affilata la gemma guasta ed il suo piccolo
germine, procurando di non toccare all'occhio secondario che le sta
d'accanto. Così, se veramente la vite si trova nelle suddette condi-
zioni, ci sarebbe dato di salvare anche buona parte del prodotto pen-
dente: quel sott'occhio che, vegetando il principale, sarebbe andato
perduto per difetto d'alimento tutto assorbito dal cacchio soprastan-
tegli, ora invece troverebbesi in condizioni da svilupparsi; un po'
con ritardo se vogliamo, ma pur sempre in tempo per dare una di-
screta vendemmia. E discreta vendemmia negli anni di forti e ge-
nerali brinate (rari assai in Italia) vuol dire raccolta ubertosa.
Si obietterà a questo procedimento che esso richiede troppo tempo
non potendosi quel taglio fare grossolanamente, cioè senza una tal
quale delicatezza nell'operare. E tutto ciò è vero. Però se la gemma
prima è appena sbuciata, si potrà far a meno del taglio e lasciar
che la natura faccia da sé e si sviluppi la gemma secondaria. Quando
invece da quel bottone è già uscito un germoglio, il taglio diventa
necessario se non affatto indispensabile; e tutt'al più, ove si volesse
economizzare un poco di tempo nel mandarlo ad effetto, potremmo
consigliare di farlo con forbici bene taglienti ad un centimetro al
disopra dell'inserzione del suddetto getto sul tralcio frutticoso.
Così ci pare che l'operazione procederebbe più spiccia.
Ma veniamo al secondo caso. Qui i cacchii sono abbastanza svi-
luppati e la gemma secondaria ha quasi sempre perduto ogni vita-
lità: perciò non possiamo più nulla sperare da essa. Ma se i sot-
t'occhi non ci servono più, possiamo bene trar partito delle gemme
basso locate del tralcio frutticoso. Queste infatti sono tanto più tarde
a svilupparsi quanto più stanno presso il ceppo da cui il tralcio
parte: le prime a muoversi sono quelle dell' estremità e son anche
quelle i cui getti portano quasi sempre grappoli, quando invece
non ne vediamo spesse volte agli occhi della base del sarmento.
Ora è facile il comprendere che se una brinata tardiva ci di-
strugge le messe degli occhi che chiameremo superiori, noi dobbiamo
affrettarci a tagliare quella parte del tralcio frutticoso che li porta,
affinchè il succo nutritore faccia capo ai bottoni rimanenti e ne coa-
diuvi lo sviluppo: non praticando il taglio, come alcuni inconsidera-
tamente consigliano, noi veniamo ad annullare il prodotto pendente,
nonché a pregiudicare seriamente quello avvenire. Annulliamo il pro-
dotto pendente perchè il tralcio non porterà quasi più sarmenti frut-
AVVERSITÀ ATMOSFERICHE 825
tiferi, né alla base, né al centro, né all'estremità, tutto il succo ve-
nendo assorbito dai getti ghiottoni che non si vollero portar via
dopo la brinata: pregiudichiamo il raccolto del successivo anno perchè
né alla base del tralcio frutticoso, né allo sperone potremo forse
trovare uri nuovo sarmento in condizioni tali da potersi distendere
a frutto con qualche buona speranza.
Coloro che misero in pratica la suddetta potatura o raccorciatura
ne ebbero i più lusinghieri resultati ed alle volte giunsero a salvare
più della metà del raccolto. Dobbiamo anzi dire che per alcuni quella
è operazione tanto utile che la praticano senza fidarsi molto delle
gemme secondarie sulle quali dicemmo testé: quando brina essi
tagliano tosto quanto v'ha di brinato, badando a far sviluppare bene
quel che rimane.
E se del tralcio frutticoso non resta altro fuorché una specie di
sperone con due o tre gemme?
In tal caso vuol dire che si sarà almeno salvato il prodotto del-
l'anno successivo, mentre non potando si sarebbe perduta ogni cosa.
Qui dovremmo far le solite distinzioni fra viti maritate ad alberi,
viti a palo secco e viti alla Casalese, o alla Guyot. In breve di-
remo che con viti molto alte spesso, ma non sempre, le gemme se-
condarie reintegrano il viticoltore di buona parte della raccolta: del
rimanente poi il danno è in questo caso sempre più lieve di quello
che tocca alle viti basse le quali, comunque si educhino, si dovranno
sempre trattare negli indicati modi.
*% Come appendice a quanto dicemmo più sopra dobbiamo risol-
vere il quesito seguente: debbonsì o non lavorare i terreni vitati,
allo scopo di attenuare la formazione della brina? — Alcuni di-
cono che bisogna zapparli, altri invece consigliano di non lavorarli;
in una nostra esperienza diretta, fritta in un vivaio, constatammo che
la brina aveva recato gravi danni solo ai germogli del tratto non
zappato e coperto di male erbe alte circa 25 centimetri; invece nel
Viterbese si ritiene che nel terreno lavorato uno od anche due giorni
prima della venuta della brina, le viti soffrono di più. Vi ha poi chi
non vuole né male erbe né lavorature, e trova che son entrambe dan-
nose. Noi crediamo anzitutto che convenga distinguere fra vivaio,
viti basse e viti maritate ad alberi: pei vivai devesi consigliare la
lavorazione del suolo; il terreno smosso irradia assai meno che il
terreno duro, perchè V aria rotta e suddivisa fra la terra presenta
grande resistenza alla propagazione del calor del suolo: ora il vi-
826 CAPITOLO XXVIII
vaio, che è pochissimo distante dalla terra, risente assai l'influenza
delle condizioni della terra stessa. Lo stesso devesi dire per le viti
educate basse, essendovi moltissime esperienze che dimostrano l'uti-
lità per esse del terreno smosso e pulito da ogni pianta erbacea. In-
fine le viti maritate ad alberi si trovano, perchè alte, in condizioni
da temere pochissimo le brine, tanto più che lo sviluppo delle loro
messe è ritardatario.
§ 3. Il gelo. — Abbiamo già studiato il gelo ne' suoi rapport1
colle viti a pag. 291. Qui dobbiamo esaminare i mezzi proposti per
ovviarne i danni, spesso assai gravi.
Questi mezzi sono il sotterramento delle viti, le rincalzature, i
piantamenti sul colmo di appositi ciglioni, i fossi di scolo appiè delle
ceppaie, i lavori profondi prima dell'inverno, ed il drenaggio.
Il sotterramento delle viti è praticato su vasta scala in Germania,
in Austria ed anche in molte località dell'Italia settentrionale per le
viti di pianura. A novembre si sgrossa alquanto la vite levando i
sarmenti affatto inutili, quindi la si sdraia lungo il filare; in seguito
passando coll'aratro vicino al filare si aprono due solchi laterali, uno
per parte, versando la terra verso il filare stesso; infine colle zappe
a mano si completa il sotterramento. Oppure sdraiata la vite, an-
ziché coprirla completamente di terra, la si cuopre soltanto qua e
colà con grosse zolle erbose, perchè si conservi più che sia possibile
asciutta. Però tanto nell'un caso come nell'altro, se allo scioglimento
delle nevi o dopo abbondante pioggia succede subitamente un forte
gelo, la vite resta sempre alquanto danneggiata.
Senza ricorrere all'estremo mezzo di sotterrare la vite sdraiandola
a terra, si può anche, sempre allo stesso intento, rincalzare soltanto
prima dell'inverno, e così a novembre, le ceppaie fino ad una certa
altezza dal suolo, colle zappe a mano; o più economicamente facendo
passare 1' aratro, come abbiamo detto di sopra, vicino al filare, a-
prendo due solchi laterali uno per parte, versando la terra verso
il filare stesso e completando la rincalzatura con le zappe a mano.
E con ciò non vi è solo la terra che materialmente difenda dal
freddo le ceppaie, ma la terra smossa nella rincalzatura si riempie
d'aria e diventa cattiva conduttrice, rendendo così più difficile che
il calore del terreno appiè delle viti si disperda. L'illustre agronomo
francese Gasparm asserisce d'aver esperimentato con pieno successo
l' incalzatura degli ulivi e di altr e piante, appunto per prevenire i
danni dei grandi freddi; lo stesso succede della vite.
AVVERSITÀ ATMOSFERICHE 827
Ma ciò che durante le gelate più direttamente contribuisce a pro-
durre i danni che si verificano è l'umidità, ed ecco perchè: l'acqua
passando dal terreno alle piante vi riempie i canaletti interni; ora
durante i forti freddi F acqua si congela e per legge fisica aumenta
molto di volume, per ciò anche i canaletti della pianta si dilatano
assai, talvolta soverchiamente, e si lacerano; a ciò s'aggiunga an-
cora che l'acqua congelata nei canaletti interni, al disgelo, special-
mente se repentino, per legge fisica sottrae alla pianta una ingente
quantità di calore, abbassando così sempre più la già bassa tem-
peratura. E nel terreno è anche l'umidità che durante i forti freddi
produce i mali maggiori, poiché l'aumento di volume dovuto all'acqua
può lacerare le tenere radici e può da queste distaccare la terra
cui prima erano fissate e da cui devono suggere le sostanze nu-
tritive.
Per questo onde menomare i danni che alla vite possono arrecare
i geli, più ancora del difenderle materialmente dal freddo, gioverà
liberarle dall'umidità.
Egli è a tale intento che nel piantamento delle viti in pianura, in
quelle località che sono soggette ai forti freddi, si consiglia nei lavori
preparatomi di foggiare il terreno a ciglioni e di piantare le viti
sulla cresta del ciglione. L' avvallamento che naturalmente si trova
al piede del ciglione, la fa da fosso di scolo, facilitando così, durante
le piogge e durante lo scioglimento della neve, l'asciugarsi del ter-
reno.
Egli è per la stessa ragione che si raccomanda nei siti piani dove
la vite non è coltivata a ciglione ed anche nei colli a dolce pendìo,
di aprire prima dell'inverno dei profondi fossi di scolo a pie dei fi-
lari, e di nettarli sovente durante l' inverno, specialmente allo scio-
glimento delle nevi, acciocché la terra trascinata dalle acque non li
ostruisca, arrestando ed accumulando così al piede delle viti quella
umidità che si vorrebbe eliminare.
Così pure per prevenire i danni dell' umidità si consiglia di lavo-
rare accuratamente il terreno al pie delle vici, sempre prima del-
l'inverno. In tal modo con tale lavoro si introduce nel terreno una
quantità d'aria, che essendo corpo cattivo conduttore del calorico,
rende la terra assai più calda d'inverno. Oltre a ciò nei terreni la-
vorati l' acqua proveniente dalle piogge e dallo scioglimento delle
nevi, non si ammassa e non si ferma nello strato superficiale, ma si
suddivide su un grosso volume di terra rendendola così in propor-
828 CAPITOLO XXVIII
zione assai meno umida: quindi lentamente si raccoglie negli strati
inferiori del terreno, di dove poi per capillarità risale a benefìcio
delle radici nella stagione asciutta.
Ma il mezzo che meglio d' ogni altro raggiunge lo scopo di me-
nomare i danni delle gelate col liberare i terreni dalla umidità, è il
drenaggio. Esso toglie l'eccessivo umido attirandolo nei suoi tubi e
portandolo fuori della vigna ed introduce nel terreno una certa quan-
tità d' aria, la quale corre dietro all' acqua e ne occupa il posto
quando questa se ne è andata via; è quindi tutto ciò che si de-
sidera pel caso nostro. Oltre a ciò arreca i suoi vantaggi non
solo nell' inverno ma eziandìo nelle altre stagioni mentre la vite
è in piena vegetazione e fruttificazione. Quindi non è esagerato
il dire che il drenaggio è una delle operazioni più utili alla
vite.
Ed a questo proposito rimandiamo il lettore a pag. 370, ove ne
abbiamo parlato di proposito.
§ 4. La manna o brùciola. — Sono così chiamate certe
macchie (pag. 268) rosso-nerastre, che si osservano sulle foglie e
sui germogli della vite in primavera. La brùciola è più frequente
nei paesi marini, specialmente in aprile o nei primi di maggio;
quando la produzione di rugiada è abbondante, il danno è assai più
grande; accade lo stesso dopo le nebbie marine. Il doti. D. G. Bo-
schi in una sua nota sulla manna scritta sin dal 1791 dice: « nelle
sere fresche con nebbie marine casca qua e colà ad intervalli
disuguali ed incerti della rugiada, e questa ha delle qualità ab-
bruciane e caustiche » per cui, egli soggiunge, periscono i ger-
mogli delle viti. Ma nei paesi marini anche i venti, come già di-
cevamo a pag. 294, possono produrre delle bruciature sulle parti
tenere delle viti; nelle vigne del Campidano (Cagliari) quando
soffia il vento di levante umido, detto colà « maledetto levante »
se dura quattro o cinque giorni in luglio ed agosto, per le gociolette
di rugiada che ogni mattina si trovano sui grappoli e per 1' azione
loro, gli acini si vuotano e si essicano. Sono quindi varie le cause
della brùciola, e certo il sai marino contenuto nelle rugiade di
detti paesi e portato eziandio coi venti, non vi deve essere to-
talmente estraneo. Disgraziatamente rimedii non se ne conoscono:
forse una solforazione abbondante con un miscuglio in parti uguali
di zolfo e cenere potrebbe servire come di riparo contro l'abbru-
AVVERSITÀ ATMOSFERICHE 829
ciamento; ciò si fa già con buon esito "contro le brine (v. pa-
gina 819).
§ 5. Le pioggie, il soverchio calore, le nebbie ed i venti.
— Nulla abbiamo da aggiungere a quanto dicemmo alle pagine 265,
266 e 291; onde rimandiamo ivi il lettore.
CAPITOLO XXIX
Insetti dannosi alle viti ed all'uva.
1. La lotta contro gli insetti in genere — § 2. La fillossera devastatrice —
§ 3. 11 rinchite della vite — § 4. L' apate della vite — § 5. L' eumolpe —
§ 6. La melolonta comune — § 7. La melolonta della vite o ronzone —
§ 8. La tortrice dell'uva — § 9. La pirale della vite — § 10. La zigena della
vite — § 11. L'albinia vochiana o bruco dell'uva — § 12. La noctua aquilina
— § 13. L' altica mangia-viti o pulce delle viti — § 14. L' otiorinco —
§ 15. Il letro — § 16. La forbice o forfecchia — § 17. L' hoplophora arctata
— § 18. L'anguillula radicicola — § 19. L'erineo.
§ 1. La lotta contro gli insetti in genere. — Gli insetti
che danneggiano le viti sono pur troppo numerosi, ma fortunata-
mente non tutti sono ugualmente nocivi; senonchè la moltiplicazione
di questi ultimi, quando non è in qualche modo intralciata dal viti-
cultore, può giungere a tal punto da recare gravi darmi ai vigneti.
È adunque saggio consiglio quello di dare la caccia senza tregua a
tutti gli insetti che si scoprono nelle proprie vigne; questa raccolta
degli insetti, che si deve affidare a ragazzi, se si effettua sin dai
primi .momenti della loro comparsa, non presenta tutte quelle diffi-
coltà che si incontrano più tardi, quando cioè il male si è già esteso:
anche in questo caso conviene pertanto arrestare il male sin da' suoi
inizii, mettendo in pratica il priiicipiis obsta di Ovidio.
Ma come complemento di questa lotta incessante ed incominciata per
tempo, è necessaria l'unione nella lotta stessa fra i varii viticultori
d'una data località; è facile intendere come possano spesso riescire
inutili gli sforzi fatti isolatamente da un viticultare per liberarsi da
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL'UVA 831
certi insetti, se i suoi vicini non si curano di fare altrettanto e per-
mettono che i loro vigneti diventino, come oggi si dice, veri foco-
lari di infezione. Conviene adunque costituire dei piccoli consorzii di
difesa fra i possessori di vigneti d' una determinata località, e con
apposite squadre di ragazzi dar la caccia senza tregua a tutti gli
insetti che si incontrano sulle viti. Con questo sistema in poco tempo
la quantità oggi non piccola di insetti i quali guastano i nostri vigneti,
sarebbe ridotta a proporzioni insignificanti: si aggiunga che queste
squadre di ragazzi potrebbero anche raccogliere le foglie ammalate
per crittogame, la qual cosa è senza dubbio di grande utilità per
impedire la diffusione mercè la disseminazione delle spore.
In alcuni paesi vi sono speciali leggi che determinano la forma-
zione di simili comitati di difesa, e chi non ne adempie le prescri-
zioni è punito con multe; l'onorevole deputato Berti, già Ministro
di Agricoltura, progettava egli pure una legge in questo senso (1)
ed è a deplorarsi che non sia stata discussa ed approvata.
Taluni non si preoccupano guari della comparsa e della moltipli-
cazione degli insetti nei vigneti, perchè, dicono essi, generalmente
scompaiono di per sé stessi, senza che il viticoltore debba spendere
danari e fatiche per cacciameli. Ciò infatti è talvolta accaduto; ma
l'osservazione dimostra che gli insetti non scomparvero di per sé,
bensì a cagione di circostanze atmosferiche loro avverse, e senza
delle quali avrebbero continuato a moltiplicarsi a tutto loro agio;
talvolta pure scomparvero perchè si moltiplicarono altri esseri, pa-
rassiti degli insetti stessi, come ci insegnano gli studiosi della stona
naturale.
Insistiamo quindi sulla lotta contro gli insetti ampelofagi, mercè
l'unione dei viticoltori.
Oltre alla caccia diretta agli insetti, cioè la loro raccolta, sonovi
altri mezzi di distruzione assai energici. Accenneremo qui ai principali.
Ottimo mezzo è il calore, quantunque non siasi trovato sin qui
un mezzo molto spiccio per trarne partito: sin dal 1840 Benoit
Raclet propose di lavare le ceppaie, i tralci ed i sostegni delle viti
con acqua bollente; certo gli insetti e le loro ova sono così distrutti,
ma la quantità d'acqua che occorre e la spesa del combustibile per
portarla all'ebollizione rendono il sistema poco pratico. — Il signor
(1) V. il testo di tale legge nel Bollettino di notizie Agrarie del Ministero di
Agricoltura, num. 14, marzo 1883.
832 CAPITOLO XXIX
Montoy ideava più tardi un apparecchio leggiero e portatile nel
quale l'acqua si riscalda rapidamente a 100° attraversando un ser-
pentino che sta nel focolare. Quest'apparecchio si porta nella vigna,
ove un operaio riempie varie caffettiere con acqua bollente, le tra-
smette alle donne, le quali vanno a versarle sulle ceppaie: ogni caf-
fettiera contiene un litro d'acqua ed ha una doppia parete per im-
pedire il raffreddamento. Nell'adoperare l'acqua bollente si deve aver
cura di risparmiare le gemme; sempre poi si deve operare durante
l'inverno, quando la vegetazione dorme. Ma il sistema più pratico
pare sia quello ideato nel 1881 dall'lng. meccanico sig. Gaillot di
Beaune (Costa d'oro); per applicarlo bisogna provvedersi del flo-
goforo da lui inventato, consistente in una specie di piccola canna
metallica nella quale si produce una fiamma mediante il petrolio; con
tale apparecchio un sol uomo, lavorando con una sola mano e quasi
senza fatica, può, bruciando due litri di petrolio, infiammare in una
giornata 2000 ceppi di vite (ceppi bassi) nonché la superfìcie del
suolo, ove si possono trovare uova o larve frammezzo a detriti di
foglie od altri detriti. Le esperienze fatte in Francia, alla presenza
di apposite Commissioni, riuscirono molto bene, e perciò crediamo di
poter raccomandare questo infiammatoio automatico.
Altro mezzo efficace di lotta contro gli insetti è l'uso della nafta-
lina, proposto da qualche anno dal distinto cultore della enologia e
della viticoltura I)r. Alessandro Bizzarri di Firenze; la naftalina
è infatti utilissima per allontanare gli insetti dalle ceppaie, e si può
adoperare facendone una miscela a parti eguali collo zolfo, il quale
serve per polverizzarla e suddividerla, acciò si possa darla coi sof-
fietti con cui si dà ordinariamente lo zolfo stesso. Ma il Bizzarri
facendo esperienze sull'uso della naftalina in soluzione, specialmente
contro il baco dell'uva, trovò che una soluzione nella benzina al 10 per
100, mentre non offende l'uva come farebbe l'alcool, penetra la ra-
gnatela che difende il baco, ed evaporandosi vi lascia uno strato
di naftalina, il quale resta aderente onde non se ne disperde nulla,
ciò che non può dirsi invece quando si adopera questa sostanza in
polvere. La soluzione si somministra con un pennello.
Ha pure dato spesse volte buoni risultati, contro gli insetti in
genere, un miscuglio di calce viva in polvere con due volte tanto
di zolfo, il tutto passato per finissimi setacci. Con questa miscela
si debbono fare le solite solforature nelle vigne invase dagli insetti,
come se si adoperasse lo zolfo da solo.
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA 833
Alcuni adoperano con successo la cenere dei forni da calce;
infine, da qualche anno, hanno acquistato credito come insetticidi i
cascami di tabacco, specialmente dopo le esperienze fatte per cura
del nostro Ministero d'Agricoltura. Questa polvere di tabacco deve
essere adoperata allo stato di massima suddivisione; la più efficace
pare sia la polvere num. 2, contenente 50 0[q di tabacco, 30 0[q di
zolfo e 20 0[Q di cenere. Tale polvere non si trova che presso i Magaz-
zeni di deposito dei tabacchi o presso la Direzione Generale delle Ga-
belle; pare però che si voglia autorizzare alla vendita anche i tabaccai.
§ 2. La fillossera devastatrice. — a) Invasione in Francia.
Il giorno 15 luglio 1860 i signori Planchon, Gaston Bazille e
Sahut scoprirono la fillossera in Francia: la Francia fu quindi il
primo paese d'Europa invaso, benché taluno asserisca che anzitutto
l'insetto si mostrò in Portogallo nonché nelle serre dell'Inghilterra,
dell'Irlanda e della Scozia (1).
È noto che varie viti americane godono di una certa resistenza,
talvolta assoluta, agli attacchi dell' Oidium Tuckeri, che per anto-
nomasia noi usiamo di chiamare la crittogama. Questa malattia si ma-
nifestò (2) nel Mezzogiorno della Francia nel 1851, e andò sempre in-
fierendo sino al 1857, anno in cui si incominciò a solforare nell'Hérault:
or bene si notò, durante quel periodo, che le Viti americane Isabella e
Katawba resistevano abbastanza bene all'oidio. Siccome nei primi anni
in cui si adoperò lo zolfo, si verificarono nel suddetto Mezzogiorno
molti insuccessi, così varii viticultori ebbero pel momento maggior
fede nelle viti americane, le quali furono per un certo tempo molto
ricercate; esse si facevano venire dall'America.
Ciò appunto accadde specialmente nel Mezzogiorno della Francia
perchè ivi la crittogama (favorita dalle condizioni climatologiche)
recava danni enormi ed aveva gettato un vero sgomento fra quei
viticultori; codesto lo desumiamo dai rapporti officiali pubblicati nel
1852 dai signori Ledere e Rendu.
Or bene, appunto in quegli anni, mentre si importavano viti d'A-
(1) Laliman, valente ampelografo di Bordeaux, dice che nel 1862 la fillossera
fu segnalata per la prima volta, e contemporaneamente, in Portogallo ed in In-
ghilterra. Nel 1863 poi, venne constatata nelle serre della Scozia e dell'Irlanda,
sotto il nome di Peritymbia vitisana (Westwood). Dappertutto l' insetto fu im-
portato con viti provenienti dall'America (Fatio, pag. 17).
(2) Des vignes du Midi de la France, par H. Marès, pag. 355.
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 54
834 CAPITOLO XXIX
merica in Francia, si importò con esse la fillossera. È infatti oramai
accertato che questo parassita fu introdotto nel territorio francese
nel 1858, o giù di lì, e fu introdotto per l'appunto nel Mezzogiorno.
Fu così che l'America, la quale ci diede molti parassiti, quali la do-
rifora delle patate, V insetto lanoso del melo, ecc., ci regalò anche
il più accanito nemico della vite. E, come vedremo, furono sempre
le viti americane quelle che lo portarono nei varii paesi d' Europa,
esclusa forse l'Italia.
Nel periodo trascorso fra il 1858 ed il 1868 la fillossera estese
il suo dominio in Francia, non solo nel Mezzogiorno ma anche nel-
l'Occidente, — nel Bordolese (Gironda). Però durante quel decennio
non si parlò mai di fillossera, ma soltanto di una malattia inespli-
cabile ed ignota che uccideva le viti, la quale segnalossi principal-
mente nell'anno 1863 a Pugault nel Gard (Mezzogiorno) dove erano
state portate molte viti dall' America precisamente come era ac-
caduto nel Bordolese.
Finalmente nel 1868 il Prof. Planchon scoprì in un vigneto
presso Mompellieri (Hérault) il pidocchio che era la causa di tanti
disastri. Nel seguente 1869 il sig. Lichtenstein di Mompellieri azzardò
pel primo l'opinione che quel pidocchio fosse identico all'altro cono-
sciuto in America e descritto dal dott. Asa Fitch, entomologo dello
Stato di Nuova- York, sotto il nome di Pemphigus viti fo lice. Nel
1870 un altro distinto naturalista americano, il Riley, stabilì l'identità
fra le due fillossere, e poco dopo Planchon, Balbiani, Signor et,
Cornu, Roessler ed altri studiosi confermarono la cosa.
La fillossera, cui Planchon impose il nome di Philloxera Va-
sta trix, fu dunque scoperta in Francia nel 1868, dopo che vi era
stata celata durante dieci anni ed aveva in questo frattempo potuto
estendersi sopra 10 mila ettari, in modo tale cioè da rendere poi
impossibile l'attuazione di quei processi coi quali si rallenta di molto,
se pur non si arresta affatto, l'invasione.
Alla fine del 1874, mentre si perdeva colà un tempo prezioso nel di-
scutere se la fillossera fosse la causa del male o la conseguenza d'uno
stato patologico della vite, il pidocchio aveva invaso ben 200 mila ettari.
Alla fine del 1878 la Francia contava 356,000 ettari invasi, e
288,000 distrutti; alla fine del decorso 1884 (1) si noveravano 53
(1) Situation des vignobles pkylloxérés — E. Tisserand, Directeur de l'Agri-
griculturc (v. Journal d'Agricult. di Lecouteux, numeri 18 e 19, 1885).
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA 835
dipartimenti invasi, per una superficie di 429,000 ettari: prima dell'in-
vasione questi dipartimenti contavano 2,485,829 ettari a vigna; oggi ne
contano invece 2,056,713, vale a dire che vi ha una differenza in meno
di 429,116 ettari. Ma questo deficit, come ben osserva il sig. Tisse-
rand, non dà la misura esatta della perdita subita dai vigneti fran-
cesi; il male è infatti assai più considerevole. La perdita causata
dalla fillossera si eleva realmente, oggidì, ad un milione di ettari:
senonchè molti vigneti furono ricostituiti o con viti francesi o con
viti americane, o utilizzando nuovi terreni e via via, cosicché 600
mila ettari circa furono ripiantati e disputati al nemico.
b) Invasione in Italia ed in altri paesi d'Europa. — In Italia
la fillossera fu scoperta neh1' agosto del 1879 a Valmadrera (prov.
di Como) sovra 21 ettari di vigneti a coltura mista; pochi giorni
dopo si scoprivano circa altri 3 ettari infetti ad Agrate Brianza
(Monza). Nel 1880 si trovarono altri due centri infetti assai piccoli,
(6575 metri q.) nel comune di Porto Maurizio, e pure nel 1880
si scoprirono due centri, disgraziatamente di qualche estensione, in
Sicilia; uno a Riesi ed a Butera (Caltanissetta) di ettari 23, l'altro
a Messina di circa ettari 10. Nel 1882 si scopriva altra infezione
a Ravanusa (Girgenti); nel 1883 si accertava una grossa macchia
filloiserica in Sardegna a Sorso, JJsini e Sennori (Sassari) di circa
30 ettari, ed altra a Reggio Calabro di circa 100 ettari. Come si
vede l'infezione in Italia è ancora per fortuna molto limitata, onde
si spera di tenerla in questi stretti limiti, coi mezzi di lotta dei quali
faremo cenno fra poco, e col concorso dei \iticultori; dai quali si
richiede sovratutto molta circospezione nell'introdurre vitigni o piante
qualsiansi dai luoghi infetti o sospetti, in quelli sani.
« L'Austria ha delle estese infezioni nella bassa Austria, derivate
da quella del vigneto modello di Klosterneuburg. Le ultime ricerche
facevano ascendere queste infezioni a circa 100 ettari, ai quali de-
vonsi aggiungere oltre 100 ettari infetti dell'Istria, ed altrettanti
della Stiria.
« L' Ungheria alla fine dell' anno 1882 aveva 32 focolari d' infe-
zione sparsi in 17 comuni, senza tener calcolo di un' altra dozzina
di centri fìllosserati, nei quali si praticarono le distruzioni negli anni
1880 e 1881. Complessivamente giudicavasi che la infezione occu-
passe già nel 1882, in Ungheria, circa 1500 ettari. L' Austria- Un-
gheria tentò di difendersi dalla fillossera con varii mezzi, ma, quanto
a pare dai fatti, con risultati punto felici. Vuoisi però notare che*
836 CAPITOLO XXIX
ad onta dell'insuccesso avuto nelle operazioni fatte a Klosterneuburg,
non esitò a praticare la distruzione dei focolari dell'Istria e di qualche
altra località.
« Nella Russia fu constatata la fillossera sulla costa Sud-Est della
Crimea, fino dal 1880, sopra 23 ettari di vigna. Nel 1881 si sco-
persero nuovi e numerosi focolari, dei quali alcuni fra le viti sel-
vatiche. D'ordine del Governo russo, coll'uso degli insetticidi e me-
diante una sommersione prolungata per molti mesi, dove la sommer-
sione era possibile, fu operata la distruzione dei vigneti infetti. Queste
operazioni costarono circa 300,000 rubli, ma non è noto se sia o
no riapparsa la fillossera nei vigneti circostanti a quelli distrutti.
« In Germania si constatarono soltanto delle limitate infezioni,
quasi esclusivamente nei vivai, sopra viti americane, o su vitigni
europei coltivati in prossimità dei primi. A tutto il 1881 il numero
dei focolari scoperti ascendeva a 26, e fra questi notasi un vigneto
ad Heimersheim. In tutti i centri scoperti si applicò il metodo di-
struttivo con esito soddisfacente, poiché intorno a molti di questi le
ulteriori ispezioni diedero dei risultati negativi.
« La Svizzera ebbe centri infetti ne' cantoni di Ginevra e di Neu-
chàtel, e delle sue infezioni curò sempre con molta sollecitudine ed
energia la distruzione. L' area distrutta complessivamente dal 1874,
data della prima scoperta della fillossera in Isvizzera, fino a tutto
il 1883, ascende a poco più di 17 ettari.
« In Ispagna l'infezione era già gigante allorché fu scoperta nel
1878, nella provincia di Malaga; oggi, secondo i calcoli del signor
Lichtenstein, riguardansi come già perduti in quella provincia 50.000
ettari di vigna. Ed infezioni rilevanti si accertarono anche nelle Pro-
vincie di Gerona, Barcellona, Tarragona ed altrove. Da principio la
Spagna impegnò la lotta contro la fillossera col metodo distruttivo,
imitando la Svizzera; ma, di fronte alla estensione del male ed al-
l' opposizione della popolazione, dovette limitarsi a tentare la difesa
coi metodi colturali e coli' impianto dei vitigni d' America.
« Anche nel Portogallo la malattia si sviluppò rapidamente. Già
nel 1877 circa 3000 ettari di vigneti erano assai compromessi, e nel
1881 portavasi a 15,000 ettari la superficie colpita nel solo Doero » (1).
e) Cause della invasione fillosserica europea. I viticoltori si
(1) Togliamo questi dati dagli Atti del Congresso fillosserico internazionale di
Torino del 1884 — Relatore Franceschini — (pag. 52-53).
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA 837
fanno con insistenza una domanda ed è questa: come mai abbiamo ora
la fillossera in Europa? Essi vogliono sapere d'onde sia venuta, dato
che sia venuta da qualche luogo, oppure se per caso non avesse a
ritenersi siccome la conseguenza d'un deperimento delle viti.
Anche noi ci siamo fatti a suo tempo una simile interrogazione;
leggendo poscia la storia dell'invasione in Francia, in Germania, in
Austria, in Ungheria, in Isvizzera ed in Ispagna e riflettendo sulle
cause dell' invasione in Italia, abbiamo trovato una risposta molto
semplice, risposta già dataci del resto dai più distinti fillosseristi:
essa è la seguente:
« La fillossera si trova oggidì in molti vigneti europei perchè
vi fu importata. » Ed ecco parecchi fatti che lo dimostrano in modo
palmare: del deperimento delle viti parleremo più tardi, combattendo
con molti dati di fatto parecchi errori che furono stampati al ri-
guardo in questi ultimi tempi.
È stato detto dall' illustre Drouin de Lhuys che bisogna preoc-
cuparsi non di dove sia venuta la fillossera ma bensì come si possa
mandarla via. Questo sta benissimo per un paese molto invaso;
ma per noi Italiani, che fortunatamente abbiamo ancora illese
quasi tutte le nostre vigne, è un altro affare. Noi dobbiamo sa-
pere di dove venga, perchè abbiamo la certezza che se non in-
trodurremo il pidocchio nei nostri vigneti, e se impediremo che ci
venga mercè le sue emigrazioni naturali, quei vigneti saranno esenti
da tanta jattura. Studiamo dunque l'origine della fillossera.
Anzitutto dobbiamo ricordare un fatto, già accennato a pag. 58,
cioè « la impossibilità di coltivare nell'America del Nord la vite Eu-
« ropea o Asiatica ». Le molte congetture fatte per ispiegare questa
strana inospitalità del Nuovo Mondo per le pregiate varietà della
vera vite da vino, si riassumevano in poche parole: « il suolo inadatto,
il clima improprio ». Sono queste le solite argomentazioni che si
mettono in campo in simili frangenti; eppure, nel caso in quistione,
non era molto difficile persuadersi che quel vasto paese americano
possiede benissimo e suolo e clima che si prestano, tanto come quelli
dell'Europa meridionale, alla coltura della nostra vite: ben dicono i
distinti viticultori americani signori Bush e Meissner (1) che il loro
vasto paese « possiede un grande numero di località dove il suolo
« ed il clima sono tutt'affatto simili a quelli di molte parti dell'Eu-
(2) Risiedono a Bushberg nel Missurì.
838 CAPITOLO XXIX
ropa dove la vigna dell'Antico Mondo prospera ». E giustamente
soggiungono: « or bene, è egli ragionevole di supporre che nessuna
delle numerose varietà coltivate in Europa, sotto condizioni clima-
teriche così variate, da Magonza a Napoli, dal Danubio al Rodano,
non possa trovare un punto equivalente agli Stati Uniti in un paese
che comprende quasi tutti i climi della zona temperata? Se il suolo
ed il clima sono così poco appropriati, come va che le giovani e
deboli vigne d'Enropa attecchiscono così bene e danno tante spe-
ranze durante qualche stagione e qualche volta, nelle grandi città,
durante anche molti anni? Come spiegare che le migliori varietà eu-
ropee d'altri frutti, per esempio la pera, vengono perfettamente qui? ».
Dopo aver incolpato il suolo ed il clima, si disse, da alcuni viti-
cultori americani, che, per acclimatare colà la nostra vite era indi-
spensabile seminare i vinacciuoli della vite europea ed allevarne poi
due o tre nuove generazioni nel suolo e sotto il clima d' America.
Ebbene; si fecero varie prove appunto in questo senso, e si ebbero,
come era da aspettarsi, piante più robuste: però dopo alcuni anni
anche queste viti perirono, tal quale come le altre, mostrando solo
una qualche maggior resistenza all'incognito malore.
I piantamenti falliti furono in parte rimpiazzati con viti indigene,
ed allora si ebbero vigne durature.
Così capitò ad un tedesco, certo Th. Rush, che nel 1860 tentò
la coltivazione (nell'isola Kelley) della vite europea; egli la vide pe-
rire nel 1864, ma la rimpiazzò prontamente colla vite americana Ca-
tawba, e riusci pienamente, poiché suo figlio la coltiva ancora oggidì
con successo (1).
Infine si tentarono gli incrociamenti della vite europea coll'americana;
ma anche questi ibridi fallirono come ci dice l'illustre Dr. Engelman.
Perchè adunque la vite oV Europa non può acclimatarsi nel-
l'America del Nòrd? Perchè la fillossera della vite (che è quivi
indigena, nella stessa maniera per esempio che la cocciniglia è indi-
gena del Messico) vi si oppone (2). Diremo poi a suo luogo parlando
delle viti americane perchè esse resistano al pidocchio.
(1) È questo un fatto singolare, poiché è noto che la Catawba in Europa non
resiste alla fillossera. Convien proprio dire che la fillossera in America viva più
sulle foglie che non sulle radici.
(2) Riley, distinto entomologo americano, e Planchon, naturalista francese,
hanno realmente constatato che la fillossera è indigena nel continente Nord-ame-
ricano, all'Est delle Montagne Rocciose.
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL'UVA 839
E perchè prima del 1858 all'incirca non si lamentavano affatto
in Europa (e più precisamente in Francia) quel deperimento e quella
morìa delle viti che ora tanto ci allarmano? Perchè prima d'allora
la fillossera non era ancora stata importata in Francia, del che ci
occuperemo fra breve.
E perchè infine il temuto pidocchio si trova ora in tutti i paesi
vitiferi d'Europa, esclusa la Grecia? Perchè fu inconsideratamente
importato ovunque, non potendosi nemmeno supporre per un mo-
mento che vi sia stata generazione spontanea, come è stato detto
ridicolmente da taluno.
È bene sapere che questa generazione spontanea o eterogenia,
che ancora oggidì ha tanti oppositori, non è neppure ammissibile,
secondo alcuni valenti morfologi panspermisti, per quegli organismi
semplicissimi che compongono per esempio il fermento alcoolico (Sac-
charomyces ellipsoideus di Rees) (1). Come parlare adunque sul
serio della generazione spontanea di fillossere? Si ritornerebbe alle
antiche credenze, quali per esempio che il fieno umido generi le pulci,
il formaggio i vermi, le paludi le rane, come si credeva nel secolo
XVII! Un illustre nostro compaesano, il Redi, rinomato membro del-
l'Accademia del Cimento, fu il primo a scalzare dalla loro base questi
errori, dimostrando ad esempio come i vermi della carne in putre-
fazione non erano che larve delle uova di mosche. Che nessuno a-
dunque nella patria del Redi creda più a quelle strane idee sulla
generazione spontanea! In nessun vigneto d'Europa possono trovarsi
le fillossere se non vi sono importate, oppure se non vi si stabi-
liscono da loro stesse per mezzo della trasmigrazione dei pidocchi o
delle farfalline.
Vediamo ora come sia stato introdotta la fillossera nei principali
paesi vitiferi d'Europa.
A pag. 833 abbiamo già detto che nella Francia meridionale la
malattia fu importata con viti americane resistenti all'oidio; null'altro
abbiamo da aggiungere qui, salvo poche parole sulla Corsica, le cui
viti fillosserate visitammo nell'agosto del 1878. Nell'anno 1868 il
sig. Paolo Tedeschi medico militare, comperava nel Mezzogiorno
(1) È bene notare che gli stessi eterogenisti (fra cui varii illustri italiani) non
vanno più in là della generazione spontanea di organismi inferiori che si for-
mano da sé nelle infusioni organiche. Fra questi organismi citeremo le amibe,
semplicissimi infusori ottenuti da G. Balsamo- Crivelli e L. Maggi.
840 CAPITOLO XXIX
della Francia delle barbatelle di viti in vivaj fillossera ti e le portava
a Corte in Corsica, piantandovi due belle vigne nella valle di Chiata
e Costa-Longa: egli ignorara l'esistenza della fillossera, scoperta solo
in detto anno come già dicemmo. Poco stante, verso il 1870, quelle
viti cominciarono a mostrarsi ammalate, e nel 1874 il male si era
esteso ai vigneti attigui del Comm. Sabiani e del sig. Calisti: al-
lora, mercè le premure dell'egregio sig. Francesco Mignucci, si
scoprì la fillossera. Essa venne poi trovata pure presso Ajaccio,
perchè ivi pure erano state piantate viti con barbatelle provenienti
dalla Francia Meridionale. In Corsica il suolo è durissimo (granitico)
e le viti sono generalmente meschine, perchè non si concimano mai;
per queste ragioni il male si estende con lentezza, ma si estende.
Anche in Corsica adunque si ha la fillossera perchè vi fu importata
dall'uomo.
In Portogallo il pidocchio fu portato nel 1863 o 1864 nella par-
rocchia di Gouvinhas nel Duero con viti americane (1). Pochi anni
dopo la fillosseronosi si era estesa nei vigneti dell'Alto Duero, bella
vallata che dà i rinomatissimi vini di Porto. È stato pubblicato che
la fillossera è comparsa in Portogallo prima che in Francia, e che
ora non se ne parla più; tutto ciò è inesatto. La fillossera comparve
in quel Regno durante gli stessi anni in cui fu segnalata in Francia,
anzi vi comparve qualche tempo dopo: — il male poi si è tutt'altro
che arrestato; anzi nella vallata del Duero progredisce pur troppo
d'anno in anno, come si rileva da un opuscolo del sig. José- Luis
De Barros di Lisbona, il quale valuta il danno attuale a L. 3,300,000
annuali.
In /spagna la fillossera fu scoperta nel 1878 in una proprietà
chiamata l' Indiana a 18 chilom. da Madrid, ove nel 1878 stesso
eranvi già 5000 ceppi distrutti. La malattia si manifestò nel 1876,
facendo perire poche piante, ma due anni dopo il male s'era assai
allargato. Nel 1879 la Spagna già contava 100 focolari d'infezione
in un perimetro di circa 2500 ettari di vigne nella provincia di Ma-
laga. Il metodo d'estinzione del malanno è quello dell'estirpamento;
ma pare che non corrisponda all'aspettativa. Il clima favorisce molto
la prodigiosa riproduzione dei pidocchi, e già in marzo si trovano
(1) Notizie comunicate dal Prof. Manoèl Paulino di Oliveira, al Dott. Fatto.
— (V. Atti del Congresso di Losanna, pag. 28).
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA 841
dei rigonfiamenti sulle radicelle ! Ora Malaga, V Ampurdan e Sala-
manca sono invase, ed i centri infetti aumentano dovunque.
Nell'isola di Madera la fillossera arreca serii danni; nel solo co-
mune di Camara de Lobas, ove un tempo si raccoglievano 8000 pipe
di vino, l'invasione ha già prodotto una forte diminuzione di pro-
dotto: il numero delle pipe è ora sceso sotto i 300.
In Inghilterra, in Irlanda ed in Iscozia la fillossera fu portata
nelle serre da viti o graperies con vitigni americani, e vi fu sco-
perta sin dal 1862-63 come già dicemmo nella nota la pag. 833.
Ivi l'insetto è confinato nelle serre, non coltivandosi la vite in pien
campo: dalle graperies però vennero le fillossere che ora danneg-
giano la Svizzera. Bisogna dunque evitare ogni importazione di colà.
In Isvizzera la fillossera fu importata dalle suddette graperies
della Inghilterra; nell'anno 1868 il barone Rothschild faceva venire
di costì alcune varietà di viti americane per collocarle in due sue
serre che trovansi nel comune di Prégny presso Ginevra: ma tali
viti erano cariche di fillossere, come dicono il D. Fatio ed il D.
Forel. Dalle serre del Rothschild la malattia venne portata in una
vigna coi detriti ed avanzi delle serre stesse, e di qui si diffuse in
alcuni vigneti e giardini dei dintorni: finalmente nel 1874 si scoperse
l'insetto e si procedette subito alla distruzione delle piante della zona
invasa, per una superficie di circa 4 ettari, sradicandole ed abbru-
ciandole. Oltre a questo punto d'infezione la Svizzera ne ha un altro
presso Neuchdtel, a Colombier, Bondry e Corcelles. Queste tre mac-
chie fillosseriche furone scoperte nel 1877, e nello stesso anno si sco-
persero pure alcune piante straniere, molto fillosserate, nel centro me-
desimo della città di Neuchdtel nei giardini: l' insetto vi fu impor-
tato con viti straniere, in parte americane, le quali ultime vennero
spedite dalla pepiniera d' Annaberg vicino a Bonn (Germania) nel-
l'anno 1869 a Neuchdtel, e da quivi poco per volta diramate ap-
punto nei luoghi ove esiste ora 1' infezione. In tutto si distrussero
colà oltre a 7 ettari vitati. Infine si trovò pure nel 1877 la fillos-
sera sopra alcuni ceppi di viti americane spedite da Neuchàtel a
Willisau (Lucerna): essi furono pure distrutti. In conclusione anche
la Svizzera ha la fillossera solo dove fu importata con piante eso-
tiche.
In Germania l'infezione fillossera risale a prima del 1874. In questo
anno venne trovata la fillossera sovra ceppi di viti americane im-
portati, dice il D. Fatio, alcuni anni prima in una pepiniera vicino
842 CAPITOLO XXIX
a Bonn (a Annaberg). Poco stante si trovò in altre pepiniere, e, si
noti bene, sempre su piante nord-americane o almeno straniere al
luogo infetto. Nel 1877 vi erano in Germania 19 punti o macchie;
queste macchie sono quasi tutte in stabilimenti viticoli i quali costi-
tuiscono certamente un pericolo per V Europa per la ragione che
fanno molto commercio di piante, anche a dispetto dei divieti. Una
prova di ciò si può averla leggendo la circolare che riportammo nel
nostro Giornale Vinicolo Italiano del 1878 p. 478, nella quale cir-
colare si promette con tutta sicurezza di far giungere in Italia in
buon stato le casse di piante! Del resto è noto che alcuni centri
infetti per es. Neuchdtel ebbero la malattia dalle dette pepiniere.
Ed è pure noto che dai giardini di Erfurt (Sassonia) venne l'infe-
zione che si lamenta non solo nelle loro adiacenze ma altresì a Gotha
ed Arlesberg, ed anche a grandi distanze come ad Orleans in
Francia, a Rausohwitz in Slesia ed alla Scuola viticola di Pian-
lières presso Metz (Lorena). È noto che in Germania le macchie fil-
losseriche sono distanti l'una dall'altra; ciò è facilmente spiegabile se
si riflette al cennato modo d' introduzione della fillossera per mezzo
di piante esotiche infette. Tale è il caso dei punti infetti che si tro-
vano in giardini privati a Carlsruhe ed a Vernigerode nell'Arz;
a Klein- F lo ttbeck (1) e Bergedorf presso Amburgo; a Proskau (1)
in Slesia, ed a Bollweiler (1) in Alsazia. Ed anche in Germania
dunque la vera causa dell'invasione fu l'importazione di piante infette.
V Austria ebbe la fillossera direm così per mezzo dell'Istituto Eno-
logico di Klosterneuburg (Vienna): questa rinomata scuola importò
nel 1868 dei ceppi di viti americane e con essi importò nel suo vi-
gneto sperimentale il terribile pidocchio, che vi fu poi scoperto nel
1872. lì male si estese tosto a varie piante di pinot vicine alle a-
mericane, e poscia passò nei vigneti adiacenti, di dove fu poi tra-
sportato dal lato del sud-est nei vigneti di Nussdorf.
In Ungheria la fillosseronosi fu segnalata nel 1875 a Pancsova
presso la frontiera serba e non lungi da Belgrado, ed in quell'anno
erano già 35 gli ettari invasi. Il male fu importato da un viticul-
tore di Pancsova il quale sino dal 1870 aveva introdotto clande-
stinamente colà vitigni americani.
Anche adunque in Austria- Ungheria il male si dovette all' opera
dell'uomo.
(1) Scuola viticola.
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA 843
Sempre a sostegno della nostra tesi — cui attribuiamo molta im-
portanza nelle attuali ancor felici condizioni dell' Italia — citeremo
qui un caso d'invasione fuori d'Europa, in Australia. Ivi, e preci-
samente nei vigneti della colonia di Victoria, si scoprì la fillossera
nel 1878, ove fa rapidi progressi a Geelong (città marittima di 23,000
abitanti); l'afide vi fu importato dall'Europa e dall'America. Sono gli
Europei che diffusero la vite, massime nella Nuova Galles meridio-
nale, e naturalmente portarono viti dai loro paesi (senza badare al-
l'infezione) per mezzo dell' attivissimo commercio che si fa col sud-
detto porto di Geelong. Tanto la Camera alta quanto la bassa si
occuparono tosto colà seriamente d'un progetto di legge contro l'in-
vasione fillosserica, perchè l'industria vinicola è per quel paese assai
importante, permettendo l'emancipazione dall'importazione dei vini e
delle bevande spiritose dall'Europa.
Da tutto quello che precede risulta dimostrato coli' evidenza dei
fatti — e di fatti indiscutibili — che se il commercio delle piantine
di viti non si fosse incaricato di diffondere in molti punti dell'Eu-
ropa la fillossera, questo acerrimo nemico delle viti o sarebbe ancora
confinato nel suo paese d'origine (il Nord-America all'est delle Mon-
tagne Rocciose) o si sarebbe solo diffuso, mercè le sue emigrazioni
naturali, nello stesso Mezzogiorno della Francia; mentre la Sviz-
zera, la Germania, V Austria- Ungheria, la Spagna, V Italia evia
dicendo sarebbero ancor esenti. Ma pur troppo il commercio suddetto
aiutò in potentissimo modo la diffusione del male, anche nella stessa
Francia meridionale; e così, tanto per citare sempre dei fatti, (perchè
in questo nostro studio noi non vogliamo basarci altro che sui fatti)
si sa di certo che nei primi punti infetti del Nizzardo (presso Nizza,
Cannes e Cagnes) la fillossera vi fu importata sopra barbatelle di
Aramon provenienti dall' Hérault; senza di ciò si può ritenere con
tutta sicurezza che il Nizzardo sarebbe tuttodì esente dalla fillos-
seronosi.
Ci rimane a parlare deWItalia. È accertato nel modo più evi-
dente che anche nei nostri centri infetti la fillossera fu introdotta dal-
l'uomo; prendiamo ad esempio la Sardegna: a Sorso, in mezzo a vi-
gneti sgombri affatto da naturali ostacoli, il malaugurato insetto
venne importato quattro o cinque anni or sono con piantine d'aglio,
di cipolle e di tuberi di patate provenienti dalla Corsica, la quale,
come dicemmo, è invasa già da varii anni.
A S. Giorgio (Sassari) la fillossera fu importata da un francese,
844 CAPITOLO XXIX
il signor Vieta, il quale quantunque non abbia mai fatto importazione
di viti, fece però piantamenti di piante ornamentali nel giardinetto
aderente al vigneto ove si scoperse 1' anno scorso la presenza del-
l'insetto. Onde si può sospettare che l'infezione sia stata trasportata
o su quelle piante o colle materie d'imballaggio.
Per l'infezione di TJsini (il terzo e più piccolo centro infetto della
Sardegna) un proprietario espose il sospetto che l'importazione possa
esser stata operata da cacciatori francesi, frequenti in quella con-
trada.
Essendovi una legge in Italia la quale proibisce l'importazione di
sostanze vegetali dai paesi infetti, bisogna dedurre che cagione prin-
cipale delle nuove e vecchie infezioni sia stato il contrabbando, il
quale, per quanto grande sia la vigilanza ai confini, riescirà sempre
a frodare.
Ammettiamo quindi anche noi che sia obbligo del nostro Governo
di far aumentare la sorveglianza, ma ci permettiamo di ricordare
che anche i cittadini debbono per conto proprio contribuire a che
il funesto nemico non si introduca per nuove vie in Italia. L'on. Mi-
rag Ha raccontò in seno alla Commissione Fillosserica come un me-
dico di Casa Reale avesse chiesto un premio al Ministero per aver
scoperto il rimedio contro la fillossera (!). Interrogato rispose di
aver importate le radici dalla Francia e di averle per suoi esperi-
menti piantate in vasi a Torino. Aveva agito in ciò ignorando per-
fettamente la legge ; fu processato e condannato, onde ne morì di
crepacuore! Nel nostro Giornale Vinicolo (1884 pag. 154) il signor
Frizzoni accenna al contrabbando che si fa dalla Francia fillosserata
(Hérault) in Piemonte, con viti americane resistenti non disinfettate!
È doloroso dover constatare fatti simili!
Gli amanti di floricoltura, se hanno un po' d'amor patrio, devono essi
pure rifiutare le offerte di alcuni disonesti speculatori, i quali loro of-
frono piante e fiori provenienti dalla Francia e dalla Svizzera. E real-
mente il più sfacciato commercio di questi generi di contrabbando si fa
nelle principali città d'Italia. L'on Froio lo ha constatato a Napoli,
l'on, Lawley a Firenze, ove si promette coir aumento oVun tanto
per cento sul prezzo di costo, il trasporto a domicilio di piante
di qualunque provenienza.
Gli agricoltori dal canto loro stiano apparecchiati perchè la fil-
lossera si propaga anche naturalmente. In Sicilia ad esempio è fa-
cilissimo che durante le zappature della vigna, gli ovuli vengano
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA 845
alla superficie e colla forza del vento siano trasportati da Riesi, a
Mazzarino, a Terranova, a Vittoria.
d) Lo stato delle viti e la loro pretesa resistenza alla in-
vasione. Lo studio dell'invasione fìllosserica ne' suoi rapporti collo
stato di vegetazione delle viti ha secondo noi una importanza capi-
tale, massimamente per un paese come Y Italia, dove Y invasione è
ancora limitatissima,
Uomini chiari per coltura, ma non bene al corrente della grave
quistione della fillossera, propalarono una dottrina che, se pure non
ci inganniamo grossolanamente, sarebbe, ove venisse accettata ad
occhi chiusi, la rovina della nostra viticoltura, come già lo fu della
viticoltura francese. Cotale dottrina si può così riassumere in poche
parole: « lo stato della vegetazione delle viti ha una grande in-
fluenza sullo sviluppo della fillosseronosi, per cui sarebbe a ritenersi
che le viti rigogliose non temono il terribile pidocchio, mentre sol-
tanto le viti meschine se ne ricoprirebbero. »
Ora da ciò i viticultori trassero prontamente la seguente conclu-
sione, che ci udimmo ripetere le cento volte: « coltiviamo bene le
nostre viti, diamo al vigneto molto e buon concime, e la fillossera
non verrà a molestarci quand' anche importassimo piante o concimi
o altro dai paesi infetti. » In tutti i paesi dove si coltiva con amore
la vite, questa conclusione viene spontanea sulle labbra dei viticul-
tori, i quali, fidenti nel loro buon metodo di coltura, stanno a dor-
mire fra due guanciali e si ridono dei divieti di importazione, delle
misure di precauzione d'ogni specie prese dal Governo, e di noi che
scriviamo memorie e monografie sulla fillossera!
È facile vedere quanto male ne verrebbe alla viticoltura italiana
qualora uno di questi viticultori introducesse nel suo territorio il
temuto pidocchio: che se in questo territorio la vite predominasse,
sarebbe poi impossibile arrestare l'invasione, mentre ciò si farà, noi
ne siamo sicuri, in Lombardia, colà dove la viticoltura non è inten-
siva, ma intercedono lunghi tratti fra un filare e l'altro, e sovra-
tutto fra un vigneto e l'altro.
Noi diciamo invece che le viti rigogliose si ricoprono di pi-
docchi in maggior quantità che non le viti meschine e malaticcie;
le viti della Francia meridionale paragonate a quelle di Valmadrera
ce ne offrono la prova più chiara che si possa desiderare.
Certamente una vite robusta può resistere qualche anno di più
agli attacchi dei pidocchi; ma dopo quattro o cinque anni al mas-
846 CAPITOLO XXIX
simo finirà essa pure col soccombere. Al contrario le viti meschine,
se sono collocate a filari molti distanti fra loro, possono resistere
più a lungo. Ciò è accaduto a Valmadrera; ivi la fillossera vi esiste
da almeno 10 anni, come risultò dalle indagini praticate dai delegati
del Governo, nonché dalla ispezione giudiziale; or bene ciò nonostante
non vi si diffuse molto, perchè in primo luogo le viti non essendo
molto rigogliose (a causa sovratutto delle colture spossanti degli in-
terfìlari) non potevano offrire gran copia d'alimento ai pidocchi; in
secondo luogo perchè, causa tale deficienza dell' alimento, la molti-
plicazione delle fillossere era intralciata; in terzo luogo infine perchè
la diffusione dell'insetto era resa assai diffìcile dai larghissimi inter-
filari.
Invece, se prendiamo a considerare per poco le viti fillosserate
del fertile Mezzogiorno della Francia, quale differenza ! Queste viti
erano rigogliosissime — come lo sono oggidì le superstiti — ed ogni
due o tre anni si concimava il vigneto con abbondanza, onde poter
sfruttare annualmente la vigna stessa senza indebolirla e farla in-
vecchiare precocemente. Il distinto sig. Marès ce lo dice chiara-
mente nella sua preziosa monografìa intitolata « Des vigne du
Midi de la France » stampata — si noti bene — prima dell'inva-
sione; ecco le sue testuali parole:
« Si danno ivi ad ogni pianta di vite circa 5 chilog. di letame
di stalla, cioè 22 mila chilog. ad ettare (4400 ceppi) ogni tre anni
in terre buone; certi proprietarii adoperano talvolta quantità doppie »
e quando non si adopera letame « si adoperano 8 chilog. per ceppo
di vinaccie (35,000 ad ettare) ricche in azoto ed in potassa (il 26
p. 0[o di carbonato potassico,); »e spesso si adoperano « le terre ed
i composti terrosi, sopratutto quando contengono ceneri di vegetali. »
Da questi dati risultano due cose importanti a sapersi; la prima
si è che, come volevamo dimostrare, la fillossera non rispetta me-
nomamente le vigne ben coltivate (1), ben concimate e rigogliose;
la seconda si è che, qualunque sia il concime che si adoperi (letame,
ceneri, conci potassici, vinaccie) la vite non resiste perciò meglio al
rostro della fillossera, ed è condannata tardi o tosto a perire irre-
missibilmente.
È stato detto e stampato che le viti della Francia furono molto
danneggiate dalla fillossera perchè esauste dai copiosi prodotti in
(1) Anche in Isvizzera le viti fillosserate stanno fra le migliori {Fatio; 31).
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA 847
uva che quei viticultari solevano ricavarne: ciò è inesatto, perchè
vi sono regioni fillosserate in Francia dove il prodotto non è supe-
riore ai 30 od ai 50 ettolitri ad ettare, prodotto questo che non può
esaurire alcuna vigna, massime se è aiutata dal concime di tanto in
tanto. Nel Mezzogiorno però il prodotto è di molto superiore ai 50
ettolitri, ma quivi le viti sono tutt'altro che esauste; anzitutto per-
chè se continuano a produrre molto, vuol dire che si conservano in
ottime condizioni, eppoi perchè il Marès ci dice, nel citato libro, che
« le letaminazioni che ivi si danno alle viti sono più che sufficienti
per rimpiazzare le perdite che le raccolte fanno subire al suolo, »
È stato pure detto e stampato che concimando il vigneto con in-
grassi potassici, la vite avrebbe resistito alla fillossera: ciò è smen-
tito da centinaia di fatti. Nel citato Mezzogiorno della Francia, se
stiamo alle dosi di concime sopra riferite dal Marès, vi sarebbe nel
suolo grande quantità di potassa, eppure le viti soccombettero e van
soccombendo tuttodì. Eppoi che influenza può mai avere la potassa
sulla resistenza delle radici alle punture dei pidocchi? Essa induce
forse delle modificazioni nel tessuto corticale? No di certo. Ed allora,
come concepire questa vantata resistenza? Ma non vogliamo tratte
nerci più oltre su ciò, dal momento che tutti i viticultori francesi
di qualche levatura ci asseriscono il contrario.
Infine è stato consigliato di non far la guerra alla fillossera, ma
invece di rinvigorire la vite, perchè (a parere di taluni) la vite la
quale ripiglia la salute si sbarazza da sé dei parassiti.
Questo consiglio, ove venisse accettato, sarebbe (ripetiamolo pure)
la rovina della nostra viticoltura. Eppure varii giornali se ne fecero
l'eco, forse perchè non avevano riflettuto a quanto segue:
In Francia da principio non si fece la guerra alla fillossera, e si
pensò solo a ripiantare vigne (Cornu; Etudes, ecc. 48) nei punti
fillosserati ed a raddoppiare le concimazioni; fu tutto tempo e de-
naro sprecato, perchè l'insetto ebbe campo a moltiplicarsi in modo
spaventevole. Ora noi non sappiamo se in Francia si riescirà ad ar-
restare l'invasione.
Ebbene, si consiglia all' Italia la stessa linea di condotta, e non
si pensa che rinvigorendo la vite, nessun pidocchio muore; e se non
muore nessun pidocchio vuol dire che la fillosseronosi si diffonde vie-
meglio d'anno in anno. Se il rendere vigorose le viti facesse diven-
tare talmente duro, come dicevamo testé, il tessuto corticale delle
radici, così da impedire al pidocchio di infiggervi il suo rostro, al-
848 CAPITOLO XXIX
lora noi saremmo i primi a raccomandare quel sistema di lotta. Ma
ciò assolutamente non accade; la vite rinvigorita caccia un mag-
gior numero di radichette, il cui succo è precisamente quello che le
fillossere ricercano, perchè esse amano sovratutto i succhi delle viti
vegete, ed abbandonano le piante che stanno per perire.
Come dunque periranno quei pidocchi che per caso la pianta a-
vesse sopra di sé? Di fame, no di certo. Per causa degli insetticidi,
no, perchè (secondo il sistema suddetto) non si deve sprecar denaro
a far la guerra direttamente alla fillossera. Adunque non ucciden-
dosi le fillossere è chiaro che non si arresterà menomamente l'in-
vasione.
Vi sono bensì degli insetti i quali — come il gorgoglione — as-
salgono solo le piante deboli; ma la fillossera, come già dicemmo,
vive meglio invece, e si propaga più facilmente, sulle piante vegete i
cui succhi le sono graditissimi. La fillossera può ferire comodamente
anche una pianta robusta, e son poche, anche fra le viti selvaggie,
quelle che le resistono. Delle viti europee intanto nessuna resiste e non
resistono moltissime nel Nord- America, nonostante una splendida ve-
getazione. Non è quindi vero che la vite vigorosa si sbarazzi da sé
dei pidocchi, perchè questi persistono anche sulle viti americane re-
sistenti.
La conclusione di tutto ciò è pertanto la seguente:
« Bisogna evitare l'importazione della fillossera nei vigneti sani,
perchè anche se questi fossero rigogliosi e robusti soccomberebbero
in pochi anni.
« Data r invasione bisogna far tosto la guerra direttamente ai
pidocchi col solfuro di carbonio, o venire a transazione mediante le
viti americane.
« In quanto all'avere viti robuste ed a trattare il vigneto con con-
cimi opportuni, questo gioverà sempre al viticultore, vi sia o non
vi sia la fillossera. »
e) Come possano i viticoltori scoprire la fillossera. Quan-
d'anche il viticultore non conoscesse la fillossera, potrebbe pur tut-
tavia scoprire la infezione, ed ecco come. Vi è un fatto sul quale
non si sono mai sollevati dubbii né dagli studiosi né dagli uomini
della pratica, ed è il seguente: « dovunque vi ha la fillossera, le
radici delle viti presentano dei rigonfiamenti gialli aventi una
speciale forma ad uncino ». Si potranno trovare rigonfiamenti
un po' somiglianti a quelli della fillossera senza che vi sia fillos-
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA 849
sera (1), ma assolutamente non è mai accaduto che siasi trovata la
fillossera senza i tubercoletti in questione che le sono proprii. Il
sig. Massimo Corriti, che ha fatto studii tanto accurati sulla pro-
duzione di questi rigonfiamenti, descrive fra gli altri il seguente
esperimento dal quale risulta che mentre le viti sane hanno le loro
radicelle o barboline ben distese e senza nodi, se si pongono su di
esse alcune fillossere, si formano in breve tempo i suddetti caratte-
ristici rigonfiamenti generalmente uncinati (veggasi la Tavola II
qui unita, dove nella fig. 12 in & a. a, vi sono, in grandezza na-
turale, i rigonfiamenti, e nelle fig. 13, 14 e 15 i rigonfiamenti
ingranditi tre volte):
Egli prese una pianta di vite vegetante in un vaso da fiori ed
avente le radici sanissime, come era sanissima la pianta stessa; su
tali radici, che attorniavano le pareti del vaso e che erano ben svi-
luppate, pose alcune fillossere. Dopo sei giorni vi si vedevano di già
dei rigonfiamenti assai spiccati, d'una lunghezza di circa 3 millimetri
e con un colore giallo d'oro caratteristico. Questi rigonfiamenti, do-
vuti esclusivamente all' azione dell' insetto, cioè delle sue punture,
erano tutti terminali, vale a dire che erano prodotti tutti dal tes-
suto giovane ed in via di formazione dell' estremità delle radicelle
che chiamasi « punto vegetativo »: non si mostrò nessuna nodosità
sulle parti già completamente sviluppate della radice o della radi-
chetta. Il Corriti soggiunge infatti che allorquando la fillossera
può scegliere liberamente il suo posto non s" attacca che alle
parti piii giovani, perchè sono le più ricche in succhi.
Ecco come si formano tali rigonfiamenti: supponiamo, per sempli-
ficare la cosa, che una sola fillossera si porti sopra una barbolina;
allora, appena vi avrà infitto il suo robusto pungiglione o rostro,
avverrà della radichetta quello che avviene quando si lega con forza
un tronco od un ramo; cioè al disopra ed al disotto del punto in-
taccato si accumuleranno materiali e si formeranno delle prominenze.
Infatti la radichetta si gonfia attorno al pidocchio, sopratutto però
al disopra di esso (tal quale come avviene nel caso d'una legatura,
perchè anche qui il bordo superiore è più pronunciato). Dicendo al
disopra del pidocchio intendiamo dire dal lato della parte terminale
della radichetta, la quale continuerà a crescere, ma però ricurvan-
dosi; ed ecco la forma d'uncino o di becco, che è la predominante.
(1) V. più innanzi quanto è detto svlY angui llula radicicola (§ 18).
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 55
850 CAPITOLO XXIX
Il pidocchio rimane quindi come ricoverato entro la ricurvatura,
cioè entro la depressione che è la conseguenza della sua puntura;
ivi rimane attaccato fortemente, continuando a succhiare 1' umore
della vite.
Ma parecchie fillossere possono attaccare la stessa radichetta; al-
lora evidentemente le nodosità non possono più assumere la rego-
lare forma uncinata, come si vede chiaramente nella detta fig. 12
a a Tavola II; gli uncini però si può dire che non mancano mai.
Iti tal caso la porzioncina di radice attaccata assume forme diverse
a seconda della posizione che hanno le une rispetto alle altre le fil-
lossere, perchè per esempio quando due di esse stanno una da una
parte e l'altra dall'altra della radichetta (cioè quando occupano due
punti opposti) il rigonfiamento rimane quasi diritto, essendoci un
effetto di compensazione fra le due torsioni, e parrebbe allora che
avesse avuto luogo una legatura intorno alla radichetta. In regola
generale però si deve ritenere che ad ogni pidocchio corrispon-
dono da un lato una cavità e dal lato opposto ima ricurvatura
convessa, o piccola gobba, la quale è più o meno pronunciata
e nettamente disegnata a seconda che altre punture d'altre fil-
lossere vengono o non a modificarla. (Noi ci esprimiamo qui in
modo popolare, epperciò non diciam nulla di composizione di forze
e di risultanti, rimandando coloro che desiderassero nozioni più pro-
fonde all'opera del Cornu: crediamo però di non tralasciare qui nulla
di tutto quanto può giovare nella pratica).
Dobbiamo qui avvertire che noi abbiamo sempre parlato delle
barboline, cioè del cappellamento, o in termini più precisi, di ra-
dici d' un diametro uguale od inferiore ad un millimetro. Se
esse hanno un diametro uguale o superiore a due millimetri al-
lora non si vedono più uncini, ma rigonfiamenti più o meno pro-
nunciati secondo che sono 1' effetto della puntura di una, due o più
fillossere, ed accompagnati da leggere deviazioni: adunque allora
non si vedono mai ricurvature pronunciate.
Però abbiamo detto or'ora che vi possono essere rigonfiamenti
senza fillossere: è necessario chiarire il meglio possibile questo punto.
In primo luogo diremo che questi rigonfiamenti, per uno che li os-
servi con attenzione, presentano una certa differenza da quelli sopra
descritti, per cui non dovrebbe accadere confusione; ma ad ogni modo
la ricerca della fillossera, se si vuole coll'aiuto d'una lente, dissiperà
facilmente ogni dubbio, e questa ricerca se non crede di poterla fare
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL'UVA 851
il viticultare stesso, potrà affidarla ad uno dei molti Delegati gover-
nativi, provinciali o circondariali, che oggi vi sono in paese.
Quelle nodosità che non dipendono dalla fillossera possono dipen-
dere 1°) da bacterii, ma allora è soltanto su radici di leguminose (1)
che si osservano: queste radici però possono trovarsi mescolate (se
così possiamo esprimerci) con quelle delia vite, e — come è già
accaduto sotto i nostri occhi — venir confuse con quelle. Ma ogni
confusione sarà impossibile se si rifletterà (vedi Tavola IT, fig. 17,
trifoglio bianco o ladino, i rigonfiamenti sono litografati in gran-
dezza naturale) che- non si trovano mai all'estremità delle radicelle,
ma lateralmente, e che d' altronde sono globulosi, non mai uncinati
e sempre di color pallido o biancastro invece del giallo vivo o del
nero o bruno carico dei rigonfiamenti fillosserici della vite; 2°) da
speciali piccole anguillule (2), che sono parassiti, specie di minu-
tissimi vermi del gruppo di quelli che tutti hanno potuto vedere
nell' aceto o nelle sostanze in decomposizione o neh' acqua dolce o
salata o nel suolo stesso. Fra le anguillule parassitiche è nota quella
delle granelle del frumento; ma a noi interessano ora solo -quelle
dette anguillule radicicole, i cui rigonfiamenti possono vedersi nella
Tavola II (fig. 16, lupinella, grandezza naturale). Essi differi-
scono da quelli della vite perchè hanno un color bruno uniforme,
e poi tagliandoli trasversalmente presentano nel loro centro delle
vesciche (cisti?) piuttosto ampie, rare volte solitarie, ma più spesso
riuniti in gruppi di due o tre: esse si vedono bene colla lente, ma
anche ad occhio nudo, e contengono delle ova o delle anguillule;
3°) infine dal marciume o fracidume delle radici, prodotto da
funghi sotterranei o cordoncini a ramificazioni biancastre (rizomorfe
e rizoctonie); ma i rigonfiamenti in tal caso non sono uncinati né
ricurvi, ma allungati, e diversi perciò da quelli delle viti fillosse-
rate. Il marciume è abbastanza diffuso nei vigneti italiani, e quindi
bisognerà badare bene di non prendere abbagli, come già accadde
a taluno.
Da tutto quello che precede si può dedurre che esaminando, anche
(1) Acacia, trifogli, erba medica, lupinella (sanofieno), fagiuoli, fave, piselli,
lenti, veccie, ecc.
(2) I primi a scoprire queste anguillule sulle viti europee furono (nel 1881) i
IJott. Saccardo e Bellati in Alano di Piave (Belluno). Veggasi il cenno che ne
facciamo più innanzi al § 18.
852 CAPITOLO XXIX
ad occhio nudo, le radici d'una pianta di vite si possono scor-
gere facilmente i rigonfiamenti prodotti dalla fillossera; e questo
esame potrà farlo benissimo lo stesso viticoltore nell'atto dei lavori
del suolo che si fanno ad esempio in primavera. Il viticultore co-
nosce benissimo (come constatammo varie volte) le radici delle viti
e le distingue da qualsiasi altra radice che potesse per avventura
essersi con quelle intrecciata; ora è stabi bito che sulle radici della
vice non si trovano altri rigonfiamenti uncinati o ricurvi, coi
caratteri sovra descritti, alVinfuori di quelli prodotti dalla fil-
lossera. Se il contadino trova adunque tali nodosità, e se è sicuro
che quella radicella è della vite, è certo che nel vigneto esiste la
fillossera: per non spargere però falsi allarmi, sarà prudente chia-
mare una persona che sappia distinguere la fillossera colla lente.
Ma intanto, se il viticultore non trova rigonfiamenti, può star
sicuro che non vi ha fillossera, perchè la fillossera è sempre
accompagnata dalle nodosità uncinate sovra descritte.
Adunque il mezzo più sicuro, più spiccio, più economico e più fa-
cile per ispezionare i vigneti italiani è quello di ordinare ai conta-
dini che, neh' atto delle zappature o delle vangature, esaminino se
le radichette delle viti sono belle e distese, oppure se sono tuber-
colate. Chi non avesse fiducia nei proprii contadini, si dia la pena
di seguirli per qualche tempo durante le dette lavorazioni del suolo
e faccia egli stesso gli esami. In caso- di dubbio poi ricorra al De-
legato governativo.
Raccomandiamo quindi a tutti coloro cui sta veramente a cuore
l'avvenire della viticoltura patria, di diffondere queste nozioni: esse
ci offrono il mezzo di sorprendere la fillossera al primo anno (anzi
nei primi mesi) dell'invasione, cosa d'un'importanza grandissima per
la facilità con cui allora si può soffocare il male.
f) Perchè muoiono le piante fillosserate? Questa domanda
potrà a primo aspetto sembrare oziosa, ma non è tale; perchè la let-
tura di varii scritti minori sulla fillossera ci ha provato che non
sono pochi coloro i quali ignorano la vera risposta che si deve dare
a quell'importante quesito. Si crede generalmente che i pidocchi sot-
terranei assorbano tanto succo nutritore dalle radichette della vite,
da far morire quest'ultima di inanizione; or bene, ciò non è esatto.
La vite ha tale una potenza di vegetazione da non temere molto
queste sottrazioni di succo, per quanto numerose; noi non diciamo
che ove le fillossere fossero straordinariamente numerose, la vite
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA 853
non si risentirebbe punto per tale alimento meno abbondante; di-
ciamo solo che codesto non potrebbe mai essere la causa della morte
della pianta quale avviene, in pochi anni, nei ceppi flllosserati. È
anzi curioso il fatto osservato in Francia che, dopo le prime pun-
ture, la vite mostra come un maggior risveglio vegetativo, quasi
fosse stata stimolata, come allorquando si tagliano le radici di un
albero da frutta acciò fruttifichi in maggior copia. Ciò accade con
viti robuste ma infruttuose, le quali al primo anno dell'invasione si
mettono infatti a dar frutti, quasiché le punture fillosseriche avessero
fatto su di esse l'effetto dei salassi primaverili che noi facciamo sui
tralci quando la primavera è umida assai e la vite pletorica.
Adunque il parassitismo dei pidocchi può indebolire la pianta, ma
non potrà mai ucciderla, massime quando la vite è coltivata con
amore, ed aiutata spesso col concime.
Per confermare vieppiù questo fatto, diremo che allorquando si
produce un rigonfiamento sulle radici (pag. 849) la vite non si dà
per vinta, ma, mercè la sua potenza vegetativa, getta subito nuove
radichette colle quali può continuare ad alimentarsi. Preghiamo i
lettori a voler esaminare la Tav. II e precisamente le fìg. 13 e 14:
ivi si vede come la vite lotti contro la fillossera. Appena prodottesi
le nodosità, ecco che spuntano piccole radici a a a, massimamente
dalla parte convessa del rigonfiamento stesso, come accade anche
sulle convessità accidentali delle radici sane: mercè queste nuove ra-
dichette la vite continua a vivere a dispetto dei pidocchi. Tal' altra
volta accade che l'estremità giovane ed in via di formazione delle
radichette (il così detto punto vegetativo) non è intaccata e non ha
sofferto, ed ecco che allora essa continua ad allungarsi, non ostante
i rigonfiamenti che si trovano sulla radichetta stessa. Ed è notevole
il fatto, osservato principalmente dal Cornu, che le nuove radici le
quali prendono origine dalle nodosità, sono vigorose e sane ed in-
tieramente simili a quelle che provengono da radici sane in piena
vegetazione: esse s'accrescono rapidamente quasiché fossero destinate
ad un pressante e straordinario lavoro d'assorbimento.
Un altro fatto ci mostra che la vite non cede tanto facilmente
alle depredazioni della fillossera. Le radichette che nascono dalle
convessità dei rigonfiamenti (radichette che si comportano tal quale
come una radice ordinaria, dando anche origine a nuove barboline
secondarie) portano spesso dei peli radicali, locchè è un segno certo
che esse servono ad assorbire elementi nutritivi dal suolo: infatti
854 CAPITOLO XXIX
quei peli altro non sono che allungamenti tubulari delle cellule esterne
delle radichette medesime, e servono a moltiplicare straordinariamente
il numero dei punti di contatto della radice col terreno. Ognuno avrà
certamente visto dei peli radicali; il frumento per esempio ne è assai
riccamente provvisto, e se noi ne sradichiamo una pianta vediamo
che le particelle terrose sono fortemente trattenute dai peli delle ra-
dichette più giovani.
Or bene, questi peli si trovano non solo sulle radichette, ma anche
sui rigonfiamenti, cioè sulle nodosità: adunque anche per queste
parti ipertroSzzate delle radici, la vite continua ad assorbire nutri-
mento dal suolo.
Ma se la vite non si dà per vinta, non cede punto dal canto suo
la fillossera. Infatti, non appena sono cresciute le radichette, esse
sono punte dal pidocchio e vi si producono perciò delle nodosità;
queste nodosità possono dar origine ad altre radichette, ma la fil-
lossera se ne impossessa, perchè essa ama principalmente le parti
succulenti e più giovani delle radici. Cosi si arriva sino alla fine
dell'estate, momento in cui il sistema radicale si può dire che riposa,
mentre l'uva compie la sua maturazione. Se nel successivo anno le
radici delle viti si trovassero ancora nello stato in cui erano al fi-
nire dell'anno vegetativo precedente, allora la vite potrebbe ripren-
dere la sua lotta per l'esistenza, e benché debole, continuerebbe a
dar frutti: aiutandola poi con opportuni concimi, potrebbe vegetare
a dispetto dei pidocchi.
Pur troppo però le cose non si passano per tal maniera; perchè
alla fine dell'estate, come dicevamo testé, le nodosità scompaiono
come per incanto, come disse con frase efficace l'illustre Balbiani.
Ora scomparendo, succede necessariamente che la vite rimane pri-
vata di tutte le sue radici attive (cioè del cappellamento) e non po-
tendo più assorbire elementi nutritizii nel suolo, deve deperire dap-
prima per qualche tempo finché ha ancora radici sane (le quali non
scompaiono già come i rigonfiamenti) e poi irremissibilmente morire.
Dunque la vite fillosserata muore perchè, collo scomparire
delle nodosità, perde le sue radichette d' assorbimento: dal che
si deduce che qualora si trovasse il modo di impedire che i rigon-
fiamenti, come si suol dire, morissero, si sarebbe anche trovato il
modo d'aver uva a dispetto della fillossera.
Ma che cosa è questa morte delle nodosità? Si designa con
questa espressione il fatto incontestabile che, verso il finir dell'estate
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL'UVA 800
tutti i rigonfiamenti, qualunque siano le loro dimensioni e qualunque
sia la loro età, cangiano colore assumendo prima una tinta giallo-
rossastra, poi un'altra bruna, infine una nera, divenendo poco dopo
come appassiti 0 avvizziti; in una parola essendo morti in tutto il
significato della parola. Infatti non giovano più a nulla come organi
d'assorbimento, e perciò la vite finisce col morire.
L'avvizzimento incomincia dalle parti più giovani e più tenere del
sistema radicale, e poco a poco si estende alle sue ramificazioni più
importanti; diciamo poco a poco, ma non convien credere che quel-
l'appassire sia lento, perchè al contrario è abbastanza rapido, ed al
finire dell'estate in terre aride le nodosità, muoiono simultanea-
mente, cioè ad un tempo.
NeìYHérault (Mezzogiorno della Francia) i rigonfiamenti spari-
scono nella prima quindicina del mese di agosto: nella Gironda e
nella Charente invece muoiono soltanto nella seconda quindicina
dello stesso mese: in Lombardia ciò accade solo in settembre, circa
nelle due prime decadi od anche più tardi se il suolo è umido. In-
fatti dietro le numerose esperienze fatte in Francia, e dietro l'osser-
vazione di quanto accadde nel 1879 appunto in Lombardia, può
stabilirsi che se il terreno è umido, i rigonfiamenti tardano molto
a morire; mentre se è assai secco, periscono senza fallo durante
il mese di agosto.
Infatti quando una vice soffre la siccità, il cappellamento delle sue
radici (cosa nota a tutti i viticultori) quasi avvizzisce, cioè si dissecca
l'estremità delle radichette, ossia il loro punto vegetativo; nei ter-
reni freschi invece la vegetazione continua anche durante i grandi
calori, e si hanno allora acini più grossi e più ricchi di mosto.
Da ciò noi crediamo di poter dedurre, appoggiandoci altresì a
molti fatti osservati nel Bordolese (PalusJ, che tenendo fresco il
suolo d'estate al pedale delle viti, si impedisce in parte la morte dei
rigonfiamenti; adunque « chi vanga la vigna in agosto, la cantina
riempie di mosto » non solo ma può prolungare la esistenza delle
piante, se fillosserate. Ma non si deve fare soverchio assegnamento
su di ciò, quantunque sia stato detto dal Cornu che le copiose in-
nafnature delle viti che il signor Faucon (propugnatore strenuo del-
l'allagamento) pratica in estate durante le giornate più calde, pos-
sano avere uno speciale effetto sulle radicelle, impedendo loro di av-
vizzire e di farsi floscie.
Non bisogna però credere che la morte dei rigonfiamenti sia una
856 CAPITOLO XXIX
putrefazione, come è stato erroneamente detto da taluno: qui non si
tratta affatto di marcimento, si tratta di vero appassimento, e di-
fatti noi non adoperammo mai altra espressione che questa. Le no-
dosità adunque si raggrinzano, si increspano, si fanno piatte e
cessano così di essere organi attivi d' alimentazione: la loro decom-
posizione è poi lenta, e si afferma da taluni in Francia che anche
lungo tempo dopo si può trovarne alcune nere ma intatte, framezzo
al letame al piede delle viti fillosserate.
Perchè questo avvizzimento? Il sig. Cornu mise sopra un rigon-
fiamento isolato e rotto a metà, una fillossera madre addì 17 ottobre
1873; questo pidocchio incominciò a deporre ova, e ne depose mol-
tissime. Dal detto giorno sino al 27 dicembre, e così durante due
mesi e dieci giorni, le ova schiusero, i giovani pidocchi si fissarono
essi pure su quel pezzo di rigonfiamento, ma quest' ultimo non av-
vizzì punto, e si conservò intatto. Dunque non è vero che la fillos-
sera, introducendo un veleno nelle nodosità, le faccia perire. Del
resto i rigonfiamenti muoiono all' epoca stabilita, anche quando da
qualche tempo non hanno più fillossere sovra essi.
La causa pertanto della morte dei rigonfiamenti è diversa, e si
ritiene possa essere la seguente: durante i calori estivi dovrebbe ef-
fettuarsi il passaggio delle radicelle dallo stato erbaceo allo stato
legnoso, cioè il fenomeno della lignificazione; ma la loro natura es-
sendo stata modificata anatomicamente e sovratutto fisiologicamente,
quella trasformazione non può aver luogo, massime se 1' umidità fa
difetto; ed esse periscono in un coi rigonfiamenti. Ciò accade anche
nelle viti sane, poiché è noto che, durante i grandi calori, esse pos-
sono perdere parecchi teneri cappellamenti, i quali non riescono a
diventare radici, cioè non possono diventare organi più importanti,
ed allora muoiono. Or lo stesso accade delle nodosità a cagione delle
modificazioni che in esse induce la fillossera.
Si chiederà: è egli possibile impedire la morte dei rigonfiamenti?
Se si trattasse solo di impedire gli effetti sinistri della siccità, la
quistione si potrebbe forse risolvere abbastanza facilmente; ma noi
sappiamo che in un terreno fresco le nodosità periscono solo più
tardi, ma tuttavia periscono. Opporsi alle cause interne che hanno
per effetto la loro morte non pare cosa possibile; infatti, come im-
pedire che, dietro le punture della fillossera, si modifichino le cel-
lule delle radichette? L'osservazione ci mostra che quelle prossime
alla puntura restano atrofizzate, mentre le altre lontane od opposte
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0. Ottavi — Trattato di Viticoltura.
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA 857
ingrossano di molto cagionando appunto la nodosità: or come impedire
ciò se noni mpedendo che la radichetta venga punta dal pidocchio?
Presso la puntura si ha agglomerazione di amido, abbandonato dai suc-
chi, i quali non possono più passare per le cellule atrofizzate e vanno
quindi ad ingrossare le cellule sane; ma come opporsi a codesto?
Concludendo, pur troppo dobbiamo dire che allo stato odierno
delle nostre cognizioni sulla fillossera, non è possibile opporsi alla
morte dei rigonfiamenti, ed è perciò indispensabile far la guerra
direttamente ai pidocchi mercè gli insetticida o resistervi colle
viti americane.
g) Caratteri distintivi della fillossera della vite. Procureremo
ora di far conoscere nel modo il più chiaro ed il più esatto possi-
bile, quali siano i caratteri distintivi della fillossera della vite, acciò
non cadano in errore gli esaminatori poco addentro nella storia na-
turale di questo afide. Esso fu descritto da valentissimi naturalisti,
sin ne' suoi più minuti particolari, per la qual cosa non è più pos-
sibile, a nostro avviso, cadere ora in quegli errori che un tempo erano
scusabili anche presso persone avvezze allo studio degli insetti.
Il lettore, per seguirci con profìtto in questa descrizione, deve
porsi sott1 occhio le tavole litografiche I e II qui unite e che
crediamo fermamente siano disegnate con esattezza. Ciò permesso,
prendiamo le mosse da un raffronto che dissiperà molti possibili e-
quivoci: ed eccolo.
Tutti avranno certamente osservato quei pidocchi vegetali lunghi
un paio di millimetri, di color verde, che trovansi numerosissimi sulle
rose; ebbene la fillossera della vite appartiene alla stessa famiglia, che
è quella degli afidi o gorgoglioni, famiglia a cui appartiene anche
la cocciniglia, nota a tutti per il bel carmino che contiene. Tutti
questi gorgoglioni hanno una prodigiosa facoltà di moltiplicazione, e
pur troppo l'ha pure la fillossera della vite; ma mentre sotto questo
aspetto si è tratto partito della cocciniglia, poiché per ogni settan-
tamila insetti disseccati si ha un mezzo chilogramma di vero car-
mino, dalla fillossera non si ebbero che quei gravissimi danni che
tutti conoscono.
La fillossera, come molti altri insetti, va soggetta durante la sua
vita alle tre metamorfosi caratteristiche, (larva, ninfa e insetto per-
fetto) che sono notissime, fra gli altri, agli allevatori dei bachi da
seta. Per renderci più chiari seguiremo il nostro terribile afide in
cotali sue metamorfosi.
858 CAPITOLO XXIX
Le uova delle fillossere — e diciamo le uova e non l'ovo, per
non generare confusione coll'ovo d'inverno di cui diremo fra breve
— sono rappresentate nella Tavola I dalle fìg. 1 e 2 ingrandite
105 volte. Queste ova hanno una lunghezza media di 0mm,30,
cioè tre decimi di millimetro, ed una forma ovale; in a fìg. 1 si
vede poi che le due estremità sono più pallide, perchè contengono
un liquido più chiaro della sostanza giallognola che costituisce l'in-
terno delie ova stesse. Il colore di queste è infatti giallo vivissimo
quando sono deposte di recente; ma poi, continuando nel loro svi-
luppo, esse diventano rossastre, poscia brune, la qual tinta indica
che sono sane e suscettibili di riprodurre altre fillossere. Non passa
molto tempo che nell'interno dell'ovo (mercè il fenomeno della seg-
mentazione scoperto sin dal 1824 da Préoost e Dumas) si vedono
comparire le varie parti che andranno poi a costituire il giovine pi-
docchio; e così (fìg. 2) in b vedonsi tre tacche rosse che sono gli
occhi, e poi il lungo succhiatoio, le zampe ripiegate, le antenne pure
ripiegate e via dicendo: in a vedesi poi una linea nera che pare una
cresta dentellata, la quale, secondo Cornu ed altri, avrebbe per uf-
ficio di tagliare i tegumenti dell'ovo per lasciar libera uscita al pi-
docchio; questo però, quando è uscito dall'ovo, non presenta più co-
tale cresta, che appartiene forse all'ovo; ciò però non è ammesso da
Balbiani, che dice invece che essa appartiene all'embrione, il quale
nell'atto della schiusura, la rigetta, come accade presso altri insetti
secondo J. Kùnckel. Ma lasciamo questo punto che per noi non ha
grande interesse e proseguiamo.
Il pidocchio che esce dall'ovo, si suol chiamare più propriamente
giovine larva; esso ha una lunghezza che oscilla fra 0, mm. 60 a
0, mm. 70 (cioè fra 6 a 7 decimillimetri) ed una forma ovata, come
lo indica chiaramente la fìg. 3 (Tavola I; ingrandita 105 volte) a
meno che esso non contragga gli anelli dell'addome, nel qual caso
assume una forma più arrotondata. Questo pidocchio, il quale vive
sulle radici, ha sei zampe: questo carattere che chiunque può con
grande facilità constatare, può dissipare gravi errori; infatti si tro-
vano talvolta sulla vite piccoli insetti che possono prendersi per fil-
lossere (come è già accaduto) mentre esaminandoli con una lente è
facile scorgere che hanno otto zampe e che sono quindi acari e non
afidi, perchè questi ne hanno solo sei. (Fra gli acari sono notissimi
quello del formaggio vecchio, quello che produce la scabbia sulla
pelle umana, quello dei fichi, ecc.). La fillossera, come si vede nella
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL'EVA 8o§
fig. 3 (a) ha due antenne ai lati del capo, le quali sono divise in
tre parti, cioè in tre articoli: invece gli acari non hanno antenne.
Insistiamo su questo raffronto degli afidi cogli acari, perchè ricor-
diamo che alcuni poco esperti, i quali visitarono le viti filìosserate
di Valmadrera, stamparono poi che non si trattava della fillossera
bensì di una scabbia vegetale prodotta da acari; or questo è un grave
errore, facile a riconoscersi dietro le indicazioni che qui abbiamo dato.
Le antenne della giovine fillossera, come si vede nella fig. 19 della Ta-
vola II, hanno alla loro estremità un robusto pelo: inoltre l'ul-
timo articolo di esse antenne ha una forma ovata ed ellittica, come
si vede in a fig. 3, Tav. I. Oltre a ciò, sul corpo dei pidocchi gio-
vani non si vedono tubercoli, mentre negli adulti (vedi fig. 5) se ne
trovano sul dorso ben settanta, secondo Cornu. Il colore di queste
giovani larve è variabile dal giallo vivo al verdastro e al bruno; sul
colore dunque l'osservatore poco esperto non potrà fondarsi molto
per decidere se si tratta di pidocchio giovine o adulto; perciò egli
potrà fondarsi sui caratteri precedenti che sono abbastanza spiccati
da non lasciare dubbii.
La fillossera cangia la pelle, cioè subisce delle mute, similmente a
quanto accade pel baco da seta. Il giovane pidocchio è giallo vivo
appena ha cangiato la pelle, poco dopo diventa giallo oro, poi giallo
verdastro, per ultimo diventa un po' bruno; i tubercoli (fig. 5) in-
cominciano a vedersi dopo la prima muta, a misura che scompare
la tinta giallo-vivo. Le mute sono generalmente tre, una ogni cinque
giorni al massimo; poscia, dopo quindici giorni al più, il giovine pi-
docchio diventa pidocchio adulto, o larva partenogenica, così detta
perchè — dopo cinque giorni circa — depone ova senza il concorso
del maschio, genera cioè essendo vergine: maschi non ve ne sono
infatti, ed è per questo che è molto più giusto dire la fillossera che
non il fillossera come stampano alcuni scrittori italiani e tutti poi
quelli francesi. Il pidocchio adulto (fig. 5 e 6 ingrandito 60 volte)
è lungo da 0, mm. 70, ad un millimetro e più (1,20). Esso si di-
stingue facilmente dal giovine: anzitutto l'articolo terminale delle an-
tenne è perfettamente cilindrico (fig. 20, Tavola II) mentre prima
ovato (fig. 19), ed il secondo articolo è più largo, come si vede be-
nissimo nella detta figura 20: in a poi si vede un apparecchio che
si ritiene essere l'organo sensitivo del tatto e dell'odorato. Gli occhi,
costituiti da tre macchie rosse, stanno ai lati del capo e sono assai
visibili. Esaminando un pidocchio dalla parte del dorso, non si scor-
860 CAPITOLO XXIX
gono le sei zampe (fig. 5), perchè sono corte, e ben osserva il Negri
che è mirabile questa disposizione delle zampe « per un insetto de-
stinato a vivere sotterra e che ha appunto bisogno di corti gambe
onde far pressione col dorso sugli ostacoli che ha sempre attorno
a sé, senza esporsi alla fatica od al pericolo di dover spingere nella
terra o contro altri impedimenti le sue zampe staccandole dall'og-
getto cui aderisce ». Nella figura 6, in b, e, e, f, g, h, sono indicati
gli organi della respirazione, cioè gli stimmi, che sono aperture che
conducono l'aria necessaria alla vita entro tubetti detti trachee.
Ma l'organo che più ci interessa nella fillossera è il becco, o ro-
stro, o succhiatelo, (a figura 6) che, quando è in riposo, sta ap-
poggiato contro il ventre entro un fodero, cioè una guaina (fi-
gura 22, e). Il succhiatoio è costituito da tre setole che si vedono
ben disegnate in d fig. 6, ed in a fig. 22; siccome però la mediana
è doppia, sarebbero in tutto quattro, protette alla base da un pezzo
conico robusto che si vede nella fig. 23 e nella fig. 22 in b, sul
quale si appoggiano: questo pezzo conico, rappresenterebbe, da quanto
si legge, il labbro superiore dell'apparato boccale, mentre le setole
rappresentano le mandibole e le mascelle. La guaina, che è chiara-
mente disegnata in a fig. 6, nonché in e fig. 22, è una membrana
che presenta un solchetto per tutta la sua lunghezza, solchetto entro
cui si adagia il succhiatojo quando il pidocchio si riposa. Quando
invece esso vuol succhiare alza il rostro e spinge le tre setole riu-
nite nei tessuti della pianta, e forse allarga poi le due laterali, fis-
sandosi meglio e fortemente alla radice e succhiando una maggior
quantità di umore.
Abbiamo detto che al massimo in quindici giorni un giovine pi-
docchio diventa adulto; e che dopo altri cinque giorni incomincia a
deporre ova, le quali schiudono dopo sei, sette o al più otto giorni.
Son dunque circa 25 giorni in tutto. Ma un pidocchio adulto può vi-
vere due mesi circa, e deporre in media da due a tre ova al giorno:
è facile adunque vedere quale sterminato numero di fillossere si ge-
nereranno dalla primavera all'autunno. Così, faccia m pure dei cal-
coli modestissimi: poniamo che una madre partenogenica deponga 20
uova in 30 giorni incominciando a marzo nei paesi caldi, come ad es.
la Sicilia; in marzo avremo dunque 20 fillossere, le quali daranno
origine ad altre 20 almeno per caduna; in aprile saranno adunque 400;
in maggio 8000; in giugno 160,000; in luglio 3,200,000; in agosto
64,000,000; in settembre 1,280,000,000! in ottobre infine oltre a 25
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL'UVA 861
miliardi. Certamente questa progressione geometrica non segue il suo
corso regolare, perchè moltissimi pidocchi muoiono; ma ove su 25
miliardi ne rimanessero anche soli 3 o 4, la fillossera sarebbe pur
sempre « il flagello dei vigneti » perchè se una sola può generare
a milioni, che dire poi delle legioni di pidocchi che coprono le ra-
dici fillosserate ?
Ma vi sono alcuni pidocchi che vivono meno in fretta di quelli sin
qui descritti; essi infatti impiegano, per cambiare tre volte la
pelle, non 15 giorni ma 40, e oltre a ciò dopo la terza muta
non depongono ova, ma invece subiscono un quarto cangia-
mento di pelle, locchè accade verso il mese di luglio: queste fil-
lossere vivono e si nutrono preferibilmente sulle radichette, e per
questo migliore e più copioso alimento finiscono col diventare insetti
perfetti. Infatti dopo la quarta muta suddetta si vede un pidocchio
come quello della fig. 7, Tavola I (ingrandito 50 volte) avente ai
lati due sacchi a nei quali stanno i rudimenti delle future 4 ali.
Questo pidocchio corrisponderebbe alla crisalide del baco da seta, ed
è detto la ninfa: esso ha il corpo più allungato, le antenne nerastre
coll'articolo terminale un po' ristretto nel mezzo, come nella farfalla,
e con colore fulvo- giallastro. Le ninfe non depongono uova; esse ri-
salgono alla superficie del terreno ove subiscono una quinta muta
diventando farfalle: prima di subire questa ultima muta si mostrano
inquiete, non si fissano sulle radichette, ma Raggirano qua e là.
La fillossera alata (fig. 8, ingrandita 50 volte) appena dopo la
quinta muta della ninfa, ha un colore giallo-d'oro vivissimo e bril-
lante, le ali bianche ed è in movimento continuo. Poco dopo essa
distende le sue ali e si presenta così sotto l'aspetto d'una piccola
mosca di color giallo-d'oro. Infine le ali finiscono col diventare grigie,
una parte del torace nera ed il resto dell'insetto fulvo-rossastro: no-
teremo che l'alata non ha tubercoli e che ha sei zampe lunghe e due
antenne pure lunghe.
È facile confondere la fillossera alata con altri insetti, e special-
mente colla fillossera della quercia; per non cadere in simili errori
bisogna osservare due cose: 1°) che l'articolo terminale delle antenne
(fig. 8 e 21) presenta nella sua parte mediana una strozzatura, un
restringimento, per cui l'articolo non si può dire cilindrico, ma par-
rebbe quasi composto di tre parti; però queste tre parti non sono
distinte una dall'altra e l'articolo terminale suddetto è integrale: (gli
è su questa integrità che secondo Signoret si basa in parte la di-
862 CAPITOLO XXIX
stinzione del genere Philloxera): 2°) che questo articolo terminale
presenta (fig. 8 e 21 a, b) due castoni (1) aventi una forma ovale,
laddove nella fillossera della quercia il castone ha la forma più al-
lungata d'una soletta. Il castone potrebbe anche dirsi organo sensi-
tivo del tatto, dell'udito o dell'odorato; esso ha l'aspetto d'un pic-
colissimo timpano convesso, circondato da una specie di cornice più
spessa. La natura ha provvisto di due castoni 1' articolo terminale
delle antenne della fillossera alata, perchè, dovendo essa emigrare
da un vigneto all'altro, ha d'uopo di un senso più delicato che non
i pidocchi sotterranei.
La fillossera alata ha un organo visivo perfetto e panoramico com-
posto di sette occhi; infatti oltre all'occhio semplice che le sta sulla
fronte (a, fig. 8) ne ha altri due, grossi e composti, ai lati del capo
(e, fig. 8), poi altri due semplici e piccoli sopra cadun occhio com-
posto (b, fig. 8), ed infine altri due (d) sotto l'occhio composto, i
quali hanno 3 cristallini caduno. Gli occhi composti risultano da nu-
merosissimi cristallini emisferici (2), come si vede in d, fig. 11, la
qual figura è ingrandita 360 volte; in essa si vede bene uno degli
occhi semplici, detto anche ocello e, nonché uno degli occhi a tre
cristallini a, b, e, corrispondenti agli occhi dei pidocchi.
La parte mediana del torace (g, fig. 8) dell' alata è colorata in-
tensamente in bruno, a meno che si tratti, come già dicemmo, d'una
alata giovanissima; ma l'imbrunimento non tarda molto sul mesoto-
race: su di esso sono inserite le due grandi ali h. Le piccole sono
inserite più in basso (sul metatorace), e queste ali stanno sotto le
precedenti.
Le fillossere alate, benché munite del succhiatoio, non risulta che
prendano alimento: esse sono poi partenogeniche, come i pidocchi
adulti; i maschi non esistono. Cotali farfalle depongono, sul terreno
stesso, o sulla pagina inferiore delle foglie, o sulla corteccia, da 4
a 0 ova di due dimensioni e di due tinte: le più piccole danno luogo
alla nascita di pidocchi maschi, le più grosse producono delle fem-
mine. Eccoci dunque finalmente ad una fillossera sessuata, cioè che
ci presenta i due sessi. Questo pidocchio, che è senza ali e senza
(1) Assomigliano infatti al castone, cioè a quella parte dell'anello ove è posta
la gemma.
(2) I lamponi possono dare un idea abbastanza esatta della disposizione di tali
cristallini degli occhi composti.
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA 863
succhiatoio, è facilissimo a distinguersi dai pidocchi sotterranei: la
fig. 10 della Tavola II ci mostra il maschio ingrandito 70 volte, ed
in a vedonsi i rudimenti del succhiatoio: la fìg. 9 ci mostra la fem-
mina, ed in a il rudimento pure del succhiatoio. Questi due pidocchi
non hanno né apparato boccale né organi di digestione; essi pertanto
non si nutrono, tal quale come avviene per le farfalle del baco da
seta: la loro missione è solo quella di accoppiarsi. Il maschio, che è
piccolissimo, muore dopo l'accoppiamento; la femmina invece (che è
lunga 0, inni, 40 a 0, mm. 50, cioè da 4 a 5 decimillimetri) depone
un ovo, l'avo d'inverno, così detto dall'illustre Balbiani, perchè
deve passare l'inverno come le ova dei bachi da seta e di altri in-
setti, per poter schiudersi alla successiva primavera. Uovo d'inverno
è molto grosso (0, mm. 33) relativamente all' insetto, e ne occupa
quasi tutto l'addome, come vedesi nella fìg. 9, Tavola I: esso ha un
colore bruno- nerastro, ed appare marmorizzato di nero. Vieri deposto
in settembre (od in agosto nei paesi caldi (1) ), fra gli interstizi)
della corteccia cui aderisce per mezzo di un' appendice a forma di
coda.
A primavera quest' ovo schiude e ne esce un pidocchio verso la
metà di aprile, il quale scende nel suolo, si fissa sopra una radice
col suo pungiglione, subisce ivi le tre mute di cui dicevamo or'ora,
e così si ritorna alle fillossere delle radici, dalle quali abbiamo preso
le mosse.
Però a primavera non vi sono sotto terra soltanto queste fillos-
sere provenienti dall' ovo d'inverno: vi sono anche quelle dell'anno
precedente, le quali passarono l' inverno sulle radici, abbandonando
però le radichette estreme e sottili. Queste fillossere sono raramente
madri partenogeniche, ma per lo più giovani pidocchi che non compi-
rono tutte le loro tre mute. Son detti fillossere ibernanti, sono pic-
colissime e son disegnate nella fig. 4 ingrandita 50 volte. Quando
la temperatura del terreno scende sotto i 10° C, subentra questo
stato di letargo; i pidocchi assumono un colore marrone scuro, si
riuniscono nelle fessure o anfrattuosita della corteccia delle radici, e
rimangono raggruppati, inerti, però prendendo forse un po' di cibo.
Le fillossere delle radici si possono dire morte quando oltre al
presentare un colore bruno o nerastro, si staccano facilmente dalle
(1) Vedi il num. 20 del Giornale Vinicolo (1880) pag. 241, dove il siy. Graells
dice d'aver trovato, nel sud della Spagna, Povo d'inverno già nel mese di agosto.
864 CAPITOLO XXIX
radici stesse, il succhiatoio non essendo più conficcato; invece è dif-
ficile staccare un pidocchio ibernante, il quale si tiene saldo mercè
le setole del suo succhiatoio. Ponendo poi le fillossere morte sotto
alla lente e cimentandole con un eccitante qualunque (alcool allun-
gato) non muovono più le estremità.
Riassumendo il fin qui detto, concluderemo che la fillossera la
quale danneggia direttamente e realmente le viti è quella rappre-
sentata dal pidocchio partenogenico (senza ali, attero; senza distin-
tivi sessuali, agamo): — la fillossera che allarga l' infezione è la
farfalla (forma alata e agama) benché anche i pidocchi passino, sopra
terra e sotto terra, da vite a vite: — infine la fillossera incaricata
per così dire di rinforzare la stirpe coll'intervento del maschio, è il
pidocchio a sessi distinti {sessuato) da cui viene l'ovo d'inverno.
La diffusione della fillosseronosi può avvenire anche per mezzo
delle alate; queste infatti, se il vento le aiuta, possono andare sino
ai 15 chilometri di distanza, mentre i pidocchi possono, in un anno,
invadere una piccola zona di 10 o 12 metri all' ingiro del punto in
cui si trovano. Sono dunque le fillossere alate che ci fanno la mag-
gior paura; però bisogna sapere che quelle le quali son portate dal
vento sovra terreni non coltivati a vite vanno perdute, con grande
vantaggio pel viticoltore.
E così, tra la zona infetta di Lombardia e le altre regioni viti-
cole d'Italia, stanno vaste piane in cui possono certamente perire
molte farfalle, anche supposti i venti favorevoli. Se poi la fillossera
si estese così poco a Valmadrera, questo deve a nostro avviso at-
tribuirsi al fatto che il vento dominante (il quale va dalla Brianza
al Lago di Lecco) invece di portare le alate verso le terre coltivate
le portò verso il lago e verso una zona dove non vi sono più viti.
In Francia invece, nei dipartimenti invasi, sono o meglio erano
tante le viti, che forse nessuna farfalla andò mai perita: per questo
l'invasione si allargò in modo spaventoso.
i) La lotta contro la fillossera. — Contro la fillossera si sono
escogitati dei mezzi di resistenza e dei mezzi di distruzione: i mezzi
di resistenza sono essenzialmente la coltura di certe viti americane
e X insabbiamento; i mezzi di distruzione consistono nella ricerca
dell'uovo d'inverno, negli insetticidi e nella sommersione. Delle
viti americane parleremo diffusamente al Gap. XXXI; degli altri
mezzi di lotta diremo qui.
Insabbiamento, — Nell'Hérault, a Pavalay, vi ha un piccolo vi-
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL'UVA 865
gneto di 40 ettari piantato nella sabbia sulle rive del mare; ebbene,
esso è affatto immune dalla fillossera, benché in paese assai fìllos-
serato. La fillossera adunque non vive nei terreni sabbiosi, o per lo
meno si propaga con estrema difficoltà: la Commissione internazio-
nale per la fillossera constatò in Francia, nel ISSO, che mentre le
viti soccombono facilmente nei terreni argillosi e compatti, resistono
invece nei sabbiosi, e tanto più lungamente quanto maggiore è la
proporzione della sabbia. In seguito a queste ed altre osservazioni
anteriori, alcuni in Francia insabbiano e con pieno successo i terreni
che vogliono piantare a viti. Ma le sabbie pure, se realmente sterili,
non servono alla coltivazione della vite; bisogna dunque che siano
alquanto fertili {'Bayer ad esempio trovò in sabbie cosidette fertili
il 12 0(0 di calce: la vite vi prosperava benissimo non ostante la
fillossera). La Sicilia è certo ricca di tali sabbie, ed ha inoltre in
gran parte le sue vigne nelle sabbie (1) e molti terreni sabbiosi su-
scettibili d'essere piantati a vigna: crediamo che da questi fatti si
possano trarre lieti auspici per la viticoltura di quell'isola, che ora
ha la fillossera in varii punti, come già abbiamo detto più sopra.
Ricerca de ir uovo d'inverno e trattamento preventivo contro
la fillossera. Nel 1882 il naturalista francese G. Balbiani iniziò
esperienze su un nuovo metodo di distruzione della fillossera basan-
dosi sul modo di riproduzione dell'insetto che abbiamo visto espli-
carsi con generazioni partenogenetiche. Il Balbiani, come dicemmo,
ha affermato pel primo che l'uovo d'inverno della fillossera è ap-
punto l'origine degli individui che ricominciano il ciclo e danno vita
alle generazioni destinate a moltiplicarsi per qualche tempo colla par-
tenogenesi. Posto ciò, trovare il mezzo sicuro di distruggere V uovo
d'inverno sarebbe come trovar la maniera di liberarsi dalla fillossera.
Ecco la base degli studii che da due anni si stanno facendo dal
Balbiani e da altri; avvertiamo che a proposito di questi studii va-
lenti fillosseristi francesi già dichiararono di non credere che possano
approdare a qualcosa di pratico (2), ed uno dei più strenui propu-
gnatori del Balbiani, il sig. P. de Lafitte, confessa che per ora le
esperienze non ebbero risultato alcuno, poiché per varie cause non
si poterono effettuare come precisamente le intendevano gli speri-
(1) Così l'ingegnere delle miniere del distretto di Caltanissetta, signor P. Toso
(Bollettino del Ministero d'Agricoltura, n. 22, 1880).
(2) V. Comptes rendus de VAcadémie des Sciences, I voi. 1885.
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 56
866
CAPITOLO XXIX
mentatori (1). Noi quindi non faremo che accennare brevemente e
con riserva a questo nuovo sistema di lotta, come lo preconizza il
Balbiani.
La prima difficoltà è di poter trovare queste uova d' inverno. Il
Valéry -May et della Scuola di Montpellier osservò che 1' uovo fe-
condato non è deposto a caso su d'un ceppo qualunque di vite, ma
pare al contrario che ci siano in ogni regione delle località, degli
angoli di vigna dove lo si trova più facilmente. Questi luoghi d'elezione
si riconoscono per le galle (fig. 321) che ogni anno ricoprono le foglie.
Fig. 321
Ma essendo queste galle provenienti dalle fillossere escite dall' uovo
fecondato, è logico il dedurre che dove ogni anno si trovano molte
di queste escrescenze la si depongono ogni anno molte uova d'in-
verno. Ora distruggendo tutte le foglie coperte da galle e, indi-
pendentemente da ciò, distruggendo pure coi comuni trattamenti
degli insetticidi il più gran numero possibile di uova d'inverno, si
potrebbe venire ad aver ragione dell'insetto specialmente se tali e-
nergici trattamenti si ripetessero ogni anno. La prima operazione deesi
(1) V. Journal d'Agricutture pratique, 1885, n. 18.
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA 867
fare prima del 20 giugno perchè le fillossere che non si fissano
alle foglie discendono alle radici e le prime discese cominciano alla
fine di giugno, mentre i primi freddi dell'autunno vi spingono tutte
le giovani fillossere dell'ultima generazione. La seconda operazione
si può fare in tutte le località della vigna dove ogni anno si tro-
vano galle sulle foglie, e non trattando che il legno di due o tre
anni il quale solo è capace di riparare l'uovo d'inverno (1).
Ma altri trattamenti furono più recentemente consigliati per la
distruzione dell' uovo d' inverno. Citeremo quello del sig. Elia Mi-
repooc, encomiato dallo stesso Balbiani. Consisterebbe esso nel fare
arrivare sui tronchi delle piante un getto di vapor d'acqua a 120°;
ciò si ottiene mediante un generatore della forza di quattro cavalli,
il vapor d'acqua viene diretto mediante tubi speciali di caoutchouc
di 20 m. di lunghezza.
Il Balbiani consiglia però altri trattamenti più economici, consi-
stenti in bagnature delle viti con una miscela così composta:
Olio lourde (è un prodotto della distillazione del
catrame) i. . 20 parti
Naftalina greggia 30 »
Calce viva 100 »
Acqua 800 »
Questa miscela si applica con un grosso pennello o con una spaz-
zola su tutta la superficie del ceppo, senza preoccuparsi delle
gemme e delle sezioni messe a nudo dalla potatura. La miscela de-
v'essere piuttosto densa ma non troppo. Preparata da qualche tempo
si rapprende e allora bisogna diluirla con nuova acqua. Questo trat-
tamento è abbastanza economico per essere applicato a tutte le viti;
il Balbiani consiglia di applicarlo a viti immuni ma esposte per la
vicinanza al pericolo dell'invasione fillosserica. Esso avrebbe per ef-
fetto di impedire la schiusura delle uova d'inverno e la formazione
di colonie radicicole per mezzo degli insetti usciti da queste uova:
sarebbe in una parola un vero trattamento preventivo contro la fil-
lossera. L'epoca migliore per applicarlo è, secondo l'autore citato, l'in-
verno e specialmente dal febbraio al marzo quando l'uovo d' in-
verno termina la sua invernazione. Se le viti sono vecchie e a cor-
(1) V. Messager agricole du Midi, I voi. 1882.
868 CAPITOLO XXIX
teccia piuttosto spessa si farà precedere lo scortecciamento, e questo
una volta per sempre, senza cioè ripeterlo negli anni venturi. Se le
viti sono giovani e la corteccia sottile questo scortecciamento po-
trebbe invece nuocere. Un altra precauzione per questo trattamento
preventivo- è quella di esportare dal vigneto alla potatura tutti i
tralci tagliati, e bruciarli o almeno conservarli in luogo riparato e
secco, non esposto all'aria e all'umido (1).
Tale è il metodo consigliato dal Balbiani ai viticoltori francesi,
invitandoli a sperimentarlo costantemente per diversi anni, e pro-
mettendo loro, se riesce, una notevolissima economia nei comuni trat-
tamenti curativi contro il funesto insetto.
Gli insetticidi. — Fra le centinaia di insetticidi proposti per di-
struggere la fillossera, solo due si sostengono ancora oggidì, e cioè
il solfuro di carbonio ed i solfo carbonati alcalini. Da principio
l'uso del solfuro di carbonio ha dato luogo a gravi disappunti, poiché
non si erano ancora fatti studii sufficienti intorno al suo modo di
agire ed alla maniera più opportuna per adoperarlo; si ebbero gli
stessi insuccessi quando si incominciò ad applicare lo zolfo contro
1' oidio, ma perseverando sua mercè si riuscì a vincere la malattia.
Così va verificandosi per il solfuro; ce lo attesta il valente Direttore
dell'Agricoltura in Francia, Eug. Tisserand (2) colle seguenti te-
stuali parole: « L' uso degli insetticidi, sempre meglio inteso, dà ri-
« sultati eccellenti; gli insuccessi sono meno frequenti. I viticoltori
« sono bene iniziati al trattamento, che applicano dappertutto essi
« stessi, e di cui le spese si riducono ovunque all'acquisto del sol-
« furo, perchè il viticultore ha sempre a sua disposizione, mercè le
« sue braccia e quelle de' suoi figli, la possibilità di effettuare i la-
« vori necessarii al trattamento, il quale si fa precisamente nella
« stagione ove egli ha il meno a fare ». Queste poche parole di-
mostrano meglio di ogni lunga discussione, che l'uso degli insetticidi
non è impossibile ed assurdo in pratica, come molti autori italiani
pretendono, basandosi su vecchi dati; conviene tener dietro ai con-
tinui progressi che si vanno facendo in Francia a questo riguardo
per poterne parlare colla dovuta imparzialità. Il sig. Tisserand ci
(1) V. Instructions pratiques 'pour le badigeonnage antìphylloxérique des vi-
gnes, per G. Balbiani.
(2) Situatìon des mgnobles philloxérés. Rapporl à la Commission swjpèrieure du
phil. — Aprile, 1885 corrente.
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA
869
porge anche il seguente specchio, che dà un'idea esatta dello stato
attuale della lotta contro la fillossera in Francia:
Superficie
invasa d illa
fillossera
ma ancora
resistente
Mezzi di difesa, o di ricostituzione
Totale
degli ettari
difesi
0
ricostituiti
Anni
Sommer-
sione
Solfuro
di
carbonio
Solfocar-
bonati
Viti
americ.
N 2
O ;
è *
ettari
ettari
ettari
ettari
ettari
ettari
1878
243.048
2.837
2.512
845
1.356
7.550
3.10
1879
319.730
5.114
3.122
627
3.830
12.693
• 3.94
1880
454.254
8.093
5.547
1.472
6.441
21.553
4.74
1881
582.604
8.195
15.933
2.809
8.904
35.841
6.15
1882
642.978
12.544
17.121
3.033
17.096
49.793
7.74
1883
642.363
17.792
23.226
3.097
28.012
72.137
11.23
1884
664.511
23.303
33.446
6.286
52.777
115.812
17.42
Come vedesi, le viti americane occupano il primo posto, da due
anni a questa parte, ma anche F uso del solfuro di carbonio si è
esteso notevolmente; ogni anno intanto si perfezionano gli istru-
menti necessarii per adoperarlo, pali injettori, aratri solfurosi, ecc.;
le applicazioni si fanno a piccole dosi ripetutamente, nelF inverno o
sul principio della primavera. Così non si danneggia la pianta, mentre
la si libera d'una grande quantità di fillossere, la qual cosa mentre
basta perchè essa non abbia a soccombere, permette pure che vegeti
normalmente e. dia normali prodotti, specialmente se la vite è aiu-
tata da opportune concimazioni, come sempre è necessario qualunque
sia il sistema di lotta o di resistenza prescelto.
Fra le comunicazioni più recenti e più attendibili riguardo all'im-
piego del solfuro di carbonio come curativo della fìllosseronosi,
dobbiamo accennare a quelle fatte nel marzo del decorso anno 1884
alle Réunìons vìticoles organizzate dalla benemerita Socie té Cen-
trale d 'Agricullure de l'Hérault, certo non sospetta di soverchia
tenerezza pegli insetticidi, poiché è noto invece che essa crede sovra-
tutto nelle viti americane. A pag. 70 e seg. della relazione si legge che
il sig. Paslre di Béziers sulfura i suoi vigneti da quattro anni ed il
Jaussan pure di Béziers da sette anni con ottimi risultati e con una
spesa massima di cento sessanta lire per ettare; vi si legge pure che il
870 CAPITOLO XXIX
sig. Narbonne, membro del Consiglio generale dell' Aude, spende sole
settantacinque lire per ettare, avendo sostituito al palo iniettore Ya-
ratro sulfuratore a getto continuo del Simonin di Libourne: egli a-
dopera al massimo 150 chili di solfuro per ettare, che gli costano, in ra-
gione di L. 40 al quintale, L. 60; il detto aratro sulfura 2[3 d'ettare al
giorno. Il sig. Pastre afferma che il sulfuro di carbonio ha meriti
incontestabili e che è adoperato con grande successo nel circondario
di Béziers, sempre però accompagnato da buone concimazioni: « il
sulfuro di carbonio è un elemento serio di conservazione per le vi-
gne fillosserate » così egli soggiunge a pag. 71; però il sulfocarbo-
nato costa troppo e finirà molto probabilmente per essere abbando-
nato da tutti.
La sommersione e la irrigazione. — La sommersione delle viti
è un mezzo sicuro per uccidere le fillossere. Il promotore strenuo
di questa energica cura è il signor Faucon; l'acqua vuole essere ab-
bondante, il terreno ben livellato e suscettibile di conservare l'acqua
stessa, cosicché sia possibile tenere il vigneto fillosserato sott'acqua
per un quaranta giorni tra il finir del settembre e 1' ottobre, cioè
quando le fillossere, non essendo ancora entrate nel periodo di tor-
pore invernale, periscono più facilmente. Disgraziatamente nella mas-
sima parte dei vigneti italiani il metodo dell'allagamento è imprati-
cabile. In Francia si è provato ad allagare in inverno dei vigneti
con uno strato d'acqua alto 0m,50, e si osservò che la vite non soffre,
ma produce uva come al solito, purché però si lavori bene il ter-
reno in primavera ed in estate, e si concimi riccamente con ingrassi
azotati e con potassa.
La fig. 322 mostra una pompa in azione, mossa da una macchina
a vapore locomobile, per la sommersione dei vigneti; questa instal-
lazione è stata fatta, presso alcuni viticultori, dalla Société francaise
de materiel agricole.
Anche della irrigazione estiva ed autunnale, si parla oramai
come di un'ottima pratica antitìllosserica, e ciò specialmente nel di-
partimento francese dell' Hérault. Il sig. H. Mares (1) scrive che
nelle piane dell' Hérault e dell'Orb ormai si contano a centinaia i
pozzi scavati in due o tre anni allo scopo di alimentare delle norie.
Il solo comune di Vias ne contiene trecento. I piccoli proprietarii
non esitano a spendere anche 1000 o 1200 lire per aver dell'acqua.
(1) V. Bulletin de la Société centrale d ag riculture de VHérault 1884 p. ^49.
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA
871
Queste irrigazioni in tempo di siccità cominciano in settembre, per
continuare se è necessario durante tutto l'inverno: sospese per qualche
mese in primavera si riprendono verso la fine di maggio e si con-
tinuano sino all'epoca che precede la maturanza; — ne viene che
l'acqua scende ad imbevere profondamente anche il sottosuolo.
Continua il Marès affermando che numerose vigne sottoposte a
CAPITOLO XXIX
questo trattamento sono a poco a poco ricostituite e ridonate alla
vita.
Come si fanno queste irrigazioni? Il sig. Maistre (1) che le pra-
tica da 7 anni con successo e se ne dice contentissimo, scava tra i
ceppi tante fosse di 75 cent, di lunghezza per 45 di larghezza e 35
di profondità, e le riempie d'acqua ogni 15 giorni. La terra estratta
dalle fosse serve ad incalzar le viti e favorisce lo sviluppo di radici
superficiali. Il sig. Maistre dice che preferisce l'irrigazione alla som-
mersione, perchè la quantità d'acqua con cui sommergerebbe d'in-
verno due ettari, gli basta, coll'irrigazione continua, per dodici.
Dobbiamo avvertire che gli studiosi ed i viticultori dell' Hérault
non sono ancora perfettamente d'accordo sul momento più opportuno
per questa irrigazione. V ha chi la vorrebbe praticata solo d' e-
state. chi d'estate la ritiene pericolosa. Alla irregolarità dei risultati
ottenuti certo in gran parte contribuisce la diversa natura del ter-
reno.
§ 3. Il rincliite della vite (2) detto anche punteruolo o ta-
gliadizzo in Toscana, moschetta nel Lazio, sigaraio nel Napoletano,
snas in Piemonte — è un colleottero a corpo splendente, ordina-
riamente di color verde dorato al disopra e rosso-rameo variegato
di verde al disotto, oppure di color bleu o violaceo al disopra, verde
al disotto, con antenne nerastre, con capo liscio e rostro più lungo
del capo, quasi cilindrico (3): è lungo circa 7 millimetri ed ha il
petto o ventre punteggiato. In principio di maggio si vedono sui
pampini quei rinchiti che riuscirono a superare l'inverno: essi si ac-
coppiano e restan talvolta accoppiati anche per una intera giornata.
Allorquando, colle loro piccole mandibole, hanno intaccato tutt'all'in-
giro i picciuoli dei pampini, questi si piegano all'ingiù e restan pen-
denti: allora la femmina depone le ova sulla foglia e poi l'accartoccia
quasi per proteggere le ova stesse; poi depone altre ova, e quindi
ripiega nuovamente la foglia e così di seguito sino a formare ciò
che i viticoltori napoletani chiamano acconciamente sigarette. Dopo
(1) Log. cit. p. 247.
(2) Rynchites bacchus, o R. betuleti o R. alni? Quest'ultimo pare sia il vero
sigaraio dei Napolitani. Al Rincliite si dà da alcuni anche il nome di Attelabiis
die veramente appartiene ad altro genere.
(:ì) A. ('osta. Degli inselli — (Napoli 1877, presso G. Nobili).
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA
873
una decina di giorni le ova schiudono e le larve (che sono vermi-
ciattoli senza piedi di color bianco sudicio uniforme) perforano il
cartoccio e ne escono dopo un mese, durante il quale si sono nutrite
colle parti più morbide del cartoccio stesso. Uscite che sono, cadono
al suolo e ivi restano in letargo fino alla primavera successiva. I
rinchiti, appunto perchè attaccano le foglie, possono recare grave
danno alla vite, se son numerosi: ed il guaio si è che molti di essi
Pig. 821 A.
Fiff. \m.
Fìe. 324 B.
vivono, allo stato perfetto cioè di piccolo scarafaggio, sino a set-
tembre, ed in questo frattempo intaccano i picciuoli dei grappoli dan-
neggiando così seriamente il prodotto. Bisogna dunque far loro la
guerra, ed il modo migliore è quello di raccogliere a primavera e
poi distruggere tutti i cartocci: oltre a ciò bisogna, se è possibile,
raccogliere anche i rinchiti perfetti, per evitare che guastino i grap-
874
CAPITOLO XXIX
poli, ponendo una tela sotto le piante e scuotendole sul far del-
l'alba (1).
La fig. 323 rappresenta un pampino accartocciato dal Rinchite:
il pampino essendo secco, le larve sono uscite dai punti a a a. La
fig. 324 A rappresenta la larva vista di lato: la fìg. 324 B rappre-
senta l'insetto perfetto: in C è segnata la lunghezza naturale del
Rinchite perfetto.
§ 4. L'Apate della vite (2). — Fu studiata in Italia assai
bene dal citato Costa (3). È un insetto lungo sei o sette millimetri,
m &1
Kig. 326.
Fig. 325. Fig. 327.
con corpo cilindraceo, robusto, troncato nei due estremi, con capo
(1) Apelle Dei — Insetti dannosi alle viti.
(2) Synoxylon muricatum, Dufts. — Sinodendroa muricatum, Fab.
bispinosa, Oliv.
(3) Chi desiderasse più dettagliate nozioni ricorra all'opera citata.
Apate
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA
875
puntigato- rugoso, prototorace quasi quadrato, convesso- gibboso sul
dorso; elitre ricoprenti ed abbraccianti completamente l'addome; co-
lore rosso- testaceo, col capo nerastro. Questi scarafaggetti sono in-
nocui, ma le larve, bianco-sudicie e che hanno forti mandibole, abitano
nello strato legnoso, del quale si cibano, scavando tra la corteccia
ed il midollo una galleria longitudinale. Fortunatamente Y apate de-
pone le ova preferibilmente nel legno morto; però spesso attacca
anche le viti vegete, e se son molte le larve a rosicchiare, le piante
periscono di certo. È difficile far la guerra all' apate; l'unico mezzo
è quello di esaminare (giugno e luglio) le viti intristite, spezzarne i
tralci « ed ove vi si trovassero dentro le larve dell' apate, recidere
dalla base il tralcio intero e darlo alle fiamme » (Costà).
^
Fig. 328.
Fig. 329.
La fig. 325 mostra un pezzo di tralcio spaccato longitudinalmente
con due larve a a, una ninfa b ed un insetto perfetto e nelle ri-
spettive gallerie. La fig. 326 mostra la larva di sopra. La fig. 327
la stessa vista di lato. La fig. 328 mostra l'insetto visto da sopra.
La fig. 329 lo stesso visto di lato. Il tratto A dà la misura della
grandezza naturale.
§ 5. L'Enmolpe (1) detto anche rodi-germogli della vite, è
un insettuccio (fig. 330), lungo circa 5 millimetri, con testa nera, in
parte nascosta sotto il corsaletto, che è nero e molto convesso, con
elitre rosso -castagna, assai più larghe del corsaletto (A. Dei). Da
giovine è ovale, e a primavera rosicchia i germogli ed i teneri grap-
(l) Eumolpus vitis, Fab. a Crisomela ?
876 CAPITOLO XXIX
poli, ma quando è adulto non rispetta neppure gli acini. È attaccato
assai fortemente alla vite, ed è perciò difficile dargli la caccia colle
Fig. 330.
tele e scuotendo le piante: però si consiglia questo metodo e nulla più.
§ 6. La Melolonta comune (1) o carruga è uno scarabeo
lungo circa 37 millimetri e più ancora, nero, peloso e con 1' ultimo
Fig. 331
segmento del ventre bruno rossastro, del qual colore son pure le
elitre. Quando è giovine è detto anche verme bianco (fig. 331), e
vive sotto terra per tre anni cibandosi di radici, fra cui quelle al-
tresì delle viti: nell'autunno del terzo anno è lungo 45 millimetri,
biancastro e spinoso sul dorso. Nell'aprile successivo esce da terra
insetto perfetto e danneggia i fiori, le foglie ed i getti teneri delle
viti, nonché d' altre piante. Spesso la Melolonta è numerossima, e
reca serii danni: le si fa la guerra lavorando profondamente il ter-
reno, massime in inverno, e facendo seguire l'aratro da polli o tac-
chini.
§ 7. La Melolonta della vite (2) o Ronzone delle viti (nel
(1) Melolontha vulgarìs, Fai). — Scaràbceus Melolontha, Liti.
(2) Anomala vitis, Fab.
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA
877
Veneto Garduzzo, in Toscana Ronzone verde). — È lunga solo 15
millimetri, mentre la Melolonta comune è talvolta il doppio, come lo
dicevamo or' ora. Essa è talora verde, talora bleu, talora color di
rame. Allo stato di verme vive sotterra, e diventa lunga circa 15
millimetri cibandosi quasi esclusivamente delle radici della vite: esce
quindi di terra adulta in maggio o giugno, e devasta le viti in modo
gravissimo, come accadde nel 1869 nel Veneto (A. Bei). Per darle
la caccia bisogna stendere delle tele all'alba sotto le viti infestate e
scuotere queste; siccome al mattino le Melolonte sono come asside-
rate dal freddo, cadono con grande facilità.
§ 8. La Tortrice dell'uva (1) o tignola del fior di vite, o
bruco dei grappoli, è un vermiciattolo dannosissimo (fig. 332, a)
33;
che attacca gli acini o verdi o in maturazione; è lungo 8 millimetri
al massimo, di color bianco verdiccio (o rossiccio se attacca uve nere).
Allo stato di insetto perfetto la Tortrice è una farfalletta notturna
che il Costa dice essere quasi impossibile di descrivere con esat-
(1) Tortrìx Romaniana, 0. Costa
guelfa, Hiib,
Cochylis Romaìiiana — Tinca Ambi-
878 CAPITOLO XXIX
tezza. Tali farfallette depongono le ova, in primavera, sui grappoli
i cui piccoli acini verdi son grossi allora come una testa di spillo.
I pìccoli vermi che ne nascono, mediante fili serici legano assieme
sette od otto acini (fig. 332, b), e formano quasi un gomitolo nel
cui centro si piazzano. Da questi vermi ha origine, circa in due mesi,
una seconda generazione le cui larve (o vermi come si direbbe po-
polarmente) penetrano negli acini, che son già abbastanza grossi, e
vi rimangono stazionarie. Da queste larve si origina una terza ge-
nerazione, i cui vermi si internano essi pure in altri acini, quasi
maturi allora, e che perciò marciscono (fìg. 332, e). La prima ge-
nerazione però è la più nociva, perchè ogni verme guasta non un
solo acino, ma sei o sette, od anche assai di più Per far la guerra
alla Tortrice bisogna, in primavera, raccogliere tutte quelle specie
di gomitoletti di acini e bruciarli, operazione che possono fare anche
i ragazzi, e che perciò non è molto costosa, massime se si riflette
ai gravissimi danni cui si andrebbe incontro trasandandola.
§ 9. La Pirale della vite (1) detta anche tignola delle viti
o Bruco della cima delle viti (A. Dei). Le figure 333 e 334 ci
mostrano la pirale allo stato perfetto; nella figura 333 è disegnato
il maschio, che talvolta non misura nemmeno 10 millimetri, la fi-
si 333.
gura 334 ci mostra la femmina che spesso è lunga da 15 a 16 mm.
e che depone le ova sui pampini. Nel primo stadio la pirale è un
vermiciattolo lungo circa 10 millimetri, di color verde con 16 zampe.
« È in questo primo stadio della sua vita, cioè da giovine, che questa
(1) Pyraìis Vitana, Fab. — Tortrix pilleriana, Hiib.
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA 879
Piralide produce i suoi guasti alle viti, che spesso sono considere-
voli. Essa nasce infatti sul finire d'agosto dalle uova che la farfal-
letta femmina aveva deposte sui teneri pampini o foglie della cima
delle viti. Allora i suoi danni son piccoli, perchè piccola è la sua
mole, e ben vestite sono le viti. Al sopraggiungere dei primi freddi,
si nasconde nelle fenditure dei pali, o sotto la scorza delle stesse
viti, e là passa l'inverno in uno stato di assideramento. Alla pri-
mavera si rianima, ed allora i danni che produce son gravi dav-
vero: poiché al primo svolgersi delle gemme, od occhi delle viti, ogni
brucolino lega insieme con della seta le tenere foglie ed i grappo-
letti nascenti: e situandovisi in mezzo, rode ciò che gli sta intorno,
ed il più spesso anche i teneri piccioli, tanto delle foglie, che del
grappolo stesso. In una parola, essa distrugge tutta la cima del
nuovo getto, e per conseguenza anche il frutto che sarebbe per pro-
durre. Da ciò chiunque, ben comprende il danno grave che questa
Piralide può produrre in una vigna, quando in numero grande la
invade: e di fatto sono sventuratamente famosi i guasti tremendi che
in qualche anno ha prodotti, ora in questa, ora in quella parte della
nostra Penisola. »
« Quando ha terminato di crescere, ed è perciò per passare al se-
condo stadio, ossia nell'età media, si rinchiude anche meglio nel pac-
chetto di foglie nel quale viveva, vi si trasforma nuovamente, ed i-
nerte vi rimane fino a luglio inoltrato; alla qual epoca, si trasforma
nuovamente, ed esce fuori nel terzo stadio, cioè adulta, nella forma
della farfalletta già descritta di sopra (1).
§ 10. La zigena della vite (2) detta anche ampelofaga è un
insetto dannosissimo, ben noto in tutta Italia, il quale allo stato di
verme o larva rosicchia le tenere cacciate delle viti e spesso lascia
i tralci completamente denudati. La fig. 335 ci mostra una di queste
cacciate con un gruppo di ova a quasi sferiche e bianchiccie deposte
sul tralcio e le larve b b sulle foglie. La fig. 336 ci mostra la larva
colla misura A della sua lunghezza naturale: essa conta 14 anelli,
ha color bianco sporco con tre liste longitudinali nere sul dorso ed
un altra su ciascun fianco, irsuta nel dorso, colla faccia centrale più
chiara e quasi nuda. La fig. 337 ci mostra un pezzo di canna con
(1) A. Dej, op. cit. pag. 36.
(2) Zygaena ampelophaga, Bayle-Bar — Sphìnx ampelopaga, Hub.
880
CAPITOLO XXIX
entro i bozzoli e le spoglie delle crisalidi; infine la fìg. 338 ci mostra
l'insetto perfetto eli color verde bluastro splendente colle ali spiegate
e la fig. 339 lo stesso colle ali in riposo (Costa — loc. cit, 332).
Figi 335.
Si è tra l'aprile ed il maggio che le femmine depongono le ova
sui tralci, spesso numerosissime; dieci giorni dopo all' incirca escono
i bruchi che tosto si alimentano delle foglioline nascenti della vite,
crescendo con esse e continuando così per tutto il maggio: essi te-
mono però la luce solare e di giorno si nascondono o entro terra
o nella pagina inferiore delle foglie; al tramonto risalgono sui pam-
pini e vi stanno sino al mattino. Nel loro massimo sviluppo sono
lunghi 12 mm. e larghi 3; ciò accade sul principio di giugno nei
paesi caldi: allora si ritirano entro le canne o sotto la corteccia
delle viti o dei sostegni, ove tessono il loro bozzolo, nel quale si
trasformano in crisalidi per uscire farfalle nella seconda metà del
giugno stesso. Queste farfalle volano poco e di rado, onde si pos-
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA
881
sono vedere sulle foglie o sui tralci. Esse danno luogo ad una se-
conda generazione, deponendo ova dalle quali escono bruchi che
danneggiano a loro volta le foglie; poscia, come ha osservato il
Costa, continuano oltre nelle loro evoluzioni, dando luogo a farfalle
che schiudono in parte tra l'agosto ed il settembre e poi muoiono
infeconde, mentre altre, le più tardive e meno vigorose, passano l'au-
tunno e l'inverno allo stato di crisalidi e danno le farfalle soltanto
in primavera; queste farfalle assicurano la propagazione della specie
nell'anno. Così accade infatti di quasi tutti i lepidotteri notturni e
crepuscolari.
Fiff. 338.
Fiff. 337.
Fig. 339.
Per far la guerra alle zigene senza danneggiare le viti, bisogna
attendere che le larve siano nel loro massimo sviluppo, e così la
seconda metà di maggio; allora, dopo aver collocato sotto i tralci
invasi dei pannilini, si scuotono i tralci stessi per far cadere le larve
che indi abbruciansi; questa caccia, eseguita dai ragazzi, è meno
lunga di quanto può sembrare a primo aspetto. Sarà pure utile rac-
cogliere i bozzoli e le farfalle; non si deve trascurare alcun mezzo
di distruzione, se pure si vuole liberare il proprio vigneto da sì vo-
race e dannoso insetto.
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura.
57
CAPITOLO XXIX
§11. L' Albinia Wockiana o bruco dell'uva. — Questo
bruco, noto in Italia solo da pochi anni (1), è dannosissimo all'uva,
specie nel momento della sua maturità. La fìg. 340 ce ne mostra
Fig. 340.
la larva molto ingrandita; è questo vermiciattolo che guasta affatto
l'uva introducendosi entro gli acini. Il suo corpo, che consta di tre-
dici anelli, è lungo circa 10 millimetri, ed è munito di otto paia di
gambe. La larva tesse poi il suo piccolo bozzolo, generalmente far
le ramificazioni del raspo, e si muta in crisalide (fig. 342 molto in-
Fig. 341 e 342.
grandita:) indi in insetto perfetto, cioè nella farfalletta disegnata in
grandezza naturale nella fig. 341 col corpo ricoperto di piccolissime
squame, e perciò di aspetto metallico. Non è rado vedere questa
farfalla (fìg. 343 a) sugli acini a succhiarne 1' umore. Nella stessa
figura 343 vedonsi in b b' i buchi fatti dalla larva negli acini, ed in
e la larva stessa pendente dal suo filo. L' agronomo C. Mancini,
che ha pubblicato nel nostro Giornale Vinicolo del 1883 un accurato
studio sulle Albinie, asserisce che esse attaccano più facilmente le viti
basse che quelle alte, le vigne di valle o di pianura che quelle di
(1) Si (leve al chiarissimo Dr. Briosi l'averlo studiato pel primo fra noi nel
1878-79: egli vi impose il nome di Albinia Wockiana in onore dei valenti scien-
ziati Giuseppe Albini e Dr. Wocke
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA
883
collina; noi abbiamo osservato che il bruco perfora molto più facil-
mente gli acini di viti situate in terreni pingui o letamati, che non
quelli di viti poste su suoli ricchi piuttosto di elementi minerali che
di elementi azotati. Il bravo viticultore Sebastiano Badala- Geraci
di Acireale osservò che i concimi fosfo-potassici preservano indiret-
tamente le viti dal marciume; egli potè fare a questo riguardo in-
teressanti osservazioni di confronto.
Pig. 343.
Mezzi di distruzione d'esito sicuro non se ne conoscono: crediamo
però che la miscela di calce e zolfo gioverebbe a fugare i bruchi
(v. pag. 832). Ci associamo frattanto al consiglio del Mancini di
anticipare un po' la vendemmia per non lasciar tempo alle larve di
autunno di trasformarsi in crisalidi, e di raccogliere quanto più si
può di acini guasti e di bruchi, affidandone la cura ai ragazzi; senza
di ciò in pochi anni l'albinia diventa un vero flagello.
884 CAPITOLO XXIX
§ 12. La noctua aquilina (1) detta anche verme grigio, bi-
gatto, camporaiola, cipolìare, perchè ghiotta delle foglie di cipolla,
è dannosissima allo stato di bruco alle viti, di cui rode i teneri ger-
mogli attaccandoli alla loro base. Ha colore grigio scuro, e quando
assale le viti ha la grossezza di un baco alla 4a muta con 16 zampe,
di cui 6 toraciche, 8 addominali e 2 anali; di giorno sta nascosto sotto
terra, la sera esce, sale sulla vite e ne fa strage durante la notte.
La noctua è pur troppo assai nota in tutta Italia, massime dal 1880
in qua, avendo recato spesso danni assai gravi. Il sig. Ing, G. B. Pel-
legrino di Boves (Cuneo) ha studiato con molta cura i mezzi più
adatti per liberare i vigneti dalle noctue, ed ecco il metodo che egli
sin qui ritiene preferibile.
Ogni giorno egli fa percorrere attentamente da ragazzi tutti i fi-
lari delle 'viti, specie nei luoghi più infestati, ed appena qualcuno di
essi si accorge di una gemma o fogliolina di vite intaccata o cor-
rosa di recente, fa tosto ricerca del bruco roditore, il quale si
trova subito scavando con un bastoncino la terra attorno al pedale
delle viti. Il sig. Pellegrino paga i bruchi raccolti in ragione di uno
o due centesimi caduno; così i ragazzi ne fanno una caccia attivis-
sima e seria. I bruchi raccolti si danno ai polli, che ne sono assai
ghiotti. Con questo sistema egli riuscì a salvare le proprie vigne,
che prima erano gravemente danneggiate ogni anno dalle noctue.
§ 13. L'altica man già- viti o pulce delle viti (2). — L'altica
è una piccola pulce non più lunga di 5 mm., di figura ovale, di co-
lore totalmente verde o bleu-verdastro, assai brillante al disopra e
verde intensa quasi nera al disotto. La fig. 3-14 ce la rappresenta
ingrandita nonché in grossezza naturale; essa si mostra in principio
di primavera, depone le uova, e le larve si danno tosto a cibarsi
delle foglie, che appariscono poi come bucherellate e finiscono per
seccare; l'altra danneggia anche i sarmenti ed i picciuoli dei grap-
poli. Cotali larve hanno sei zampe, il capo molto grosso ed il
corpo, che è composto di 12 anelli, va sempre decrescendo di dia-
metro, cosicché il verme pare un triangolo a punta molto acuta, la
cui base si trova dal lato della testa. Le larve subiscono sulle foglie
(1) Agrotis fimbria, L.
(2) Hallica tmvpelophaga Giiér. — //. consobrina, Foud.
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA 885
stesse le [successive trasformazioni e si hanno gli insetti perfetti
(fig. 344) in agosto, come ha osservato il Dì\ Dei.
Fig, 344.
Molti viticultori affermano che l'Altica non soggiorna per più di
tre anni in un vigneto" e lo confermano pure valenti studiosi della
entomologia; spasso basta un forte colpo dL vento per farla scompa-
rire totalmente. Gli uccelli, e specialmente le pernici, fanno una guerra
micidiale alle altiche, le quali per di più hanno i loro parassiti in
altri insetti, come gli icneumoni e la cimice blu (pentatonici cce-
rulea) che sono accanniti distruttori delle Altiche stesse. La loro
raccolta scuotendo i tralci e facendole cadere entro recipienti, è molto
facile, perchè questi insetti, appena sentono scosse, sogliono lasciarsi
cadere; con tale sistema se ne distruggono moltissime e quasi se ne
libera il vigneto.
§ 14. L7 Otiorinco (1) detto ladrone nell'Istria, è un vorace
nemico delle viti. La fìg. 345 ce lo mostra molto ingrandito, ma
a destra è disegnato l'insetto in grandezza naturale. È lungo da 10
a 12 millimetri, intieramente nero (2) tanto sopra che sotto, colla
testa punteggiata e rivestita di piccoli peli fulvi; anche le antenne
hanno una pubescenza di ugual colore. Il prototorace è coperto di
piccoli tubercoli rotondi, i quali essendo molto fitti gli danno come*
un apparenza granulosa: te zampe sono nere colle coscie rigonfie.
L'Otiorinco si mostra allo stato perfetto quando appunto si svi-
luppano le prime cacciate della vite, e tosto se ne pasce avidamente,
(1) Othiorynchus sulcatus. Ve ne sono molte varietà nel vigneti italiani e fran-
cesi (0. corruptor, 0. armatus, ecc.)
(2) Certe varietà hanno invece un colore grigiastro.
886 CAPITOLO XXIX
cagionando talvolta gravissimi danni, poiché rende impossibile ogni pro-
duzione d'uva. Di giorno questo insetto sta rannicchiato o nel ter-
terreno o nei crepacci della corteccia; la sera esce e si dirige verso
le gemme.
Fig. 345.
Per dargli la caccia taluno ricorre ai tacchini, che ne sono ghiotti;
altri fanno raccogliere gli insetti dai ragazzi, dopo aver scalzata legger-
mente la ceppaia i cui getti appariscono danneggiati; in queste piccole
buche si è certo di trovare di giorno molti otiorinchi per non dire tutti.
§ 15. Il Letro (1). È uno scarafaggio (fig. 346) assai nocivo
alle viti, noto specialmente in Austria ed in Ungheria e che noi ab-
biamo riscontrato anche in Monferrato; è lungo 20 mm. circa, largo
lg. 346
12, di color nero: è notturno e crepuscolare e guasta le tenere cac-
ciate delle viti. Di giorno si nasconde nèr suolo. Pare che allo stato
di larva guasti anche le radici.
§ 16. La Forbice o forfecchia (2). — Insetto notissimo (fi-
(1) Lethrus cephalotes, Fab.
(2) Forficula auricularia, Lin.
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL' UVA
gura 347) che abbiamo incontrato spesso nei vigneti del Monferrato;
ma i suoi guasti si rilucono a poca cosa, e forse è più utile che
nocivo perchè si ciba di acari ed altri insetti minuti che incontra
Fig. 347.
sulle viti e sugli alberi da frutta in genere. Il Prof. Targioni-To-
setti dice che se ne possono prendere molte, volendosi distruggerle
« mettendo, là dove capitano, dei cannelli di canna o dei rami di sam-
buco vuotati dal midollo o dei tubi di carta » perchè le forfecchie
di giorno corrono volentieri a nascondervisi dentro.
§ 17. L' Hoplophora arctata. — È questo un acaro (pag. 858)
che si trova non di rado sulle radici delle viti, e che ci è rappresentato
dalla fig. 348; ha color bruno ed il corpo protetto come da una specie
di astuccio, colla testa munita d'uno scudetto che può entrare nel-
l'astuccio stesso; se si presenta un pericolo, l'acaro nasconde la testa
Fig. 348.
e le altre parti del corpo nell'astuccio. L'aver trovato la Hoplophora
su radici fillosserate ha fatto credere che essa fosse un parassita
della fillossera stessa, essendo noto che gli acari in generale vivono
quali parassiti su altri insetti, nonché sugli animali superiori e su
molte sostanze alimentari (1); ciò però è contradetto oggi da molti
(1) Sono noti ad esempio gli acari della pelle dell'uomo (sarcoptes scabiei) d'onde
la scabbia o rogna, quelli dei polli, quelli degli scarafaggi, quelli del formaggio
(acarus siro) ecc.
883 CAPITOLOJXXIX
naturalisti. Il Negri (1) trovò le Hoplophore sulle radici fillosserate
prese a Valmadrera, ma non gli risultò che fossero là quali paras-
siti delle fillossere, ed il Dr. Moritz (2) afferma di aver più volte
trovato 1' Hoplophora su radici di viti assolutamente non fillosserate.
Certo è però che si trova sempre su radici di piante ammalate.
§ 18. L'aiiguillula radicicola (3). — È questo un vermiciat-
tolo microscopico appartenente ai filiformi o Nematodi, che determina
sulle radici delle viti dei rigonfiamenti i quali, per gli osservatori
poco esperti, possono confondersi con quelli della fillossera descritti
a pag. 849. — Abbiamo già detto che in Italia la scoperta dell'ari -
guillula si deve ai Dolt. Belletti e Saccardo (4) i quali fecero le
loro osservazioni sovra viti europee di Alano di Piave (Feltre); il
Prof. Licopoli la trovò egli pure sulle radici d'una vite americana,
Isabella, nei dintorni di Napoli; altri osservatori la trovarono pure
in Portogallo. La fig. 349 ci mostra le anguillule libere ed in pieno
Fio-. 349.
sviluppo secondo i disegni dei prefati signori Belletti e Saccardo;
« il corpo ne è cilindrico, ottusamente attenuato in ambe le estre-
mità, bianco -gialliccio, segnato di fine strie trasversali: ad una estre-
mità mostra una specie di rima od orificio boccale. » Gli stessi
naturalisti osservarono anche un individuo munito di un sottile e
breve pungiglione ad una estremità (forse il maschio sessuato): la
lunghezza delle maggiori anguillule misurò 250 micro -millimetri (ossia
millesimi di millimetro), e la larghezza da 15 a 18 microm. — La
fig. 350 A ci mostra una radice affetta dall'anguillula di Greefàise-
(1) Giornale Vinicolo Italiano, 1879, pag. 578.
(2) Die Weinbereitung, von Dalhen, pag. 210.
(3) Anguillula radicicola, Greef.
(4) Atti del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti. Tornata del 27 feb-
braio 1881.
INSETTI DANNOSI ALLE VITI ED ALL'UVA
889
gnata in grandezza naturale dai suddetti osservatori; essa presenta alle
estremità delle radichette, o più di rado nella loro lunghezza, « dei ri-
gonfiamenti B oblunghi, fusiformi o variamente bitorzoluti, con cor-
teccia abbrunata e spesso sfogliantesi a fette: detti rigonfiamenti sono
carnosi e sodetti; solo più tardi, in seguito alle moltiplicate caverne an-
guillifere si fanno più cedevoli e finalmente si putrefanno. Non manca
qualche rigonfiamento leggermente inarcato, per cui in complesso non
Fìg. SSO
piccola è la somiglianza di queste radici con quelle fìllosserate, special-
mente allorché queste ultime siano nello stadio più avanzato e quindi
abbrunate. » Facendo una sezione sovra un rigonfiamento anguilli-
fero si vedono come delle caverne; ogni caverna contiene una ve-
scichetta o cisti che ne riempie totalmente le cavità: le cisti aga-
miche (senza sessi) contengono parecchie decine d'uova, da cui hanno
origine le anguillule, che più tardi, ingrandendo, erompono dal guscio;
890 CAPITOLO XXIX
le cisti sessuate contengono una sola anguillula variamente ripiegata
sopra sé stessa, dalle cui segmentazioni si originano poi delle uova,
secondo Licopoli e Mailer. Chi desiderasse maggiori dettagli legga
la interessante memoria sovracitata dei Doti. Bellati e Saccardo:
qui dobbiamo limitarci a notare che queste anguillule cagionano un
grave deperimento nelle viti: (maggiore forse nelle viti europee che
non nelle americane) seguito dalla morte delle ceppaie affette nello
spazio di non molti anni. Sin'ora nessuno ha proposto rimedii; qual-
cuno ha esperimentato il ripiantamento con propaggini, ma anche
queste nuove piante perirono, mostrando alcuni rigonfiamenti sulle
radici. A nostro avviso prima di ripiantare bisognerebbe trattare
la terra del vigneto col debbio, che abbiamo descritto a pag. 461,
per purgarla.
§ 19. 1/ Erineo (1). — È un acaro microscopico che produce
sulle foglie delle viti quella alterazione che è chiamata Brinosi o
Fitoptosi. Ne parleremo al Capitolo seguente (a pag. 895).
(1) Erineum vitis o Pltyluptus vilis di Dujardin.
CAPITOLO XXX
Crittogame della Vite.
I. Spiegazione di alcuni termini più comuni di botanica crittogamica — § 2. La
peronospora viticola. Sinonimi e origine. Fenomeni esterni della malattia —
§ 3. Idee generali sullo sviluppo della peronospora — § 4 Trattamenti cura-
tivi o preventivi — § 5. Oidio — § 6. Antracnosi — § 7. Marciume delle ra-
dici — § 8. Mal nero — § 9. Giallume — § 10. Ultime teorie sulla natura
del giallume, del mal nero e dell'antracnosi — §11. Altre crittogame della
vite.
§ 1. Spiegazione di alcuni termini più comuni di bota-
nica crittogamica. — Volendo dare un'idea, anche nel modo più
breve, delle diverse malattie causate alle viti da parassiti vegetali
non potremo esimerci dall'adoperare alcuni termini proprii della bo-
tanica crittogamica. Ora, siccome tale scienza non è famigliare che
a pochi, crediamo utile far precedere alla breve descrizione che da-
remo della peronospora, dell'antracnosi ecc. la spiegazione dei ter-
mini botanici che saremo costretti ad usare. Ci limiteremo ai più ge-
nerali, quelli che il viticultore da qualche anno si è abituato a leg-
gere anche nelle pubblicazioni popolari, nei fogli agricoli e nelle
relazioni di congressi sulle malattie della vite.
I botanici chiamano funghi o miceti certe piante le quali non conte-
nendo clorofilla (pag. 135) sono incapaci di elaborarsi il nutrimento, di
produrre cioè la sostanza organica, e vivono quindi a spese di sostanze
organiche già elaborate. I funghi non hanno né foglie, né tronco,
né radici; in essi si distinguono solo gli organi della vegetazione
892 CAPITOLO XXX
e quelli della riproduzione. Questi organi sono sempre distinti, ec-
cetto in alcune produzioni di natura dubbiosa (1).
Micelio chiamasi il complesso degli organi della vegetazione.
Ifi diconsi i filamenti più o meno ramificati di cui si compone il
micelio. Essi si presentano in diversi modi. Nelle peronosporee ad es.
penetrano nel parenchima della pianta a spese della quale il fungo
vive, e traforano le membrane delle cellule dando origine a dei suc-
chiatoi.
Garpofori sono gli organi riproduttori dei funghi. Essi sorgono
dal micelio e portano le spore o le loro cellule madri. Nelle pero-
nosporee i carpofori sono formati dalle ramificazioni del micelio me-
desimo. In questo caso son chiamati ifi fruttiferi.
Spore diconsi i semi dei funghi. Le cellule madri in cui si gene-
rano le spore diconsi basidi se le portano all' esterno, ascili se le
portano all'interno.
Peritecci o pireni si chiamano quei ricettacoli o pozzette anfori-
formi o sferoidali che contengono le cellule sporigene, come nella
sotto classe dei pirenomiceti.
Gonidii chiamansi le spore generate dai basidi in diverse sotto
classi, tra cui quella degli ifomiceti a cui appartengono le perono-
sporee. I conidii trovansi air apice del prolungamento tubolato dei
basidi.
Sterimmi sono piccoli prolungamenti tubolati che si svolgono al-
l'estremità dei basidi, i quali non tardano a gonfiarsi e a dar ori-
gine ad una spora.
Oogonii ed anteridii. I primi sono gli organi femminei, gli altri gli
organi maschili, in quei funghi che presentano la riproduzione ses-
suale (Saprolegniee, peronosporee ed alcuni ascomiceti, come ad es.
nelle Erysiphej.
Oospore sono il frutto della fecondazione tra oogonii e anteridii.
Sono cioè semi fecondi che riprodurranno il parassita.
§ 2. La peronospora viticola. Sinonimi e origine. Feno-
meni esterni della malattia. — Col nome di peronospora si chiama
da tutti la malattia ben nota che tanti danni recò alle viti in queste
ultime annate viticole; il nome di peronospora è divenuto popolare come
quello della crittogama e della fillossera. Ma la parola non indica
(1) Come per es. i fungili dei fermenti. V. Ardissone. / funghi, Milano 1875.
CRITTOGAME DELLA VITE 893
se non il nome del fungo che cagiona la malattia, mentre questa chia-
masi nebbia, traduzione del vocabolo inglese mildew (pron. mildiù)
datole dagli Americani. La malattia ha poi diversi nomi volgari, come
quello di braserà in qualche dialetto dell' Alta Italia, di san scald
(colpo di sole) nel Missouri, e secondo il Reich, il quale ammette
che la peronospora esista da lungo tempo in Germania e in Svizzera,
la malattia porta in questi paesi il nome di rugiada di farina
(mehl-tbau). Contrariamente al Reich al Pulliat ed al Mendola si
ammette per altro dai più (De Banj, Cornu, Pirotta, Farlow
Thiìmen, ecc.) che la peronospora sia d'origine americana e che la
sua importazione in Europa sia recente.
La peronospora viticola è un fungo appartenente alla famiglia delle
peronosporee; esso si sviluppa su tutti gli organi verdi della vite,
ma specialmente sulle foglie. Tra i tessuti di queste il micelio di
essa s'interna sotto forma di tubetto sottilissimo munito di succhiatoi,
che vi assorbono i liquidi da esse preparato, e ciò è causa della di-
sorganizzazione e distruzione del tessuto delle foglie stesse. Distrutta
la foglia, che oltre ad essere l'organo respiratorio della pianta è nella
vite il magazzeno dove si preparano i succhi zuccherini che devono
passare nel grappolo, si capisce quanto danno ne abbia a risentire
la pianta. Maturata assai imperfettamente 1' uva, la quale esposta
d'improvviso al sole va incontro pure alla scottatura, si ottiene un
vino mancante d'alcool, di colore e poco conservabile; ma v' ha di
più: l'alterazione delle foglie impedisce la perfetta maturazione del
legno e delle gemme, cosichè il male non si limita all'annata dell'in-
fezione, ma fa risentire l'azione sua anche nell'annata seguente.
La presenza della peronospora nelle foglie si rileva ai seguenti
segni esterni: nella pagina inferiore delle foglie si vedono piccoli
ciuffi d'un bianco lattiginoso, madreperlaceo, isolati o confluenti e più
o meno condensati, che rassomigliano a concrezioni saline, a muc-
chietti di zucchero finamente polverizzato (v. Tavola IV fìg. colo-
rata 1 B) (1). Avanzando la stagione il colore brillante di quella
specie d'efflorescenza sparisce e subentra un bianco grigiastro. Questi
(1) Queste figure colorate sono riprodotte dagli Atti delle Riunioni viticole della
Società d' Agricoli dell' Hérault (marzo 1884): relazione dei sigg. Foex e Viala.
Dobbiamo avvertire che non ostante le molte prove fatte, le tinte sono riuscita
alquanto cariche, come del resto anche nel disegno dei sigg. Foex e Viala; ciò
però non impedirà che il lettore si faccia una esatta idea della foglia peronosporata,
894 CAPITOLO XXX
fenomeni si presentano sulla pagina inferiore delle foglie, ri-
spettando il peziolo e le nervature. Non è che in casi eccezionali
che essi si notarono sulla pagina superiore, occupando il peziolo e le
nervature per intiero (1). Nei casi normali sulla pagina superiore
si notano macchie non prominenti, dapprima giallo pallide, ma che
prendono poi un colore rosso bruno carico, sempre più oscuro pro-
gredendo 1' efflorescenza alla pagina inferiore. Queste macchie sono
precisamente nei punti che corrispondono ai ciuffi nella superficie
opposta (v. Tavola IV fig. I A). Continuando lo sviluppo del fungo
le macchie della pagina superiore si fanno confluenti e la occupano
completamente, mentre alla sua volta la faccia inferiore è affatto in-
vasa dalle efflorescenze bianche; in tal modo la foglia vien distrutta
e cade.
Ma non sempre la peronospora trova nell'atmosfera le condizioni
propizie per la sua fruttificazione; sopravvenendo ad esempio molti
giorni caldi e secchi le macchie cessano dall'estendersi; allora la parte
alterata del tessuto cellulare della foglia si dissecca talvolta, e si di-
stacca, lasciando un foro contornato di un'aureola bruna. Dove il
tessuto alterato persiste si vedono sulle foglie piccole macchie brune
le quali imprimono alle foglie un aspetto caratteristico (v. tavola IV
fig- 2).
La peronospora, trovando 1' umidità e il calore necessarii al suo
completo sviluppo, può passare dalle foglie ai viticci, ai rami verdi
e ai grappoli, ove produce delle piccole chiazze brune da non con-
fondersi colle lesioni dell'antracnosi che sono più profonde. I fenomeni
che possonsi presentarsi in questo caso son varii e terminano col
completo disseccamento del grappolo. Ma è raro che la malattia
giunga sino a questa fase (2).
La peronospora può, per un osservatore inesperto, essere confusa con
altre malattie della vite. Quando le macchie della pagina superiore
sono isolate ed il loro colore si è fatto marcato, esse possono erro-
neamente venir attribuite alla scottatura ed anche al giallume. Ve-
dremo fra poco i caratteri distintivi del giallume, e frattanto notiamo
che vi è sempre la presenza delle efflorescenze bianche nella pagina in-
(1) Devesi pure considerare come caso eccezionale il fatto che alle macchie della
pagina superiore delle foglie peronosporate non corrispondano nella faccia infe-
riore le descritte efflorescenze bianche.
(2) V. Atti del I Congresso per le malattie della vite. Milano, pag. 133.
CRITTOGAME DELLA VITE 895
leriore bastevole a togliere ogni dubbio. Un esame attento delle foglie,
anche coli' aiuto d'una lente, giova a stabilire la presenza o meno
della peronospora quando le intaccature e le macchie dei tralci si
assomigliano a quelle dell'antracnosi, cosa che, come vedemmo, si ve-
rifica. Ma la confusione che si fa più comunemente è quella della pe-
ronospora GOÌYerinosi o fitoptosi, alterazione piuttosto che malattia,
prodotta dalla puntura d'un acaro e della quale poco dobbiamo im-
pensierirci. Segno caratteristico dell'erinosi è la presenza nella pagina
superiore di galle piuttosto larghe che non si riscontrano nella pe-
ronospora. Nella pagina inferiore delle foglie, e precisamente nelle
concavità formate dalle galle, si sviluppa uno strato di peli fittissimi.
Questi sono da principio d'un bianco brillante, ed è questo il momento
in cui è possibile confonderli colle efflorescenze bianche della pero-
nospora; ma esse non hanno mai l'aspetto lattiginoso di queste ul-
time, e poi sono aderenti alle foglie stesse, per cui non è possibile,
fregando leggermente, separameli. All' incontro i filamenti della pe-
ronospora si distaccano facilmente, e dalle foglie, anche legger-
mente scosse, piove un pulciscolo bianco (1). Coli' andar del tempo
nell'erinosi i peli delle galle prendono una tinta rossastra, la quale
si fa sempre più spiccata, ed allora l' equivoco non è più possi-
bile. Infine la peronospora non offre rigonfiamenti alla pagina su-
periore mentre 1' erinosi ha le galle che hanno in media un cen-
timetro di diametro. Altre crittogame parassite di pochissima impor-
tanza presentano nelle foglie effetti simili a quelli della peronospora,
ma, come vedremo al § 11, esse non si manifestano in generale che
a stagione avanzatissima.
§ 3. Idee generali sullo sviluppo della peronospora. — Il
micelio, ossia i tubetti dei fungo, che si sono sviluppati nell'interno
della foglia, durante l'estate passano alla fruttificazione. Essi emettono
ifi o filamenti i quali escono all'esterno della foglia dagli stomi, cioè
da quelle piccolissime aperture che si trovano nella pagina inferiore
delle foglie stesse. Questi filamenti usciti all' aperto si ramificano e
costituiscono la nota efflorescenza bianca (Tav. Ili, fig. 1, ove ve-
donsi appunto i filamenti conidiofori che escono da uno stoma; il
filamento fruttifero del centro porta dei mazzi di spore o conidii b b
fissati sugli sterirnmi all'estremità delle ramificazioni e e: in a è in-
(1) P. Viala. Oìdium, erineum, mildiou. Progrès agricole et vinicole, 1884.
896 CAPITOLO XXX
dicato un tramezzo cellulosico che si trova generalmente al disotto
delle ramificazioni del filamento: ingrandimento 500 volte). Si noti
che noi non ci accorgiamo generalmente della malattia se non al-
l'epoca della fruttificazione del fungo, quando questo ha già danneg-
giato non poco la pianta. E e osi anche nel caso da noi già ammesso
che la fruttificazione non avvenga e l'efflorescenza bianca quindi non
si presenti, la vite ne risente danno egualmente. Questo caso, quan-
tunque raro, è stato osservato da parecchi (1).
I filamenti fruttiferi hanno, quando la loro ramificazione è com-
pletata, più branche primarie, secondarie e terziarie. La loro som-
mità termina come già dicemmo in uno sterimma (V. Tav. IH,
fìg. 1 e e), il quale, siccome si sa, porta i semi. Il protoplasma si
va sempre concentrando verso la sommità delle estreme diramazioni,
ed ivi serve alla formazione dei corpi riproduttori.
Bisogna distinguere, nell' accennare alla fruttificazione della pero-
nospora, le sementi d'estate da quelle d'inverno. Le sementi d'estate
(dette conidii o spore) si formano all' estremità dei filamenti frutti-
feri. Nella Tav. Ili, la fìg. 2 mostra dei conidii distaccati: a forme
più comuni, b forme trovate sulle foglie cotiledonari di giovani viti
provenienti da seme: la fig. 3 mostra in a un conidio proveniente
da foglia tenuta sotto campana durante più giorni e con abbondan-
dantissime efflorescenze: b forma molto frequente, più spessa al punto
d'attacco: e forma più rara trovata in autunno da Foéoo e Viala:
la fig. 4 mostra un filamento fruttìfero con una ramificazione por-
tante spore in formazione, sferiche, ingrandite 500 volte. Questi co-
nidii subiscono diverse trasformazioni sino ad assumere la forma di
piccola pera (fìg. 2, a). La fig. 5 mostra un gruppo di spore uscenti
direttamente da uno stoma, alcune sovra un filamento sottile, altre ses-
sili, altre emergenti solo in parte: quando sono bene sviluppate si vede
sempre nettamente il tramezzo che le separa dal filamento. Questi gruppi
si osservano specialmente in autunno, quando scarseggia Y umidità.
Le fig. 6 e 7 mostrano degli acini d' uva attaccati dalla perono-
spora senza fruttificazioni esterne. La fig. 8 infine mostra un fila-
mento di micelio della polpa dell'acino.
Ritornando ora alle spore estive completamente sviluppate, diremo
che presto alla loro base si forma un tramezzo; i conidii si distac-
(1) Dal Prof. V. Sini in Italia {Giornale Vinicolo 1885, pag. 43) e dal signor
P. Viala in Francia (Lev maladies de la vigne, Montpellier 1885).
CRITTOGAME DELLA VITE 897
cano ed essendo leggerissimi, infinitamente piccoli e in numero stra-
grande, trasportati dal vento diffondono il parassita durante l'estate
portando il malanno su altre piante, ove germinano e riproducono
il micelio da cui ebbero origine.
La germinazione di queste spore è rapidissima; se cadono in una
goccia d' acqua deposta sulla foglia e se la temperatura raggiunge
i 20° o i 24° Réaumur, si svolgono prontamente e si allungano
poco a poco nel noto tubetto, che traversando 1' epidermide della
foglia vi penetra dentro. Però la loro vitalità non è di grande du-
rata; in un ambiente secco si disseccano e muoiono; muoiono nel-
r autunno e quindi non si possono più riprodurre nell' annata
seguente.
Ma se i conidii sono incapaci di perpetuare da un anno all' altro
la peronospora, v'hanno in compenso nuove spore che formansi alla
fine della stagione, e talvolta anche in estate, le quali assai bene
adempiono a quest'ufficio. Sui tubetti del micelio che trovansi entro
la foglia si formano dei rigonfiamenti quasi sferici, relativamente
grossi e pieni di protoplasma granuloso; essi costituiscono gli organi
femminei od oogonii (generatori dell'uovo). Vicino ad essi si formano
dei corpi piccoli, irregolari nella forma, anch'essi pieni di protoplasma
granuloso, e che si separano con un tramezzo dal tubo che li porta.
Sono gli organi maschili o anteridii, i quali adossandosi poco a poco
agli organi femminei finiscono per congiungersi ad essi, unire il loro
protoplasma e produrre così la fecondazione, frutto della quale è la
così detta spora d'inverno, uovo, od anche oospora. L'oospora è due
o tre volte più grossa dei conidii ed è rivestita d'una doppia membrana
assai resistente, destinata a difendere l'interno dalle cause nemiche.
Le oospore stanno sempre neW mterno della foglia, nei tessuti
della pagina superiore: si possono trovare fuori della foglia soltanto
per eccezione. Si chiamano spore d' inverno perchè sono destinate
a passare questa stagione per riprodurre poi il parassita nella pri-
mavera successiva.
Non ci diffondiamo a descrivere il modo di germinare delie spore
invernali, come abbiam fatto per le estive, non essendo esso ancora
ben conosciuto.
Passiamo ora a considerare le condizioni di sviluppo della peronospora.
Le due principali sono l'umidità e il calore : perchè il fungo ger-
mini la temperatura deve aver raggiunto i 20°- 25° C. Ma unita-
mente al calore vi dev' essere un' abbondante umidità. Siccome non
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 58
898 CAPITOLO XXX
è facile che queste due condizioni si trovino riunite, si spiega così
la causa di certe apparizioni irregolari della peronospora. La ger-
minazione del fungo sarebbe possibile anche a temperatura minore,
ma camminerebbe lentamente assai. Un rapido abbassamento di tem-
peratura non uccide il fungo, ma ne arresta lo sviluppo sino a che
non torni la temperatura propizia. Durante una stagione asciutta,
sotto l'azione d'un vento secco, le spore estive si disseccano e muo-
iono: le spore invernali però resistono all' asciutto, come al freddo
più intenso delle regioni in cui si coltiva la vite. L' umidità oppor-
tuna per lo sviluppo della peronospora non è quella che forma lo
stato igrometrico dell'aria, ma l'umidità in acqua precipitata (1),
come quella ad esempio che risulta dalla rugiada. Ciò spiega come
i ripari forniti da muri o da spalliere, impedendo la formazione
della rugiada sulle foglie, preservino le viti dall' invasione. Queste
osservazioni furono fatte specialmente dagli Americani, i quali già ave-
vano notato che nelle viti coltivate in città, nei giardini, non si pre-
sentava peronospora, ed il sig. Meissner al Congresso internazionale
di Bordeaux del 1881, disse che non si sapeva dar ragione di ciò (2).
La ragione sta assai probabilmente nei ripari che più numerosi si
presentano alla vite coltivata in città. Ma questi ripari si oppongono
anche molto alla disseminazione nei conidii, e noi in Italia abbiamo
osservazioni di Negri, di G crini e di Cettolini da cui risulta che
le viti maritate ad alberi vivi, o sotto un riparo qualunque, resi-
stono alla peronospora più di quelle completamente specializzate.
Per conchiudere, diremo che anche i venti marini caldi ed umidi
sono favorevolissimi allo sviluppo della peronospora, e ricorde-
remo che le esperienze fatte dal Negri nel 1880 provarono come il
vento che a noi porta la peronospora è quello di SO.
§ 4. Trattamenti preventivi e curativi. — Premettiamo
che il vero infallibile rimedio contro la peronospora, come lo zolfo
per l'oidio, non s'è ancora trovato. La difficoltà a trovare una so-
stanza che distrugga il fungo senza danneggiare la pianta sta in ciò:
1.) che il micelio pare sia più resistente della foglia stessa agli agenti
distruttori; 2.) che questo micelio vive nell'interno dei tessuti, e che
quindi non basta distruggere gli organi esteriori (efflorescenza bianca)
(1) P. Viala, op. cit. p. 30.
(2) V. Giornale Vinicolo, 1882, pag. 83.
CRITTOGAME DELLA VITE
i quali si riprodurrebbero dopo pochi giorni. Ci vorrebbe adunque
un rimedio che agisse lentamente e a cui la foglia fosse refrattaria;
3.) Che d' altronde è cosa molto diffìcile nella pratica toccare cogli
agenti distruttori la pagina inferiore in tutti i suoi punti e penetrare
neh' interno della foglia; 4.) Infine che quando ci avvediamo della
presenza del fungo dall'efflorescenza bianca, la malattia è già svilup-
pata ed ha già prodotto i suoi tristi effetti.
Passiamo sopra quindi ai numerosissimi sistemi curativi proposti
in questi ultimi anni, e ricordiamone solo alcuni tra quelli che par-
vero dare migliori risultati.
A) Metodo Gazzotti. Spruzzare la pagina inferiore delle foglie
con una soluzione acquosa di carbonato sodico nella proporzione dal
2 al 3 di carbonato per 100 d'acqua.
BJ Metodo Cettolini. Spruzzare con una soluzione acquosa di
soda caustica del commercio. (0,5 all' 1 0[q). Per questi due metodi
serve bene la pompetta irroratrice dell'Agenzia Enologica di Milano
oppure il polverizzatore Pillon, che si trova presso lo Stabilimento
Agrario di Enrico Barbero in Torino. La pompetta irroratrice (fìg. 351)
900
CAPITOLO XXX
è un recipiente di latta che l'operaio si fissa alla cintura; esso è munito
d'una pompa ad aria, messa facilmente in moto mercè un bottone che
si vede nel disegno: la manovra è semplicissima. La macchinetta costa
L. 13,50. Il polverizzatore Pillon (fig. 352) consta di una sfera vuota
di ottone, della capacità di 25 centilitri, posta al'estremità di un sof-
fietto; ad ogni movimento del soffietto la soluzione caustica o altro
liquido vengono lanciate contro le viti sotto forma di finissima pol-
vere: la capacità della boccia è sufficiente per 300 innaffiamenti:
questa macchinetta costa L. 7,50 imballaggio compreso.
C) Metodo Foéx. Di tutti i rimedii provati alla Scuola di Mont-
pellier quello che diede migliori risultati è 1' uso della soluzione di
acido fenico in acqua di sapone (all'I d'acido fenico per 100 d'acqua
di sapone). Questa soluzione applicata con un polverizzatore sulla
pagina inferiore delle foglie distrusse tutti i filamenti fruttiferi i quali
più non si riprodussero: il liquido deve restare un certo tempo a
contatto dei filamenti ed il prof. Foéx spera di ottenere ciò ag-
giungendo alla soluzione un po' di glicerina che ritarda l'evapora-
zione. Ma la difficoltà risiede sempre nel raggiungere la pagina in-
feriore della foglia.
Dj Metodo dello zolfo. Lo zolfo comune non tronca la malattia
prodotta dalla peronospora, ma lo zolfo sublimato (fiori di zolfo) acido,
la cui acidità siasi aumentata anche artificialmente, è secondo il
Marès un buon rimedio distruttivo contro la peronospora: le polveri
di zolfi acidi hanno, secondo quest'autore, un'azione assai rapida ed
energica contro i parassiti della vigna per disorganizzarli e distrug-
gerli, ed imprimere poi alla vite stessa una vegetazione più rigogliosa.
Il Marès vuole che queste solforature con zolfi sublimati vengano
CRITTOGAME DELLA VITE 901
cominciate di buon' ora, verso la fine d' aprile, e ripetute ogni 15
giorni. In questo solo caso l'espansione e la vegetazione della critto-
gama vengono paralizzate, mentre si eccita quella della vite.
Veniamo ai metodi preventivi riguardo ai quali possiamo dare
qualche consiglio con maggior sicurezza. Vi sono metodi preventivi
contro le spore invernali e contro le spore estive.
Metodi preventivi contro le spore invernali. Il potar presto, lo scor-
tecciare, il bagnare con soluzione di vetriolo verde, costituiscono opera-
zioni inutili perchè le spore invernali si trovano nell'interno delle foglie
cadute. Raccogliere d'autunno tutte queste foglie ed abbruciarle sa-
rebbe il metodo migliore, se non fosse di difficilissima attuazione.
Non è provato che sotterrandole con un lavoro profondo le spore
non abbiano a sbucar fuori germinando. Far pascolare le pecore
nelle vigne dopo la vendemmia è inutile, perchè il concime pecorino
conserva intatte le spore invernali, le quali tornerebbero così al suolo.
Bisognerebbe dunque trovare qualche sostanza da iniettare nel ter-
reno dopo avervi sotterrate le foglie, sostanza capace di distruggere
queste spore invernali.
Melodi preventivi contro le spore estive. Non potendo distrug-
gere le spore invernali si può con maggior probabilità di successo
o impedire lo sviluppo di quelle estive, oppure procurarsi un modus
vivendi e senza sperare di cacciar del tutto la peronospora, renderla
quasi innocua, distruggendo la quantità più grande possibile di co-
nidii. Si tratta di colpire con un potente agente distruggitore questa
spora estiva mentre sta per germinare. Questo mezzo è fornito dalle
miscele caustiche; miscele in diverse proporzioni di zolfo e calce,
zolfo e gesso, vetriolo verde e zolfo ed altre miscele, che ebbero
nella passata annata viticola risultati decisivi.
Il Toscanelli consiglia l'uso d'un misto di calce e cenere a parti
eguali; comincia a spargerlo in marzo e rinnova lo spargimento una
volta al mese e più ancora se piove. Egli dà alle sue viti la polvere
suddetta dopo la pioggia. Un valente viticultore di San Martino di
Rosignano (Casale), Yavv. V. Luparia in mezzo alle vigne pero-
nosporate dei suoi vicini mantiene salva la sua con un miscuglio di
metà zolfo e metà polvere anticrittogamica Ottavi. Egli ne fa spar-
gere un po' colle dita appena spuntano le gemme, poi inzolfa colla
peperuola quando i pampini abbiano al più 8 o 10 cent, di lunghezza;
ripete la solforazione col soffietto altri pochi giorni dopo, e la rin-
nova anche ogni 8, 10 e più giorni; nelle annate favorevoli alle
902
CAPITOLO XXX
crittogame opera anche una volta per settimana, e ciò sempre legger-
mente, cioè senza spreco della sostanza caustica. Con questo metodo
egli combatte ad un tempo peronospora ed oidio.
Concludendo, il viticoltore può tener lontana la peronospora ma
mediante una continua lotta dal marzo al settembre; deve a questo
scopo provvedersi d'una miscela caustica e d'una pompetta per po-
terla spargere sulle foglie in soluzione, o d' un soffietto volendola
spargere in polvere finissima. Quest'ultimo mezzo è da preferirsi dove
havvi difficoltà a procurarsi in breve tempo l'acqua necessaria, e
così pure nelle vigne a folto fogliame. Ivi il rimedio liquido non pe-
netra tanto bene a toccar tutte le foglie come quello in polvere, il
quale peraltro vuol essere sparso da una buona solforatrice (fig. 353).
Fiff. 353.
Negli altri casi, e quando nelle miscele entrano in rilevante propor-
zione dei carbonati alcalini (cenere) è preferibile il rimedio in soluzione.
Il viticultore deve poi regolare le sue operazioni dal tempo, e pra-
ticare le solforazioni la sera, prima che la rugiada si formi, o quando
questa si sta formando, od appena che sia cessata la pioggia,
o durante una fitta nebbia, dopo quei venti che dicemmo portar
facilmente la malattia, o nei momenti infine in cui il suo buon senso
gli dice che il pericolo sovrasta.
Ecco quanto di più pratico e di più recente possiamo dire sui
mezzi di combattere la peronospora. Il metodo preventivo e di con-
tinua vigilanza che abbiamo testé esposto può dirsi sicuro, confer-
CRITTOGAME DELLA VITE 903
raato com'è da viticultori di diverse provincie d'Italia (1). Per ora
gli studii pratici che si stanno facendo, invero con molta alacrità,
nel nostro paese e nel sud della Francia non hanno trovato un ri-
medio distruttivo pronto e sicuro: atteniamoci dunque al preventivo.
Prima di terminare sulla peronospora accenneremo alla questione
se vi siano vitigni resistenti per natura alla malattia che ci occupa,
ed accenneremo infine alla pretesa immunità delle vigne i cui pali
furon conciati col vetriolo bleu.
E neh' America ed in Francia che vennero indirizzati gli studii
sulla peronospora a scoprire se qualche vitigno fosse refrattario al
fungo. In Italia a questo proposito non abbiamo che poche osserva-
zioni. — E un fatto innegabile (e, come dice il Viala nelle sue Ma-
lattie della vigna, impossibile per ora a spiegarsi) che le diverse
varietà di viti offrono una più o meno grande resistenza agli at-
tacchi delle crittogame parassite. Così è per la peronospora; ma,
continua il Viala, non è ancora stata segnalata alcuna varietà di
V. Vinifera che sia assolutamente refrattaria all'invasione di questo
fungo, e fra le americane sola forse la V. Riparia ne va immune (2).
Bush e Meissner pongono tra le quasi immuni anche in stagioni e
località sfavorevoli le seguenti altre americane: Cynthiana, Norton s
Virginia, Concord, Riparia, Elvira, Noch, Taylor e altre poco
conosciute da noi. Il Foécc fece a Montpellier osservazioni sulla re-
sistenza dei vitigni coltivati a quella Scuola e ne compilò una lista
nella quale, facendo osservazione solo a quelli italiani o stranieri, ma
abbastanza diffusi in Italia, troviamo che i nostri Calabrese e Ne-
rieddo Cappuccio sono stati quasi del tutto spogliati delle loro foglie
dal parassita; che il Canaiolo, il Grenache nero, il Gamai de l'Aude,
il Sangioveto, la Silvana, il Verdicchio hanno perduto la metà delle
loro foglie, il Teinturier, il Gamai nero, il Moscato bianco di
Frontignan, il Pinot bianco, il Sauvignon, il Buonamico sono
stati solo leggermente attaccati dalla peronospora, mentre il Cabernet,
il Gros Guillaume, il Sirah sono stati illesi.
In Italia abbiamo osservazioni di Ravizza che trovò come le va-
rietà francesi coltivate in Italia, tutti i Pinots, i Gamays, i Chas-
selas siano più maltrattati delle nostre barbere e fresie, e che certi
vitigni a foglie molto ruvide e a frutto bianco si mostrano quasi
(1) Coltivatore 1883, voi. II pag\ 250 e 1885 voi. I pag. 101.
(2) Op. cit. pag. 25.
904 CAPITOLO XXX
insensibili alla malattia. — Reverdi ed altri osservarono ripetuta-
mente che la Starino, o Celerina di Valenza è refrattaria nel modo
più assoluto in un colla malvasia itera-
Da qualche tempo si parla molto nei giornali francesi dell'influenza
che avrebbero i pali delle viti iniettati con solfato di rame (vetriolo
bleu) sullo sviluppo della peronospora. La vicinanza di quei pali ren-
derebbe le viti refrattarie agli attacchi del parassita. Alcuni viticul-
tori italiani che hanno la paleria iniettata ci dissero però che essi
non avevano constatato simile benefica e misteriosa influenza.
Vi è però una cosa da notare, ed è che in Francia e particolar-
mente nella Còte- d'Or, mentre le relazioni e le osservazioni dei pra-
tici relative a quest'azione preservativa del vetriolo si moltiplicano
sempre più, si dà una spiegazione del fatto. L' azione preservatile
sarebbe dovuta a una soluzione del solfato che impregna i pali, pro-
curata dalle acque di pioggia. Nel secondo anno dopo l' iniezione i
pali solfatati non produrrebbero più effetto, perchè nella superficie
dei pali stessi non vi sarebbe più vetriolo da disciogliere. Adunque
il palo per preservare la vite dalla peronospora dovrebbe essere
iniettato da poco.
Gli sperimenti che si faranno quest'anno in Francia consisteranno
nel solfatare a maggio i pali dei vigneti peronosporati. E questa
prova sarà — speriamolo — finalmente decisiva.
§ 5. Oidio (La crittogama). — Per antonomasia i viticultori
chiamano « la crittogama » un fungo parassita che porta il nome
italiano di Oidio e quello latino di Oidium Tuckeri (o Erisiphe
Tuckerii) impostogli da Berkeley. Questo fungillo detto anche bianco
delle vili si sviluppò per la prima volta dal 1845 al 1847 nelle viti
delle serre di Margate in Inghilterra, ed il primo che se ne accorse
fu il giardiniere Tucker. Nel 1848 l'oidio era avvertito in Francia,
portatovi dall'Inghilterra, e nel 1851 in Italia (1). La malattia si
osserva sui rami, sulle foglie e sull'uva sotto forma di macchie ro-
tonde di color bruno -scuro; sull'uva però esse presentano un colore
rossiccio o nero e sono più piccole. Queste macchie son composte
di delicati fili (micelio o organo vegetativo dell'oidio) i quali per mezzo
di certe appendici, succhiano i loro alimenti dai tessuti della vite
(1) Dobbiamo però dire che, secondo alcuni, l'oidio era conosciuto già dagli an-
tichi greci e romani, sotto il nome di roratio.
Tav. IH.
0. Ottavi . Trai*
Tav. IV.
Viticoltura
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Lit. Gioire re ■ Cs ss le
CRITTOGAME DELLA VITE 905
su cui vegetano; al micelio fa seguito l'apparizione di una polvere
bianchiccia composta delle spore ovali che son come i frutti del mi-
celio: intanto le macchie si dilatano ed aumentano di numero. La
crittogama intacca ed altera i tessuti dei rami, fa raggrinzare le fo-
glie, fa screpolare la pellicola degli acini e finisce col far disseccare
gli acini stessi, oppure col farli putrefare; allora sentesi nel vigneto
un forte odore di muffa. Se il viticoltore lasciasse crescere il male
a suo bell'agio, si troverebbe ad avere morte le piante stesse, come
accadde non di rado quando ancor non si conosceva l'uso dello zolfo.
La fig. 9 della Tavola III che precede, mostra l'accennato micelio
dell'oidio, costituito da filamenti tubulari bianchi ora semplici ora rami-
ficati i quali aderiscono all'epidermide mediante gli aiistorii o succhia-
tori, che sono appendici le quali penetrano nella cavità delle cellule e
ne sfruttano il contenuto; il micelio scorre sulla superficie delle parti
della vite invasa. La fig. 10 (Tav. Ili) ci mostra invece la parte frut-
tificante dell'Oidio la quale si innalza sul micelio: è costituita da brevi
fili cilindrici, divisi da dissepimenti, i quali portano le spore ovali o
conidii a a in numero di tre a sei disposte in pila una sull'altra. I
conidii (fig. ci) contengono un protoplasma granelloso e dei vacuoli
tondeggianti; in ambiente umido e sufficientemente caldo, essi ger-
minano e riproducono il micelio: il vento li trasporta facilmente
ed è per questo che la malattia si diffonde con tanta facilità e rapidità.
Il vero rimedio specifico contro l'oidio è lo zolfo (1). Ma la sol-
forazione deve anzi tutto essere considerata come un preventivo:
sappiamo bene che vi sono coloro che consigliano con Guyot (2)
la solfatura da farsi solo quando la malattia si mostra, cioè quando
l'oidio rivela la sua presenza con attacchi parziali e premonitorii: noi
invece, per le numerosissime prove fatte in Italia, crediamo ferma-
mente che bisogna solforare anche le viti sanissime, operando quando
i giovani cacchii hanno una lunghezza massima di 0m,15 centimetri,
a dar loro molto zolfo, se occorre anche operando colle dita a piz-
zichi. Diremo intanto che la solforazione preventiva non solo impe-
disce che l'oidio si mostri, ma favorisce altresì l'attecchimento dei
(1) Per amore di brevità non diremo nulla del liquido Peyrone, (pentasolfuro
di calce) e di altri rimedii proposti contro l'oidio: il pentasolfuro (zolfo e calce
spenta bolliti in acqua) è di una azione energica e sicura, ma lo zolfo è più co-
modo da applicarsi.
(2) Études dcs Vignobles de France, 459, t. 1.
906 CAPITOLO XXX
fiori e l'allegamento dei frutti. Oltre a ciò bisogna riflettere che
noi ci troviamo in paesi caldi e non troppo secchi, e che date
queste due condizioni (calore e umidità) l' oidio si sviluppa con
una facilità rimarchevole: è quindi necessario impedire che si mostri,
perchè se gli si dà il tempo di manifestarsi è poi assai difficile ar-
restarlo.
La prima solforazione deve essere praticata prima assai della
fioritura, cioè allorquando i nuovi getti son lunghi al più da 10 a
20 centim. In questa prima insolfatura vuoisi procurare che tanto il
ceppo quanto le foglioline e le nascenti uve abbiano ad avere una leggera
sfumatura di zolfo. La seconda solforazione deve praticarsi dopo
dieci o dodici giorni dacché l'uva incomincia a fiorire, e non più tardi:
non si deve temere di nuocere alla fecondazione dei fiori, che né noi
né altri ha mai avuto a dolersi di ciò: al contrario questa solfora-
zione ha tale una benefica influenza che talvolta può dispensare da
una terza somministrazione di zolfo. Infatti appena caduta la corolla-
quinquepetala che sta a guisa di cappello sull'ovario (il futuro acino),
questo ovario rimane scoperto: esso ha una buccia tenerissima e l'oidio
lo attacca facilmente e fieramente; in tal caso il prodotto è perduto
in parte: se invece noi veniamo e solforiamo con una buona mac-
china e con zolfo finissimamente macinato, noi proteggiamo quella
delicata buccia e salviamo gli acini dalla crittogama. La terza sol-
forazione non è sempre necessaria; però colà dove si solfora poco
e le spore dell'oidio possono, mercè il vento, venire dai vigneti vi-
cini, è indispensabile solforare quando l'uva è grossa come un pisello
all'incirca. Infine sarà bene di sorvegliare il vigneto per vedere quando
fosse il caso di solforazioni parziali, evitando però sempre le scot-
tature (pag. 805).
Quale può essere Fazione dello zolfo sull'oidio? Noi non cre-
diamo che lo zolfo eserciti semplicemente una azione meccanica, perchè
avendo provato la polvere di strada finissima e la calce pure finis-
simamente macinata, ottenemmo solo risultati mediocri: però un qual-
che danno l'oidio ebbe a risentirne, segno che un po' d'azione mec-
canica lo zolfo deve pure esercitarla, tanto più se si riflette che lo
zolfo quand'anche un po' impuro, dà buoni risultati purché sia fi-
nissimamente macinato. Ma a nostro avviso l'azione precipua dello
zolfo deriva dalla formazione (1) di acido solforoso, potente antiset-
(1) Essa fu provata ultimamente con metodo diretto dal Dott. Moritz di Gei-
CRITTOGAME DELLA VITE 907
settico: quest'acido si forma agevolmente perchè le particelle dello
zolfo che stanno sulla vite si trovano in una atmosfera assai ricca
di ossigeno, che di giorno è esalato dalle parti verdi della vite. Il
Dott. Koenig, direttore della Regia Stazione Enologica di Asti, pensa
anzi con molta ragione, che una parte di tale ossigeno sia elettriz-
zato (ozono) ed allora sarebbe attivissimo e potrebbe ossidare lo zolfo,
mentre si sa che questo metalloide è molto resistente all'azione del-
l'aria alla temperatura ordinaria. Fatto è che solforando in belle
giornate, calme ed a sole splendente, si ottengono risultati completi,
perchè la formazione dell'acido solforoso è allora assai favorita.
Qualora avesse a piovere dopo la solforazione, sarà indispensabile
ripeterla 24 ore dopo all'incirca. In presenza poi della rugiada, se
abbondante, non si deve solforare, perchè se vi ha [qualche fatto il
quale dimostra che simile solforazione può riuscire, vi sono centinaia
d'altri fatti che dicono il contrario, e consigliano perciò di solforare
quando la copiosa rugiada è scomparsa. Così si evita 1' agglomera-
mento dello zolfo, che può cadere a terra colle goccie di guazza ab-
bondante, e d'altra parte non si inceppa la formazione suddetta del-
l'acido solforoso. Certamente quando la rugiada è poca cosa, e d'altro
canto si ha bisogno di solforare in fretta per acquistar tempo, si
può procedere alla operazione anche di buon mattino: quel po' di
umido fìssa meglio le particelle dello zolfo sull'uva, e poi è pronta-
mente evaporato dal sole.
In quale stalo deve essere lo zolfo per agire energicamente?
Non basta che lo zolfo sia abbastanza puro, bisogna che anzitutto
abbia un alto grado di finezza; eppoi sia esso di Sicilia o di Ro-
magna, gioverà a prevenire od a distruggere l'oidio. La purezza si
determina prendendo un pezzo di porcellana qualsiasi e mettendovi
sopra circa 10 grammi di zolfo, indi riscaldando a calore moderato;
le sostanze volatili se ne vanno e rimane un deposito; questo si pesa.
Gli zolfi commerciali di Romagna, se buoni, danno un residuo che
varia dal 0,10 al 0,50 od al massimo all' uno per cento. Quelli di
Sicilia dal 0,40 al 3; se essi sono ben macinati servono ugualmente.
Ma non così quando allo zolfo si trova mescolato il 40 per cento
di gesso o di vetro. Allora bisogna rifiutare la merce.
La finezza si determina col tubo di Chancel; esso è di vetro, ha
senheim sul Reno. — Die Landtoirthschaftlichen Versuchsstationen Voi. XXV,
fascicolo 1.
908 CAPITOLO XXX
una capacità dì 25 centimetri cubi, è diviso in 100 parti uguali ed
è chiuso ad una delle sue estremità; per adoperarlo si pesano esat-
tamente 5 grammi di zolfo, si mettono con precauzione dentro il
tubo, poscia si aggiunge tanto etere solforico sino a che un terzo
della parte del tubo ancor vuoto, che è sopra lo zolfo, ne sia ri-
pieno; si agita allora fortemente il tubo tenendolo ben chiuso col
pollice. Dopo l'agitazione si aggiunge altro etere sino a raggiungere
la divisione 100, indi si riagita nuovamente e con forza il tubo. Ciò
fatto si mantiene in riposo ogni cosa, lasciando che le^aolecole del
metalloide si dispongano adagio adagio e senza scosse le une accanto
e sopra alle altre. Cessato l'ammucchiamento, e così dopo 10 minuti,,
si legge la divisione a cui lo zolfo discendendo si è arrestato; questa
divisione indica il grado di macinazione. Nelle nostre esperienze ab-
biamo trovato degli eccellenti zolfi, che segnavano 70 gradi o 65
gradi (per lo più di Romagna); altri invece segnavano soli 42 gradi,
locchè vuol dire che erano assai male macinati; gli è quando si u-
sano simili zolfi che si mette poi in dubbio V efficacia del prezioso
metalloide contro l'oidio. Sarà pur bene badare al colore dello zolfo:
la bella tinta gialla dimostra spesso una macinazione assai grosso-
lana mentre la tinta si fa più sbiadita e quasi diremmo cinerea,
se è finamente polverizzato.
Quale è la solforatrice preferibile? Noi non vogliamo rispondere
in modo tassativo a questa domanda, perchè non crediamo di po-
terlo fare. Ottima è quella dell'ingegnere O. Fojadelli (v. disegno a
pag. 902) a getto continuo e che produce una nube di finissime par-
ticelle di zolfo, che possono poi agevolmente mutarsi in acido sol-
foroso e distruggere l'oidio; in 12 ore si possono solforare con essa
quasi tre ettari a vigna specializzata, mentre coi soliti soffietti non
se ne solforano che due; ciò lo desumemmo noi stessi con prove
comparative, rilevando anche come con questi occorra una spesa più
che quadrupla di mano d'opera, nonché una maggior quantità di
zolfo (dal 15 al 20 per cento di più).
La Solforatrice Fojadelli (fig. 353) si compone:
1° Di una manovella fissata sull' asse della ruota dentata che
ingrana con un rocchetto montato sull'albero del ventilatore;
2° Di un ventilatore racchiuso nel tamburo e dotato di un mo-
vimento rotatorio più o meno veloce a seconda del maggiore o minor
numero di giri che si fa fare alla manovella.
3° Di un recipiente nel quale si mette lo zolfo, che viene poi
CRITTOGAME DELLA VITE 909
spinto all'esterno dal rapido girare del ventilatore. Neil' interno di
questo recipiente trovasi la valvola che, mossa da una leva comu-
nicante direttamente colle braccia della ruota dentata, serve a di-
stribuire la quantità di zolfo necessaria ad ottenere una buona sol-
forazione;
4° Del canale di condotta munito all'estremo di un anello di
legno per ricevere i tubi che si aggiungono quando si vuole prolun-
gare il getto della macchina, oppure solforare pergolati o viti alte.
Tutte le parti della macchinetta sono fra loro unite a vite, per cui
può essere completamente smontata ne' suoi più piccoli elementi
quando occorresse visitarla nell'interno o farvi delle riparazioni.
Il maneggio della solforatrice Fojadelli (che per noi è di gran
lunga la preferibile a tutte quelle sino ad oggi inventate) è assai
facile; lo zolfo deve essere ben macinato, finissimo e se mai passato
prima per setaccio, con che oltre ad avere una solforazione più ef-
ficace, si realizza una notevole economia di zolfo. La macchinetta
deve sempre tenersi in posizione orizzontale, come sta nel disegno
a pag. 902, e lo zolfo devesi versarlo nel recipiente senza meno-
mamente comprimerlo: dopo di che, impugnato colla mano sinistra il
manico di sostegno della macchinetta, si metterà in moto colla destra
la manovella; subito si vedrà uscire lo zolfo sotto forma di nube.
Se mai la valvola accennerà a non funzionare regolarmente, basterà
battere leggermente col palmo della mano alcuni colpi sul fianco
destro della solforatrice per obbligare la materia che faceva ostacolo
alla valvola a cadere nel sottostante canale di condotta. Del resto
l'Agenzia Enologica di Milano, la quale vende le solforatrici Foja-
delli, dà anche una dettagliata istruzione, che dopo tutto per chi ha
qualche intelligenza non è indispensabile essendo la macchinetta molto
semplice.
Vi sono altre buone macchinette; ma ci manca lo spazio per poter
entrare in tanti particolari.
§ 6. Antracnosi 0 vaiuolo. — Questa malattia, detta anche
carbone della vigna, morbiglione, ferro, bolla, picchiola, marino,
petecchia, nebbia, male della pastoia, ecc. non è recente, come si
crede da taluno, ma molti anni or sono ebbe già ad infierire (1),
(1) Nel 1839 Fintelmann la descrisse abbastanza bene nella Gazzetta Univer-
sale di Viticoltura, (Berlino) e la battezzò Schwindpockenhrankheit. I dottori Ga-
910 CAPITOLO XXX
come infierisce ora, in Monferrato sotto il nome di malattia della
barbera; ed è infatti la barbera che è essenzialmente danneggiata.
Da varii anni a questa parte la malattia, favorita al certo dalle con-
dizioni climatologiche, cioè dalla umidità primaverile, prese in tutta
l'Europa viticola uno sviluppo grande, e reca in molte plaghe gra-
vissimi danni; in Monferrato taluno, che non fece mai nulla contro
il vainolo, è ora costretto a distruggere interi appezzamenti vitati.
Bisogna dunque lottare coraggiosamente per estirpare subito il male.
L'antracnosi si manifesta assai per tempo in primavera, ed assale le parti
verdi della vite; si vedono allora sui germogli, sulle foglioline e sui vi-
ticci delle piccole macchie circolari brune che crescono prontamente in
numero ed in grandezza (1). Dapprincipio sono un po' sporgenti (ras-
somigliano alle pustole del vaiuolo), ma poi cambiano d'aspetto, cioè
diventano meno sporgenti e prendono un colore cenerino tendente
leggermente al rosa; i margini però offrono una linea del primitivo
colore. Nella pagina inferiore della foglia le macchie sono rosso-
brune, e corrispondono a quelle della pagina superiore, ma sono in-
cavate anziché sporgenti. Le macchie sui tralci assumono dimensioni
maggiori che non sulle foglie, e se questi cacchii sono ancor teneri
muoiono quasi diremmo carbonizzati. Appena cessata la vegetazione
e la propagazione del fungo parassita, le macchie assumono un altro
aspetto, e s'approfondano nella parte da loro intaccata. Sugli acini
il fungo appare solo in luglio, o già alla fine di giugno; dapprincipio
è bruno-porporino, ed in seguito assume lo stesso colore di cui di-
cemmo testé. La piaga o macchia intacca non solo l'epidermide, ma
anche la polpa dell'acino, e giunge persino al vinacciuolo. Il merito
d'aver per primo studiato questo fungo (1876) spetta, salvo errore,
ad un nostro compatriotta, l'illustre G. Passerini; gli tenne dietro
il Saccardo, il quale lo chiamava Gloesporium ampelophagum;
Umberti e Ravizza nella loro pregevole monografia sull'antracnosi hanno tradotto
questo vocabolo composto con « vaiuolo che distrugge rapidamente: » noi pen-
siamo invece che la traduzione esatta sia « vaiuolo atrofizzante » perchè Schwind
(o Schwund) significa atrofia, mentre schwind per geschwind « rapido » non si
adopera che nel linguaggio famigliare, del quale certo non volle servirsi il Fin-
telmann.
(1) Felice de Thumen, 1879. Ci gioviamo specialmente di un opuscolo di questo
insigne micologo austriaco per una breve e chiara descrizione del vaiuolo, aggiun
gendovi quanto ci fu dato osservare in Italia,
CRITTOGAME DELLA VITE 911
però a questo riguardo dei nomi regna un po' di confusione fra i
crittogamisti.
I benemeriti professori Via la e Foèx di Mompellieri hanno fatto
sull'antracnosi nuovi studii che saranno senza dubbio di grande im-
portanza nella conoscenza di questa malattia della vite. Si trattava
di accertare il fatto, ritenuto dai più, che le diverse forme sotto le
quali si sviluppa la malefica crittogama provengano da una mede-
sima origine. Provando ciò, si possono nella pratica consigliare per
tutte le forme del male i medesimi trattamenti.
Ecco quali sarebbero le principali forme tipiche dell1 antracnosi,
secondo Planchon: 1°) V antracnosi maculata; 2°) l' antracnosi
punteggiata (che il Prof. Planchon crede non sia altro che il mal
nero, il quale ora è oggetto di studio pei naturalisti italiani); 3°)
V antracnosi deformante, la quale si manifesta con macchie disse-
minate nelle nervature delle foglie, e, limitandone lo sviluppo, per-
mette però l'allargarsi del tessuto cellulare della foglia stessa, alte-
randone così la forma. Quest' ultima forma della malattia si trova
qualche volta anche sopra il peduncolo, i viticci od i germogli.
Ecco ora lo sperimento dei signori Foèx e Viala. Essi semina-
rono nelle stesse condizioni le spore (o semi) provenienti da tralci
alterati nei tre modi accennati. E ciò fecero deponendo i campioni
di esperimento di queste tre diverse forme di malattia sopra dei
tralci ancora erbacei di Riparia e di Jacquez, avendo cura di fer-
mare in un tubo di vetro ed in uno stato di conveniente umidità
la parte su cui s' era operato. Dopo 8 o 10 giorni si cominciò a
vedere i segni dell' antracnosi punteggiata comparire qua e là, e
continuar poi sempre a progredire, mentre i tralci delle stesse viti,
su cui non s' era tentato 1' esperimento, rimanevano perfettamente
sani. L'esame microscopico poi delle pustolette prodottesi segnalò la
forma caratteristica dell'antracnosi.
Dunque pare accertato il fatto, di notevole importanza nella pra-
tica, che fra le diverse forme d'antracnosi vi ha identità di origine,
perchè tutte, poste nelle condizioni opportune, danno luogo allo stesso
risultato.
Riassumendo, l'antracnosi è un fungo piccolissimo che, coi suoi fila-
menti, fa disseccare e perire le parti della vite su cui cresce, di-
sorganizzandone i tessuti; i suoi semi (le sue spore) sono numero-
sissimi, e ciò spiega il suo rapido sviluppo, sviluppo che si può dire
non cessa se non nell'inverno. Queste spore hanno un involucro so-
912 CAPITOLO XXX
lubile nell'acqua; è per questo che l'umido (sciogliendo questa coperta
gommosa) favorisce cotanto la propagazione delle spore stesse e l'e-
stendersi della malattia; le spore rimangono allora disseminate nel
liquido e con esso discendono dalle parti più alte alle più basse della
vite (1), le quali sono sempre colpite in modo più grave. La causa
dell'antracnosi è adunque questo piccolo parassita crittogamico; noi
pensiamo poi che il suo straordinario svilupppo in questi ultimi anni
debba attribuirsi alle primavere umide, cosicché il mese di giugno
non trascorre mai tanto secco da inceppare lo sviluppo del male;
quando invece sopraggiunge l'estate molto secca noi vediamo il vai-
uolo che si arresta nel suo corso, e questo lo constatammo più volte,
senza trovare mai eccezioni. Però la malattia ebbe già campo a svi-
lupparsi bene sino a tutto giugno all'incirca, e l'anno dopo ricomincia
su una maggior superfìcie del vigneto; ecco quindi come essa si è
tanto allargata in questi scorsi anni, mentre non si fece nulla per ar-
restarne la propagazione. In generale si può stabilire che le viti più
precoci e rigogliose (per esempio la barbera) e quelle di vigneti letami-
nati o ingrassati con concimi ricchi di azoto, sono le più maltrattate
dal vaiuolo, certo perchè offrendogli, coi loro rigogliosi getti fronzuti,
maggior copia d'alimento ne favoriscono sempre più lo sviluppo.
Abbiamo esperimentato, con il concorso anche di varii viticultori
del Monferrato, i rimedii sin qui proposti per combattere l'antracn-osi;
ma, uno eccettuato, gli altri ci parvero semplici palliativi, coi quali
non riuscimmo ad impedire la diffusione del malanno. Li enumere-
remo brevemente.
a) Le concimazioni abbondanti per rendere più robusto il vi-
tigno: — con questo mezzo si raggiunse un risultato opposto, per-
chè i vitigni essendosi fatti più rigogliosi, le spore del vaiuolo si
propagarono con maggior facilità, trovando una vegetazione più
precoce e più abbondante su cui crescere e moltiplicarsi.
b) L'uso dell'acqua di calce o eli liscivia: — usando quest'altro
mezzo si osservò che la malattia infieriva maggiormente, probabil-
mente perchè l'acqua della soluzione favoriva lo sviluppo delle spore.
e) L'uso della polvere finissima di calce viva: — questo rimedio
parve arrestare la malattia per qualche giorno, mercè la distruzione
delle spore che diremo superficiali; ma poi il vaiuolo ricominciava
da capo, perchè il micelio (che, come è noto, è protetto dall'epider"
(1) De Bary, Annalen der Oenologie, 1874.
CRITTOGAME DELLA VITE 913
micie del tralcio, viticcio, acino, ecc.) sporifica di nuovo. Si dovette
perciò, come si fa in Francia, ripetere la cospersione ogni 15 giorni:
ma l'anno dopo la malattia, mercè le spore invernanti, riprese da
capo, e d' anno in anno si andò estendendo, rendendo dispendiosa
assai quella cura di ogni quindicina nei vigneti alquanto estesi.
d) La solforazune ripetuta: — con essa si ottennero general-
mente risultati nulli.
è) La fognatura per rendere il suolo meno umido: — questo
drenaggio non giovò ad arrestare la malattia, benché le viti mo-
strassero un qualche miglioramento, il quale, come è chiaro, non
poteva impedire alle spore di svilupparsi.
f) Esportare i tralci e le foglie coperti dalle pustole del vaiuolo:
— l'esportare e l'abbruciare queste parti infette furono trovaci ot-
timi per inceppare un troppo pronto allargarsi del malanno; ma non
si riuscì ad arrestare l' invasione, perchè sarebbe stato necessario
tagliare e sacrificare tutte intere le piante antracnosate, su cui ri-
manevano le spore a svernare, pronte a svilupparsi la primavera
successiva.
g) Usare una miscela di solfuri, solfiti ed iposolfiti di calce e
di potassa (polvere Rotondi): — con questa miscela si ebbero risul-
tati identici a quelli della polvere di calce (V. e).
h) Cimare i tralci, perchè (dicesi) maturino più presto, onde in
tal modo impedire che il fungo si introduca nel legno: — i risultati
ottenuti furono assolutamente nulli, e 1' antracnosi si sviluppò con
uguale intensità tanto sulle viti cimate che su quelle non cimate.
i) Tenere mondo il terreno dalle male erbe: — tutte le nostre
osservazioni sull' antracnosi vennero fatte in vigneti tenuti tanto
mondi quanto lo può essere un giardino; eppure la malattia ogni
anno aumentava d'intensità.
Ma veniamo infine alla vera cura radicale.
Per impedire che l'antracnosi si sviluppi maggiormente in un vi
gneto, ove si è constatato che ne esistono traccie più o meno estese
bisogna non solamente distruggerne le spore ma anche le pustole
che sono come altrettanti centri d' infezione da cui vengono altre
spore. Anzi, siccome in queste pustole si trovano (entro certi ricet
tacoli detti picnidii) le spore invernanti, così è chiaro che se noi
in inverno giungeremo a distruggere queste pustole e queste spore
a primavera non sarà più possibde che l'antracnosi si manifesti. Or
bene, le prove da noi fatte su vasta scala, e con vigneti di confronto
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 59
914 CAPITOLO XXX
hanno dimostrato che questa distruzione delle pustole e delle spore
invernanti è possibile, e che così adoperando con un solo trattamento
quasi si arresta la diffusione del vaiuolo.
Ora, il metodo di cura che diede in Monferrato, in località del tutto
differenti 1' una dall' altra, come pure nell'Astigiano, risultati affatto
completi, consiste nell'uso (già proposto da altri) della soluzione ac-
quosa di solfato di ferro.
Le prove vennero fatte, come già dicevamo, su vasta scala, trat-
tando in inverno, per esempio, metà un vigneto assai gravemente
colpito dall'antracnosi e lasciando senza trattamento l'altra metà; i
risultati furono tanto soddisfacenti, che in pochi anni quel trat-
tamento si diffuse in tutto il territorio. Era infatti molto concludente
il vedere che le piante trattate col solfato, erano completamente
prive del vaiuolo e coi loro tralci senza la più piccola pustola, men-
tre le viti non trattate (benché nello stesso vigneto, alla distanza
di pochi metri) apparivano assalite gravemente da centinaia di pu-
stole: anche nel 1881, che fu secchissimo (fatto questo degno
di nota e che dimostra come allorquando la malattia è inradicata in
un vigneto, non si arresta anche se la primavera trascorre abba-
stanza asciutta) queste esperienze ebbero luogo in molti vigneti nei
comuni di Casale (presso chi scrive), di Ozzano, di Sala, di Cella-
monte, ecc. e con risultamenti sempre consonanti ed ottimi. Si notò
bensì che la vegetazione delle viti trattate si fa alquanto ritarda-
taria (1); ma le piante cacciano getti rigogliosi e si caricano ugual-
mente d'uva, e questo dimostra infondato il timore di coloro che
temono di nuocere alle viti usando il solfato in inverno.
Anche le gemme, in tutte queste prove, furono asperse di liquido
caustico, ma nessuno ebbe a trovarne una sola che fosse stata dan-
neggiata, locchè è molto significante.
Infine Fuso della anzidetta soluzione è facilissimo ed economico; il
costo non supera le lire 24 ad ettare, facendo un lavoro accurato (2).
(1) Questo ritardo nella vegetazione, spesso, oltre a salvare le viti dalle brinate
primaverili, ritarda la diffusione della stessa antracnosi.
(2) Nel 1879 trattammo 3 ettari e spendemmo:
Per 270 chilog. di solfato . . . . L. 38
Per giornate d'uomini . . . . . » 16
Id. di donne . . , . » 17
Totale L. 71
cioè circa L. 23,60 per ettare. Il solfato ci costò L. 14 il quintale a Genova.
CRITTOGAME DELLA VITE 915
Questi risultati collimino con quelli ottenuti a Rossbach-Meilen
dal sig. Schnorf nonché dai signori Mader e Goethe: quest'ultimo
dice che adoperando il solfato in principio di primavera (noi lo usiamo
in marzo) esso provoca l'aprirsi dei picnidii e vi distrugge entro le
spore, locchè è appunto quanto vogliamo ottenere (1).
Riassumendo adunque diremo, che le esperienze ripetutamente fatte in
Monferrato, similmente alle precedenti fatte nella Svizzera e nella Stiria,
hanno d.mostrato che la soluzione di solfato di ferro applicata
in inverno o sul principio della primavera (marzo) sul legno
delle viti, mentre distrugge le spore deU anlracnosi ed arresta
lo estendersi della malattia, non arreca ventn danno né ai
tralci né alle gemme, le quali sbucciano ari po' tardi, ma danno
getti copiosamente uviferi e che si mantengono sani durante
tutto Vanno vegetativo.
Ecco il metodo da noi seguito e consigliato ai viticultori del Mon-
ferrato.
Si scioglie del solfato di ferro in due volte il suo peso d' acqua
bollente, e quando la soluzione è alquanto raffreddata, si pennellano,
con pennelli da muratore, i tralci — o gli speroni — e le ceppaie
delle viti antracnosate, operando dopo la potatura: si può anche ado-
perare, come ebbimo a provare, uno straccio inzuppato nel liquido;
il risultato è tutt' uno. Bisogna soffregare con cura, perchè così si
è quasi sicuri, con un solo trattamento, cioè in un anno, di estir-
pare il male. Per prova si lascino alcune piante ammalate senza
trattamento, e si vedrà quanto efficace sia la cura suddetta.
Qualora però alcune piante fossero state attaccate in modo tanto
grave da non potersi più potare, si taglino tutti i tralci e si abbru-
cino: assolutamente non si devono portare nella concimaia, perchè
si osservò che possono aiutare la diffusione della malattia, essendo
carichi di spore ed usandosi spesso di spargere quel concime al piede
delle viti. In giugno, luglio, ecc. il viticultare deve poi far tagliare
anche le parti verdi affette dal vaiuolo, e farle abbruciare, essendo
imprudente il somministrarle come foraggio al bestiame. Con queste
precauzioni e colla cura del solfato di ferro, in due anni l'antrac-
nosi scompare quasi totalmente dal vigneto affetto: è l'esperienza
che ce lo dice.
(1) Ber Weinbau, 1879,
916 CAPITOLO XXX
§ 7. Il marciume delle radici. — Questa malattia è abba-
stanza diffusa in Italia; infatti i Delegati governativi per la fillossera
nelle loro ispezioni ebbero a trovare molte viti affette da putridume
al sistema radicale, e noi stessi ne trovammo in Monferrato. Il mar-
ciume (che attacca molte altre piante oltre la vite) è pure conosciuto
in Francia ove è detto le pourridié (1) od anche blanc, blanquet,
chaw pignori. In Italia fu studiato [el primo dal valente crittoga-
mista, A. F. Negri (2) di Casal Monferrato; il Negri trovò che sono
causa del fracidume certi funghi sotterranei o cordoncini a ramifi-
cazioni biancastre (rizomorfe (3)); questi funghi producono sulle ra-
dichete delle viti dei rigonfiamenti che un osservatore poco accorto
potrebbe confondere con quelli della fillossera; invece, come consta-
tammo ripetutamente in varii vigneti del Monferrato, i rigonfiamenti
prodotti da quei funghi non sono uncinati né ricurvi, ma allungati.
Per causa del marciume scompaiono prima le radichette, rimanendo,
per cosi dire, a nudo il fittone; ma poi questo stesso va in putre-
fazione, come ci fu dato osservare; la sua scorza si fa nera unita-
mente a quella" del ceppo, e sotto di essa si vedono i cordoni bian-
chicci delle rizomorfe; allora la pianta è morta o quasi. Il male si
allarga all'ingiro, formando delle vere macchie come le forma la in-
vasione fillosserica; all'esterno pure si nota, nelle piante affette dal
marciume, un deperimento che ricorda quello delle viti fillosserate.
Pure le malattie sono ben distinte, ed in molti vigneti italiani
abbiamo il marciume solo, essendo esclusa in modo assoluto
la presenza del terribile pidocchio. Nei paesi fillosserati accade
però di trovare che certe viti quasi distrutte dalle fillossere,
sono assalite dal fracidume, il quale finisce col restare padrone
unico del campo, inquantochè le fillossere vanno in cerca di
ceppi sani e più vigorosi; gli è allora che un osservatore può con-
cludere che le fillossere non uccidono le viti, perchè sulle piante mo-
renti non se ne rinvengono, ma che invece la loro morte dipende
da cause ignote, e che in conclusione è inutile far la guerra alle
fillossere stesse (4). È facile intendere quali gravi conseguenze ne
(1) Comptes rendus de VAcadémie des sciences (Il agosto 1879). Studii «li Mil
lardet.
(2) Giornale Vinicolo Italiano, 1880, pag. 11 e seguenti.
(3) Rhizomorpha fragilis, secondo Planchon, Schnetzler, Miltardet ed anche
secondo Negri.
(4) Ciò è stato stampato in Italia!
CRITTOGAME DELLA VITE U17
verrebbero per la nostra viticoltura ove il Governo si arrendesse a
simili errate deduzioni.
Il marciume, e questo come noi lo constatammo in Italia fu con-
statato anche in Francia, attacca generalmente i vigneti impiantati sulla
rottura di boschi di quercia; ma è curioso (e di ciò v'hanno esempii
varii in Monferrato) che non si sviluppa che dopo venti e più anni.
La rizomorfa suddetta attacca vivamente le quercie e rimane sui
frammenti delle loro radici; così si comunica poi alle viti. Essa ri-
zomorfa fruttifica e produce (secondo Roberto Hartig (1)) un fungo,
l' Agaricus melleus L.; questo fungo o altro simile venne trovato
anche nelle viti, e perciò il Briganti lo battezzò Agaricus Vitis.
Bisognerebbe perciò osservare attorno ai ceppi affetti dal marciume
se esiste questo agarico; in caso affermativo strapparlo e bruciarlo (2).
Metodi di cura del marciume sin ora ne furono indicati pochi, tanto
in Italia che in Francia; solo il Negri consiglia di scavare larghe e
profonde fosse, col sacrificio anche di qualche ceppaia sana, rimoven-
done tutta quanta la terra e sostituendone altra presa in località im-
mune. Noi consigliamo nuovamente (pag. 600) il debbio, cioè l'abbru-
ciamento delia terra infetta in ispecie di fornelli costruiti colla terra
medesima, con un sistema molto noto nell'Alta Italia (V. pag. 461).
Il Dumas in Francia propose un metodo che diede buoni risultati.
Appena si constata nel vigneto l'esistenza d'una delle macchie che
abbiamo detto, bisogna affrettarsi, qualunque sia la stagione, a far
scalzare tutti i ceppi malati sino alia loro base, tenendosi in una
zona di protezione assai lata. Quindi si dà alle parti della pianta così
scoperta, sino alle radici, una buoua solforazione e si lascia poi così
il tutto esposto all'aria libera almeno per un mese. Questa opera-
zione basterebbe a distruggere tutte le vegetazioni parassitarie che
affliggono la pianta. Gli ultimi studii dell' Hartig su questa malattia
lo condussero a dare alcuni buoni consigli preventivi. Nel pianta-
mene aver cura di non offendere menomamente le radici, purgare
la terra cavata nel far le buche dai pezzi di radice o di legno,
piantare piante perfettamente sane, senza legno vecchio. Non ripian-
tare nel punto ove una pianta è morta di recente, o in caso di bi-
sogno gettare nella fossa e nella terra cavata della calce viva, o
anche bruciare nella fossa spini o altra legna a buon mercato. Im-
(1) Wichtige Krankheiten der Waldbàume. Berlin Springer, 1874.
(2) Sarò gratissimo a chi me ne spedisse esemplari in Casal Monferrato.
918 CAPITOLO XXX
pedire infine che i pali tutori diventino fomite d'infezione, trattandoli
con sostanze antisettiche (vetriolo bleu, ecc.)
§ 8. Il mal nero della vite. — Su questa malattia, di parti-
colare interesse per l'Italia, diremo pochissime parole, perchè essa è
ben lungi dall' essere definita, e nelle sue essenze si danno spiega-
zioni disparatissime. Essa avrebbe i seguenti segni caratteristici: an-
nerimento dei tralci o limitato, od esteso anche ai picciuoli delle
foglie, ai viticci, al ramo principale del grappolo in fiore, ai grossi
rami. Le foglie avvizziscono, seccano e cadono. Togliendo la corteccia
annerita si trova il legno rossastro per una sostanza che il Comes
vuole sia di natura gommosa, prodotta per degenerazione dell'amido,
che il Cugini e il P trotta vogliono costituita di tannino, e il Cop-
pola ritiene essere di natura ulmica. Così pure disparatissime sono
le opinioni degli studiosi sulla origine della malattia, tanto che il
Prof. Alai, pur emettendo un'ipotesi sull'influenza che vi può avere
la natura del terreno coltivabile e del sottosuolo, conclude dicendo
che la vera causa del mal nero resta allo scuro. Comes pensa d'ac-
cordo con Alai che questa causa sta nella poca permeabilità degli
strati profondi del suolo coltivabile.
Ma infine la questione è ancora allo studio, e non essendo ac-
certata ancora la causa del male nessun rimedio può venire per ora
ragionevolmente proposto.
§ 9. Il giallume. — Il giallume, che alcuni chiamano ferza,
fu studiato dal Negri per la prima volta nel 1876; egli ricono-
sceva questa malattia da un « giallo solfino che prendono i vigneti;
ed al giallo si sostituisce spesso il bruno in larghe tacche ed a tutte
e due sussegue la caduta delle foglie rimanendo la pianta spoglia
come d'inverno » (G orn. Vinicolo 1876, pag. 327). Esso è carat-
terizzato da « macchie arsicce a contorni perfettamente definiti di
forma varia e d'ogni grandezza, sparse irregolarmente sulle foglie
e talora limitate ai margini. ». Queste piccole macchie giallo rossa-
stre, analoghe a quelle prodotte da scottature, si presentano sulla
pagina superiore delle foglie e specialmente lungo i margini. Nella
pagina inferiore le macchie sono d'un grigio pallido.
Il parassita del g'allume fu dal Dar. Thumen chiamato phoma ne-
grianum dal nome dello scopritore. Il suo micelio si nutre come quello
della peronospora e si sviluppa a spese delle foglie; ed è perciò da
CRITTOGAME DELLA VITE 919
combattersi quantunque finora in Italia non abbia recato grandi danni,
e sia apparso solo in qualche provincia (Alessandria, Cremona, Parma).
Raccogliendo le foglie colpite nel tardo autunno si può constatare
nelle macchie la presenza di bitorzoletti neri minutissimi, i quali altro
non sono che i peritecci od organi di fruttificazione della phoma
(pag. 892). Questo è l'indizio certo della presenza della malattia. Al-
lora il Negri consiglia di raccogliere ed abbruciare tutte le foglie
infette, onde scemare le progenie del fungillo causa della malattia.
Il medesimo autore non esclude il drenaggio, parendogli che il male
appaia più frequentemente nelle località umidicce.
§ 10. Ultime teorie sulla natura del giallume, del mal
nero e dell'antracnosi. — Il Prof. Orazio Comes, della R. Scuola
Superiore d'Agricoltura di Portici, ha emesso in questi ultimi anni
una teoria secondo la quale i sintomi morbosi che caratterizzano il
giallume, 1' antracnosi ed il mal nero sono tutti provenienti da una
causa sola; la quale sarebbe un alterato processo nutritivo indotto
nella pianta dalla malsania o dal deperimento maggiore o minore
delle radici. Le radici delle viti che presentano i detti sintomi, es-
sendo alterate e marcite, comunicherebbero la malattia alla parte
aerea della pianta, la quale presenterebbe alterazioni più o meno
gravi (ingiallimento, disseccamento, gommosi, ecc.) secondo che il
disfacimento delle radici è più o meno avanzato; la malsania delle
radici indurrebbe la eccessiva gommificazione dei tessuti, e sarebbe
alla sua volta cagionata dalla poca permeabilità degli strati profondi
del suolo coltivabile, sia all'aria, sia all'acqua (V. § 8). Secondo il
Comes il fungo che si crede causa del marciume delle radici non
ne è che 1' effetto; cosi pure il Phoma negriaaum si formerebbe
nelle foglie quando esistono già le macchie e le pustole caratteri-
stiche della malattia; cosi infine del fungo dell' antracnosi.
Esciremmo dal nostro campo volendo prender parte alla viva di-
scussione che le teorie del Comes hanno suscitato tra i crittoga-
mici. A noi basterà di accennare alle deduzioni pratiche che da
esse si possono trarre a vantaggio della viticoltura. Se infatti il
concetto del Comes è vero, e questo lo diranno fra breve gli studii
e le esperienze degli scienziati, noi potremo, prevenendo il marciume
delle radici, tener lontane anche le altre gravi malattie del mal nero,
dell' antracnosi e del giallume. Ora il citato autore afferma che la
causa precipua del marciume risiede nel piantare troppo profondamente
920 CAPITOLO XXX
i sarmenti o magliuoli, là dove il sottosuolo è impermeabile all'acqua,
e che questo marciume è aggravato dalla concimazione con letame
non bene fermentato e dalla consociazione alla vite di piante avide
di sali alcalini (patate, pomidoro). Ed ecco i rimedii proposti dal
Comes; ommettiamo quelli già accennati al § 7, che sono pur buoni:
« Sospendere nei vigneti la coltura di quelle piante erbacee che
richiedono letame e sostituirvi le erbe da sovescio. Presentatasi la
malattia sotto qualsiasi delle forme indicate bisogna sotterrare il
fusto della vite ammalata, senza svellerlo, alla profondità di circa
mezzo metro dalla superficie del suolo, dopo di aver smosso almeno
di un altro metro il terreno sottostante, ove andranno a distendersi
le nuove radici che spunteranno sul fusto sotterrato. È raccoman-
dabile di fognare con pietrame il fondo del fosso che si è scavato.
Essendo poi la malattia infettiva è necessario smettere l'uso di pian-
tare più tralci nello stesso posto, e quando si scalzano le radici bi-
sogna asportare e bruciare tutte quelle che si trovano già marcite,
nonché gli altri cascami della pianta infetta » (1).
§ 11. Altre crittogame della vite. — In condizioni eccezio-
nali di grande umidità possono svilupparsi nella vite altri parassiti
vegetali di minore importanza. Essi si chiamano Cladosporhtm vi-
ticolum {Cesati) — Cladosporhtm Roesling {Cattaneo) — Septo-
sporium Fuckelii {Thù>nerì). — ■ Un altro parassita, il Septocylin-
drum dessiliens {S'iceardo), sarebbe stato constatato invece nelle
annate secche. Tutti cagionano alterazioni specialmente alle foglie,
e i loro segni esterni rassomigliano a quelli della peronospora, tanto
nella pagina superiore, come in quella infei >re. Nessuno di essi ar-
recò mai gì li danni; essi appaiono generalmente in autunno dopo
maturato il frutto. Lo studio di essi ha quindi un' importanza piut-
tosto teorica che pratica.
(1) 0. Comes. Sul marciume delle radici e sulla gommosi della vite nella prò .
viaria di Napoli, 1884.
CAPITOLO XXXI
Le viti americane in Europa.
§ 1. Classificazione pratica delle viti americane — § 2. Specie a granelli grossi.
V. Labrusca, York Madeira, ecc. — § 3. Specie a granelli piccoli. V. ^Esti-
valis, Jacquez, ecc. — § 4. V. Riparia, Solonis, Clinton, ecc. — § 5. Altre viti
a granelli piccoli. Rupestris, ecc. — § 6. Ibridi — § 7. Ragione della resi-
stenza delle viti americane — § 8. La seminagione e 1- innesto — § 9. Adat-
tamento ai diversi terreni — § 10. Gli insuccessi e l'avvenire delle viti ame-
ricane.
§ 1. Classificazione pratica delle viti americane. — Ab-
biamo accennato nel capitolo Botanica della vite alla classificazione
delle specie che appartegono al genere Vitis, proposta dal profes-
sore Elia Durano1. Sotto il punto di vista pratico, dell'interesse cioè
più o meno grande che le viti americane ed asiatiche possono pre-
sentare nella viticoltura europea, accenneremo alla divisione proposta
dal Planchon ed accettata dai professori della Scuola di Mompel-
lieri (1). Di ogni specie e di ogni varietà daremo brevemente quelle
notizie che maggiormente potranno interessare dal punto di vista
pratico, estendendoci maggiormente su quelle che già possediamo in
Italia e che ci conviene quindi di moltiplicare. Il Planchon (2) di-
vide il genere vitis in due sezioni: Muscadinia ed Eumtes. Alla
(1) Vedi Foè'x e Viala. Ampélographie américaine. Montpellier 1885. L. De-
grully e P. Viala. Les vignes américaines à V Ecole Nationale a" Agriculture de
Montpellier, 1884.
(2) V. Las vignes américaines, leur culture, eie.
922 CAPITOLO XXXI
sezione Muscadinia appartiene la sola specie V. Rotundifolia.
Essa ha per caratteri quello d'avere la corteccia aderente e coperta
da piccole e numerose lenticelle. La V. Rotundifolia, a cui appar-
tiene la varietà Scuppernong, non ha importanza pratica nella
viticoltura europea, non avendo dato buoni risultati né come pro-
duttore diretto, né come porta innesti.
Le specie che appartengono alla sezione Euvites hanno di carat-
teristico che la corteccia di buon' ora si distacca in striscie e sono
prive di lenticelle. Se ne fanno tre divisioni: 1° Specie portanti uva
a granelli grossi, e sono la V. Labrusca, la V. Candicans, la V. Mon-
ticala e la V. Lincecumii tutte americane. 2° Specie portanti uva a
granelli piccoli, e sono la V. JEstivalis, la V. Riparia, la V. Rupe-
stris, la V. Cordi folia, la V. Berlandieri, la V. Arìzonica, la V. Cali-
f umica, la V. Cinerea, la V. Cariboea americane, e la V. Thimberg,
la V. Flexuosa, la V. Coignetice, la V. Amurensis, la Spinovi tis
Davidi e la V. Romane ti dell'Asia orientale. 3° Granelli di grossezza
diversa, e qui abbiamo la V. Vinifera. Come si vede questa divi-
sione* più che botanica è pratica. Esamineremo le specie delle due
prime divisioni, quelle della terza essendo già state trattate nel
capo XXVI.
§ 2. Specie a granelli grossi. V. Labrusca. — È 1' unica
specie di quelle conosciute che abbia i viticci continui. Altri carat-
teri tra i più distintivi sono quelli di avere la punta dei germogli
d'un colore rosato; le foglie sono munite d'una folta lanuggine alla
pagina inferiore, la quale presenta talvolta 1' aspetto un pi)' metal-
lico. La V. Labrusca è poco resistente alla fillossera e difficilmente
si acclima da noi. Il suo frutto ha il sapore volpino o di selvatico
(sapore di fragola, di cirmce, di lampone, detto foxy in inglese, foxè
o de renard, in francese). Le varietà più conosciute della V. Labrusca
sono il Concord, Y Isabella, la Catawba e gli ibridi Triumph (ibrido
di Concord e di Chasselas) e York Madeira.
Il Concord riconosc.bile alla lanugine folla e d'aspetto bianco do-
rato, che ha alla pagina inferiore delle foglie, ha pochissima impor-
tanza per noi. Dà un vino a spiccato sapore volpino, ed è cattivo
porta innesti.
V Isabella e la Catawba sono conosciute in Italia, ma non pos-
sono essere adoperate nel piantamento di viti americane resistenti.
Esse sono attaccate dalla fillossera ed i frutti hanno il sapore di
fragola.
LE VITI AMERICANE IN EUROPA 923
Il Triumph (ibrido) ha qualche propugnatore in Francia che lo
ritiene eccellente produttore diretto. All' ultimo Congresso di Mont-
pellier si disse che il vino di Triumph tagliato con Jacquez dà un
prodotto assai fino (1). La sua resistenza alla fillossera non è an-
cora bene accertata.
Il Jork Madeira può interessare assai più di tutti i prece-
denti, tanto più che è diffuso in Italia. Ha i viticci discontinui, d'un
rosa sporco, i tralci rugosi, prima d'un verde sporco poi d'un rosso
bruno; colla V. Labmsca, da cui dipende, divide il carattere d' a-
vere una lanugine assai compatta sulla faccia inferiore delle foglie,
le quali sono di larghezza media, intiere, cordiforme, un po' allungate
Il York Madeira è rustico e assai resistente alla fillossera; i
viticultori francesi lo ritengono ottimo porta innesti specialmente pei
terreni secchi ed aridi, quantunque nei primi due anni presenti un'ap-
parenza assai meschina. Non gli si dà importanza in Francia come
produttore diretto, e gli si rimprovera il gusto fuocé. Da noi invece
il vino di York ha seguaci ed ammiratori. Citiamo fra questi il
Toscanelli, il Boschiero, il belletti. Pare che facendo fermentare
il mosto senza le bucce, travasando sovente al primo anno, e sopra
tutto impiegando il vino nei tagli, che il sapore foocy scompaia (2).
Del resto in certe provincie d'Italia molti amano il vino col sapore
foocy. Citiamo il Friuli in cui è constatato che ormai vi ha una
predilezione per un tal vino. Il Rovasenda disse in seno alla Com-
missione consultiva per la fillossera (3): È strano ma constatato il
fatto che a molti piace il gusto di fragola nel vino; gli operai del
Biellese sono fra questi.
V. Candicans. È conosciuta in America sotto il nome di Mustang
grape (uva di cavallo selvatico). La si riconosce facilmente ai ger-
mogli bianco rosati e alle foglie sempre più o meno convesse alla
pagina superiore. Dà un vino scadentissimo. Resiste alla fillossera
ma assai difficilmente rappiglia per talea.
V. Monticola e V. Lincecumii. Sono poco conosciute e quindi
per ora non presentano interesse.
§ 3. Specie a granelli piccoli. V. JEslìvalis. — La V. JEslì-
valis ha caratteri abbastanza spiccati. I germogli sono d'un vivo
(1) Comptes rendus des Rèunions viticoles, 1885, pag. 10.
(2) V. Giornale Vinicolo, 1883, pag. 121.
(3) V. Atti ecc. Sessione di luglio 1883.
924 CAPITOLO XXXI
colore rosso carmino; le foglie presentano appena nate la forma ap-
piattita e sono coperte nelle due faccie d'una folta lanugine la quale
poi scompare dalla pagina superiore delle foglie adulte. La V. JEsti-
valis può dare direttamente vino, ma rende poco. È resistente e
fornisce uno dei migliori porta innesti: — Foèx e Viala fanno una
classificazione pratica assai importante delle varietà delle V. AUsti-
valis. È quella che noi qui seguiremo :
A) Varietà a foglie lobate a grappolo alato ed allungalo,
Jacquez: — è una delle viti americane più interessanti, assai lodata
tanto come porta innesto quanto come produttore di vino. Conserva
i germogli rosso carminio del tipo JGstivalis, ma questo colore scom-
pare più presto, le foglie sono d'un rosso carico con ciuffetti di peli
sulle nervature. Del vino di Jacquez si è fatto qualche tentativo in
Italia (Rovasenda ed altri), e numerosi nei Mezzogiorno della Francia
È un vino carico di colore quantunque privo di aroma e che serve
benissimo per i tagli. La sua alcoolicità sta tra i 12° e i 14°. Ha
il difetto essenziale di prendere facilmente una tinta bleu: ad impe-
dir ciò si consiglia di non far la raccolta troppo tardi e di aggiun-
gere alla vendemmia dell'acido tartarico.
Il vitigno resiste bene alla fillossera ed è di facile contentatura
riguardo al terreno; non teme che i terreni umidi ove va singolar-
mente soggetto alle malattie crittogamiche. E abbastanza produttivo,
ma rappiglia difficilmente per talea — appunto fattogli anche dal
nostro Rooasenda; — è un vigoroso porta-innesti.
L' Htrbemont ha le foglie d'un verde meno intenso del Jacquez,
e lobi meno profondi. Se ne conosce una varietà a frutto nero e
una a frutto bianco sperimentata e lodata dal Malègre in Francia
e dal Grazzi Sondili in Italia. Ma rende poco, per cui lo si con-
siglia piuttosto come porta innesti nelle terre rosse a ciottoli silicei,
nelle terre cioè che si riscaldano facilmente.
BJ Varietà a foglie quasi intiere, a grappolo corto e non
alato. Cunningham. Dà frutto fino, ma è assai poco produttivo.
Non pare abbia gran valore come porta innesti.
Black-July. Dà frutto fino ma scarso. Si accontenta facilmente
del terreno e non teme le malattie crittogamiche in grazia delle sue
foglie spesse, coriacee e tomentose.
C) Varietà in cui la pagina inferiore delle foglie presenta
una lanugine color ruggine. Cynthiana. Buon vino ma prodotto
in proporzione troppo scarsa. Fo'èx, Pulliat, Champin ed altri am-
LE VITI AMERICANE IN EUROPA
925
mettono che questo vitigno sìa affatto identico al Norton' s Vir-
ginia (1). Riesce solo nelle terre rosse a ciottoli silicei.
§ 4. Y. Eiparia. — La Riparia e le sue varietà, specialmente
selvatiche, forniscono i migliori porta-innesti. Tra i caratteri princi-
pali ampelografici accenneremo a quello essenziale delle foglie; le
quali, giovani restano lungo tempo ripiegate su di loro stesse come
a gronda, adulte in forma di cuore sono liscie nelle due faccie, lu-
cide nella pagina inferiore, aventi talvolta in esse qualche pelo sulle
nervature. A dare con poche parole un'idea sufficiente delle varietà
della V. Riparia uniremo qui uno specchietto che abbiamo compilato
servendoci del citato opuscolo di Degrully e Viala. Non è che una
divisione pratica;
La specie Riparia
si può dividere
in 2 gruppi
Riparie
selvatiche
coltivate
Tomentose, [specialmente nei giovani rami —
(riescono meglio delle altre nei terreni
umidi errici climi settentrionali).
/ a foglie piccole — (le meno nume-
i rose, poco vigorose e quindi da
Glabre i abbandonarsi)
I a foglie grandi — (sono le migliori.
' La R, Fabre ne è il tipo)
e la Solonis i cui caratteri son dati più sotto.
j Taylor
\ Clinton, ecc.
Le Riparie glabre a foglie grandi più o meno verniciate, lucenti,
e spesse offrono tipi di molto valore, che è però assai difficile di
specificare; il mezzo migliore di riconoscere una buona Riparia è di
piantarla e coltivarla (2),
La V. Solonis deve essere studiata con amore e con speciale in-
teresse dai nostri viticoltori, perchè è una di quelle che abbiamo in
Italia e fornisce un vigorosissimo porta innesto. Si riconosce con
grande facilità: è tomentosa nei tralci, e le foglie d'un verde glauco
hanno denti acuti, di cui due, assai più spiccati, convergono verso
l'asse o linea mediana della foglia, coll'estremità curvata al disotto.
Ciò dà alla foglia una forma caratteristica. Resistentissima alla fil-
lossera, facile a rappigliare, è ottima la V. Solonis specialmente pei
(1) Bulletin de la Società d 'agriculture de V Uérault 1884, pag. 199,
(2) Degrully e Viala. Op. cit. p. 18,
926 CAPITOLO XXXI
terreni un po' umidi, o in quelli a sottosuolo cretoso o tufaceo dove
le altre Riparie selvatiche non riescono {Foèx).
Venendo alle varietà coltivate di Riparia, abbiamo il Taylor e
il Clinton che furono tra le prime a essere coltivate in Francia e
che ora cedono man mano il posto ad altre varietà. Il Clinton è
poco vigoroso e di diffide contentatura in quanto al terreno; il
Taylor è vigoroso, rappiglia facilmente e tien bene Y innesto, ma
ha pochi terreni che gli convengono. Secondo Foex e Viala vuole
terre profonde di consistenza media un po' leggera. Ad eccezione di
queste terre e dei detriti tufacei dove gli altri tipi americani non
attecchiscono, il Taylor è abbandonato. Clinton e Taylor sono cono-
sciuti anche in Italia.
Infine le migliori varietà di Riparia sono le selvatiche. Nel Mez-
zogiorno della Francia i tre quarti di vitigni ricostituiti sono inne-
stati su Riparia selvatica. Ha un gran vigore, è un ottimo porta
innesto, si contenta di quasi tutti i terreni (eccetto quelli sterili, u-
midi, argillosi, o troppo secchi). Rappiglia facilissimamente di talea
e va pochissimo soggetto alle malattie crittogamiche.
In Italia abbiamo già molte viti Riparie ottenute dai semi dispen-
sati dal Ministero.
§ 5. Altre viti a granelli piccoli. — Le accenneremo sola-
mente di volo. La V. Rupestris è un ottimo e vigorosissimo porta
innesti. La si riconosce facilmente dalle foglie più larghe che lunghe
e restanti sempre piegate a gronda. Fu diffusa in Italia dal
Ministero d'Agricoltura. La V. Cordi folta resiste, ma difficilmente
si moltiplica per talea. La V. Berlandieri da poco studiata ha pre-
sentato un vigore eccezionale, resiste alla fillossera e porta bene
l'innesto, ma rappiglia difficilmente per talea. La V. Arizonica e la
V. Californica sono coltivate ed estese con successo in California.
Secondo il Prof Pohndorff di S. Helena vanno messe tra le più
resistenti (1). Pare però che siano di difficile moltiplicazione. La V. Ci-
nerea resistente e la V. Cariboea sono ancora poco conosciute. Le
specie asiatiche che abbiamo nominato non presentano interesse per
noi, o perchè non sono resistenti (Thunberg, Amurensis), o perchè
pochissimo conosciute finora.
(1) V. Giornale Vinicolo 1884, p. 426.
LE VITI AMERICANE IN EUROPA 927
§ 6. Ibridi. — Il Vialla è il porta-innesto per eccellenza del
Bordolese e del Lionese. Secondo PuHiat riesce a maraviglia nelle
terre granitiche del Beaujolais (1). Foéx lo consiglia specialmente
nei climi un po' umidi e nelle terre di media consistenza ed umi-
dità. In Italia abbiamo il Vialla, che il Rovasenda crede venuto di
contrabbando in Lombardia. È resistente-
U O/hello è coltivato da qualche anno come produttore diretto, e
dà vino discreto, a sapore pochissimo foxé; ma non è ancora ac-
certata la sua resistenza alla fillossera. L' Eloira può servire da
porta -innesto nelle terre ricche, profonde, fresche e permeabili. Del
Yo? k -Madeira e del Triumph già parlammo al § 2. Tutti questi
sono ibridi ottenuti naturalmente in America: l'ibridazione artificiale
tra viti americane resistenti e vigorose e viti francesi è già stata
tentata in Francia, ma per ora senza grandi risultati pratici. Per
altro non è impossibile che si riesca ad ottenere dei soggetti vigo-
rosi, fruttiferi e resistenti (v. pag. 553).
§ 7. Ragione della resistenza delle viti americane. — La
resistenza di certe viti americane fu ed è oggetto di molte ricerche
non solo in Francia, ma oggi anche in Italia; si disse che la potenza
della vegetazione è una causa di resistenza, ma allora come spie-
gare che le viti Labrusca, viti americane a grande sviluppo (2),
non resistono affatto, mentre il Yorh-madeira ed il Gaston-Ba-
zille, di vegetazione limitatissima, son resistenti? Miglior spiegazione
ci pare quella dell'americano Bush, che assegna come causa di tale
resistenza la durezza delle radici di certe viti; il chimico Boutin
trovò invece la ragione della resistenza nella esistenza nelle radici
suddette d'una maggior quantità di acido malico e di materia resi-
noide che cicatrizzerebbero le feriti della fillossera. Ma gli studii più
serii sono quelli di Fóex e Coste, dai quali desumesi che, nelle viti
resistenti, la puntura dei pidocchi non interessa, non altera, non di-
sorganizza che il solo inviluppo esteriore delle radici (il parenchima
corticale), mentre nelle non resistenti disorganizza il cilindro tutto
intero delle radici stesse. Le viti resistenti hanno adunque, come lo
previde Bush, una legnificazione più perfetta e una struttura più
(1) Congrès viticole de Villefr anche- sur -Saone 1884. Compie rendu, pag. 25.
(2) Non si confonda questa vite colla nostra vite Lambrusca o vite selvatica
detta anche Zampina.
928 CAPITOLO XXXI
densa dei tessuti, al che va congiunto, in varie specie, uno sviluppo
proporzionatamente rigogliosissimo del sistema radicale. È bene però
notare che la natura fisico-chimica del terreno può far scemare
d'assai la detta resistenza, appunto col non favorire lo sviluppo del
sistema radicale; da ciò molti insuccessi in Francia. Concludendo,
diremo col Mìllardet, pur ricordando quanto dicemmo sulla morte dei
rigonfiamenti, che « se le radicelle di una vite americana fillosserata
non presentano che esiguo numero di nodosità, o se queste, quan-
tunque numerosissime, non si disorganizzano che lentamente o in
rari casi, la resistenza è assicurata e tali viti resistenti perdureranno
a resistere indefinitamente quando abbiasi cura di consultarne le
singole diverse attitudini individuali. »
§ 8. La seminagione e l' innesto. — Volendosi seminare
vili americane si dovranno scartare i semi " o vinacciuoli di uve
provenienti dall' incrociamento di viti americane fra loro, o peggio
di viti americane colle europee (1); — così l'incrociamento dell' Ae-
stivalis colla Labrusca originò il York-madeira; ma i semi di York-
madeira danno piante le quali non sono identiche alla madre, ma si
avvicinano in parte all' Aestivalis (resistente) ed in parte alla La-
brusca (non resistente); si ritiene quindi cosa imprudente di seminare
tali viti ibride. Millardet perciò dice che non vi sono che cinque
sorta di viti americane che possono essere raccomandate a priori
per seminare: Herbemoyit, Cimningham, Jacquez, Clinton e Ri-
paria Solonis (2).
Noi abbiamo ottenuto in quest'ultimo quadriennio risultati ottimi
dalla seminagione della Riparia selvatica, che raccomandiamo cal-
damente a tutti coloro che desiderano prepararsi il loro vivaio di
viti americane porta-innesti di grande resistenza. Le Riparia sel-
vatiche godono delle seguenti preziose proprietà:
1°) Seminate, danno viti dello stesso tipo, e tutti i tipi di Ri-
paria sono resistentissimi, cosa questa della più alta importanza.
2°) I semi nascono benissimo.
(1) G. Foex, Mesmggcr agricole du Midi. N. 2, 1880. Egli dice: « si scelgano
per seme delle razze le cui proprietà di resistenza non siano state alterate dalla
ibridazione colle nostre viti indigene. »
(2) 11 Riparia Solonis, per esempio, fiorisce presto e non vi ha quindi pericolo
di ibridazione.
LE VITI AMERICANE IN EUROPA 929
3°) Le viti riprendono di talea con molta facilità.
4°) Gli innesti su di esse riescono benissimo.
5°) Si adattano ad ogni clima e ad ogni suolo.
6°) La fillossera quasi non determina alterazione sulle loro
radici.
7°) Infine è possibile avere semi di Riparia da regioni ove non
sussiste nessun' altra specie, cioè semi purissimi ed esenti da incro-
cramenti. (Nel bacino del Mississipì presso le cascate di S. Antonio
e sul Lago Superiore, non vi ha altra vite che la Riparia selva-
tica, a detta dell'illustre Engelmann).
Sin dal 1882 noi consigliavamo il Governo a voler tralasciare dal-
l'importare talee dalla Francia meridionale, essendovi gravi pericoli,
nonostante le disinfezioni, di introdurre la fillossera nei nostri vivai
nazionali, come già era accaduto a Montecristo. Questa nostra pro-
posta, la quale si ebbe vivi encomii dai signori Planchon, Millardet
e Champin, fu accettata; ed oggi abbiamo in Italia parecchi semenzai
che presto daranno in quantità ottime barbatelle resistenti e sicura-
mente immuni. Oltre alla Riparia converrà seminare per avere ottimi
porta-innesti anche la V. Rupestris e la Cordifolia; invece non pos-
siamo ugualmente raccomandare la seminagione delle specie e va-
rietà a produzione diretta, perchè esse non si riproducono mai e-
sattamente di seme. Facendo la seminagione colle norme che abbiamo
dato a pag. 383, si avranno già al 3° anno barbatelle rigogliose,
atte al trapiantamelo a dimora ed a ricevere l'innesto delle nostre
varietà.
Quanto ai metodi da preferirsi per l'innesto saremo brevi (dopo
il molto che ne abbiamo detto al cap. XVIII.) e citeremo solo il
parere emesso alle pubbliche riunioni di Montpellier del 1884 dai
signori Champin, Delmas, Fermaud, Prades e #alla Duchessa di
Fitz James, una ricca signora francese che ha qualche centinaio
d'ettari a vigneto innestato.
« L'innesto a spacco — si disse — dovrà essere preferito nella
maggior parte dei casi. Avendo a propria disposizione operai molto
abili, si potrà dare la preferenza air innesto inglese. Tutti gli altri
sistemi vogliono essere rigorosamente proscritti » (1).
Nel medesimo congresso fu ridotta alla massima semplicità la que-
stione dei mastici e delle legature. Il mastice è l'argilla plastica, che
(1) V. Bulletin, loc. cit. pag. 236.
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 60
930
CAPITOLO XXXI
presso il sig. Maures di Saint-Georges supplisce anche alla legatura:
— la legatura migliore e più semplice fu detta essere lo spago o la
rapài a.
§ 9. Adattamento dei vitigni americani ai diversi terreni.
— A dare un'idea sulle diverse esigenze delle viti americane ri-
guardo al terreno, nulla di meglio possiamo fare che ricavare uno
specchio dall'eccellente trattato di Foéoc e Viola, Ampélographie a-
méricaine.
Adattamento dei vitigni americani ai diversi terreni.
V. Riparia tomen-
Terre argillose
Terre profonde |
fertili e fres- {
che. j
tosa e glabra
Jacquez
Solonis
Yialla
Taylor
i Jacquez
profonde umi-
dissime.
Terre sabbiose
profonde ab-
bastanza fer-
tili.
V. Cinerea
i Solonis
Jacquez
Cunningham,
' Black-July
Terre profonde
V. Riparia
, V. Rupestris
un po' forti ,
Solonis
non umide.
Yialla
\ Taylor
Terre leggiere
V. Rupestris
ciottolose sec-
Yorck
che e aride.
V. Riparia selvatica
' V. Riparia
Terre profonde
Jacquez
di media con-
Solonis
Terre profonde
< Solonis
sistenza , fre-
Yialla
a fondo tufa-
sche in estate.
Taylor
ceo e terre sa-
\ Black-July
late.
Terre leggere
Terre formate
,
ciottolose pro-
, Jacquez
da frantumi di
/ Taylor
fonde , di fa-
Yialla
tufo assai pro-
cile scolo, che
V. Riparia selvatica
fonde.
\
non si dissec-
| Taylor
cano troppo
d'estate.
V. Rupestris
Terre rosse per
1 Tutte le varietà
v
peross. di fer-
già nominate e:
ro, a ciottoli
1 Herbemont
Terre calcari a
1 Solonis
silicei, profon-
1 Clinton
sottosuolo cre-
de e un po' for-
\ Cynthiana
toso, poco pro-
\ V. Rupestris
ti, di facile sco-
\ Hermann
fonde e grani-
lo ma fresche
' Marion
tiche.
\
in estate.
\ Concord
Terre argillose
' Cunningham e in
bianche o gri-
qualche caso:
giastre.
[ Jacquez
LE VITI AMERICANE IN EUROPA 931
§ 10. Gli insuccessi e l'avvenire delle viti americane. —
Che nelle viti americane stia un potentissimo mezzo di difesa contro
la fillossera, nessuno più ne dubita. Emnienti scrittori e scienziati fran-
cesi, quali il Planchon, il Pulliat, il Champin, il Foéx, il Marès,
il Millardet sono in ciò d'accordo coi pratici. Non daremo che po-
che cifre in appoggio alla nostra asserzione.
L' Hérault aveva nel 1879, 500 ettari di vigna ricostituita
nel 1880 ne aveva 2.500
» 1881 » 5.000
» 1882 » 10.000
» 1883 » 18.000
Se vi sono discrepanze queste riguardano piuttosto i modi di uti-
lizzare le viti americane. V'ha chi ha la massima fiducia nell'innesto, e
chi crede invece {Laurent) che l' innesto tosto o tardi finisce per
indebolire il soggetto; v'ha chi mette ogni speranza nei produttori
diretti, e chi non dà a questi che un'importanza secondaria. Gli av-
versarii dell'innesto portarono dinnanzi ai congressi ultimamente te-
nuti in Francia varii esempi di deperimenti di viti innestate; ma lo
studio di essi esempi, fatto da apposite commissioni, condusse sempre
a trovare la ragione degli insuccessi. Questa ragione stava o nella
natura del terreno, o nell'aver trascurato di sopprimere le radici e-
messe dall'innesto, od in una alterazione esistente prima dell' ope-
razione dell' innesto e via via. In sostanza 1' edificio innalzato con
tanta fatica e perseveranza dai viticultori francesi del Mezzogiorno
per ora non è scosso, anzi si assoda sempre più d' anno in anno
coll'aiuto di legioni di lavoratori sempre crescenti di numero, e dotati
di una energia e di una perseveranza tali, che tutta l'Europa viti-
cola ne è ammirata.
Noi Italiani non dobbiamo limitarci ad osservare quello che si fa
nel Mezzogiorno della Francia: dobbiamo tenerci perfettamente al
corrente di quegli studi e di quelle sperienze; e moltiplicare frattanto
i nostri piantamenti di viti americane, poiché secondo tutte le pro-
babilità è là che troveremo uno dei più validi mezzi* di resistenza
contro l'invasione fillosserica, nella stessa guisa che il sulfuro di car-
bonio ci porge il più energico mezzo di distruzione dell'insetto.
CAPITOLO XXXII
La flllosseronosi e l'avvenire della viticoltura.
§ 1. Una profezia di Mosè — § 2. Viticoltura ed albericoltura per l'Italia! —
§ 3. L'aumento del prodotto brutto dei nostri vigneti — § 4. Diminuzione nelle
spese di mano d'opera — § 5. La legge contro la diffusione della fìllopsera:
metodo curativo e metodo distruttivo.
§ 1. Una profezia di Mosè. — Nel Deuteronomio sta scritto:
« tu pianterai una vigna, tu la educherai, ma tu non ne ricaverai
il vino perchè essa sarà distrutta dagli insetti. » Anche ai tempi di
Mosè la vite aveva adunque terribili nemici, se il grande legislatore
ha potuto fare una così desolante profezia! Pure, nonostante le nu-
merosissime crittogame ed i numerosissimi insetti che in tutti i tempi
ci hanno disputato il succo della preziosa ampelidea, noi siamo riu-
sciti ad estenderne molto in Europa la coltivazione, ed abbiamo reso
generale presso alcuni paesi l'uso del vino, in guisa che la vite, per
la Francia, l'Italia e la Spagna principalmente, rappresenta oggigiorno
una ricchezza di primo ordine e senza dubbio la più proftcua fra le
piante coltivate. La Francia deve per certo alla vite una grande
parte della sua potenza finanziaria, per cui, nonostante la fillossera,
ha potuto pagare enormi debiti di guerra e può permettersi altre
gravi spese eli colonizzazione! L'Italia a quest'ora produce annual-
mente tanto vino pel valore di quasi un miliardo, le viti si estendono
ogni giorno, e se ne migliora la coltivazione per produrre molto
vino a buon mercato.
Ed oggi, perchè la fillossera ha invaso e distrutto alcuni vigneti
LA FILLOSSERONOSI E L'AVVENIRE DELLA VITICOLTURA 933
italiani, qualche viticultare si allarma oltre misura, si dà in preda
al più profondo scoraggiamento e pensa di sostituire alla ubertosa
vite qualche altra coltivazione ! Noi invece diciamo che ora più che
mai conviene rivolgere amorose cure ai nostri vigneti, e continuare
ad estendere questa coltura assai benefica ed eminentemente colo-
nizzatrice, dovunque il suolo ed il clima noi vietano.
Il regno della vite non è peranco finito, né finirà giammai; con-
fidiamo che questa profezia avrà maggior fortuna di quella del Deu-
teronomio !
§ 2. Viticoltura ed albericoltura per l'Italia! — Allor-
quando le produzioni agricole di un paese sono in armonia coi tre
fattori clima, suolo e situazione del mercato, e se V agricoltore
conosce il suo mestiere, il capitale investito nel suolo è sempre im-
piegato ad un interesse molto rimuneratore. Al contrario, se la pro-
duzione deve lottare contro quei fattori, l'agricoltura diventa un'in-
dustria perdente o quasi. Un clima umido ed un suolo permeabile
permettendo una efficace utilizzazione delle acque di irrigazione per-
metteranno pure il predominio del prato e del bestiame; in un clima
arido, in situazioni non pianeggianti, la praticoltura non potrà mai
uguagliare l'albericoltura; ma in ogni caso la situazione del mercato
potrà avere una influenza molto sensibile e rendere più o meno lu-
crative la praticoltura, la frutticoltura, la cerealicultura e via di-
cendo; infatti da essa dipendono la maggiore o minoro ricerca, non-
ché, quindi, il prezzo di vendita dei prodotti del suolo, perchè essa
riflette la situazione economica generale, le crisi monetarie, le con-
seguenze della concorrenza, gli effetti delle facilitate vie di comuni-
cazione o delle tariffe doganali elevate o della maggiore o minore
offerta di determinati prodotti. La situazione del mercato deve dun-
que essere oggetto di continuo studio da parte dell'agricoltore; però
gli converrà oggi di considerare non solo il mercato del proprio
paese, ma quello mondiale a dirittura.
Or bene, ponderando su tutto ciò, ci pare che non si possa a
meno di conchiudere che V albericoltura e la viticoltura in ispecie
debbono costituire per l'Italia la base principale della sua agricoltura.
Delle attitudini del nostro clima e del nostro suolo è superfluo par-
lare: noi possiamo coltivare l'olivo, la vite, l'arancio, il cedro, e via
via, venendo da Mezzodì sino a Nord, al pomo, al pero, al castagno #
Quanti paesi in Europa possono dire altrettanto? E d'altra parte,
934 CAPITOLO XXXII
quante piante coltivate danno un bene Scio netto uguale a quello
degli alberi da frutta? Lasciamo stare il prato ed il riso colà dove
si possono coltivare convenevolmente, e prendiamo il frumento, poi-
ché occupa oltre a 4 milioni e mezzo di ettari, cioè la quarta parte
circa del territorio italiano coltivato: ebbene, in condizioni normali oggi
esso si bilancia con perdita; ed in condizioni eccellenti, e con un pro-
dotto di oltre a 25 ettolitri ad ettare, è molto se si arriva alle 200 lire
di beneficio netto: ma un ettare a frutteto od a vigneto può rendere
agevolmente il quadruplo, ed in buone condizioni il quintuplo, cioè
1000 lire nette ad ettare. E diciamo questo per l'esperienza di molti
frutticultori e viticultari e per quanto vediamo noi stessi presso il
podere viticolo del Cardello.
E del resto lo stesso prato, che alcuni vogliono sia in ogni caso
la dote del podere, non può certo rivaleggiare cogli alberi da frutta;
d'altronde non può generalizzarsi e costituire la base dell'agricol-
tura in un paese il quale, come giustamente dice il Senatore Ja-
cini nel Proemio dell' 'Inchiesta Agraria, è essenzialmente paese di
montagna, eccettuata la pianura del Po e poche altre pianure mi-
nori; molti prati dei colli, lo possiamo pure attestare per V esame
accurato di quanto si verifica al suddetto podere del Cardello, danno
un reddito molto esiguo, anche se concimati; e codesto causa il di-
fetto di umidità, il quale spesso non permette neppure la costitu-
zione d'un buon prato artificiale di erba medica, che sarebbe tanto
produttivo in migliori condizioni telluriche e climatologiche. Alle pia-
nure irrigabili adunque essenzialmente le piante da foraggio, nel ri-
manente alberi da frutta, perchè essi, favoriti dal nostro clima, ci
permettono di meglio usufruttare la massima parte del nostro suolo.
E poco male davvero se dovessimo anche produrre meno frumento,
poiché ci troveremmo allora in condizione di comperarlo fuori ed a
buon mercato.
Se prendiamo ora a considerare la situazione del mercato ci per-
suadiamo vieppiù che, nella nostra economia rurale, C albericoltura
deve avere il sopravvento. Infatti mentre il riso e le sete sono in
lotta coi risi e le sete asiatiche che ne fanno ribassare il prezzo,
mentre il frumento ed il bestiame stesso sono in lotta per la concor-
renza americana, il nostro vino e le nostre frutta quasi non hanno
rivali, perchè, se così possiamo esprimerci, non li ha il nostro sole.
È vero che riguardo alla frutticoltura propriamente detta, esclusa
cioè la viticoltura, noi siamo appena ai primi passi; ma è innega-
LA FILLOSSERONOSI E L'AVVENIRE DELLA VITICOLTURA 935
bile che questo ramo della nostra agricoltura potrebbe alimentare
un grande commercio di esportazione, come ci va dimostrando da
varii anni un coraggioso ed intelligente industriale, il signor Cirio.
Riguardo invece al vino, il progresso nostro è continuo, benché la
esportazione sia piuttosto costituita da vini da taglio anziché da vini
da pasto comuni o scelti di diretto consumo: ma confidiamo nell'av-
venire.
Frattanto consoliamoci pensando che l'America per questo riguardo
non potrà farci che in un tempo forse molto lontano una seria concor-
renza: anzitutto essa non ha i nostri vitigni, e d'altra parte non ne
può introdurre come vorrebbe, perchè tanto il Nord-America quanto
la California sono fìllosserate: attualmente poi la California — di cui
si è parlato tanto — non produce che mezzo milione di ettolitri di
vino, cioè circa la quinta parte di quanto produce il solo Piemonte
in un'annata media: non bisogna poi scordare che gli Stati Uniti
hanno essi stessi bisogno di vino, di cui non v'ha certo sovrabbon-
danza colà; prova ne sia l'annuale importazione in America di vino
e birre.
Ma v' ha qualche altra cosa ancora che concorre a rendere più
lieto l'avvenire della nostra enologia, ed è l'invasione filiosserica eu-
ropea considerata non solo nella quantità di ettari vitati distrutti,
ma nella qualità di essi, se ci è lecita l'espressione: infatti in Fran-
cia sono ora o distrutti o quasi perduti molti vigneti del Bordolese,
della Borgogna, ecc. i cui vini godono fama mondiale, e non si pos-
sono rimpiazzare tanto facilmente e con grande prestezza col pro-
dotto delle viti americane che colà si vanno diffondendo; peggio
poi con quello dei nuovi vigneti impiantati nei dipartimenti del
Centro e dell' Est. Si riescirà meglio senza dubbio colle viti bi-
membri, cioè cogli innesti delle varietà francesi su ceppaie re-
sistenti americane, ma questo lavoro di ripristinamento è lungo assai,
e però noi possiamo e dobbiamo approfittare del momento, perchè
noi possiamo produrre vini scelti da pasto sul tipo dei Bordeaux e
dei Borgogna, in Piemonte, in Valtellina, nel Veneto, in Toscana,
ed in parecchi locali dell'Italia centrale, meridionale ed insulare, ben-
ché quivi si producano migliori i vini da concia ed i vini alcoolici.
Anche il Portogallo ha quasi perduto una provincia rinomata pei
suoi vini, cioè l'Alto- Duero, ove si produce il famoso Porto venduto
quasi tutto agli Inglesi: ed ecco un nuovo campo aperto ai nostri
produttori dell'Italia australe.
936 CAPITOLO XXXII
Adunque, tanto le condizioni climatologiche quanto le telluriche;
nonché le esigenze del mercato mondiale, ci consigliano di rivolgere
le nostre principali cure alla viticoltura ed alla frutticoltura in
genere, lasciando invece il predominio ai foraggi, alle cereali ed alle
coltivazioni industriali in quei territorii ove esse ricompensano più
lautamente il capitale investito nel suolo.
§ 3 L'aumento del prodotto brutto dei nostri vigneti. —
Siamo tutti d'accordo che si deve lottare contro la fillossera e lot-
tare ad oltranza, anziché cedere e sostituire alla ubertosa vite qualche
altra coltivazione, come taluno ha proposto in un momento di grande
scoraggiamento. Or bene, questa lotta fortunatamente è possibile,
massime per il viticultore intelligente, studioso e quasi diremmo op-
portunista, usando una barbara parola oggi in voga nel mondo po-
litico: certo però il viticultore tenacemente attaccato al passato e che
non vorrà mettersi coraggiosamente per la nuova via, dovrà soc-
combere, e sarà tanto di guadagnato per l'uomo previdente e pro-
gressista. Ma qualunque sia il sistema di lotta prescelto dal viticul-
tore, esso si tradurrà sempre in un aumento di spesa di cultura.
Per sopportare questo aumento, non v' ha che un mezzo: accre-
scere il prodotto brutto. Le statistiche ci dicono che il prodotto
medio per ettare dei nostri vigneti è di soli 15 ettolitri di vino ad
ettare; ma questa è una media ottenuta dividendo la produzione to-
tale italiana pel numero degli ettari vitati della penisola e delle isole:
nelle provincie ove la vite è coltivata intensivamente la media è tal-
volta di 25 ettolitri, per quanto abbiamo potuto calcolare su parecchi
dati raccolti nelle principali fra le dette provincie. Or bene anche questa
media di 25 ettolitri, se è discreta ora e se permette un certo gua-
dagno al viticultore, non sarà più sufficiente in avvenire, ed in un av-
venire che noi non ci peritiamo di chiamare vicino. L'ettolitro di vino,
per le medie che abbiamo fatte dal 1875 sino a tutto il 1883, vien pa-
gato L. 30 un anno sull'altro (parliamo dei vini da pasto di grande con-
sumazione, che sono quelli che più ci interessano, e lasciamo in disparte
i casi speciali di cui non dobbiamo occuparci in uno studio generale
qual'è questo): or bene, col prodotto di 25 ettolitri ad ettare, il red-
dito brutto salirebbe a 750 lire. Da queste bisogna dedurre almeno
lire 250 per spese di coltura, e tale spesa è un minimo che dedu-
ciamo dalla contabilità del citato podere vitato del Cardello, prendendo
ad esame i prezzi di un decennio; inoltre lire 200 per fitto, ed anche
LA F1LL0SSER0N0SI E L'AVVENIRE DELLA VITICOLTURA 937
questo è uà minimo. Rimangono adunque 300 lir edi beneficio netto.
Ora è evidente che da esso non si potrebbe, senza renderlo troppo esi-
guo, diffalcare altra somma per lottare contro la fillossera. E che dire
poi di quelle provincie vitifere italiane che non producono in media
neppure 20 ettolitri di vino ad ettare?
E adunque assolutamente necessario aumentare il prodotto brutto
dei nostri vigneti: si obbietterà che per riuscirvi occorrerebbe au-
mentare dal canto suo la spesa, e che il viticultore si perderebbe
così in un circolo vizioso. Ma conviene riflettere a questo fatto, che
la vite è una pianta molto prodiga verso chi la coltiva, per cui ri-
sarcisce a grande usura anche le tenui maggiori spese fatte per essa:
parliamo per l'esperienza dei nostri più bravi viticultori, ed anche,
se ci è lecito, un po' per la nostra: un lavoro profondo fatto a tempo
e luogo, una somministrazione di buon concime, e talvolta la soia
migliore disposizione dei tralci a frutto, possono portare il reddito
lordo d'un ettare a vite da 25 a 40 ettolitri almeno; ma allora il
reddito netto sale su di una scala molto maggiore. Infatti con un pro-
dotto di 25 ettolitri abbiamo, come dicevamo or' ora, un beneficio
netto di lire 300 — ma con un prodotto di 40 ettolitri, il beneficio
è, nella meno felice ipotesi, di lire 600: — e notate che noi alla
spesa suddetta di lire 450, aggiungiamo altre 150 lire per migliora-
menti di coltura; laonde mentre abbiamo aumentato solo di un
terzo la spesa abbiamo duplicato il prodotto netto. Preghiamo i
viticultori, che non lo avessero ancora fatto, ad esperimentare questa
prodigalità della vigna, la quale realmente compensa ad usura il suo
coltivatore. Ammesso adunque un beneficio netto di 600 lire ad et-
tare, noi ci troveremo nella condizione di poter lottare contro la fil-
lossera spendendovi anche le 200 lire ad ettare, e pur vendendo il
vino a sole 30 lire l'ettolitro, laddove in questi scorsi anni i vini di
colore e corpo furono pagati, dagli stessi incettatori francesi, 40
lire: ma atteniamoci ai dati medii per essere più vicini alla verità.
Or ora abbiamo parlato di un prodotto di 40 ettolitri ad ettare;
— come prodotto medio delle nostre provincie vitifere sarebbe una
grande media e potremmo andarne orgogliosi: ma non si deve tuttavia
considerarlo come un limite che la vite si rifiuti di oltrepassare; — i
nostri migliori viticultori ci dicono che facendo una coltivazione in-
tensiva si può andare agli 80 ettolitri senza scapiti nella qualità
del prodotto, trattandosi di vini da pasto di grande consumo. (Pei
vini scelti non bisogna oltrepassare di molto i 40 ettolitri). Oltre gli
938 CAPITOLO XXXII
80 ettolitri ad un dipresso e quando si raggiungono od oltrepassano
i 100, il vino riesce meno alcoolico e meno colorato; abbiamo po-
tato fare al riguardo esperienze molto concludenti nei nostri vigneti,
raffrontandoli con altri vicini, ove si coltivano le stesse varietà d'uva;
ma non è di questo che intendiamo parlare ora. Noi volevamo prin-
cipalmente richiamare l'attenzione dei lettori sulla possibilità di ac-
crescere notevolmente il prodotto delle nostre vigne senza un
grande aumento di spesa, e questo risultato si può raggiungere:
1°) aumentando la potenza del suolo (concimi, sovescii e lavori);
2°) aumentando la fertilità dei tralci o capi a frutto (ricurvature,
potatura razionale).
In alcuni casi speciali il viticultore potrebbe anche pensare a ri-
cavare qualche prodotto secondario dal terreno occupato dal suo
vigneto. Ma questo potrà farlo senza danneggiare le viti soltanto a
due condizioni; la prima che Yinterfilare sia sufficientemente ampio,
la seconda che egli sia prodigo di concimi, o per meglio dire che
egli provveda a concimare razionalmente sia la vite sia la pianta
coltivata nell'interfilarc. Gli è solo a queste condizioni che noi cre-
diamo si possa violare il principio della specializzazione, che abbiamo
sostenuto a lungo nel Cap. XXIII.
È noto che alla vite si possono consociare gli alberi, le cereali,
i foraggi, gli ortaggi e via dicendo. Riguardo agli alberi nulla ab-
biamo da aggiungere a quanto dicemmo al Cap, XXIII: conviene
però fare una eccezione per Votivo, che si suol piantare (impian-
tandosi un oliveto) contemporaneamente ed associato alla vite, la
quale venendo a produrre assai prima, compensa l'agricoltore delle
spese e degli interessi delle spese occorrenti durante un quindicennio
od un ventennio per portare un oliveto in piena fruttificazione. Ab-
biamo visitato nell'autunno del 1880 un vigneto -oliveto in piena pro-
duzione nel territorio di Scansano presso il Dott. Vannuccini e siamo
rimasti edificati dal reddito di esso, il quale ascende in media a
1500 lire di beneficio netto annuo e per ettare; quella vigna- oliveto
è coltivata con ogni cura, ed il Dott. Vannuccini vi spende circa
lire 1300 1' ettare, ricavandone lire 2800 fra vino (80 ettolitri) e
olio (8 ettolitri); però è mestieri notare che gli olivi sono soltanto
150 in un ettare, ed i filari loro distano 7 metri un dall'altro, mentre
intercedono 9 metri fra un albero e l'altro (V. pag. 681).
Alla vite si possono anche consociare i foraggi, ma a tre condi-
zioni: la prima che gli interfilari siano molto ampii; la seconda che
LA FILLOSSERONOSI E L'AVVENIRE DELLA VITICOLTURA 939
si tratti di quelle piante foraggiere le quali non occupano il suolo
che durante i primi mesi della primavera, lasciandolo libero in estate;
la terza, ed è condizione strie qua non. che si concimi 1'interfilare
ogni biennio. Le foraggiere perenni dovrebbero dunque scartarsi e
converrebbe scegliere quelle fra le annuali che si possono segare
prima della fioritura delle viti, per evitare un soverchio abortimento
dei fiori, provocato altresì dalle piante erbacee che crescono nell'in-
terfilare. La veccia, il trifoglio incarnato ed altre foraggiere possono
consigliarsi, massimamente al colle dove il mangime pel bestiame
abitualmente scarseggia; esse si fanno consumare allo stato verde,
ma si potrebbero serbare nei silo per i momenti in cui il foraggio
manca, o quasi: supponendo gli interfilari larghi 4 metri, e lasciando
1 metro a disposizione del filare, il prodotto in foraggio può oltre-
passare le L. 150 ad ettare, ed è sotto questo riguardo economico
che dobbiamo considerare la detta consociazione. Ma bisogna ricor-
darsi che senza la concimazione dell'interfilarc, si avrebbe una tale
diminuzione nel prodotto dell'uva che renderebbe passiva questa con-
sociazione di cultura. In un simpatico libro del sig. Cav. A. Filippi di
Baldissero, intitolato Vent'otto anni di lavoro agricolo di un ex
ufficiale di cavalleria, leggesi che il vigneto di questo appassionato
agricoltore, se può sopportare la consociazione con avena, patate,
fagiuoli, barbabietole e rape, e produrre non di meno 45 ettolitri di
vino ad ettare, bisogna attribuirlo all'uso della cenere e dei terric-
ciati, che sono ottimi concimi per le viti: ma dobbiamo tosto soggiun-
gere che oltre a ciò l'interfilare vi è assai largo, così da costituire
due porche dell'ampiezza di lm,80 caduna, senza contare un metro
presso i filari stessi.
In alcune provincie dell'alta Italia, per esempio nel Vicentino, l'in-
terfilare delle vigne è talvolta tenuto a dirittura a prato; ma anche
quivi, oltre gli interfilari larghi 3 e più metri, si ha la concimazione
frequente del prato; la quale torna anche in parte a profitto della
vite; qualche viticultore di colà ottiene in media 50 ettolitri di vino
ad ettare, locchè è un bel risultato.
In altre provincie italiane, fra cui il Monferrato, si coltiva fra le
viti il frumento avvicendandolo con foraggiere; abbiamo visitati vi-
gneti che da oltre 25 anni hanno coltivati gli interfilari per tal modo,
e che producono nondimeno tuttodì oltre a 50 ettolitri in media per
ettare; ma i filari sono distanti talvolta anche più di sei metri e si
concimano ogni biennio con molto letame, il che non ci parrebbe
940 CAPITOLO XXXII
troppo consigliabile riguardo alla qualità del prodotto dell'uva. Fatto
è che quei vigneti sono però molto produttivi e le terre colà si af-
fittano ad alto tasso. Riguardo però al frumento, oltre alla conci-
mazione, che converrebbe meglio dare Tanno prima ad esempio alla
veccia, sarebbe molto opportuno adottare in tal caso la semina a
linee, per avere non solo un maggior prodotto ed un risparmio nella
quantità del seme, ma un frumento più sodo, il quale non si alletti
contro i filari, cosa questa di non piccolo momento oggi che si de-
vono fare tanti lavori attorno ai filari stessi.
Infine anche le piante ortive, come i carciofi, gli asparagi, ecc. si
coltivano da qualcuno con profitto negli interfilarc si tenga adunque
calcolo anche della consociazione delle culture alle viti, quando si
trattasse di trarre maggior profitto dalle proprie terre vitate, ma
non si dimentichi in questo caso la concimazione, senza di cui si
commetterebbe un grave errore di economia rurale.
Sempre pensando alla quistione economica che si presenta oggi al
viticultore, non dobbiamo passare sotto silenzio quanto ha tratto alla
migliore utilizzazione degli avanzi della vinificazione: il viticul-
tore, che presso di noi è quasi sempre anche Fenologo, ha attual-
mente, parlando in generale, un minor guadagno di oltre le cento
lire per ettare a cagione del poco conto in cui tiene (o è costretto
a tenere) la sua vinaccia; lasciamo stare gli altri avanzi dell'indu-
stria enologica, ma riflettiamo solo sui prodotti che questa ci può
dare in acquavite e tartaro greggio, e poscia sul suo uso come fo-
raggio e come concime, e teniamo pure calcolo dell'acquavite e del
tartaro che si possono ricavare dalle feccie: questi prodotti sono
tutti ricercati e ben pagati in commercio, d'altra parte la loro e-
strazione è oggi abbastanza facilitata, così da permettere l'impianto
di piccole distillerie agricole, mercè l'uso degli apparecchi Villard-
Rottner già favorevolmente conosciuti anche in Italia, e di cui ci
serviamo noi stessi con ottimo esito. Da un ettare di terreno vitato
il quale producesse 50 ettolitri di vino, si avrebbe tanta vinaccia da
ricavare, secondo quanto abbiamo potuto calcolare basandoci su e-
satti dati pratici, oltre le 100 lire fra acquavite e tartaro greggio, e
senza tener calcolo del valore come concime sia della vinaccia re-
siduale sia delle acque che hanno depositato il tartaro, le quali sono
discretamente ricche di azoto e di acido fosforico. Usufruttiamo
quindi meglio gli avanzi della vinificazione, che così verremo an-
LA FILLOSSERONOSI E L'AVVENIRE DELLA VITICOLTURA 941
cora ad accrescere, anche per questo verso, il reddito totale dell'et-
tare vitato.
§ 4. Diminuzione nella spesa di mano d' opera. — Ma il
viticultore non deve pensare soltanto ad ottenere un accrescimento nel
prodotto; egli deve anche avvisare ai mezzi di diminuire le spese di
mano d'opera. Queste spese s'accrescono per così dire ogni giorno
ed è urgente provvedervi; perchè nel caso disgraziato d'una estesa
invasione fillosserica, esse potrebbero accrescersi vieppiù a cagione
dei molti lavori che richiede la lotta contro la fillossera stessa (in-
nesti, applicazione di insetticidi, ecc.). Dai registri della nostra con-
tabilità agricola del podere vitato Cardello deduciamo i seguenti
dati, che si riferiscono al periodo 1872-1881: — supposto l'anno di-
viso in 4 trimestri, 1' aumento medio della mano d' opera risultò il
seguente per giornata:
1° trimestre (gennaio-marzo) .
2° » (aprile-giugno) .
3° » (luglio-settembre)
4° » (ottobre-dicembre)
Media annuale
Uomini
Donne
L.
0,42 L.
0,20
»
1,07 »
0,50
»
0,77 »
0,31
»
0,65 »
0,27
»
0,73 »
0,32
Questi accrescimenti sono ragguardevoli, massimamente perchè si
riferiscono ad un paese ove quasi non vi ha emigrazione; sono dun-
que dovuti all' aumento dei prezzi del vitto e del vestiario, nonché
all'estendersi dei vigneti, i quali coitivansi quasi sempre a mano.
Ma siccome queste cause per ora non accennano menomamente a
scemare, così è ovvio il concludere che il viticultore deve cercare
di rimediare a questo aumento di spesa, massime oggidì che l' in-
vasione fillosserica contribuirà essa pure ad un accrescimento nelle
spese di coltura. Ognuno deve essere lieto che il lavoratore del suolo
oggi guadagni più di ieri; i nostri contadini sono quasi dovunque
molto poveri, e questa è una delle principali cagioni non solo della
emigrazione, ma altresì della loro debole moralità, massime per ciò
che riguarda il rispetto alla proprietà altrui: in Monferrato un bravo
operaio rurale non guadagna più di 400 lire all'anno, ma nespenle
almeno 350, come desumo dalla suddetta contabilità agricola; ora,
se è ammogliato, come accade quasi sempre, ciò non basta per vi-
942 CAPITOLO XXXII
vere onestamente, diciamolo pure, poiché la moglie se ha figli non
può guadagnare più di 100 lire annue.
Ebbene questi sono i contadini meglio retribuiti d'Italia; nel mi-
lanese per esempio, i braccianti hanno un salario annuo di sole 300
lire, e ne hanno meno ancora in altre provincie ove predomina pure
la grande coltura. Bea vengano quindi la diminuzione sul prezzo del
sale, colle minestre economiche, i forni Anelli e tutto ciò che può
migliorare la condizione del contadino, e risolvere, almeno per le
popolazioni rurali, la questione sociale; la quale, come ben disse un
socialista tedesco, ist eine Magenfrage, « è una questione di sto-
maco. » Ma il viticultore deve pure pensare ai casi suoi, cercando
di coltivare la vite più economicamente, per produrre l'ettolitro di
vino a minor prezzo. Or bene, questo risultato lo potrà ottenere da
un lato adottando un sistema di educazione della vite poco co-
stoso, e dall'altro adottando V aratro nella coltura del vigneto:
queste, ben' inteso, sono le riforme maggiori; delle minori non dob-
biamo occuparci qui per amor di brevità.
Vi sono varii sistemi di viticoltura nel nostro paese, i quali costano
oltre le 150 lire Tettare per le sole canne di sostegno; ebbene adot-
tando i fili di ferro si può realizzare una economia di circa il 50 0[q,
tenendo conto della loro durata. Si potrebbe anche, con vitigni robusti
come il Barbera, seguire il sistema senza sostegni che abbiamo adot-
tato noi stessi; mercè di esso il avori nei vigneti sono tanto facilitati da
permettere un risparmio del 45 0[q nelle spese totali di mano d'opera. È
dunque possibile economizzare mediante una opportuna scelta del me-
todo di eeducare la vite. Riguardo poi alla lavorazione dei vigneti
cogli animali, è noto che ora vi sono speciali aratri che si possono
far tirare anche da un solo animale negli interfilari stretti: del
rimanente non convenendo guari l'avere troppe piante in un ettare,
sarà bene tracciare le file lontane circa 3 metri, ed allora si potrà
lavorare anche con una coppia di bovi. Non bisogna scordare che
quando in un ettare vi sono 8000 o 10,000 piante, è necessario con-
cimare il suolo di frequente, senza di che non solo scemerebbero i
prodotti, ma le ceppaie si estenuerebbero ed invecchierebbero troppo
precocemente; nel Médoc, che si suol citare tante volte a modello,
vi sono bensì 9000 piante ad ettare, ma il vigneto si concima con
letame di stalla ogni anno, come ci dice Giulio Gnyot a pag. 454
del già citato volume I. Ebbene nel Médoc, non ostante gli interfi-
lari assai ristretti, si lavora coi bovi, con un sistema curioso; in-
LA FILLOSSERONOSI E L'AVVENIRE DELLA VITICOLTURA 943
fatti i buoi, che sono, dice Guyot, « grossi come elefanti, » cam-
minano appaiati allo stesso lungo giogo, ma in interfilarc diversi, co-
sicché l'inter filare ove s'affonda l'aratro è posto fra i due nei quali
camminano i bovi: il giogo passa così sopra due filari. Guyot cri-
tica questo sistema e chiama « horrible charme » quel mastodon-
tico aratro; egli propone gli aratrini per vigneti, oramai diffusi an-
che in alcune provincie d' Italia. Ma se le viti del Médoc, che son
tenute bassissime ed hanno del resto una vegetazione poco lussu-
reggiante, possono permettere, benché vicine assai, l'uso dell'aratro,
non succede lo stesso dovunque nel nostro paese, ove non di rado
quando l'interfilare misura solo 1 metro o 1,20, in estate non è più
possibile cacciarsi fra quella fitta rete di pampini e farvi lavorare
un bue: è per questo che molti piantamenti col sistema Guyot puro,
cioè colle ceppaie ad 1 metro in tutti i sensi, furono in questi ul-
timi anni diradati così da avere non più 10,000 piante ad ettare,
ma sole 5000 o 6000, locchè non portò veruna diminuzione nel pro-
dotto, anzi quasi sempre provocò un reale accrescimento: e qui non
vogliamo scordare la maggiore longevità delle ceppaie, mentre è in-
dubitato che nei piantamenti molto fitti le piante invecchiano pre-
cocemente, massime se non si restituisce al suolo, con opportuna e
regolare concimazione, quanto gli van togliendo annualmente quelle
numerose ceppaie. Non si tema adunque di sprecare terreno tenendo
gli interfilari larghi tre metri, colle nostre viti quasi sempre molto
vigorose e lussureggianti: noi abbiamo fatto piantamenti più ravvi-
cinati e sono i soli di cui non siamo soddisfatti.
Passiamo ora a qualche considerazione sul sistema di lotta più
conveniente contro la fillosseronosi incipiente.
§ 5. La legge contro la diffusione della fillossera: metodo
curativo e metodo distruttivo. — È noto che vi è lotta in Italia
fra i partigiani del metodo curativo e quelli del metodo estintivo
per resistere alla fillosseronosi: — qual'è il preferibile fra i due? I par-
tigiani del metodo curativo dicono che il distruttivo è non solo inef-
ficace ma assai pericoloso siccome quello che faciliterebbe — a loro
avviso — la diffusione delle fillossere cioè l'allargamento del male;
così la pensa ad esempio il chiaro agronomo prof. Inzenga di Pa-
lermo, il quale dice che « se noi snidiamo forzatamente la fillossera
dallo stato come di nascondiglio in cui trovasi rincantucciata, e col-
l'opera della distruzione la mettiamo allo scoperto sulla superficie
944 CAPITOLO XXXII
del suolo, ne rendiamo più facile la propagazione per mezzo dei
venti, del piede dell'uomo e dell'unghia forcuta dei ruminanti che
traversano di continuo la campagna. »
Ora, si chiede: la Commissione superiore consultiva per la fillos-
sera, che ha sin ora consigliato il Governo a perseverare nel sistema
adottato, si inganna forse deplorevolmente? E che cosa ci dice l'e-
sperienza degli altri paesi che sono alle prese col temuto afide?
Abbiamo seguito con ogni maggior zelo le discussioni che in questi
scorsi anni si sono impegnate in Italia e fuori sul dilicatissimo tema,
ed abbiamo raccolto numerosi fatti per servire alla soluzione del
problema; ma tuttavia dobbiamo confessare che una soluzione netta
e quasi diremmo perentoria non ci fu dato di trovarla né nel sistema
distruttivo né in quello curativo. Se il metodo distruttivo potesse
essere realmente tale in tutto il rigore della parola, allora senza
dubbio per noi, che ci troviamo ancora ai primordii della invasione,
sarebbe senz'altro il preferibile; ma invece non cade dubbio che co-
tale sistema non porta seco come conseguenza la totale distruzione
delle fillossere del vigneto annientato, e sotto questo aspetto si av-
vicina al metodo curativo; di ciò ci dà un esempio convincentissimo
la Svizzera, dove il sistema distruttivo è applicato in tutto il suo
rigore, ma dove si trovano ogni anno nuovi centri o scintille (étin-
celles pylloxériquesj in vicinanza dei vigneti distrutti, i quali centri
provengono da fillossere che hanno sopravvissuto al metodo estin-
tivo (1). Entrambi i sistemi servono quindi soltanto a ritardare l'in-
vasione; su ciò non può oramai esservi alcun dubbio. Ma fra i due,
pur tenendo calcolo di quanto scrive il prof. Inzenga, è fuori di di-
scussione che è più efficace a trattenere l'invasione il metodo di-
struttivo che non quello curativo, il quale, secondo alcuni, si deve
ritenere che non ritarda affatto il progredire del male (2) anzi lo ac-
celera colà dove vi sono numerose viti sulle quali vanno sollecita-
mente a rifugiarsi le fillossere sfuggite all'azione tossica degli inset-
ticidii! Senonchè il primo non può adottarsi che entro limiti ristretti,
e ciò lo ammise anche la Commissione filloserica quando, rispondendo
alle domande del Ministn), disse che colla distruzione si deve andare
(1) Così il sig. J. C. Roulet, ispettore dei lavori di distruzione a Neuchàtel nel
suo Rapport technique etc. 1881, pag. 34.
(->) Compie rendu general du Congrcs international pylloxérique de Bordeaux.
LA FILLOSSÉRONOSI E I/AVVENIRE DELLA VITICOLTURA 945
soltanto fino al limite dei mezzi disponibili e sino a che le rie-
chezze da salvare prevarranno di gran lunga ai sacrifica.
La quistione fìllosserica che oggi preoccupa cotanto il paese è
adunque assai complessa, e taluni che credettero di poterla risol-
vere con un taglio netto, dimostrarono palesemente di conoscere
il grave problema solo in modo affatto superficiale; per esempio,
qualcuno ha affermato che il metodo curativo dà in altri paesi ot-
timi risultati; orbene ciò è semplicemente inesatto e lo possiamo di-
mostrare con poche parole facendo un rapido esame di quanto sì
opera all'estero per arrestare l'invasione fìllosserica.
In Francia, se si dovesse incominciare ora la lotta su piccole e-
stensioni di vigneti fillosserati, si adotterebbe il metodo distruttivo;
infatti, nel progetto di legge che riguarda la possibilità della sco-
perta di centri infetti in Algeria, è prescritto che non appena un
vigneto venga dichiarato infetto debba essere distrutto: ecco le te-
stuali parole: « déslruction des vignes reconnues malades et sou-
spectes; déstruction par le feu des ceps, tuteurs, échalas, feuil-
les, sarments etc. désinfection du sol etc. » Questo decreto è
molto significativo, perchè emanato in un paese che conosce assai
bene e meglio d'ogni altro la quistione della fillossera e dove si sa
quanto valga il metodo curativo.
Il Portogallo ha adottato sin dal 1879 il metodo curativo, ma la
malattia ha nondimeno progredito in modo allarmante, cosicché si
protesta oggi contro quel Governo che non ha adottato invece il
metodo estintivo.
Anche la Spagna volle seguire il metodo curativo, ma l'invasione
in pochi anni si estese siffattamente che oggidì il Governo ha ri-
nunciato alla lotta, e tocca ai viticoltori di pensare ai gravissimi
loro casi.
L'Austria, che aveva adottato oltre il metodo distruttivo anche
quello curativo, non crede più all' efficacia di quest' ultimo con cui
non ha ritardato affatto l'invasione e fors'anche l'ha accelerata.
Invece il metodo distruttivo adottato dalla Svizzera, dalla Ger-
mania, dalla Russia e dall'Australia ha giovato a rallentare alquanto
lo estendersi del malore, benché non abbia potuto impedire affatto
che si allargasse.
Ma chi non vede a priori che il metodo distruttivo, quando ve-
nisse adottato in un paese a viticoltura intensiva, non riescirebbe a
rallentare l' invasione in modo tale da compensare le spese ingenti
0. Ottavi, Trattato di Viticoltura. 61
946 CAPITOLO XXXII
che richiederebbe dopo pochi anni di lotta? L' Austria si è trovata
in questo caso; per qualche anno ha distrutto le macchie fillosseriche,
ma poi ha dovuto arrestarsi, vedendo che non riusciva ad impedire
lo estendersi della malattia.
D' altronde la stessa infezione fìllosserica in Sicilia, massime nel
circondario intensamente viticolo di Riesi con 4500 ceppaie per ogni
ettare, ce ne porge una prova; non è possibile impedire che la grande
macchia si dilati, e questo pur troppo avviene con una certa rapi-
dità; infatti mentre nel 1880 si avevano nella provincia di Caltani-
setta 23 ettari infetti, se ne ebbero 43 nel 1881, 94 nel 1882 e
via via. Non è quindi lontano il giorno in cui il Governo non potrà
più gravare il bilancio pubblico della enorme spesa che occorrerebbe
per perseverare nel metodo distruttivo: frattanto nel bilancio pas-
sivo del Ministero d'Agricoltura per l' esercizio 1883 furono in-
scritte L. 2,200,000 (e siamo solo al principio) laddove in Francia
nel 1883 furono stanziate sole L. 1,250,000 nonostante la enorme
gravità del male colà e quantunque si tratti di un bilancio assai più
pingue del nostro.
Ma dove invece la viticoltura è poco intensiva e fra le vigne e
fra gli stessi filari trovano posto altre colture, il metodo distruttivo
rallenta in modo sensibile l'invasione: ne è una prova quanto accade
in Lombardia (a Valmadrera e Givate): ivi mentre nel 1879 vi erano
21 ettari infetti, nel 1880 si trovarono fillosserati in vicinanza ed
in dipendenza di questi centri, sole 5 are, nel 1881 sole 10 are e
nel 1882 sole are 3, Lo stesso ad Agrate ed a Porto Maurizio, per
cui quivi il metodo distruttivo fin'ora mantiene l'infezione quasi nei
limiti primitivi, il che è molto lusinghiero.
La coltivazione più o meno intensiva e specializzata delle viti ha
adunque una marcatissima influenza sulla maggiore o minore effi-
cacia del sistema distruttivo considerato come espediente per ritar-
dare l'estendersi dell'invasione fìllosserica.
E pertanto noi pensiamo che la Commissione consultiva per la
fillossera, la quale è quella che, secondo dice la legge, deve sugge-
rire al Governo V uno o 1' altro dei metodi in discussione, è neces-
sario proceda molto cautamente prima di consigliare il sistema di-
struttivo colà dove la viticoltura è molto intensiva; noi riteniamo
fermissimamente che quivi sia opera sprecata il distruggere i vi-
gneti, perchè (come accade in Sicilia) l'infezione non si scoprirà mai
ne' suoi primordii, nessun viticultore volendo denunciare tosto la
LA FILLOSSERONOSI E L'AVVENIRE DELLA VITICOLTURA 917
malattia, e così la fìllosseronosi si estenderà in pochi anni su tale
una superficie da non compensare le spese fatte, e ad ogni modo
giammai si riuscirà a soffocarla; la Svizzera informi. Il Governo
potrà allora (come prescrive 1' art. 1° della legge sulla fillossera)
dare sovvenzioni ai viticoltori, se vorranno adottare il metodo cu-
rativo, e favorire altresì la costituzione di Comitati di difesa, a si-
miglianza dei syndacats francesi. In altri termini toccherà, in simili
casi, quasi del tutto alla iniziativa privata organizzare la lotto contro
il terribile pidocchio, inquantochè il bilancio pubblico non potrebbe
sopportare le enormi spese che il sistema distruttivo richiederebbe
in progresso di tempo.
Ed ora una conclusione pei viticultari nostri.
Essi vedono quanto arduo sia il problema della distruzione
della fillossera; noi pensiamo, in base ai fatti sin qui osservati,
che allo stato attuale dei nostri mezzi di lotta, sia quello un
problema insolvibile, e desideriamo vivamente che tutti i viticol-
tori italiani se ne persuadano a loro volta, e perciò — poiché for-
tunatamente la immensa maggioranza dei nostri vigneti è oggidì
immune — evitino con scrupolosa pedanteria di importare la fillos-
sera non solo con viti di regioni infette, ma con altre piante vive
o loro parti, con letami, con terricciati e con le stesse vinaccie,
come venne saggiamente consigliata dai congressisti di Losanna.
Fine —
INDICE ANALITICO
Prefazione
INTRODUZIONE
Importanza della viticoltura nella economia civile
I. La vite .........
II. Il reddito brutto della viticoltura italiana
III. La viticoltura italiana e la popolazione rurale
IV. La viticoltura italiana la popolazione e l'emigrazione
V. La viticoltura, la mercede degli operai e la divisione della proprietà
VI. La mezzadria e la viticoltura
VII. La viticoltura italiana ed i tributi
Vili. La vite e le altre piante coltivate
IX. Altri prodotti delle viti .
X. La vite e la salute pubblica .
XI. La viticoltura e la produzione del suolo. — Conclusione
CAPITOLO I.
Origine e storia'della vite ....
§ l. Patria della vite asiatica o europea
2. Disseminazione della vite ....
3. Patria della vite americana
4. Antichità della vite .
5. Storia della viticoltura ....
CAPITOLO II.
Geografia della vite
§ 1. La regione della vite
2. Limiti della coltura della vite .
a) Limite polare nord .
b) Limite polare sud
3. Coltura della vite oltre i limiti meteorologici
Pad.
vii
1
1
2
3
4
7
8
9
10
11
12
13
lo
15
17
18
19
19
27
27
28
31
32
33
950
INDICE ANALITICO
4. La regione della vite e le isotermiche 34
5. L'altitudine e la viticoltura ........ 39
6. L'esposizione, la vicinanza delle acque, le pioggie ed altre cause che
influiscono sulla stagione della vite . . . . . . 41
CAPITOLO III.
Statistica della vite
§ 1. La viticoltura in Italia ....
2. La viticoltura in Francia
3. La viticoltura in Ispagna ed in Portogallo
a) Spagna ......
b) Portogallo ... ...
4. La viticoltura nell' Austria-Ungheria
a) Austria ......
b) Ungheria ......
5. La viticoltura in Germania
6. La viticoltura in Isvizzera
7. La viticoltura in Grecia, Cipro, Russia ed Oriente
a) Grecia ......
b) Isola di Cipro
e) Russia Europea .
d) Turchia Europea. — Rumania .
e) Serbia ......
f) Bosnia, Erzegovina, Bulgaria .
8. La viticoltura nell'America del Nord
9. La viticoltura nell'America del Sud
10. La viticoltura in Africa ....
a) Algeria ......
b) Egitto
e) Canarie, Azorre, Madera .
d) Colonia del Capo di Buona Speranza
1 1 . La viticoltura in Australia
12. La viticoltura in Asia — Riassunto e conclusione
Viticoltura e produzione vinicola nel mondo .
CAPITOLO IV.
Botanica della vite
§ 1. Classificazione: viti d'Europa e viti americane
§ 2. Cissus d'Africa e d'Asia .....
1° Cissus del Soudan centrale e della Nigrizia
2° Cissus della Cocincina ....
3° Viti (?) della China e del Giappone .
4° Viti arabe
§ 3. Descrizione della Vite o Organografìa
1. Le radici .......
2. Il ceppo o fnsto ......
46
46
49
52
52
52
53
53
53
53
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55
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71
73
73
76
76
79
79
83
85
85
87
87
90
INDICE ANALITICO
951
3. I rami ed i succhioni . . . . . . . . . 91
4. I germogli, pampini o cacchi i
92
5. Le femminelle .....
94
6. I viticci, o cirri, o capreoli .
94
7. Le foglie ......
101
I peli .......
. 104
Le stipole ......
. 104
Fillotassi ......
. 105
8. Le gemme ......
. 106
9. I fiori
. 107
10. L'uva
. 112
I vinacciuoli ......
. 113
§ 4. Anatomia della Vite .....
no
1 . La radice ......
116
2. Il fusto ......
119
Stomi .......
. 120
3. Il legno giovine] .....
. 125
4. I germogli ......
128
Peli
129
5. I viticci . ...
. 131
6. Le foglie ......
131
Clorofilla ......
135
Ossalato di calcio (rafidi e druse)
136
7. Le gemme (occhi e bottoni)
. 139
8. I fiori
141
Polline ......
144
Fiori anormali ......
145
Apirenità (mancanza di vinacciuoli)
146
9. Gli acini ......
147
Vinacciuoli
150
§ 5. Fisiologia della vite ....
152
1. Germogliamento dei vinacciuoli .
153
2, Respirazione della vite
157
Traspirazione .....
159
Evaporazione
159
3, Nutrizione ed accrescimento della Vite
160
Amido o tannino nelle foglie
162
Albumina nelle radici
165
4. Vegetazione della Vite ,
170
Fenomeni di osmosi ....
170
Pianto; sua pressione ....
171
Sua composizione ....
174
Portamento del sistema radicale .
176
Tendenza naturale dei tralci; lo sfogo
179
Tendenza naturale dei viticci
* 181
Variazioni nella lunghezza degli internodi .
182
5. Fioritura delle viti ....
188
952
INDICE ANALITICO
Impollinazioni varie
Viti maschie
Impollinazione dicogamica (incrociata)
6. Fruttificazione della Vite .
Il tralcio frutticoso
Le gemme fruttifere .
Gemme, foglie e femminelle
Gemme infeconde
Gemme primaverili ed estive
Movimento della linfa .
Lavori e concimi
Potatura ....
Vigore e fecondità
7. Maturazione dell'uva .
Ossidazione
Formazione dello zucchero .
Emigrazione dello zucchero
Maturità botanica ed agricola
Influenza della luce
» del calore .
» dell'umido .
Grossezza degli acini e loro ricchezza in mosto
8. Longevità della vite
189
190
192
193
193
194
196
198
199
200
201
201
202
202
203
203
203
205
205
206
207
208
209
CAPITOLO V.
Chimica della vite .
§ 1. Composizione del legno della vite
Legno ....
Tralci dell'annata
Pianto della vite
2. Composizione delle foglie .
Materia colorante
3. Composizione dell'uva e dei semi
Uva sana ....
Uve ammalate .
Semi ....
4. Composizione del mosto e delle ^
§ 5. Componenti principali della vite
Potassa ....
Acido fosforico
Calce ,
Silice ....
Ferro
Materie organiche. Amido
Zucchero
Materia colorante .
Tannino
212
212
212
213
214
215
217
218
218
220
220
221
226
226
227
228
229
• 229
230
231
231
233
INDICE ANALITICO
953
Acidi diversi .........
6. Relazioni fra la composizione del terreno e quella della vite
7. Relazioni fra i concimi e la composizione dell'uva
CAPITOLO VI.
Meteorologia viticola
§ 1. La luce e la vite
2. Il calore e la vite
3. L'umido e la vite
4. L'elettricità e la vite
5. La grandine e la vite
6. La brina e la vite .
Brine primaverili .
Brine autunnali
7. Il gelo, la neve, la nebbia, la rugiada e le viti
8. I venti e la vite
9. Latitudine, altitudine ed
zione
10. Linee isotermiche e punti climenologici
CAPITOLO VII
Pronostico della fruttificazione della vite.
§ 1. Generalità sulla carpoprognosia
Carpoprognosia e meteorognosia
Applicazioni generiche
Applicazione speciale alle viti .
Influenza della primavera sulla formazione
Influenza delle altre stagioni .
Osservazioni e pronostici nel periodo 1855
(Carpoprognosia)
delle gemme frutticose
-1884 .
CAPITOLO Vili
Il terreno per la vite ....
§ 1. Il terreno per la vite
2. Natura chimica del terreno
3. Influenza della natura chimica del terreno sui fenomeni d'assorbimento
4. Composizione delle ceneri della vite
5. I quattro elementi immediati (argilla, silice, calce ed humus) e
loro influenza sulla quantità e qualità del prodotto della vite
Riassunto sull'influenza della natura chimica del terreno
Natura fisica del terreno . . . .
Riassunto sulle proprietà chimiche e fisiche del terreno
Esposizione
Giacitura
G.
7.
8.
9.
10.
CAPITOLO IX.
233
233
235
237
237
260
266
270
278
282
282
288
291
293
294
297
304
304
305
307
309
315
317
321
323
329
329
330
331
332
335
338
339
344
344
347
Lavori preparatomi per l'impianto del vigneto .
§ 1. Due modi di preparazione del terreno. Scasso reale
349
349
954
INDICE ANALITICO
ghie — Aggiunta d
2. Preparazione del terreno colle fosse
3. Livellazione del terreno .....
4. Disposizione del terreno a terrazze o banchine
5. Ammendamenti — Marnatura — Terra vergine
sali di ferro ai terreni bianchi
6. Arrotto, fognatura o drenaggio
CAPITOLO X.
Formazione del vigneto
§ 1. Seminagione della vite europea ......
2. Seminagione della vite americana ......
3. Moltiplicazione per mezzo di gemme .....
4. Scelta, conservazione, disinfezione e piantamento delle talee nel vi
vaio e nel vigneto .........
5. Piantamento dei maglioli .
6. Piantamento delle barbatelle .
7. Età delle barbatelle «,
8. Scelta dei vitigni a seconda del clima, del terreno, della situazione
e delle esigenze del mercato .......
360
362
363
368
370
379
379
383
386
391
408
414
417
418
CAPITOLO XI.
Distanze delle viti 424
§ 1. Cinque fattori che debbono regolare le distanze delle viti . . 424
2. Distanze nei paesi meridionali, centrali e settentrionali d'Italia . 427
3. Le grandi distanze fra le viti e la consociazione con altre piante 430
4. Dati numerici 431
5. Appendice. Le piccole distanze tra le viti e la invasione fìllosserica 433
CAPITOLO XII.
Concimazione dei vigneti ....
§ 1. Si debbono concimare i vigneti?
2. Produzione del legno e produzione del frutto
3. Il letame di stalla e le viti
4. Gli escrementi umani e l'orina
5. Il guano
6. La pollina ......
7. Il sangue e le carni ....
8. Lana, pellami, corna, crisalidi, panelli, ecc.
9. I soverscii e loro vantaggi
10. Utilizzazione degli avanzi delle viti
11. Giunchi, alghe, piante resinose, ecc.
12. Calce, marna, gesso, ecc
13. Terra vergine, terra bruciata e limo
14. I composti e loro grande utilità
lo, I sali, i perfosfati ed i concimi chimici .
16. Le ceneri . . . . .
Qualità o
quantità?
435
435
437
440
444
445
446
446
447
450
452
455
456
457
463
464
466
INDICE ANALITICO
955
17. 1 concimi antisettici e loro valore .
18. Varii modi di adoperare i concimi .
CAPITOLO XIII.
Potatura secca
1. Definizioni ............
2. Scopo della potatura secca ........
3. Potatura povera, ricca e ricchissima: potatura d'allevamento e di
produzione
4. Quando si debba potare e quando convenga anticipare la potatura
5. La potatura in due tempi ........
6. La potatura secca e la varietà del vitigno .....
7. Strumenti per potare .........
8. Modo di eseguire la potatura: esempii pratici .
9. La succisione delle viti .........
CAPITOLO XIV.
Potatura verde
§ 1. Definizioni ........
2. Scacchiatura ........
3. La cimatura dei germogli uviferi ....
4. Cimatura delle femminelle: sfemminellatura .
5. Cimatura e soppressione dei viticci
6. Sfogliatura o spampinatura .....
7. Cimatura e diradamento dei grappoli. I secondi grappoli
Appendice. La curvatura estiva dei tralci ....
CAPITOLO XV.
Lavoi
8 1.
colturali del vigneto
Se si debba dare la preferenza ai lavori od al concime
Le arature; loro vantaggi e come praticarle .
Vangature .......
Zappature ed estirpature .....
Scalzatura e rincalzatura ....
6. Lo scasso periodico, l'arrotto ed il circonfussuro
7. La distruzione delle male erbe
CAPITOLO XVI.
I sostegni per le viti
§ 1. Importanza dell'argomento ......
2. I pali come sostegno. Metodi di conservazione dei pali .
3. La canna come sostegno .......
4. Coltura della canna. Propagazione sotterranea della canna
5. Terreno e concime. Piantamento .....
6. Cure annuali. Raccolto .......
7. Reddito di uà canneto specializzato
8. Il filo di ferro come sostegno delle viti ....
467
468
473
473
476
477
480
482
483
484
486
489
493
493
494
495
499
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503
504
507
510
510
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523
526
527
529
532
532
534
537
538
540
542
544
545
956
INDICE ANALITICO
9. Applicazioni del sistema a fìl di ferro
10. Altri sostegni per le viti ....
CAPITOLO XVII.
Creazione di nuove varietà ....
§ 1. Ibridazione diretta ed indiretta: loro scopo
2. Come si debba operare ....
3. Ibridazione fra viti europee
4. Ibridazione fra viti europee ed americane
5. Quali viti americane si debbano scegliere per la ibridazione
6. Dimorfismo: grappoli con acini a vario colore
CAPITOLO XVIII.
Innesto della vite
§ 1. Scopo e vantaggi dell'innestare viti
2. La fillosseronosi e l'innesto
3. Innesti di varietà europee
4. Innesti sopra viti americane
5. Macchinette per innestare
CAPITOLO XIX
Moltiplicazione e rinnovo della vite
§ 1. Propaggine ....
2. Copogatto o infrasconamento .
3. Provanatura ....
4. Rinnovo del vigneto esausto
5. Nuovo vigneto su vigneto estirpato o su bosco
CAPITOLO XX.
Scortecciamento
§ 1. Opinione di varii autori sullo scortecciamento delle viti
2. Vantaggi
3. Modo di operare ........
548
551
553
553
554
556
557
559
562
565
565
566
569
575
584
592
592
594
595
597
600
602
602
603
604
L' uva
§ 1.
2.
3.
4.
5.
CAPITOLO XXI.
Come aiutare la maturazione dell' uva .....
La crepatura degli acini ........
La maturazione dell'uva ed il sistema di coltura della vite .
La vendemmia: quando convenga anticiparla e quando ritardarla
Il bando della vendemmia .......
CAPITOLO XXII.
Sistemi speciali di educare la vite bassa .
§ 1. Qual' è il miglior sistema di educare la vite?
2. Classificazione dei sistemi in uso
3. Sistema latino secondo Columella
606
606
611
613
616
620
622
622
625
625
INDICE ANALITICO
957
4. Sistema ad alberello: modificazione Ottavi
5. Sistema ad ombrello .....
6. Sistema o connocchia .....
7. Sistema a capo annoccato ....
8. Sistema a piramide ......
9. Sistema Casalese e Siciliano ....
10. Sistema Guyot: modificazioni Boschiero e Panizzardi
1 1 . Sistema Vannuccini .
12. Sistema Cazenave-Marcon
13. Sistemi Avellinesi
14. Sistema del Suburbio di Roma. Modificazioni
lo. Sistema Hooinbrenk a tralci inclinati ....
16. Sistema Aubry ad S. Sistema a cavatappi
17. Sistemi di Stradella e Broni ......
18. Sistema di Asti
19. Educazione a tralcio lungo per le pianure, sistema Bisinotto
20. Coltura della vite nelle dune e nelle sabbie .
21. Coltura delle viti a cordoni striscianti, ossia a spalliera orizzontale
(Chaintres) • .
631
641
642
643
645
651
656
661
684
686
699
708
714
715
719
724
728
730
CAPITOLO XXIII.
Vigneti specializzati e vigneti misti
§ 1. La nostra professione di fede ......
2. Danni che recano alla vite le colture dell'interfilare
3. Danni che la vite reca alle colture dell'interfilarc .
4. La vite consociata alle patate ......
5. La vite consociata alle piante foraggiere a lungo fittone
6. Consociazione della canapa coi filari di vite nel Bolognese
7. La vite consociata ai carciofi nei dintorni di Roma
8. In quali condizioni si può ammettere la coltura promiscua
9. Obbiezioni alla vite specializzata .....
10. La specializzazione ed i patti colonici ....
11. Conclusione .........
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CAPITOLO XXIV.
Le viti maritate ad alberi ed i pergolati .
§ 1. Scelta dell'albero
2. Le viti accoppiate ai gelsi ed il sistema Castaldis .
3. Piantamento ........
4. Cure nei primi anni ......
5. Potatura e legatura. Disposizione della vite sull'albero
6. Sfrondatura degli alberi
7. Economia nei sostegni ......
8. L'albereto Falisco .......
9. Coltura dei pergolati , , .
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INDICE ANALITICO
CAPITOLO XXV.
Coltura delle viti nei giardini. (Uve da tavola)
§ 1. Importanza della produzione di buone uve da tavola
2. Metodo dei cordoni orizzontali a tralci diritti ed a tralci inclinati
3. Metodo dei cordoni verticali .......
4. Palmetta a tralci inclinati .......
5. Le contro-spalliere .........
6. Coltura in vasi e in casse .......
7. Come favorire l'ingrossamento dei grappoli ed anticiparne la ma-
turazione ...........
8. Conservazione e commercio dell'uva da tavola
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CAPITOLO XXVI
Ampelografia »
§ 1. Scopo ed importanza dell' Ampelografia .
2. Sistemi ampelografici ....
3. Di alcuni vitigni italiani ....
4. Cenni su alcuni vitigni forestieri più rinomati
5. Di alcune uve da tavola ....
6. Le viti americane
CAPITOLO XXVII.
Malattie della Vite ....
§ 1. Spiegazioni ....
2. L'aborto dei fiori o colatura .
3. La sterilità ....
4. La càscola o caduta dei frutti .
5. La scottatura degli acini .
6. Il marciume dell'uva
7. La melata o manna .
8. La clorosi .....
9. La rogna o malattia dei tubercoli
10. La cancrena o seccume
11. 11 bastardume ....
12. Inoculazione o iojettamento di liquidi entro i tessuti della vite
CAPITOLO XXVIII.
Avversità atmosferiche .
§ 1. La grandine
2. Le brine .
3. Il gelo
4. La manna o bruciola
5. Le pioggie, il soverchio calore, le nebbie ed i venti
CAPITOLO XXIX.
Insetti dannosi alle viti ed all'uva ....
§ 1. La lotta contro gli insetti in genere
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INDICE ANALITICO
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2. La fillossera devastatrice .
3. Il rinchite del1 a vite
4. L'apate della vite
5. L'eumolpe.
6. La melolonta eomune
7. La melolonta della vite .
8. La tortrice dell'uva .
9. La pirale della vite .
10. La zigena della vite. . ,
11. L'albinia vochiana o bruco dell'uva
12. La noctua aquilina .
13. L'altica mangia- viti o pulce delle viti
14. L'Otiorinco
15. Il letro ....
16. La forbice o forfecchia
17. L' hoplophora arctata
18. L'anguillula radicicola
19. L'erineo ....
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del Fan tra
CAPITOLO XXX.
Crittogame della vite
§ 1. Spiegazione di alcuni termini più comuni di botanica crittogamica
. 2. La peronospora viticola. Sinonimi e origine. Fenomeni esterni della
malattia ........
3. Idee generali sullo sviluppo della peronospora
4. Trattamenti preventivi e curativi
5. Oidio
6. Antracnosi o vaiuolo
7. Marciume delle radici
8. Mal nero .
9. Giallume .
10. Ultime teorie sulla natura del giallume, del mal nero
cnosi .
1 1 . Altre crittogame della vite .....
CAPITOLO XXXI.
Le viti americane in Europa
§ 1. Classificazione pratica delle viti americane .
2. Specie a granelli grossi. V. Labrusca, York Madeira, ecc.
3. Specie a granelli piccoli. V. ^Estivalis, Jacquez, ecc.
4. V. Riparia, Solonis, Clinton, ecc. .....
5. Altre viti a granelli piccoli. Rupestris, ecc. .
6. Ibridi
7. Ragione della resistenza delle viti americane
8. La seminagione e l'innesto ......
9. Adattamento dei vitigni americani ai diversi terreni
10. Gli insuccessi e l'avvenire delle viti americane . ,
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INDICE ANALITICO
CAPITOLO XXXII.
La fillosseronosi e l'avvenire della viticoltura
§|1. Una profezia di Mosè .....
2. Viticoltura ed albericoltura per l' Italia .
3. L'aumento del prodotto brutto dei nostri vigneti
4. Diminuzione nelle spese di mano d'opera
5. La legge contro la diffusione della fillossera: metodo curativo e
metodo distruttivo ,,,... . 943
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Errata- Corrige,
Pag. 99 linea 19a invece eli chiamato pongasi vien chiamato.
» 106 » 17a invece di bottoni fioriferi all'ascella delle foglie
pongasi opposti alle foglie.
» 108 » 36a invece di flore pongasi calice.
» 133 » 2a invece di amido pongasi umido.
» 625 » 13a invece di viti alte e poi viti basse pongasi viti
basse indi viti alte.
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Carta delle Isoterme
e dei limiti polari della vite .
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VINTNERS CLUB
655 Sutter Street
San Francisco, CA 94102
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